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BECKETT. Fallire ancora. Fallire meglio.

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Institut Giacometti a Parigi presenta per la prima volta una mostra su Giacometti e Beckett.

Hugo Daniel, curatore e responsabile de l’École des Modernités, che ha proprio il compito di mettere in relazione Alberto Giacometti con gli artisti del suo tempo e con quelli della contemporaneità, affonda le mani negli archivi della Fondation Giacometti, in vari archivi dedicati a Beckett e ne estrae tesori.  

Alla rarità dei documenti e delle tracce, poche testimonianze, corrisponde anche la rarità di chi si è occupato della relazione tra Giacometti e Beckett. Territorio quasi sconosciuto. 

Tra le diverse migliaia di pagine in quattro volumi delle lettere di Beckett, non viene quasi mai citato il lavoro di Giacometti e citato quasi solo sull’Arbre di En Attendant Godot. Emerge la Lettre de Samuel Beckett à Alberto Giacometti, 3 mars 1961, dai James Lord Archives alla Yale University (già in Deirdre Bair, Samuel Beckett. A biography, Harcourt Brace Jovanovich,1978; tr. it. Garzanti, Milano, 1990), in cui Beckett chiede a Giacometti di fare l’albero per la rappresentazione di Godot al Théâtre de l’Odeon, a maggio dello stesso anno: “Farebbe a noi tutti un piacere immenso”. Nella biblioteca dello scrittore solo due cataloghi di due retrospettive di Giacometti, una del 1965 e una del 1969. Nessun ritratto di Beckett da parte di Giacometti, nessun altro lavoro. 

 

Unica collaborazione, la scultura dell’Arbre in Godot. Rimasto al Théâtre de l’Odeon, successivamente scomparve, andato probabilmente distrutto in seguito all’occupazione del teatro nel ’68. Ma rimangono le foto di scena di Roger Pic e le foto di George Pierre, Samuel Beckett et Alberto Giacometti dans l’atelier de Giacometti dit “du téléphone”, 1961, in cui compare anche l’albero. Emergono Esquisses d’arbres pour En Attendant Godot de Samuel Beckett, 1961, dalla Fondation Giacometti. Su due fogli, con la scritta stampata Le Theatre Nouveau, appaiono i disegni con sottili tratti grafici a biro blu di due alberi: il primo senza foglie e il secondo con una foglia soltanto all’estremità di sei rami, con la luna in alto. Un altro albero appare in primo piano, studio nello studio. Una copia di Samuel Beckett, En Attendant Godot, Paris, Les Éditions de Minuit, 1952, emerge dalla biblioteca di Giacometti, Archives Fondation Giacometti, con annotazioni dell’artista in vista della realizzazione dell’albero, sottolineature a margine di dialoghi con connotazioni dell’albero. Pochi altri testi di Beckett vi appaiono.

 

Ma fitto è lo scambio e fitto è l’intreccio tra il lavoro artistico di Giacometti e Beckett, tanto che Reinhold Hohl ha definito l’artista e lo scrittore come “i due fratelli dai doni differenti” (Reinhold Hohl, Alberto Giacometti, Clairefontaine, Lausanne, 1971), che condividono interrogativi sull’arte e l’esistenza umana.

Una collaborazione, ma un’amicizia di una vita, dalla fine degli anni ’30 fino alla morte di Giacometti nel 1966. Amicizia, o meglio, compagnia, nel senso beckettiano di “need for company not continuous”,“another devising it all for company”.“ A voice comes to one in the dark. Imagine.” (Samuel Beckett, Company, London, John Calder, 1980). “Personalmente non desidero essere un artista della solitudine […]. Al contrario, devo aggiungere che come intellettuale, come cittadino, penso che tutta la vita sia il contrario della solitudine, poiché è un tessuto di rapporti con gli altri”. (Alberto Giacometti, Entretien avec Antonio del Guercio, 1962 in Alberto Giacometti, Écrits, Paris, Hermann, 2007).

Incontri avvolti dal vuoto e dal silenzio. Dialoghi. Impossibile per il taciturno Beckett non conversare o essere ascoltato dal loquace e attento Giacometti. Incontri guidati dal caso. Nessun obbligo sociale. Giacometti annota: “lui ed io, sempre per caso” (in Giorgio Soavi, Il mio Giacometti, Scheiwiller, Milano, 1966; Mon Giacometti, Venezia, Basilissa, 2001). 

 

Il primo incontro avviene nel 1937. Nello stesso anno Beckett vede nel museo di Dresda Due uomini osservano la Luna, dipinto del 1819-1820 di Caspar David Friedrich. La silenziosa discussione diviene l’ispirazione per En Attendant Godot / Waiting for Godot, dalla simile ambientazione:A country road. A tree. / Evening.” (Samuel Beckett, En attendant Godot [1952], Paris, Les Éditions de Minuit, 2005, p.9; Samuel Beckett, Waiting for Godot [1952], London, Faber & Faber, 1956), come scrive lo stesso Beckett in un taccuino per la rappresentazione dell’opera a Berlino nel 1975. E la citazione del quadro di Friedrich appare anche in un taccuino del manoscritto Watt nel 1943. 

Ma i dialoghi vaghi di Vladimir ed Estragon non sono politici come quelli degli uomini di Friedrich.

Hugo Daniel ipotizza che vi si possa vedere “l’illustrazione di uno scambio ideale artistico” simile a quello che avvenne nella relazione tra Beckett e Giacometti, avvalorando la mia tesi per cui i protagonisti di En Attendant Godot con i loro dialoghi potrebbero essere proprio Beckett e Giacometti, come una tra le tante possibilità d’interpretazione dell’opera. E la loro unica collaborazione è proprio per Godot.

 

Parigi. “Torre di Babele”, luogo dove convergono gli artisti della loro generazione. Alberto Giacometti (1901-1966) arriva nel 1922 alla Académie de la Grande Chaumière, Samuel Beckett (1906-1989) nel 1928 come lecteur alla École Normale Supérieure. È al crocevia tra Surrealismo ed Esistenzialismo negli anni ’30 che si trovano, in intersezioni di traiettorie artistiche e letterarie. Nei vagabondaggi notturni che si intersecano per le vie della Paris sans fin, seguendo, chissà, la lezione di Walter Benjamin, per i café di Montparnasse. La Closerie des Lilas, Le Dôme, Le Sèlect. 

Conversazioni vaghe, speculazioni sul suicidio.

 

Giacometti aderisce al Surrealismo nel 1930 e frequenta i suoi esponenti. Beckett legge e traduce i testi dei surrealisti ed è colpito dal Second Manifeste du surréalisme. Entrambi collaborano con la rivista Transition. Nel 1934 Beckett pubblica i suoi primi testi e lavora alla suo romanzo Murphy. Nella George Reavey Collection (University of Austin) c’è una cartolina, impostata a Londra nel 1935, indirizzata da Beckett al suo editore e poeta surrealista a Parigi, che gli aveva offerto un anno prima di pubblicare i suoi testi in francese. Beckett scrive: “Not Poems after all, but Echo’s Bones and Other Precipitates. / It is more modest.” Su un lato compare l’indirizzo scritto a mano a matita da Giacometti: “Giacometti / 46 rue Hippolyte Maindron / XIV / rue d’Alesia”. Reavey aveva chiesto a Giacometti di creare il frontespizio per il libro, ma Beckett preferì pubblicare il manoscritto senza illustrazioni. 

Nell’approccio al surrealismo e alla realtà, nella tensione e oscillazione tra razionale e irrazionale, tra la realtà dentro e la realtà fuori, la loro esperienza intellettuale converge. 

Nel 1930 nel lavoro di Giacometti appare la forma della cage, che apparirà anche in molti lavori successivi, anche nelle incisioni preparatorie per il frontespizio di Pieds dans le plat del 1933, in associazione al corpo che contiene. Il personaggio di Beckett Murphy vive in un cul-de-sac a Londra, in una cage di media grandezza. 

 

Nel 1935 Giacometti, a sorpresa, torna al confronto con la realtà come gli appare di fronte al modello vivente in posa, venendo così immediatamente escluso dal gruppo surrealista.

Negli anni della guerra Giacometti si rifugia in Svizzera, Beckett partecipa alla Resistenza a Parigi nel 1941 poi si rifugia a Roussillon. Torneranno e si ritroveranno a Parigi dopo la guerra. Giacometti porterà con sé da Ginevra le sue sculture in una scatola di fiammiferi.

La relazione con la realtà diventa il principio primo sia per Beckett che per Giacometti. 

Lo scolorimento della realtà si traduce in un progressivo smantellamento dei mezzi espressivi: la materia delle sculture di Giacometti diminuisce, i dipinti procedono per cancellazione, costante modificazione e ripetizione, il linguaggio dei testi di Beckett perde punteggiatura e sintassi, compaiono le ripetizioni. Arriveranno all’estremo, riducendo Giacometti la testa agli occhi, evidenziando i ritmi attenzionali, o un albero ad un ramo soltanto, Beckett alla bocca di Not I, che parla alla velocità del pensiero. I rispettivi linguaggi artistici di visione/sguardo, linguaggio/parola, nell’essenza dell’attività cognitiva, in un residuo di vita dall’ingombro minimo.

 

Un processo di sottrazione e riduzione al limite, al minimo, verso il vanishing point.

“Dim light source unknown. Know minimum. Know nothing no. Too much to hope. At most mere minimum. Meremost minimum.” ((Samuel Beckett, Worstward Ho [1982], London John Calder, 1983; Samuel Beckett, Cap au pire [1982], Paris, Les Éditions de Minuit, 1991).

Beckett dirà nel 1989: “Mi sono reso conto che il mio tragitto era l’impoverimento, in mancanza di conoscenza e nel togliere, sottraendo piuttosto che aggiungendo.”

Nel 1945 Beckett scrive un testo sui fratelli van Velde. Guarda alla pittura con rinnovato ma diffidente interesse, entra in amicizia con gli stessi pittori della cerchia di Giacometti. È solo il lavoro di Giacometti, che il suo rifiuto“spazzò via velocemente, anzi frantumò”, lavoro accumunato al suo dalla sostanza minerale e dal grigio. Scrive nel 1951 in una lettera a Georges Duthuit: “Giacometti, graniticamente sottile, e tutto in percezioni capovolte, molto assennato in profondità, volendo raffigurare quello che vede, cosa che, forse, non è così assennata quando si è capaci di vedere come egli vede.”

 

Lo spazio e il corpo, la materia e il segno, il linguaggio. Nell’opera e nel processo creativo sta la loro filosofia del fallimento, dell’inconclusione. Precarietà, incomunicabilià, solitudine, disperazione e angoscia metafisica nell’esistenza umana e dell’artista. L’arte come ricerca della verità, dell’assoluto, che si cela dietro uno schermo per Giacometti o un velo per Beckett, concetto derivato da Schopenhauer. 

Giacometti dichiara ad André Parinaud: “Più guardo al modello, più lo schermo tra la sua realtà e me diventa più spesso”. (Alberto Giacometti, Entretien avec André Parinaud [1962], Écrits, Paris, Hermann, 2007, p.242).

Nel 1937 Beckett scrive ad Axel Kaun: “sempre di più il mio linguaggio mi appare come un velo che deve essere strappato per poter arrivare alle cose (o al Niente) dietro ad esso”. (Samuel Beckett, Disjecta: Miscellaneous Writings and a Dramatic Fragment, ed. Ruby Cohn, London, Calder, 1983, p.171).

Negli anni 1940-1950 i due artisti definiscono e condividono la relazione con la realtà come delusione, da cui deriva un costante fallimento. Impossibilità di rappresentazione, l’invisibile e l’indicibilità.

“[…] admettre qu’être un artiste c’est échouer comme nul autre n’ose échouer, que l’échec constitue son univers et son refus désertion, arts et métiers, ménage bien tenu, vivre.” (Ibid., p.29-30).

 

Samuel Beckett et Alberto Giacometti dans l’atelier dit du téléphone, 1961 Photo : Georges Pierre Fondation Giacometti © Succession Alberto Giacometti (Fondation Giacometti + ADAGP) 2020.


“Se aggiungo ancora un tratto, la tela si annulla completamente.” […] “Non ne vale più la pena; se voglio copiare come vedo, scompare.” […] “Non è più per realizzare la visione che ho delle cose, ma per capire perché fallisce.” […] “E il fallimento diventa il positivo nello stesso tempo.” (Alberto Giacometti, Entretien avec Pierre Dumayet [1963], Alberto Giacometti, Écrits, Paris, Hermann, 2007).

“Volevo solo fare teste ordinarie. Non funzionava mai. Ma dato che falliva, volevo fare sempre un nuovo tentativo. Volevo essere capace di fare una volta per tutte una testa come la vedevo.” (James Lord, A Giacometti Portrait, New York, Farrar Straus Giroux, 1980, p.65).

“On. Say on. Be said on. Somehow on. Till nohow on. Said nohow on. / Say for be said. Missaid. From now say for be missaid. / Say a body. Where none. No mind. […] / The body again. Where none. The place again. Where none. Try again. Fail again. Better again. Or better worse. Fail worse again. Still worse again. Till sick for good. Throw up for good. Go for good.” 

“Ever tried. Ever failed. No matter. Try again. Fail again. Fail better”. (Samuel Beckett, Worstward Ho [1982], London John Calder, 1983; Samuel Beckett, Cap au pire [1982], Paris, Les Éditions de Minuit, 1991).

 

Il pessimismo e il senso del fallimento dell’artista non si traducono in non-azione o sconfitta, ma diventano il motore d’azione e di lavoro assiduo, motivo di sopravvivenza e resistenza attiva. Coabitano il sorriso e l’assurdo. “En face / le pire / jusqu’à ce / qu’il fasse rire.” (Samuel Beckett, mirlitonnades [1976-1978], Poèmes, seguito da mirlitonnades, Paris, Les Éditions de Minuit, 1978).

La precarietà evocata dalle figure e dai personaggi nelle opere di Giacometti e Beckett rivela quella dei loro creatori, che hanno fatto del provvisorio, dell’incertezza e dell’essenzialità uno stile di vita. Giacometti continuò a vivere e lavorare fino alla fine nello studio di trenta metri quadrati in rue Hippolyte-Maindron 46, Beckett scelse abitazioni spartane. Per entrambi questa scelta derivava da eventi cruciali: ricordi d’infanzia, la morte di Van Meurs, un investimento da un’auto per Giacometti, l’accoltellamento in Avenue d’Orléans a Parigi per Beckett.

Sia Giacometti che Beckett prendono parte a pieno titolo all’Esistenzialismo e iniziano a collaborare alla rivista Les Temps Modernes. Hanno il supporto di Jean-Paul Sartre, che proprio lì scrive La recherche de l'absolu sul lavoro di Giacometti.

 

Simili campi immaginari, simili forme di connessione plasmano l’impedimento della condizione umana e della creazione. Il corpo bloccato, o il corpo preso nella materia, lo spazio limitato che lo contiene. 

Giacometti. La Cage, 1950. Buste d’homme, 1956, Diego au manteau, 1954. Sculture di busti maschili, in cui testa e spalle sembrano presi dal magma della materia e in cui si crea una tensione tra peso del terreno che trattiene e assenza di peso della figura, che sembra voler sfuggire alla presa. In contrapposizione la leggerezza delle figure femminili statiche e degli uomini che camminano. 

Anche diversi personaggi di opere di Beckett si trovano in questa situazione di impedimento: Molloy, Malone in L’Innommable (The Unnamable), Winnie in Happy Days (Oh les beaux jours), Murphy e Hamm in Fin de partie (Endgame), la donna in Rockaby

“Je le vois de la tête jusqu’à la taille. Il s’arrête à la taille, pour moi.” (Samuel Beckett, L’Innommable, [1949], Paris, Les Éditions de Minuit, 1953).

Figure intrappolate in cages, in bidoni, in urne, nella sabbia, nel fango. Nello spazio e nel tempo. Nel vuoto e nel silenzio.

 

Anche dopo la guerra la cage, con la sua apparizione su basamenti, insieme ai piedistalli, ai riquadri dei disegni e delle tele, rimane una forma esemplare in Giacometti, che unisce profondità e distanza e rende l’unità di visione in una dimensione teatrale. Cingono il vuoto muti rettangoli.

È alla fine degli anni ’50 che il teatro, e lo spazio simbolico e immaginario del palcoscenico, assume rilievo nel lavoro dei due artisti. 

Giacometti produce La Cage e La Place nel 1950, e nello stesso periodo altri gruppi di figure su basamento, tra cui La Place II, 1947- 48 e Trois hommes qui marchent, 1948.

Tra il 1948 e il 1952 Beckett scrive la sua prima opera teatrale: En Attendant Godot. La prima dell’opera è nel 1953 al Théâtre de Babylone.

L’estetica di Beckett, che rifugge dalla collaborazione tra le arti, non gli impedisce di chiedere a Giacometti la sua collaborazione per la scenografia dell’opera al Théâtre de l’Odeon a Parigi nel 1961. Una collaborazione storica e necessaria.

 

Proprio in quegli anni Giacometti disegna alberi e una figura con albero o una figura in uno spazio vuoto, come Homme et arbre, c.1952 e Personnage debout de face, c.1952.

L’Arbre di gesso di Giacometti, del 1961, unica connotazione scenografica dell’opera di Beckett, sarà minimale, fragile come le sue figure, con lo stesso senso di precarietà, ma anche di coraggiosa sopravvivenza. Vive e sopravvive dopo la notte di lavoro nello studio di Giacometti. “Ci doveva essere un albero. Un albero e la luna. Per un’intera notte provammo a fare il melo più grande, più piccolo, oppure a fare i rami più sottili e mai sembrava giusto e l’uno diceva all’altro forse…” (in Giorgio Soavi, Il mio Giacometti, op.cit.). Nelle sue lettere a Barbara Bray nell’aprile 1961, Beckett parlava con entusiasmo dell’albero diverse volte. “Visto l’albero di Giacometti oggi. Magnifico. L’unico lato buono di quell’esumazione fino ad ora sinistra.” Giacometti invece non era soddisfatto. “Giacometti ha fatto un albero bello per Godot. Ma alla prova generale se ne è andato durante l’intervallo perché non lo poteva più sopportare! Il suo albero, ha detto, forse voleva dire qualcos’altro.” (Samuel Beckett, Letter to A. J. Leventhal, 18 May 1961, Texas University, Leventhal collection). 

 

Lo spazio teatrale lega anche Trois hommes qui marchent [petit plateau], Trois homme qui marchent [grand plateau], del 1948, di Giacometti e l’opera per la televisione Quad I+II, del 1981, di Beckett. In Quad, nello spazio di un quadrato, circolarità e ripetizione, silenzio e incomunicabilità si presentano in successioni combinatorie senza fine. Movimenti sincronizzati e simmetrici di quattro figure dalle tuniche nei colori primari e nel bianco. Suoni di strumenti a percussione ripetuti. Movimenti di incomunicabilità che Giacometti vedeva nei passanti.

L’ossessione per alcune immagini percorre il lavoro dei due artisti e alcune sono comuni. La testa, l’occhio e lo sguardo. Alcune posizioni e parti del corpo. I passi.

La testa, l’occhio e lo sguardo con la dinamica di chi percepisce ed è percepito, centrale in Giacometti, si presenta anche in Beckett, come suggerisce Derval Tubridy, in particolare in Happy Days (Oh les beaux jours), 1961, Play (Comédie), 1963, Film, 1963, Not I, 1972, Quoi où (What Where), 1983-1986. Interrogazioni sull’exhaustion della realtà. Exhaustion degli attori, modellati come gesso fino alla forma finale.

“a few steps then stop…stare into space…then on…a few more… […] she fixing with her eye…” (Samuel Beckett, Not I [1972], Faber and Faber, London, 1973).

“There is of course the eye. Filling the whole field. The hood slowly down. Or up if down to begin. The globe. All pupil. Staring up.” (Samuel Beckett, Company [1980], London, John Calder, 1980).

 

Samuel Beckett et Alberto Giacometti dans l’atelier de Giacometti, 1961 Photo : Georges Pierre Fondation Giacometti © Succession Alberto Giacometti (Fondation Giacometti + ADAGP) 2020.


C’è dunque amicizia tra i due artisti e la loro opera, un’amicizia di una vita, fino alla morte di Giacometti nel 1966, e oltre. “Giacometti morto. Sì, portami al Père Lachaise [cimitero] saltando tutti i semafori rossi.”, scrisse Beckett nel gennaio 1966.

 

Il catalogo contiene Entretien avec Marin Karmitz, un’interessante intervista di Hugo Daniel.

Marin Karmitz è autore con Samuel Beckett di Comédie, 1965, trasposizione cinematografica dell’opera teatrale Comédie (Play), che vide nel 1963. L’opera di Beckett fu uno “shock” e una “sfida”. Alla ricerca di nuove e radicali forme cinematografiche, Beckett lo aiutò ad andare oltre nella sua “riflessione sulla relazione tra scrittura e immagine”. 

Incontrarlo sembrava “improbabile”, ma fu possibile tramite Jérôme Lindon. Così divennero amici e si frequentarono intorno agli anni 1965-1966. Così conobbe Alberto Giacometti, perché trascinato da Beckett tutte le notti dall’una fino a notte fonda per i ritrovi di Monparnasse. Fu colpito subito dal suo aspetto, da una certa affinità con Beckett: “volti rugosi, volti reali, e alti di statura”. Giacometti era l’unica persona che incontrava in compagnia di Beckett, uniti da silenzio e solitudine. Quando Karmitz scoprì l’Homme qui marche, lo identificò con Beckett. 

Beckett gli diceva sempre: “La pittura deve essere in bianco e nero”. Anche per Giacometti. Anche Comédieè “un film che poteva esistere solo in bianco e nero”.

Per Karmitz, Beckett e Giacometti, uniti nel processo di riduzione e cancellazione, arrivano alla “giusta forma, la giusta parola”. La scrittura di Beckett è per lui, comunque, concreta. Beckett “prende un corpo, lo colloca in uno spazio, e diventa l’elemento per molteplici possibilità”. 

Il lavoro del film Comédie, termina Karmitz, “è consistito nel dare vita al silenzio e dare significato al buio”.

Quest’opera di Beckett non ha attratto solo il regista, infatti Playè stata musicata da Philip Glass nel 1965.

 

La mostra presenta, di Beckett: testi, libri e taccuini di opere teatrali, scritti, foto e video di opere; di Giacometti: disegni, opere in gesso e in bronzo, una gigantografia di una foto di scena di En Attendant Godot con l’Arbre, taccuini, libri di Beckett dalla sua biblioteca; foto di Giacometti e Beckett nello studio di Giacometti. 

All’ingresso dell’Institut Giacometti, dopo la porta in metallo bianco e blu, lo studio di Giacometti, dietro ad un grande vetro, con tutto quello che ha conservato Annette Giacometti, pareti dipinte comprese. Esposte anche alcune opere mai mostrate al pubblico. Mancano solo la polvere di gesso e le pile di quotidiani. Le dimensioni, ventiquattro metri quadrati, non sono quelle originali.

La mostra si articola in cinque sezioni in cinque sale, ognuna con un titolo.

 

Una solitudine condivisa: incontri e collaborazioni

 

Nella sala dal mobilio bianco, si vede la gigantografia della rappresentazione di En Attendant Godot di Samuel Beckett con l’Arbre di Alberto Giacometti al Théâtre de l’Odeon, disegni dell’Arbre, la lettera di Beckett a Giacometti del 1961, i libri di Beckett dalla biblioteca Giacometti, i disegni Homme et arbre e Personnage debout de face, le foto di Giacometti e Beckett nello studio Giacometti scattate da George Pierre, un taccuino di Giacometti con “Beckett” in una lista di nomi, il libro di Beckett Imagination Dead Image con la copertina raffigurante Tête di Alberto Giacometti, la stessa Tête sur tige in gesso. Femme assise,1949-1950 di Alberto Giacometti a confronto con Berceuse, in Rockaby,1981 di Samuel Beckett. Ma la figurina di gesso dipinto di Giacometti non suggerisce instabilità, come anche tutte le altre figure femminili di Giacometti, anche se è semiseduta come quella di L’Object invisible del 1934, ma richiama come questa una figura delle Isole Salomone. 

Campeggia nella stanza, Construction V (after Giacometti). Reconstruction of Giacometti’s tree for Waiting for Godot, 2006, in gesso, metallo e due lampade, opera di Gerard Byrne. L’opera, di dimensioni variabili, è una copia, apparentemente, con alcune variazioni rispetto all’originale, dell’albero di Giacometti. Ma questo albero, dalle foglie barocche e illuminato da lampade colorate, che non sarebbe piaciuto né a Giacometti né a Beckett, risulta essere un’opera non necessaria e superficiale, come le fotografie che accompagnano l’albero in altra sede. Giacometti non considerava neanche il piedistallo come un elemento trascurabile.

 

Corpo bloccato, corpo modellato

 

Una scaletta con vetrata Art Déco conduce alla seconda sala. Sculture, busti, una testa e disegni di Giacometti, tra cui: La Cage, 1950 in bronzo e la prima versione in gesso e relativi disegni, Composition avec trois figures et une tête (La Place), 1950 e relativo disegno, Diego au manteau,1954, un disegno Quatre figures, c.1951, dove quattro figure sembrano essere contenute in uno spazio ristretto. Foto di scena di opere di Beckett, tra cui Happy Days (Oh les beaux jours), Fin de partie. Un monitor trasmette il film di Samuel Beckett e Marin Karmitz, Comédie (Play), 1966, 20’.

 

Scenografie: corpo, tempo, spazio

 

In questa stanza-sezione si trovano vicini il video Quad di Beckett, con relativi appunti e direzioni di regia teatrale, e la scultura in bronzo Trois hommes qui marchent [petit plateau] di Giacometti, con relativi disegni.

 

“Immaginare”: guardare, dire, mostrare

 

Un corridoio conduce a un’altra sala. Qui si può vedere Film, 1963-1965, il film in bianco e nero di Samuel Beckett con Buster Keaton protagonista, 20’. Una serie di disegni a biro di teste e occhi di Giacometti a parete e in teca-tavolo.

 

“Fallire meglio”: processo creativo

 

Altre scale con vetrate, dopo un bassorilievo con albero, introducono alla sala di arti grafiche. A parete e appoggiati a teche-tavoli, studi di volti a biro ed a matita di Giacometti, tra cui Têtes d’hommes sur la revue Critique, n°47, avril 1951, 1960, dove un riquadro ha il titolo di Molly di Samuel Beckett, taccuini di Giacometti, tre piccolissime figure in gesso, Trois figurines debout. Un taccuino di Beckett di Watt, carnet IV, 1940-1945, il film di Beckett Quoi où (What where), 1983-1986, 12’, in cui appaiono teste parlanti nel buio.

 

La mostra mette in luce le connessioni tra le opere dei due artisti, scoprendo documenti e opere interessanti e non sempre visibili, ma dispiace che manchino alcune opere importanti di Giacometti che avrebbero funzionato in una rete di connessioni non secondarie. Ad esempio, La place II o una statua di un uomo che cammina, l’Homme qui marche, che sia Tahar Ben Jelloun che Marin Karmitz, ricordando una foto di François-Marie Banier, paragonano a Samuel Beckett.

 

La mostra è corredata da un bel catalogo, che, oltre all’introduzione di Christian Alandete ed al testo critico di Hugo Daniel, contiene l’intervento di Derval Tubridy sullo sguardo assoluto di Beckett e Giacometti, la Conversazione con Marin Karmiz di Hugo Daniel, la Conversazione con Maguy Marin, e le sezioni con opere e citazioni.

 

All’Institut Giacometti/Fondation Giacometti, per la durata della mostra, si sono susseguiti vari eventi, alcuni registrati e ancora visibili sul sito. 

A Body of Beckett. Una conferenza-performance di Lisa Dwan sul ruolo della danza nell’opera di Beckett. Lisa Dwan, attrice riconosciuta per interpretazioni di opere di Beckett e non solo, allieva ed erede artistica di Billie Whitelaw, ha infatti un passato da ballerina. 

Ho conosciuto l’indimenticabile musa Billie Whitelaw diversi anni fa. Ho assistito alla rappresentazione della trilogia di Samuel Beckett, Not I / Footfalls / Rockaby, con la straordinaria Lisa Dwan, direttore Walter Asmus, produzione Royal Court di Londra, al teatro An Taibhdhearc durante il Galway Arts Festival, 2014. La recitazione della Dwan restituisce ai testi beckettiani l’accento irlandese ed è avvalorata sia da una capacità di nuova d’interpretazione sia da movenze aggraziate scandite dal tempo.

Beckett mis en musique par Pedro Garcia-Velasquez. Una performance sonora, un dialogo tra la musica con robot elementari di Pedro García-Velásquez e i testi di Samuel Beckett in Words and Music letti da Johan Leysen. In collaborazione con Jacques Osinski.

Denis Lavant lit Beckett. L’attore Denis Lavant interpreta estratti di Poèmes - mirlittonades, 1978. In parternariato con Théâtre de l’Athénée. In collaborazione con Jacques Osinski.

Les nuits de la lecture. Letture de La recherche de l'absolu di Jean-Paul Sartre con Wajdi Mouawad, Marcher jusqu'au soir di e con Lydie Salvayre di L'Homme qui marche, scritti di Giacometti con Valérie Lang, Le Rêve, le Sphinx et la mort de T. con Gérard Cherqui.

Entetien avec l’artiste Gerard Byrne. Intervista di Hugo Daniel a Gerard Byrne.

 

GIACOMETTI / BECKETT. Rater encore. Rater mieux. 

9 gennaio - 8 giugno 2021

Institut Giacometti, 5, rue Victor Schœlcher, 14esimo arrondissement, quartiere Montparnasse, Parigi

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