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Il collezionista di giocattoli

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Innumerevoli sono i giochi e di vario tipo: giochi di società, di destrezza, d’azzardo, giochi all’aperto, giochi di pazienza, giochi di costruzione, ecc. Nonostante la quasi infinita varietà e con costanza davvero notevole, la parola gioco richiama sempre i concetti di svago, di rischio o di destrezza. E, soprattutto, implica immancabilmente un'atmosfera di distensione o di divertimento. Il gioco riposa e diverte. Evoca un’attività non soggetta a costrizioni, ma anche priva di conseguenze sulla vita reale. Anzi, si contrappone alla serietà di questa e viene perciò qualificato frivolo. Si contrappone al lavoro come il tempo perso al tempo bene impiegato. Il gioco infatti non produce alcunché: né beni, né opere. (…) Questa fondamentale gratuità del gioco è appunto l’aspetto che maggiormente lo discredita.”

 

Questo l'incipit de: I giochi e gli uomini di Roger Caillois,pubblicato in Francia nel 1958,che rappresenta ancora oggi il testo di riferimento per chi voglia avvicinarsi allo studio del gioco.

 

Sopra: Veduta della mostra allestita nel refettorio di san Domenico Maggiore. Sotto: La vetrina con la collezione di Barbie; la vetrina con i personaggi di Eugenio Tavolara; la “maschietta” della Lenci.

 

A Napoli, nel solenne spazio dell’antico Refettorio del Convento di San Domenico Maggiore è stata ospitata la rassegna Storie di giocattoli, dal Settecento a Barbie. Tra i 1500 pezzi esposti, si potevano ammirare moltissime bambole, tra cui quella tedesca degli anni’30 acquistata da Benedetto Croce per la figlia Silvia, oltre a quelle in cartapesta della Rella, e a quelle della Furgae della Lenci, inclusa la “maschietta”, ovvero la bambola ispirata alla figura di Edda Ciano, con tanto di sigaretta pendula tra le labbra e con indosso i pantaloni, in assoluta controtendenza con i dettami dell'allora vigente Regime. C’era anche una raccolta completa della Barbie, la bambola per eccellenza del Novecento, il cui nome per intero è Barbara Millicent Roberts, compresa la mitica numero uno del 1959. E poi vi erano esposti gli automi di Seraphin Ferdinand Martin (1849-1919), il genio della meccanica che, tra il 1880 e il 1930, inondò il mercato con i suoi piccoli robot. E ancora i clown e le auto della Günthermann, l'azienda fondata a Norimberga nel 1826 che produceva giocattoli di stagno con i colori serigrafati sopra, e i bei pezzi della nostra Ingap (Industria Nazionale Giocattoli Automatici Padova), attiva dal 1919 al 1972, e poi i giochi di legno e di latta e quelli da tavolo, con un Gioco dell’Oca del Settecento, stampato a Milano dalla Tipografia Tamburini, fino ai primi Risiko e ai primi Monopoli. Non potevano mancare, proprio a Napoli, varie versioni della Tombola tra le quali ne spiccava una “didattica” con figure (un incrocio fra la tombola tradizionale, il puzzle e il nàibi), stampata a Monza nel 1928. Insieme alle carte da gioco e ai tarocchi, era esposto anche un rarissimo esemplare di Carte napoletane del 1840 con ancora impresso il timbro borbonico sopra il Tre di denari.

 

Tra i numerosi Pinocchi, in legno e in latta, di ogni foggia e dimensione, si distingueva quello realizzato dal futurista Eugenio Tavolara, il cui viso dai tratti rudi, tipici di questo artista, parevano tagliati con l’accetta rivelandone l’anima espressionista. Accanto a rarissimi esemplari di orso-balocco si trovavano altri pezzi singolari, come il bambolotto Balilla con tanto di fez, e Bob, primo bambolotto gay e ancorai pupazzi tratti dalle strisce del Corriere dei Piccoli, da Fortunello a Ciccio e Checca, da Bonaventura di Sto (Sergio Tofano) al Sor Pampurio di Carlo Bisi. Tra i mezzi di trasporto in miniatura spiccavano naturalmente i trenini di Georges Carette (1861-1954), che nel 1893 fu il primo a costruire un tram elettrico, ma soprattutto faceva bella mostra di sé la macchina dei Beatles, un altro pezzo d'eccezione del 1962, in gomma e latta litografata, prodotto dalla ditta spagnola Rico, attiva dal 1910 al 1984. Non potevano mancare, naturalmente, i pupazzi di Pulcinella, nelle sue varie declinazioni, dalla più conosciuta versione povera, stile pezzente napoletano, agli antichi Punch inglesi, fino ai Polichinelles francesi. Curiosi anche i pupazzi della trasmissione televisiva Lascia o Raddoppia e incomparabili quelli della famiglia Disney, con i primi Topolino e Paperino datati addirittura agli anni ‘30. E ancora case, casette, teatrini, marionette, burattini di ogni misura, produzione e provenienza, giostre, robot, soldatini e secchielli, per non parlare delle tanagre romane e degli astragali ellenistici, che a guardarli bene veniva da pensare che c’è davvero poca distanza tra i giochi dei bambini di quei tempi remoti e quelli di oggi, tecnologia a parte, beninteso.

 

La mostra, promossa dall'Assessorato alla Cultura e al Turismo del Comune di Napoli e dall'Università Suor Orsola Benincasa, è stata curata da Vincenzo Capuano, proprietario della collezione, con il patrocinio dell'Arcigay di Napoli.

 

In alto:Gatto e topi, Issmayer, 1905 ca; Orchestrina, Günthermann, 1900. Al centro: Auto Beatles, Rico, 1962. In basso: Pinocchio, Lenci, 1920; Pinocchio, SEVI, 1920 ca; Valentino, Lenci, 1926 Fortunellocon tamburo, SEVI, 1930 ca. A destra: Il nuovo Gioco dell’Oca, Tipografia Tamburini, Milano, 1770 ca.

 

MLG. Come è nata la prima idea della tua collezione? E perché proprio una raccolta di giocattoli?

V.C. L’idea della collezione è nata quando ero bambino. A tre anni, a Natale del 1965, mio padre mi regalò un pupazzo americano, che non si vedeva in Italia. Ma a Napoli c’erano le basi Nato e arrivava molta roba di contrabbando. Quello è stato il mio numero uno, come il primo dollaro di Zio Paperone. Si chiamava Captain Action, era una specie di Big Jim con sembianze più realistiche e maschili. Aveva i costumi da supereroe. Mi ricordo di aver pensato: me lo deve conservare per ritrovarmelo. Ora ce l’ho in collezione. Inoltre ero un appassionato ricercatore di oggetti antichi, nei cassetti, negli armadi, soprattutto a casa dei miei nonni. C’era in me fin da allora un amore per la ricerca, una vocazione, diciamo, un po’ archeologica. Ho sempre pensato di essere diventato un collezionista appassionato perché sono in realtà un artista fallito. Non ho gli strumenti e le tecniche per esprimermi artisticamente, ma ho cercato comunque qualcosa che mi permettesse di raccontare quello che sento. E quindi ho amato gli oggetti che sentivo più aderenti a questa forma personale di narrazione.

 

MLG. Si può quindi affermare che la scelta è ricaduta sui giocattoli perché tu riconoscevi nel collezionarli una valenza diversa da quella della mera raccolta di oggetti, quali potrebbero essere ad esempio le tabacchiere, oppure il collezionismo di quadri. Mi dicevi poco fa che per te il giocattolo ha una carica in più, di carattere sociale, di carattere umano, oltre che storico ed artistico.

V.C. Sì. Ma questo lo scoprii dopo. Io, ad esempio, ho ereditato anche una collezione di francobolli.

 

MLG. Allora il collezionismo è nel DNA di famiglia.

V.C. Forse sì. I francobolli li collezionava mio padre e quando ho scoperto che anche a me piaceva raccogliere e collezionare, ho capito che non mi importava nulla dei francobolli. Era un collezionismo troppo noioso e quando ho incontrato i giocattoli, passando attraverso varie forme di collezionismo, ho intuitivamente sentito che ero arrivato finalmente alla meta. Quando poi i giocattoli sono diventati tanti e – anche lì un po’ ragionandoci, un po’ istintivamente –la raccolta è andata crescendo, attraverso la ricerca di vari materiali, di tutti i tipi di meccanismi, delle marche più importanti, quando è diventata qualcosa di molto organico, ho capito che non era più solo una cosa che riguardava me, ma era divenuta un paradigma di interpretazione della condizione umana nella storia, un punto di vista privilegiato grazie alla collocazione naturale del giocattolo in quel momento strategico della vita dell'uomo che è l’infanzia.

 

MLG. Certo. Tu stesso hai dichiarato che di frequente ti è capitato di imbatterti in giocattoli che erano “firmati”, realizzati cioè da operatori artistici che militavano anche nelle fila della pittura o della cartellonistica.

V.C. Mi è capitato di incontrarli parecchie volte, perché il giocattolo è spesso realizzato dal grande artigianato, specialmente il giocattolo antico, o addirittura, in qualche caso è frutto di vera e propria espressione artistica. Abbiamo avuto grandi disegnatori, grandi cartellonisti delle prima metà del Novecento, come Marcello Dudovich (1878-962), Gigi Chessa (1898-1935), Mario Sturani (1906-1978), che hanno disegnato le bambole per la ditta Lenci, ma anche Eugenio Tavolara (1901-1963), che insieme all’amico Fortunato Depero (1892-1960) aderì al Futurismo e realizzò le sue bambole regionali sarde e i suoi Pinocchi con quel taglio così netto e originale. Naturalmente più andiamo indietro nel tempo e ci avviciniamo all’antichità, più le firme si perdono e ci troviamo di fronte a qualcosa che ha bisogno di essere collocata sia sul piano del significato, che su quello della storia e delle tendenze artistiche. Per esempio, dal Settecento, soprattutto in Italia, la realizzazione delle bambole, sia da punto di vista iconografico che nell'uso dei materiali e delle tecniche di fabbricazione, fu influenzata dai modelli dei grandi artisti che lavorarono al Presepe Napoletano, come Giuseppe Sanmartino (1720-1793), Salvatore di Franco (attivo dal 1770 al 1815), Francesco Celebrano (1729-1814).

 

MLG. Attualmente la tua collezione di quanti pezzi si compone all’incirca?

V.C. Al momento sono circa duemila pezzi. Naturalmente sono pezzi che fanno capo a diverse tipologie.

 

MLG. Quali, ad esempio?

V.C. C’è una classificazione piuttosto generica, di tipo collezionistico, esiste l’area della bambola, quella del giocattolo di latta, del giocattolo di legno, del gioco da tavolo, del gioco militare, dei pupazzi e dei peluches. Sono aree non omogenee, perché alcune fanno capo al tipo di giocattolo, per esempio le bambole, mentre altre si riferiscono al tipo di materiale utilizzato: il legno, la latta, eccetera. Da questa prima classificazione si diparte un'infinita varietà di ramificazioni e di sovrapposizioni.

 

MLG. Quindi non è possibile applicare una tassonomia schematica, per dire, alla Diderot? Anche tra i giocattoli ci sono territori di confine.

V.C. Sì. Esistono territori di confine, dove però il confine è molto sottile e quindi invade campi che sono i più svariati. Il giocattolo, come dicevo prima, è paradigmatico e la sua storia è l’insieme di tante storie: è storia del costume, storia dell’artigianato, storia dei generi, quindi del maschile e del femminile, storia della moda, storia politica, storia economica, antropologia, pedagogia. Ci sono svariate discipline che trovano proprio nel giocattolo spunti di riflessione e ricerca.

 

MLG. Tu insegni proprio Storia del giocattolo alla Facoltà di Scienze della Formazione di Suor Orsola Benincasa, a Napoli. Che tipo di studenti frequentano il tuo corso? Con quale interesse? E come si rapportano con questo tuo amore per il collezionismo?

V.C. Il mio è un corso complementare, quindi a scelta volontaria da parte degli studenti, ma devo dire che è uno dei corsi più affollati. Seguo una classe di circa un centinaio di ragazzi ogni anno. L’interesse è sempre molto forte, perché è molta la curiosità. Intanto sono tutti un po’ stupiti all’idea che possa esistere una “Storia del Giocattolo”. E soprattutto che possa essere oggetto di studi universitari. In realtà si rendono ben presto conto, seguendo il corso, dell’importanza che ha il giocattolo, non solo dal punto di vista pedagogico, ma anche dal punto di vista antropologico e dello sviluppo della Storia del Pensiero. Io dico spesso che la Storia del giocattolo è una delle più etiche tra le materie di insegnamento, perché da una lato, specialmente se parliamo dei giocattoli antichi, il giocattolo tende a restituirci un sentimento nostalgico e romantico di ciò che è stato, ma dall’altro lato è vero che nelle varie epoche i giocattoli hanno rappresentato soprattutto l’utopiae cioè la volontà da parte degli adulti di dare forma a un mondo ideale, dotando i propri figli degli strumenti necessari a realizzarlo. C’è quindi una scala di valori che emerge dai singoli giocattoli nelle varie epoche storiche. È un tema molto sentito dagli studenti, che offre opportunitàdi riflessione critica anche sul presente.

 

MLG. A proposito di presente, si è da poco conclusa nel Chiostro di San Domenico Maggiore, qui a Napoli, la mostra: “Storie di giocattoli, dal Settecento a Barbie”, dove tu hai esposto una parte della tua collezione. Uno dei temi trasversali è quello del Gender, che la mostra ha saputo toccare con grande grazia e leggerezza ma in mondo niente affatto superficiale. Ce ne vorresti parlare?

V.C. Una delle prime cose che ci sentiamo domandare dal commesso se andiamo a comprare un giocattolo è se è destinato a un maschietto o a una femminuccia. Nel mondo del giocattolo questa separazione è ancora molto netta. Nelle epoche passate è stata ancora più importante. Però nella storia del giocattolo troviamo a volte dei motivi molto forti di trasgressione degli stereotipi di genere. Delle piccole rivoluzioni culturali. Ricordiamo ad esempio che negli Anni Venti una delle bambole più apprezzate della Lenci, la grande casa torinese di giocattoli, fu la “Maschietta”, cioè la bambola da boudoir vestita con i pantaloni e che aveva la sigaretta in bocca. Era lontanissima dal modello di femminilità fascista, che si rifaceva all’immagine della madre di famiglia tradizionale. Fu, da parte dei due grandi giocattolai fondatori della Lenci, Elena König ed Enrico Scavini, l’interpretazione di quella che tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento fu la donna nuova. Una definitiva rottura con i modelli femminili dominanti, interpretata nel mondo del cinema da attrici come Marlene Dietrich, ma ancora prima rappresentata da figure rivoluzionarie di scrittori e poeti, come Oscar Wilde e George Sand.

Ma abbiamo tante altre storie di questo genere. Ad esempio lo stesso orso-balocco nasce dalla piccola rivoluzione messa in atto agli inizi del Novecento da Margarete Steiff (1847-1909), una signora paraplegica che in Germania, per arrotondare la sua magra pensione, aveva deciso di costruire dei pupazzi di stoffa imbottita. Margarete aveva capito che anche i maschietti volevano giocare con le bambole, così li dotò di un giocattolo con cui potessero divertirsi come con una bambola senza contravvenire alle convenzioni sociali, il cui aspetto più feroce non contraddicesse il loro ruolo di genere. Allo stesso modo il Pinocchio agli inizi del Novecento fu amato soprattutto dalle bambine: il maschietto monello rompeva quella gabbia ideologica rigidissima offerta dalla bambola francese dell’Ottocento, che aveva imposto alle bambine della ricca borghesia un modello assoluto e perfetto di bellezza, di eleganza e di femminilità.

 

MLG. E quindi il giocattolo come emblema della libertà e della gratuità assolute insite nel gioco medesimo, come ci ha suggerito Roger Caillois.

V.C. In napoletano giocare si dice “pazziare”, che rimanda etimologicamente alla pazzia, non come assenza di senso, ma come capovolgimento di esso. Noi abbiamo anche nella cultura napoletana esempi di arte popolare che proprio su questo tema sfiora il sublime. Pensiamo alla destrutturazione del linguaggio operata dal grande Totò. Ecco, Totò incarna in sé l’uomo pazziella, così come alcuni suoi grandi progenitori, come il Signor Bonaventura e lo stesso Pulcinella. Sono figure popolari, ma rivoluzionarie, che poi spesso trovano delle interpretazioni ludiche nei pupazzi, nelle marionette, nei personaggi del teatro dei burattini. E non è un caso.

 

MLG. Parlando della tradizione napoletana tu hai ricordato poco fa le analogie che esistono tra il gioco e la costruzione dei presepi, questi capolavori dell’artigianato partenopeo. In che cosa è individuabile l’analogia?

V.C. In realtà la vicinanza è molto forte. In Italia non c’è stata una solida cultura del giocattolo e non ci sono state grandi fabbriche, perché l’artigianato ha avuto soprattutto una connotazione religiosa, legata alla realizzazione di figure sacre. L’area di costruzione della bambola è stata un’altra, soprattutto quella della Germania, dell’Inghilterra e della Francia. È anche vero che però, dal punto di vista dell’uso dei materiali, soprattutto del legno, della cartapesta, della creta, ma anche nell’utilizzo delle immagini, nella struttura dei corpi e nel modellato dei volti, il giocattolo risente in tutta Europa del lavoro artigianale proprio del Presepe Napoletano, che era, a sua volta, una sorta di gioco per adulti, un divertissement per nobili e ricchi.

 

MLG. Come ci insegna Natale in casa Cupiello, ad esempio.

V.C. Esatto. Si costruivano enormi installazioni, un plastico di paesaggio in miniatura con case di bambole che contenevano tutti i personaggi e le scene di vita dell’epoca e i nobili facevano a gara a chi realizzava il presepe più bello. La connotazione sacra veniva dunque meno lasciando prevalere quelle sociale e artistica, che alla fine dominavano in questa forma di collezionismo.

 

MLG. Ora che la mostra di San Domenico si è conclusa, ci sono prospettive per la ricostituzione di un museo del giocattolo a Napoli, che ha già una piccola storia alle sue spalle.

V.C. È quello che spero. Esistono già molti contatti, oltre a quello con Suor Orsola Benincasa, che fino ad ora ha conservato la mia collezione di giocattoli all’interno dei suoi spazi. Il problema della destinazione della collezione è quello di una collocazione definitiva, che permetta la realizzazione di un museo che si configuri come luogo di crescita e di formazione, di comunicazione e di relazione, che abbia insomma al proprio centro l’incontro sì con degli oggetti del passato che diventino però uno stimolo per la riflessione e per la ricerca. Un’interazione che oggi diventa necessaria, perché oggi i musei non sono più soltanto i luoghi della conservazione, luoghi che spesso finiscono per diventare dei depositi dimenticati, sono e dovrebbero sempre di più essere luoghi dove la presenza di oggetti d’arte offra lo spunto per riflettere anche sulla nostra condizione presente, su come siamo arrivati fin qui, su chi siamo e dove andiamo. L’offerta di spazi mi è giunta da molte parti. Sarà necessario vagliare le opportunità, affinché il luogo scelto diventi veramente il Museo del Giocattolo di Napoli.

 

MLG. Ho notato che le reazioni del pubblico sono state sempre molto lusinghiere: dai bambini agli adulti, dalla gente comune agli intellettuali tutti, di fronte alle vetrine della mostra di San Domenico, avevano espressioni attente, emotivamente coivolte, spesso divertite, altre pensose. Comunque nessuno rimaneva indifferente.

V.C. È il giocattolo che fa questo effetto. Proprio perché ha la sua naturale collocazione nell’infanzia, quindi in una dimensione un po’ mitica, che non abbandoniamo mai definitivamente, che tende a ridurre immediatamente gli spazi emotivi e relazionali tra le persone. Sono convinto che se incontrassi davanti a una vetrina di bambole la regina d’Inghilterra potremmo darci tranquillamente del tu, senza formalità, perché il giocattolo fa crollare tutte le barriere, riportando immediatamente le persone in un territorio in cui non ci sono riserve, né remore nei confronti dell’altro, il territorio del gioco dei bambini. Il mio scopo nel mostrare al pubblico la collezione è anche quello di proporre un punto di vista diverso sul mondo dell’infanzia e del gioco e quindi sulla nostra condizione umana.

 

MLG. Da ultimo ti vorrei chiedere come mai hai deciso di dedicare sia il catalogo del Museo di Suor Orsola Benincasa che la mostra di San Domenico Maggiore al ricordo di Ernst Lossa, il bambino zingaro ucciso nel 1944 dalla ferocia nazista.

V.C. Ho sentito per la prima volta il nome di Ernst Lossa (1929-1944) una notte, in una quarta, quinta serata televisiva di La Sette. Veniva trasmesso uno spettacolo del grande drammaturgo Paolini, che raccontava le storie delle persone uccise in più di settantamila nella campagna di eugenetica nazista. Quella di Ernst è la storia di una vittima, ma è anche la storia di un eroe. Questo bimbo muore dodicenne, dopo aver tentato la fuga dall’ospedale in cui era rinchiuso. Aveva rubato le mele per sfamare se stesso e anche gli altri bambini reclusi come lui. La dedica è motivata dal fatto che i giocattoli, soprattutto questo tipo di giocattoli, rimandano a un’infanzia ricca e felice, che non manca di nulla. Perché non fosse solo una parata di begli oggetti, avevo bisogno di coltivare il sentimento del contrario, ovvero ricordare che esiste un’infanzia negata e deprivata, che è la prima vittima della guerra, della fame, della povertà e della paura del diverso. La bestia tremenda che nella storia rappresenta la contraddizione a tanta bellezza, a tanta gioia e ricchezza. Per ricordare che dobbiamo continuare a lavorare affinché tanto orrore non accada mai più. Abbiamo invece testimonianza del fatto che l’orrore continua, nei paesi dove infuria la guerra, nella fuga di tanta gente dalla fame, ma anche nei quartieri degradati di certe nostre periferie, dove i piccoli vengono sfruttati e violentati. Mentre i nostri sguardi di gente per bene sorvolano distratti e l'indignazione evapora in reazioni troppo tiepide.

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Conversazione con Vincenzo Capuano

Duchamp fotografico

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Marcel Duchamp (1887-1968) è una figura con cui ogni storico dell’arte contemporanea attivo in Europa o in America deve prima o poi confrontarsi. Cinquant’anni dopo la sua morte (il 2 ottobre 2018 per la precisione), non abbiamo finito di misurarci col lascito – visivo e concettuale – dell’opus duchampiano. Il mercato editoriale si è mostrato all’altezza della sfida. Per tenersi alle mostre più innovative degli ultimi anni, penso a Inventing Marcel Duchamp. The Dynamics of Portraiture (National Portrait Gallery, Washington 2009), Marcel Duchamp: Etant donnés (Philadelphia Museum of Art, 2009), La peinture, même 1910-1923 (Centre Pompidou, Parigi2014), nonché l’imminente Dalí/Duchamp, che aprirà i battenti a ottobre alla Royal Academy of Arts di Londra. Riguardo alle pubblicazioni, penso alla documentatissima biografia di Bernard Marcadé, Marcel Duchamp. La vie à crédit (2007, tradotta nel 2009 da Johan & Levi), allo studio di Thierry Davila sull’inframince (De l’inframince. Brève histoire de l’imperceptible de Marcel Duchamp, Beau Livre 2010), fino a The Apparently Marginal Activities of Marcel Duchamp (MIT Press 2016) di Elena Filipovic, che si concentra sull’attività curatoriale, facendo di Duchamp un antesignano dell’institutional critique.

 

L’Italia non è rimasta a guardare, come conferma l’effervescenza delle pubblicazioni recenti, la cui eterogeneità metodologica è l’ennesima testimonianza dell’inesauribilità del soggetto. Penso, in particolare, all’antologia curata da Stefano Chiodi (Marcel Duchamp. Critica, biografia, mito, Electa 2009) in cui sono tradotti per la prima volta contributi di autori francesi e americani, oltre alla riproposizione di alcuni scritti di Duchamp e di critici italiani sparsi in riviste e cataloghi. Oppure alle analisi che spaziano dagli studi di genere (Giovanna Zapperi, L’artista è una donna. La modernità di Marcel Duchamp, ombre corte 2014), a un approccio politico sul secondo Duchamp che, dopo aver realizzato il dipinto Tu m’ (1919), abbandona la pittura e, pubblicamente, ogni attività artistica (Maurizio Lazzarato, Marcel Duchamp e il rifiuto del lavoro, edizione temporale, 2014), fino alla ricostruzione della fortuna concettuale di Tonsure (1919) (Michele Dantini, Macchina e stella, Johan & Levi 2014).

 

A Marcel Duchamp Elio Grazioli ha rivolto sempre un’attenzione particolare, dal florilegio duchampiano per la collana “Riga” (Marcos y Marcos 1993) a La polvere nell’arte (Bruno Mondadori 2004), ispirato dall’allevamento di polvere di Duchamp e Man Ray – matrice e motore, tra l’altro, della straordinaria mostra curata da David Campany, Dust. Histoires de poussière d’après Man Ray et Marcel Duchamp (Le Bal, Parigi 2015). Con Duchamp oltre la fotografia. Strategie dell’infrasottile (Johan & Levi 2017), Grazioli si rivolge ora a un tema nelle corde del critico quanto dell’artista: la produzione fotografica.

 

 

Alla fotografia Jean Clair ha dedicato uno studio precursore nel 1977, Duchamp et la photographie. Essai d’analyse d’un primat technique sur le développement d’une oeuvre (Editions du Chêne), ormai introvabile ma ripreso in Sur Marcel Duchamp et la fin de l’art (Gallimard 2000). Quest’incursione nella fotografia era concomitante con la mostra di Duchamp nell’appena inaugurato Centre Pompidou. Al suo interno era ospitata una hall in stile normanno che illustrava la vita dell’artista francese. Precisamente qui prendeva avvio il recupero nazionale di un artista allora demonizzato in patria, come dimostra Vivre et laisser mourir ou la Fin tragique de Marcel Duchamp (1965), polittico di otto quadri di Gilles Aillaud, Eduardo Arroyo e Antonio Recalcati e sorta di manifesto della figurazione narrativa. Del resto Duchamp si era trasferito negli Stati Uniti, un paese, non dimentichiamolo, che all’epoca della mostra del Pompidou gli aveva già dedicato importanti retrospettive: Pasadena nel 1963, Filadelfia nel 1973, New York nel 1974.

 

Mostra di Duchamp, Centre Pompidou, 1977.

 

Alla lettura di Jean Clair, Grazioli preferisce quella di Rosalind Krauss e Jean-François Lyotard – rispettivamente Teoria e storia della fotografia (1990) e I transformatori Duchamp (1992), entrambi tradotti in italiano dallo stesso Grazioli –, così come quella più aggiornata di Herbert Molderings (Marcel Duchamp at the Age of 85. An Incunabulum of Conceptual Photography, Walther König 2013), un autore distintosi per uno studio quasi maniacale di una sola opera di Duchamp, Trois stoppages étalons (1913).

 

Ma il nume tutelare di Grazioli sembra essere, in realtà, un testimone d’eccezione quale Ugo Mulas. Come fotografare un artista la cui pratica è fondata sul non-fare, si chiedeva? Si tratta di una questione estetica complessa: come rappresentare la negazione, come cogliere visivamente ciò che nega l’azione, come realizzare un’immagine del non, come negare un’immagine? Ma si tratta anche di una questione prettamente fotografica, come osserva Grazioli: “Il non fare come atto e non come astensione dal fare, come rinuncia, omissione: impossibilité du fer. Paradosso anche dell’atto fotografico”.

Mulas escogita diverse soluzioni: fa posare Duchamp – “posare era l’atteggiamento più vicino al non fare, perché qualsiasi altra cosa Duchamp avesse fatto sarebbe stato qualcosa in più e qualcosa di troppo” –; lo riprende mentre passeggia, ad esempio a Washington Square a New York: “il camminare [è] l’atteggiamento del vivere più elementare, e fotograficamente più significativo, un fare sganciato dal produrre, l’atteggiamento più evidente del vivere e basta”; lo rappresenta assorto davanti a una scacchiera preso a non giocare.

 

A quest’estetica del non fare, di cui Duchamp fu maestro, non sfugge neanche la fotografia. L’artista francese infatti non ha mai scattato alcuna fotografia. Anche gli scatti in cui le marche autobiografiche sono più evidenti sono basati su una forma di assenza dell’artista. Basti pensare alle immagini che ne hanno costruito la figura pubblica, e che spaziano dalla moltiplicazione della sua immagine (Ritratto multiplo di Marcel Duchamp, 1917) alle messinscene en travesti che anticipano la Body Art (da Rrose Sélavy a Tonsure, 1921), fino all’inversione del rapporto tra positivo e negativo, luce e ombra, figura e fondo della maturità (Autoritratto di profilo, 1958). Giochi di specchi in cui la moltiplicazione caleidoscopica dell’identità ha prodotto una pioggia acida di letture postmoderniste da cui non abbiamo ancora preso le necessarie distanze.

 

Man Ray, Rrose Sélavy alias Marcel Duchamp, 1921.

 

Che Duchamp non sia l’autore delle sue foto è un sintomo del suo rapporto eretico se non eversivo con la fotografia, come evidente nelle sue opere quanto nelle note raccolte nella Scatola verde. La fotografia viene interrogata non solo come macchina (celibe o meno) che produce immagini riproducibili, ma, più generalmente, come medium, come operatore. È lo snodo del libro, che Grazioli riprende da Rosalind Krauss, ovvero il passaggio decisivo dalla fotografia al fotografico, “alla fotografia non come tecnica ma come ‘oggetto teorico’”, perlomeno sin dal Grande vetro (1915-1923).

 

Tenendosi a questa lettura, della fotografia vengono isolati e sviluppati alcuni elementi specifici, a partire dalla capacità di cogliere il movimento e la velocità – l’“esposizione ultrarapida” come la chiamava Duchamp – e che risale alla cronofotografia di Etienne-Jules Marey. Incidentalmente, quest’indagine della quarta dimensione entrava in risonanza con gli interessi scientifici dell’epoca: geometria non euclidea, radioattività, teoria atomica, termodinamica. Approcci che avevano come oggetto il mondo invisibile degli elettroni, dei raggi X, la fluidità delle onde elettromagnetiche. A Duchamp interessava meno la teoria scientifica in sé che l’immaginario scientifico, la capacità immaginaria se non visionaria dell’epistemologia. Una mossa per spazzolare contropelo il modernismo centrato sul formalismo, come ha magistralmente dimostrato Linda Dalrymple Henderson in The Fourth Dimension and Non-Euclidean Geometry in Modern Art (MIT 1983, nuova edizione 2013) e Duchamp in Context: Science and Technology in the “Large Glass” and Related Works (Princeton University Press 2005).

 

Al di là della quarta dimensione, nel corso del libro di Grazioli, la nozione di fotografico si espande, e tocca, sinteticamente: il caso, elemento cruciale del processo creativo al di là della forma predefinita e conchiusa; l’indifferenza, propria al readymade come all’occhio fotografico che sembra limitarsi a catturare quella porzione di reale ritagliata dall’inquadratura; la polvere: “Al limite della materia, a toccarla essa si dissolve o cambia di consistenza, per cui solo la fotografia riesce a fissarla, a catturarla in maniera stabile”; il readymade che, non diversamente dal cliché fotografico, è un prelievo da un contesto spaziale quanto temporale; fino al gioco degli scacchi, per la natura anti-mimetica della scacchiera.

 

In quanto “strategia per sfuggire all’iconico”, ovvero al retinico, l’atto fotografico “è proiezione, ombra, impronta, prelievo, gesto, a sua volta readymade; non una riproduzione ma un’appropriazione della realtà in immagine, una cattura dell’immagine come oggetto, per quanto immateriale o ‘infrasottile’ essa sembri”. Più che trasformare la realtà in immagine, la fotografia mette insomma in questione lo stesso statuto del reale.

 

Al riguardo, la declinazione più intrigante del fotografico è senza dubbio l’idea di inframince o infrasottile: “Pellicola senza spessore, velo immateriale, incorporeo, presenza puramente visiva, [la fotografia] è più dell’ordine del virtuale, del riflesso speculare, del ‘simulacro’ […] e degli spettri, dei fantasmi, dell’aura”. Inframince: concetto sfuggevole, nei quarantasei appunti sparsi lasciati dall’artista non solo manca qualsiasi definizione, ma si legge anche che l’inframince non è un sostantivo ma un aggettivo. Duchamp ne fornisce tuttavia alcuni esempi: lo spazio tra il fronte e il verso di un foglio di carta, il calore di una sedia appena abbandonata, le persone che passano all’ultimo momento nei portelli della metro, il sibilo provocato dallo sfregarsi di due gambe in movimento, il fumo del tabacco quando sa anche della bocca da cui esala, l’intervallo tra la detonazione di un fucile e la pallottola sul bersaglio, i raggi X e gli odori, i riflessi di luce sulle superfici e sugli specchi. L’inframince segna una separazione impercettibile, insufficiente per distinguere il maschile dal femminile, uno scarto minimo tra due oggetti realizzati in serie dallo stesso modello, tanto più questi appaiono identici, una pittura su vetro vista dal lato non dipinto.

 

Partito dal Grande Vetro, il percorso tracciato da Duchamp oltre la fotografia non poteva che concludersi con Dati: 1) la caduta d’acqua, 2) il gas d’illuminazione (1946-1966), l’opera esposta postuma da osservare dal buco di una serratura, non diversamente da un obiettivo fotografico. A distanza di cinquant’anni, il Grande Vetro e Dati tessono una rete di richiami che attraversa tutta l’opera di Duchamp. Come isolare, del resto, una parte della produzione di un artista che ha realizzato una valigia piena di riproduzioni in miniatura delle sue opere, o un dipinto come Tu m’ (1918), sorta d’inventario di quanto compiuto fino allora nel campo della pittura e del readymade? Che il Grande Vetro e Dati siano esposti nella stessa sala del museo di Filadelfia, a pochi metri una dall’altra e dalla impeccabile installazione delle sculture di Brancusi concepita da Duchamp stesso è, c’è da scommetterci, l’ennesimo caso di inframince.

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Un immagine del non

Sculpture as place (of memory)

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“It starts with firing"

Entrando alla Collezione Maramotti di Reggio Emilia, il percorso espositivo concepito da Elisabetta Benassi accoglie lo spettatore con una stiratrice industriale dal titolo Prosperity. Con la sua concretezza metallica, l’oggetto ha un fascino retro-futuristico, reperto di un’antica civiltà aliena ormai inesorabilmente estinta, precipitato nell’atmosfera dopo un lungo viaggio siderale. Nella solitudine della sala espositiva sembra di sentire il respiro pesante del mastodonte meccanico, ingombrante e quasi commovente nella sua coazione a ripetere all’infinito lo stesso movimento.

 

Elisabetta Benassi, Prosperity, 2017. Macchina da stiro automatizzata, vapore / automate ironing machine, vapour, 157 x 100 x 120 cm. Courtesy Collezione Maramotti © Elisabetta Benassi. Ph. Andrea Rossetti.

 

Il lavoro analogico, la sua presenza materiale, aleggia nel progetto site specific It starts with the firing, nuovo tassello della ricerca di Elisabetta Benassi. Una ricerca che è una riflessione in divenire sulla memoria, l’utopia, l’archivio come dispositivo artistico. Una macchina dagli echi duchampiani che, nel progetto pensato per la Collezione Maramotti, mette in relazione la storia industriale del gruppo Max Mara con una vicenda che vide protagonista lo scultore Carl Andre nel 1972. Fu infatti in quell’anno che la Tate Modern di Londra acquistò per parecchie migliaia di sterline l’opera Equivalent VIII, composta da 120 mattoni. L’acquisizione scatenò le polemiche dell’opinione pubblica e dei giornali, che ridicolizzarono la scelta con articoli dai toni sarcastici. Gli stessi articoli furono raccolti da Andre che, in seguito, li donò alla Tate. In occasione della mostra, Benassi è andata a recuperare quei materiali, selezionandone alcuni stralci per farne manifesti, esposti in mostra e affissi per le strade di Reggio Emilia. Un’operazione che dilata lo spazio espositivo al di fuori dei luoghi specifici della Collezione, creando una forma-virus che intacca la memoria cittadina in maniera parassitaria, facendo collidere storie lontane nel tempo.

 

Courtesy Elisabetta Benassi.

 

Il rapporto tra scultura e scrittura, già centrale nell’esperienza concettuale, ritorna qui come uno dei percorsi d’indagine che l’artista propone allo spettatore. Le neoavanguardie hanno proposto un linguaggio spogliato dal suo significato, ridotto alla sola presenza visiva, con l’intento di utilizzarne gli elementi costituenti manipolandoli come un elemento plastico: parole come mattoni, singole unità costruttive. Lo stesso Andre ha lungamente esplorato l’utilizzo della parola, portando avanti per decenni una ricerca analoga a quella sulla forma. Rifiutando la prosa e concentrandosi sugli elementi costituenti del linguaggio, ha lavorato per aggregazione dando vita a quella che Riccardo Venturi definisce una “scrittura tabulare”.

 

Nel caso di Benassi invece la parola è prima di tutto prelievo, agente della memoria: il significato non viene eliminato per lasciare spazio alla pura evidenza grammaticale del segno, bensì viene estrapolato dal contesto e liberato, per innescare un processo di significazione svincolato dall’intenzione originale. Si può dire che assuma quindi una funzione di traccia, di indizio.

 

Elisabetta Benassi. Appunti per una mostra 02 / [Notes for a show 02], 2017. Courtesy Elisabetta Benassi.

 

Intervenendo contemporaneamente sull’archivio della Tate Modern e sulla storia lavorativa del gruppo Max Mara, Benassi mette in atto quella peculiare riscrittura della storia che è cifra della sua ricerca artistica. Un’alterazione spazio-temporale, nella quale il ritmo lineare del tempo viene arrestato per innescare una deviazione narrativa, che non disambigua ma anzi problematizza lo statuto delle cose, moltiplicando le possibilità interpretative. Il tempo desueto della produzione e quello contemporaneo dell’iper-informazione entrano in stallo. L’oggetto tecnologico perde la sua funzione e assume la forma di un ready made non citazionista: ecco quindi la stiratrice industriale, i tappeti che si “arrampicano” su un muro, i brandelli di tessuto che attraversano il tempo e si risvegliano a nuova vita, di nuovo i mattoni. C’è un tentativo di contrastare un processo di perdita di “corpo” dell’immagine, riavvolgendo il nastro dal punto in cui si è trasformata in simulacro e si è riprodotta neoplasticamente. È

un’utopia, ma con la pervicacia di un ultimo soldato che non ha udito il messaggio di resa e difende la trincea, Benassi mette in atto una resistenza contro lo svuotamento di significato dell’immagine stessa.

 

Revenant.

Affrontando il corpus delle sue opere spesso si è scomodata la categoria degli spettri, ma bisognerebbe forse chiamare in causa la figura del revenant, con tutta la sua forza archetipica. La ri-messa in scena di elementi cristallizzati in una forma e in un significato assodati nel tempo pone lo spettatore di fronte a quella condizione di spaesamento che assomiglia molto a quel perturbante che si insinua in colui che accoglie il ritorno a casa del “ritornante”: un senso di angoscia legata alla certezza del conosciuto che si sgretola, la paura di affrontare una estraneità in ciò che è più familiare, il timore della sostituzione dell’oggetto affettivo con un feticcio maligno. Non ultima, la paura del ritorno da una zona d’ombra –  la morte come paradigma di stasi a cui solo la memoria ha diritto di accesso –  e il timore della trasfigurazione di un oggetto (o soggetto) in un agente estraneo e incontrollabile.

 

Elisabetta Benassi. Zeitnot, 2017. Cinquemila mattoni refrattari inglesi / five thousand English firebricks, 175 x 500 x 380 cm. Courtesy Collezione Maramotti © Elisabetta Benassi. Ph. Andrea Rossetti.

 

Ecco, questo timore atavico smuove lo spettatore e lo invita a entrare in relazione con le opere accettando la disfatta delle proprie certezze, facendosi carico della responsabilità di costruire in autonomia un nuovo senso da assegnare alle cose, abbandonando la condizione rassicurante del passato per partecipare all’evento che non può che essere qui e ora. Un presente che è la condizione del lavoro di Benassi, teorizzato da Walter Benjamin nella sua accezione di rifiuto del tempo continuo di produzione capitalista e condizione necessaria al balenare dell’immagine d’arte – e oggi drammaticamente attuale, tramutato in un flusso continuo di lavoro astratto, de-corporeizzato, parcellizzato – e come momento di sacralità laica in cui il tempo diviene accadimento liberato. Una forzatura temporale che aveva inchiodato al muro come un Cristo alla croce il libro di Antonio Gramsci edito nel ‘51, nell’opera Passato e presente (2013), o che aveva fatto deflagrare il singolo istante in Arreter le jour (2014), performance in cui l’artista  sparava letteralmente a degli orologi. Un presente espanso e in cui la non-linearità interpretativa obbliga lo spettatore a fare i conti con la complessità del reale.

 

Intervistata durante la Biennale 2011, l’artista disse “Ognuno compone la sua storia, fatta di fatti veri, di fatti contraddetti.” A partire da questo assunto è più facile capire l’interesse espresso per l’idea dell’archivio e della documentazione come pratica immaginaria – esplorata ad esempio in Memorie di un cieco, (2010) – temi che si innestano nell’edizione di Fotografia Europea 2017, intitolata  Mappe del tempo. Memoria, archivi, futuro., cornice del progetto della Collezione. Un lavoro interpretativo che chiama ogni spettatore ad assumere un nuovo punto di vista, a porsi delle domande e a mettersi in moto, rinunciando a una condizione statica per passare a un equilibrio dinamico, seguendo un percorso che si delinea durante il cammino, di domanda in domanda, e che non garantisce l’approdo ad alcuna certezza.

 

Il lavoro o ciò che ne resta,

Una colonna di mattoni sghembi con impressa la parola “Empire”, sulla cui sommità sono incastrati un paio di guanti da lavoro e, zeppe di legno a contrastare la pericolosa inclinazione che preannuncia un disastroso crollo: è Infinity, l’opera che richiama La Colonna senza fine di Costantin Brancusi, padre putativo del minimalismo, ma anche e soprattutto Manifest Destiny (1986) di Carl Andre.

 

Elisabetta Benassi, Infinity, 2017. Bronzo, cunei in legno, guanti/ bronze, wood wedges, gloves, 310 x 40 x 47 cm, particolare / detail. Courtesy Collezione Maramotti © Elisabetta Benassi. Ph. Andrea Rossetti.

 

Tra le sale aleggia una presenza le cui spoglie sono proprio quegli stessi mattoni, quei luoghi e quelle macchine ormai destinate a usi ben diversi da ciò che era la loro funzione originale. È  il fantasma del lavoro, la scomparsa dell’industria e il conseguente vuoto –  sociale, politico, culturale  – che questo lutto lascia dietro di sé. Non a caso il titolo dell’esposizione gioca sul doppio piano dell’elaborazione artistica e sulla parola “firing” che indica il licenziamento, richiama il collasso del mondo operaio, il tramonto dell’era industriale e delle “magnifiche sorti e progressive” che ha segnato il Novecento. La ricerca della Benassi come una seduta spiritica, in cui vengono evocati e predisposti all’incontro con il presente gli spettri del terrorismo, del marxismo, del femminismo, del fascismo, della rivoluzione, del minimalismo, di Walter Benjamin, Marx, M’Fumu, Pasolini, Gramsci, Aby Warburg, Lyotard, Angela Davis, Derrida, Mario Merz, Buckminster Fuller e di quel “Quarto Stato” ormai feticizzato, con le masse di operai che marciano solo nei fotogrammi dei documentari d’epoca. Quella classe operaia che non è andata in paradiso e oggi stenta a trovare le coordinate di un mondo post-industriale.

 

Elisabetta Benassi, It starts with the firing, 2017. Cinque elementi metallici, manifesti, traccia audio / five metal elements, posters,audio track, dimensioni variabili / variable dimension. Courtesy Collezione Maramotti © Elisabetta Benassi. Ph. Andrea Rossetti.

 

Gli enigmi che l’artista pone allo spettatore, ricollocando oggetti di uso quotidiano, sovvertendone l’uso, rimescolando le carte che compongono la memoria sembrano suggerire con disincanto la necessità di un approccio critico verso la realtà storica, che abbia la forza di coglierne le incongruenze e il relativismo. Il pensiero forte è ormai un ricordo lontano e anche il pensiero debole è già alle nostre spalle. Ideologie e sistemi filosofici si sono susseguiti per poi crollare sotto la spinta del tempo. La consapevolezza che i mattoni più solidi che compongono l’architettura della nostra civiltà non siano assoluti ma possano un giorno assumere improvvisamente un valore che neghi o contraddica il significato originario attribuitogli, è qualcosa di innegabilmente malinconico. Al contempo, tale consapevolezza ci dona il distacco necessario a cercare con costanza un senso nella realtà, nell’accadere, ponendoci in una posizione di presenza attiva nel mondo. Mettere in atto una forma di iconoclastia dolce, cancellando le immagini per renderle di nuovo visibili. Togliere significato alle parole, per farlo riaffiorare, come fecero i poeti visivi. Rimettere in discussione il paradigma della forma, ancora e ancora, per costituire un linguaggio installativo/performativo che rinunci alla narrazione storica, assodata e consensuale, dando spazio ad altre possibilità di senso, attraverso la riscrittura dell’esperienza. Un’eresia poetica, carica di forza politica.

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Elisabetta Benassi alla Collezione Maramotti di Reggio Emilia

Oltre il museo e la funzione autore

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Il museo dopo il museo.
Il museo è il figlio prediletto della modernità. Più esattamente di quella particolare concezione del tempo che si è andata strutturando come secolarizzazione dell’escatologia ebraico-cristiana dandosi come proiezione «futurologica» nella doppia versione progressista e rivoluzionaria. «Domani accadrà», ripete la canzone moderna, e a quel domani ci arriveremo, progressivamente appunto, poco a poco, o con un salto rivoluzionario che scardina il continuum della storia, ma comunque ci arriveremo.

Nel frattempo, mentre la colonizzazione del futuro si organizza, il presente può attendere, lo si può sacrificare in virtù di un domani migliore, e il passato invece occorre conservarlo. Certo per salvarlo dalla tempesta della storia che tutto travolge e dimentica, ma conservando il passato si finisce anche per neutralizzarlo. È così che nasce il museo – da questa particolare concezione del tempo al di fuori della quale non si sarebbe dato come istituzione culturale – e con questa particolare missione sociale: conservare il passato, tesaurizzarlo, e controllarne la memoria. Farne «monumento» da ammirare e contemplare. Ed è così che il passato diventa un’ossessione.

 

Gian Maria Tosatti,  Hotel sur la lune, 2o11.

 

Nessuna cultura, nessuna civiltà, è stata catturata dalla mania di conservare e «monumentalizzare» il passato tanto quanto la nostra. Quando poi la modernità si è esaurita, o meglio si è esaurita la sua spinta «futurologica», della trama stessa del moderno sono rimasti solo il presente, vissuto come eterna ripetizione dell’identico, e il passato esploso come «revival», ed è allora che la memoria inizia a occupare il centro della scena culturale diventando industria. Ecco quindi che la mania conservativa e collezionistica si diffonde ancora di più, e nell’epoca postmoderna – ovvero una modernità senza le speranze e i sogni che avevano reso tollerabile la modernità – il museo sussunto dal capitale globale si moltiplica, diventa spettacolo, giostra luminosa a uso e consumo del turismo culturale. Quando poi il capitalismo finanziario è attraversato da crisi di assestamento, in alcune province dell’impero è costretto a dismettere gli investimenti pubblici nel settore culturale, allora i musei spengono le luci e si arenano come tristi relitti ai bordi della metropoli.

Eppure non tutto è perduto, ed è sempre possibile pensare un altro museo che liberi il passato dalla prigione della memoria e ci aiuti a guarire da quella nevrosi del tempo che ci costringe a vivere catturati nella passione turistica per il passato e nella sindrome ansiogena della fretta. Il museo, oltre il moderno e il postmoderno, non può più essere il luogo separato della conservazione, del monumento e della memoria identica a se stessa. Nel tempo e nello spazio che vengono, occorre trasformare il museo in una «istituzione del comune» dove sperimentare nuovi modi di vivere fuori dal comando capitalista, bisogna farlo diventare uno spazio che liberi la metropoli dal tempo della miseria. È possibile, allora, immaginare e costruire un museo che pensi la memoria come risorsa antagonista e il presente come produzione di mondo liberato.

Ed è quello che cerca di fare il MAAM – Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz_città meticcia, un esperimento nato nel 2011 all’interno di una ex fabbrica occupata a scopo abitativo e diventato nel frattempo un museo-non museo, un museo abitato, indipendente e senza finanziamenti. Un’opera d’arte collettiva e, in questo senso, un dispositivo che mette in questione la funzione autore, puntando sulla potenza dei molti che qui sono arrivati alla ricerca di uno sguardo «unheimlich» e di uno scarto laterale rispetto al mondo che gira intorno alle categorie, ormai desuete, di «soggetto» e «oggetto», e quindi di «autore», puntando invece su quella «relazione costante» che ognuno di noi è.

 


Davide Dormino, Editto, 2013. 

 

Qual è il nome dell'autore?

Hans Jürgen Krahl nelle «Tesi sul rapporto generale di intellighenzia scientifica e coscienza di classe proletaria» del 1969 scriveva che «la distruzione della coscienza culturale tradizionale apre la strada alla liberazione dalle finzioni idealistiche della proprietà, e ciò rende possibile anche ai produttori scientifici di riconoscere nei prodotti del loro lavoro il potere oggettuale ed ostile del capitale e, in se stessi, degli sfruttati […] i componenti dell'intellighenzia scientifica, allora, non possono più intendere se stessi [...] come possessori per così dire intelligibili della kultur, come produttori di rango superiore, di rango metafisico»[1]. Intuizioni profetiche – poi ulteriormente sviluppate dalle lotte e dal pensiero autonomo e postoperaista – che, nell'emergere dell'intellettualità di massa e del lavoro cognitivo diffuso, riconoscevano il tramonto dell'autore e dell'intellettuale.

Insomma tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta sembrava davvero prendere corpo la battaglia di quelle avanguardie che avevano messo in discussione la funzione autore, in musica, in pittura, nel cinema e anche nella filosofia. Sembrava veramente venire meno quell'«errore» chiamato «autore», risultato sempre e soltanto dell'ingiusta divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. E invece... La controrivoluzione ha saputo giocare la sua partita a scacchi con quella grande trasformazione produttiva che ha sostituito le officine Putilov con la Silicon Valley, e le tute blu con i nuovi operai intellettuali del Politecnico, e subito ha rimesso in campo la funzione autore sulla quale ha giocato la sua fortuna. Ha rimesso in moto una «ipersoggettivazione» individualista, narcisista, cinica e caricaturale. È qui, probabilmente anche qui, l'origine dell'infelicità diffusa nel lavoro artistico, un lavoro attraversato dalla competitività neoliberista fatta di prestazione, autosfruttamento, continua valutazione di sé, e promozione strategica della propria aura.


E questa mossa, tattica e strategica, del neoliberismo l'aveva individuata subito Gilles Deleuze in una straordinaria intervista del 1977 a proposito dei «Nouveaux Philosophes». All'intervistatore che gli chiedeva cosa pensasse di questa nuova schiera di giovani pensatori, per lo più ex-maoisti e normalisti, Deleuze rispondeva subito: «Nulla. Credo che il loro pensiero sia nullo», ma poche righe dopo aggiungeva, impietoso e tagliente, che «più fragile è il contenuto del pensiero, più acquista importanza il pensatore, e tanto più grande è l'importanza che si attribuisce il soggetto d'enunciazione rispetto agli enunciati vuoti». Insomma dopo l'avanguardia che aveva messo in discussione la funzione autore si assisteva a un significativo «ritorno a un autore o a un soggetto vuoto e alquanto vanitoso», ritorno che rappresentava «una sgradevole forza reazionaria»[2].

 

Davide Dormino, Scala reale, 2014. 

 

Ma se smontiamo il paradigma autore, proprio come un giocattolo, e cerchiamo di capire come è costruito, ci renderemo conto che il suo meccanismo è attivato da un'altra parola magica e tipicamente moderna: «artista». Prima del moderno l'artista coincideva con l'artigiano e il suo contrassegno era l'anonimato come nella cultura bizantina e nell'Europa nascente dell'anno mille, dove l'artista era stato, artigiano tra gli artigiani, un costruttore di cattedrali. La nascita dell'artista andrà invece di pari passo con l'imporsi del nome proprio e col suo graduale emanciparsi dal monopolio corporativo. Mentre nel caso dell'artigiano il valore estetico faceva tutt'uno con la perizia del mestiere e con la padronanza tecnica, l'opera d'arte moderna sarà definita dal segno di un genio individuale come in Giotto, il pittore «borghese» che inaugura lo spettacolo moderno dell'arte. L'artista diventerà insomma un creatore, e quindi il prototipo del soggetto moderno, l'individuo artefice della propria fortuna. In effetti il processo di emancipazione del soggetto moderno, che trova in Cartesio la sua sanzione metafisica, si completa con il processo di soggettivazione dell'artista. Pronto, dopo la secolarizzazione e il fallimento delle utopie rivoluzionarie del Novecento, a essere sussunto dal capitalismo semiotizzato.

 

E proprio l'artista, in quanto incarnazione della libertà di creare, è diventato – con l'imporsi del nuovo paradigma produttivo postfordista, l'affermazione del lavoro autonomo e dell'autoimprenditorialità – il paradigma del «capitale umano» e del lavoro cognitivo diffuso. Il postfordismo funziona chiedendo al lavoratore creatività, innovazione e quindi libertà. «Siate artisti!» è l'ingiunzione che il capitale lancia ai lavoratori intellettuali che iniziano a popolare le metropoli occidentali alla fine degli anni Settanta. Certo, il neoliberismo funziona mettendo a valore la cooperazione produttiva, eppure la sussunzione di quel «comune» che noi siamo fa perno sempre sulla messa a valore dell'individualizzazione, cioè sulla divisione e valorizzazione delle molte e diverse «aureole» individuali: quelle, appunto, di ogni singolo autore.

 


Giuliano Lombardo, Aeroflessibile, 2016. 

 

Ma anche qui non tutto è perduto, e qualcosa nasce al di là dell'autore e della sua valorizzazione neoliberista, qualcosa che ricorda quel movimento collettivo e potente di costruttori di cattedrali evocato prima, un movimento tellurico profetizzato molti anni fa da un poeta che cantava i molti Alì dagli occhi azzurri che sarebbero arrivati nelle nostre città:

 

«Alì dagli Occhi Azzurri, uno dei tanti figli di figli, scenderà da Algeri, su navi a vela e a remi. Saranno con lui migliaia di uomini coi corpicini e gli occhi di poveri cani dei padri sulle barche varate nei Regni della Fame. Porteranno con sé i bambini, e il pane e il formaggio, nelle carte gialle del Lunedì di Pasqua. Porteranno le nonne e gli asini, sulle triremi rubate ai porti coloniali. Sbarcheranno a Crotone o a Palmi, a milioni, vestiti di stracci asiatici, e di camice americane [...] Da Crotone o Palmi saliranno a Napoli, e da lì a Barcellona, a Salonicco e a Marsiglia, nelle Città della Malavita. Anime e angeli, topi e pidocchi [...]. Essi che vissero come banditi in fondo al mare, essi che vissero come pazzi in mezzo al cielo, essi che si costruirono leggi fuori dalla legge, essi che si adattarono a un mondo sotto il mondo [...] dietro ai loro Alì dagli Occhi Azzurri — usciranno da sotto la terra per rapinare — saliranno dal fondo del mare per uccidere, — scenderanno dall'alto del cielo per espropriare — e per insegnare ai compagni operai la gioia della vita — per insegnare ai borghesi la gioia della libertà — per insegnare ai cristiani la gioia della morte  — distruggeranno Roma e sulle sue rovine deporranno il germe della Storia Antica. Poi col Papa e ogni sacramento andranno come zingari su verso l'Ovest e il Nord con le bandiere rosse di Trotzky al vento...»[3]


Ecco allora, oggi l'autore è, o meglio gli autori sono, tutti gli Alì dagli occhi azzurri, e con loro quelle migliaia e migliaia di uomini, che, come gli artigiani delle cattedrali, oggi come ieri, stanno scrivendo, ogni giorno, la storia della nuova Europa. E questo museo, ovvero questa cattedrale, è una delle loro bellissime case, una casa che abitano e costruiscono insieme a tutti quegli artisti consapevoli che solo questo movimento «mostruoso» e creatore che attraversa il continente potrà liberarli dall'ambivalenza e dall'infelicità della loro condizione «indivisa». Infine, l’esperimento messo in campo dal MAAM, scommettendo sulla «relazione», è quello di costruire una cattedrale del comune nella consapevolezza che «l’arte non può vivere che dentro un processo di liberazione» e che «per costruire arte bisogna costruire liberazione nella sua figura collettiva»[4].

 

Questo testo fa parte del volume «MAAM – Museo dell'Altro e dell'Altrove di Metropoliz_città meticcia», catalogo pubblicato dalle edizioni Bordeaux in occasione dei 5 anni di vita del museo-abitato, nato a Roma nel 2012.



[1]     Hans-Jürgen Krahl, Tesi sul rapporto generale di intellighenzia scientifica e coscienza di classe proletaria in Id. Costituzione e lotta di classe, Jaca Book (1973).

[2]     Gilles Deleuze, A proposito dei nuovi filosofi e di un problema più generale, in Id., Due regimi di folli e altri scritti. Testi e interviste 1975-1995, Einaudi (2010).

[3]     Pier Paolo Pasolini, Profezia in Id. Le Poesie, Garzanti (1975).

[4]     Toni Negri, Arte e multitudo, DeriveApprodi (2014).

 

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Costruttori di cattedrali

Vienna tra pop e ricerca

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Vienna ha la vocazione all’incrocio tra pop e ricerche estreme, a cui rende giustizia la ricchissima stagione di mostre dell’estate che si è inaugurata a fine aprile. Al Winterpalais, sontuosa e gaya dimora di città del principe Eugenio di Savoia, arriva, letteralmente in pompa magna, da Londra dove era stata presentata al Barbican la discussa (e discutibile: i fili della riflessione talvolta sono assai difficili da seguire) ricerca di Judith Clark su Il volgare, ossia su come e quanto la moda faccia proprie istanze di provocazione, riciclando nelle maniere più oltraggiose contrassegni del potere imperiale come delle uniformi militari. In una dimora piena di specchi, dalle pareti di un bianco abbagliante, sfilano le creazioni sempre azzardate di Walter van Beyrendonck, le mises provocanti e erotiche di Pam Hogg, gli abiti squisitamente coreografici di Cristian Lacroix e le creazioni più estreme di John Galliano nel suo mirabile periodo Dior.

 

Il tema quindi, come spiega il bel catalogo, curato da Jane Alison e Sinéad McCarthy è la “ridefinizione della moda”, come e quanto nella negoziazione dell’aspetto il “comune senso del pudore”, dal ‘700, frivolo e spietato, continuamente evocato, quando Rose Bertin, sarta di Marie Antoinette, è stata la prima e ultima ministra del fashion al mondo, fino agli eccessi degli anni ’80 e ’90, appassionati di provocazione. Oggi il confine, spesso, è nella vicinanza tra mondo animale e umano, di cui esplora il senso Iris van Herpen, maestra olandese delle stampe laser, che crea insiemi da sera, ispirati a un' ambigua, ma sempre ribollente vita cellulare. In ogni caso, in questa programmazione, in primo luogo sono le donne: da poco si è chiusa allo Jüdisches Museum una notevole ricognizione sulle artiste del mondo ebraico attive a Vienna prima del 1938. Nomi da noi poco noti, come la strepitosa Friedl Dicker-Brandeis, maestra di tessiture d’avanguardia alla Bauhaus, e poi animatrice dell’esperienza didattico-salvifica che realizzò con i bambini, invitati a raccontare graficamente la loro esperienza tremenda di vita, cui si dedicò, anima e corpo, prima della deportazione finale. I destini di queste signore si incrociano con i movimenti delle avanguardie: molte di loro sono decoratrici di ambienti, illustratrici di libri, come ai tempi di Ver Sacrum la squisita Ella Iranyi.

 

Ana Mendieta, Glass on body imprint, 1972.


Non lontano da lì all’Albertina, dove si tiene un' esposizione completissima di Egon Schiele, in cui spiccano le mai viste, magnifiche scarpe concepite per l’amata sorella Edith, al pianterreno si può vedere una splendida raccolta dagli scatti che sono negli archivi del museo. Il filo che lega le immagini è il contributo delle performer (e specialmente delle attrici e delle danzatrici) al mondo del movimento, indagato nelle sue più sottili risonanze in immagini di grande potere evocativo. In primo piano è però la strepitosa retrospettiva al Mumok dedicata alla Feminist Avant-Garde, una mostra e un catalogo (monumentale, magnifico, edito da Prestel), entrambi curati da Gabriele Schor, a partire dalle ricchissime dotazioni della viennese collezione Verbund, che negli anni ha accumulato un vero e proprio tesoro di opere delle donne in rivolta degli anni ’70. In copertina al gran volume è la splendente icona dell’artista tedesca Ulrike Rosenbach, che assume una posa tipica di Elvis, per dichiarare che Art is a criminal action (e siamo al 1969-1970). In prima fila sono le immagini di donne prigioniere di un universo domestico concentrazionario, come dichiara in modo evidente una impressionante serie di una giovane Ana Mendieta, che schiaccia il volto contro una lastra di vetro, fino a deformarlo, mentre Francesca Woodman si presenta come oggetto dentro una credenza.

 

Lynda Benglis contesta la rappresentazione della donna nella pubblicità, si spoglia come una Betty Grable rivoltosa, e si fa fotografare su Artforum tenendo un grande dildo. Birgit Jürgenssen si trasforma, come Helen Chadwick, in una cucina, mentre Mierle Laderman Ukeles, Chris Rush e Les Nyakes puliscono ossessivamente in performance di magnetica intensità. E poi quante signore incatenate, legate, con il volto cancellato dal nastro isolante, dagli abiti. Anche la storia dell’arte diventa un campo di battaglia: sempre la Rosenbach disegna una venere punk, Margot Pilz per la nascita di un bambino allestisce una vera e propria ultima cena femminista. Insomma, un vero e proprio panopticon di provocazioni, aggressioni, revisioni, che hanno segnato una stagione vivacissima, e per lungo tempo poi negletta e rimossa. Perfettamente sintetizza quel tempo l’attività di Judy Chicago, di cui al Brooklyn Museum è in display permanente l’enorme tavola delle donne, in cui le signore più importanti della Storia sono omaggiate.

 

Due le presenze italiane: Marcella Campagnano, fotografa di identità alterate, che dialoga alla pari con Cindy Sherman e la notevolissima Ketty La Rocca, che negli ultimi anni sta venendo sempre più riacquisita nel mondo germanofono, mentre ancora manca la retrospettiva necessaria che si spera Firenze, luogo di adozione e di lavoro, realizzerà (lo scorso anno la Fondazione CariSpezia ha realizzato nella città natale dell’artista, due incontri di studio). Al Belvedere, dimora principale del principe Eugenio, una strepitosa avventura nel mondo di Lawrence Alma-Tadema (anche questa accompagnata da un bel catalogo Prestel), in un perfetto dispositivo a cura di Elizabeth Prettejohn e Peter Trippi. Il titolo di questa selezione itinerante (prima in Frisia, ora a Vienna, poi a Londra nella meravigliosa Leighton House Museum, scrigno del tesoro dell’artista britannico, dal 7 luglio prossimo) è At Home in Antiquity. Il filo è, in sostanza, quello della curiosa, quanto inquietante, “sindrome di Kavafis” (per usare un paragone poetico), per cui l’artista olandese, poi inglese di adozione, sapeva mettere nei suoi quadri una vitalità febbrile, che, al di fuori dell’osservanza filologica, portava un soffio dell’antico nel presente, nella squisita chiave di un decorativismo portato all’estremo.

 

Eppure, nella precisione della messinscena, c’è sempre uno scatto vitale, che deriva anche dal continuo confronto con il mondo del teatro, in cui agì a lungo come scenografo. Basta guardare la mirabile Danza pirrica, in cui un anziano Platone osserva con ammirazione i corpi scattanti dei soldati, o l’enorme e magnetico Eliogabalo, in cui l’imperatore folle, anarchico incoronato, uccide cortigiani e adepti soffocandoli con i petali di rosa. L’indubbio talento pittorico scatta in un dettaglio di mare e cielo, nella ricchezza dei fiori, ma sorprende nelle opere contemporanee, come i ritratti della moglie artista Anne, e in quelli delle figlie, come lo stupendo In our corner, con le due bambine che leggono libri illustrati nella loro cameretta. In fondo al giardino del Belvedere, infine, una curiosa mostra di ritratti del Novecento, selezione di una collezione del gallerista Helmut Klewan dedicata solo a questo filo, tra maestri del Novecento, art brut e personali folgorazioni, come quella per il poco noto pittore francese Armand F. J. Henrion, scelto per la copertina, che ossessivamente si rappresenta in vesti di Pierrot, contorcendo il proprio volto. La figura umana si deforma e si scompone: nelle opere di Francis Bacon, ma anche nei tremendi e perfetti disegni di Günther Brus, in cui con tratto analitico l’artista rivisita le performance più estreme dell’Azionismo, sue e dei suoi amici. In primo piano anche i corpi sformati, a pezzi della pittrice austriaca Maria Lassnig, da poco scomparsa, a cui è dedicata una bella mostra all’Andito degli Angiolini di Palazzo Pitti (a cura di Wolfgang Drechsler, fino al 25 giugno), mentre si inaugura in questi giorni una grande retrospettiva sempre all’Albertina, seguendo il filo della celebrazione del potere delle donne sull’immaginazione.

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Mostre dell'estate

Steno: futilità e segreti

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Ho raggiunto S. a Roma per visitare insieme a lei la mostra Steno, l'arte di far ridere, aperta al pubblico (ancora per poco) presso la Galleria Nazionale d'Arte Moderna. Vi si accede tramite un'entrata laterale, non lontano dal bar della Galleria. All'ingresso, si è accolti da un grande cartello giallo: sopra, nera e in corsivo, la firma elegante e al tempo stesso essenziale di Steno.

 

 

A pensarci bene, la collocazione quasi defilata della mostra sembra rispecchiare la posizione di Steno nel cinema italiano: “laterale” appunto, sempre un po' in disparte. Eppure Stefano Vanzina (il nom de plume era un omaggio all'autrice di feuilletons Flavia Steno) era tutt'altro che un uomo di seconda fila. Nato ad Arona un secolo fa, il 19 gennaio 1917, da una unione a dir poco romanzesca – lui, Alberto Vanzina, piemontese, giornalista del Corriere; lei, Giulia Boggio, romana, di famiglia aristocratica – Stefano perde il padre in tenera età. Dopo che la madre, rimasta vedova, ha dilapidato nel gioco d'azzardo buona parte del patrimonio famigliare, si trasferisce con lei nella Capitale, dove viene allevato da una zia. Liceale modello, Stefano s'iscrive a giurisprudenza, coltivando nel frattempo le sue autentiche inclinazioni: frequenta infatti i corsi del neonato Centro Sperimentale di Cinematografia e quelli di scenografia dell'Accademia di Belle Arti.

 

Tesserino universitario di Steno.

 

Il giovane sa mettere a frutto i propri talenti. Ben presto entra nella redazione del Marc'Aurelio, leggendario bisettimanale umoristico, fondato in pieno fascismo da transfughi (antifascisti) di altre riviste bersagliate dalla censura, prima fra tutte il Becco Giallo. La stretta del regime sulla stampa è più forte che mai: le riviste come il Marc'Aurelio o il Bertoldo, suo corrispettivo milanese, ripiegano su un'innocua critica di costume, invero più afascista che antifascista. «Facevamo, sì, una fronda, ma forse inconsciamente», avrebbe ricordato Steno anni dopo. «È indubbio però che c'era un fermento di cervelli e aleggiava uno spirito nuovo... C'erano Vittorio Metz, Marcello Marchesi, Zavattini, Ruggero Maccari, Age, Scarpelli e altri ancora». Di lì a poco si sarebbe aggiunto anche il diciottenne Fellini: anzi, fu proprio Steno ad approvargli i primi disegni – cosa che gli avrebbe guadagnato l'eterna gratitudine del futuro premio Oscar. Qualcuno ha scritto che il miglior cinema italiano del dopoguerra è nato in queste redazioni. Di sicuro qui nasce lo Steno più conosciuto, la sua ironia, il suo sguardo acuto, l'irriverenza verso tutto e tutti.

 

 

Appunti di lavoro, vignette, disegni... Mentre mi attardo a osservare i materiali esposti – S. è già due sale avanti, Canon alla mano – si fa strada nella mia mente il sospetto che Steno abbia rappresentato un'occasione sprecata per il cinema italiano. Continuano a ronzarmi in testa le parole di Mario Monicelli, che con lui strinse un fortunatissimo sodalizio artistico e un'amicizia ancor più solida, durata tutta la vita: «Avrebbe potuto essere un grande regista, era molto più dotato di me... Era bravissimo anche come sceneggiatore, intelligente, pieno di idee... Parlando con lui sentivi che aveva davvero delle cose da dire e da proporre».

 

Àuspici Mario Mattoli e Vittorio Metz, nel 1938 Steno passa dalla carta stampata al grande schermo: da vignettista diventa finalmente gagman. È l'inizio di una carriera lunga quasi mezzo secolo, con oltre settanta regie all'attivo e più di cento sceneggiature. La sua stagione più felice sta quasi tutta negli anni Cinquanta. Prima con Monicelli (col quale gira otto film) e poi da solo, Steno contribuisce a reinventare il Totò del dopoguerra con Totò cerca casa (1949) e Guardie e ladri (1951); con Totò a colori (1952) diventa uno dei primi a sperimentare il colore in Italia; lancia definitivamente Alberto Sordi come protagonista grazie a Un americano a Roma (1954); dirige due commedie a episodi di squisita fattura come Un giorno in pretura (1953) e Piccola posta (1955).

 

Copertina della sceneggiatura di Guardie e ladri.

 

Alle soglie del Boom, però, qualcosa si rompe. Mentre Monicelli e altri ex colleghi del Marc'Aurelio come Age, Scarpelli e Maccari si accingono a battere nuovi territori, Steno preferisce mantenere un profilo più disimpegnato. Nonostante non manchi di bordeggiare la commedia di costume con alcuni titoli seminali (il già citato Un americano a Roma,I tartassati) mantiene nei confronti di molti sodali di un tempo un atteggiamento di polemico distacco, anche ideologico: «Non mi piace quest'atmosfera piccolo-borghese della commedia all'italiana», dichiarerà anni dopo, «quello sfottere i poveracci che caratterizza molti miei amici comunisti». Confinato nei cinema di seconda e terza visione, il genere comico puro si sta esaurendo pian piano, eppure Steno rimane ostinatamente fedele a se stesso e alla propria idea di cinema, con il pubblico e per il pubblico. Non gli rimane altro da fare che mettersi al servizio dell'anziano Totò (cinque pellicole in sette anni, incluso l'episodio postumo Il mostro della domenica) e del redditizio filone parodistico, per il quale sforna parecchi titoli dimenticabili ma anche un gioiellino di alto artigianato come Arriva Dorellik (1967), che per la quantità e la vivacità delle gag, Enrico Giacovelli non ha esitato a definire «una sorta di Pantera Rosa all'italiana». Negli anni Settanta, mentre la commedia si fa sempre più scollacciata, Steno riesce comunque a firmare qualche film di rilievo, come La poliziotta (1974) e gli ormai leggendari Febbre da cavallo (1976) e La patata bollente (1979); ottiene poi un buon successo di cassetta dirigendo Bud Spencer nella serie inaugurata da Piedone lo sbirro (1973-1980); e addirittura si mette alla prova, confrontandosi generi per lui inconsueti, come nel caso de La polizia ringrazia (1972) firmato, per ragioni commerciali o semplicemente per modestia, col suo vero nome. Ma la sua vena migliore si è inaridita: forse perché raccontare l'Italia degli anni di piombo e del riflusso non è facile come raccontare quella strapaesana della ricostruzione. Lavoratore instancabile, Steno morirà all'improvviso nel 1988, poco più che settantenne, mentre sta girando una serie televisiva.

 

Una pagina della sceneggiatura di Febbre da cavallo.

 

Con S. ripercorriamo insieme la tappe di questa carriera, una sala dopo l'altra. Intorno a noi vengono proiettati a rotazione i momenti migliori del cinema di Steno. Eppure, anche davanti allo sketch irresistibile del chirurgo tratto da Totò Diabolicus («Lei è un paziente che non ha pazienza! E che paziente è? Abbia pazienza!»), non posso fare a meno di domandarmi che cosa sia accaduto, come e perché uno come Steno abbia deciso – per riprendere il titolo del suo primo film – di “mandare al diavolo” la celebrità. Fragilità di carattere, come ha sempre sostenuto Monicelli? Una malintesa idea di coerenza? Le pressanti necessità di marito e padre?

 

Ovviamente sono domande a cui è impossibile rispondere con certezza. Purtroppo, nonostante le migliori intenzioni, la mostra non ci prova nemmeno. Sfavorita da un allestimento dispersivo e da un percorso espositivo tutt'altro che chiaro, finisce troppe volte per cadere nella sempre comoda vulgata dell'artigiano incompreso dalla critica, del cineasta ostracizzato dall'intellighenzia cinematografica per via delle sue convinzioni politiche non allineate. Un armamentario retorico ormai ampiamente sfruttato da certi “sdoganatori” a oltranza, ma che certo non aiuta a far luce sul “mistero Steno”.

 

 

Una più accurata (più coraggiosa?) selezione dei materiali avrebbe potuto essere utile. Magari portando in primo piano due “libri segreti” (o quasi) che, nel migliore dei casi, l'allestimento ha ridotto a sfondo ornamentale. Mi riferisco in primo luogo al Diario Futile 1942-43, poderoso e coloratissimo zibaldone di ritagli, disegni, fotografie, realizzato da Steno a quattro mani con l'amico Marcello Marchesi– che riutilizzerà la fortunata definizione per un suo libro del 1963. E se sulla copertina campeggiano “strilli” pubblicitari dall'aria solenne («Questo libro rivelerà voi a voi stessi», «Pagine di fede profonda nella dignità della ragione»), fra le sue pagine i due si beffano impietosamente di chiunque, a cominciare da se stessi: «Ho trent'anni, sono un po' calvo», esordisce Marchesi. «Scrivo futile. Questo stesso diario che io faccio a quest'età è cosa da farsi a vent'anni». E quando, di lì a poco, verrà richiamato alle armi (destinazione Nordafrica), lascerà a Steno il compito di proseguire l'opera: «Deve diventare, così rozzamente da me iniziato, un libro raro, curioso, prezioso». L'amico non deluderà le aspettative: il Diario futile fornisce uno sguardo obliquo e caustico non soltanto dell'Italia in guerra, ma anche e soprattutto della Roma del cinema e delle belle lettere. Da Savinio («il brutto addormentato nel basco», per via del caratteristico copricapo) a Cecchi («Cecchi dice sì, Cecchi dice no»), fino a Cardarelli («il poeta deca-dente» a causa dei problemi ortodontici), ognuno viene stigmatizzato da un soprannome o da un collage realizzato appositamente.

 

Diario futile 1942-43 (riproduzione).

 

Claudio Strinati, in un testo incluso nel catalogo della mostra, osserva che «le pagine sono costruite con un metodo in parte classico e in parte futurista»; ma a voler fare il gioco delle ascendenze, si potrebbero citare anche Max Ernst (per gli accostamenti spesso inquietanti) e John Heartfield (per l'aggressività dell'impostazione grafica). «Sarebbe auspicabile una versione fac-simile», scriveva Tullio Kezich più di vent'anni fa. Nessuno per ora gli ha dato ascolto. La mostra ne ha realizzata per l'occasione una copia soltanto, per la consultazione. Un'occasione colta a metà, ma tanto è bastato a S. e a me per compulsarne golosamente le pagine, smarrendoci nello stream of consciousness di nomi e battute fin quasi all'ora di chiusura.

 

 

Una sorte migliore è toccata all'altro reperto, pubblicato postumo da Sellerio nel 1993 con il titolo Sotto le stelle del '44 e oggi fortunatamente ristampato da Rubbettino/Cineteca Nazionale. Si tratta di un altro diario – anch'esso «futile», come indica il sottotitolo sul frontespizio – «in minima parte intimo e sostanzialmente dedicato a note di costume e fantasia. Con un contrappunto di materiale vero di ogni giorno, usando la tecnica dospassiana». Da Marchesi a Dos Passos, dunque? Direi che se nell'altro scartafaccio prevalevano la burla e il divertimento, in queste pagine, vergate in origine su un severo libro contabile, troviamo uno Steno meno ilare e più introspettivo: più scrittore, insomma. D'altra parte, nell'intervallo di tempo che separa i due testi la situazione è radicalmente mutata, ci sono stati la caduta di Mussolini, la fuga del re a Brindisi e l'armistizio. Anche Steno abbandona la Capitale, insieme ad alcuni amici illustri: Leo Longanesi, Mario Soldati, Riccardo Freda, Dino De Laurentiis, il pugile Enzo Fiermonte. Rocambolescamente, un po' in treno e un po' in bicicletta, i sei riescono a oltrepassare la linea del fronte e a raggiungere Napoli appena liberata.

 

Il manoscritto di Sotto le stelle del '44.

 

Steno farà ritorno a Roma nell'estate del 1944: «È passato un anno dal 25 luglio storico e in questo anno ho vissuto come in dieci. Da un settembre a un altro settembre, io, come la maggior parte dei miei coetanei, abbiamo scontato un'esperienza di vent'anni per altri venti». In Sotto le stelle, che copre i primi due mesi della liberazione dell'Urbe (agosto-ottobre 1944), vediamo quindi Steno gettarsi nuovamente nel lavoro, passare le sue giornate fra un bar e l'altro a scrivere sketch, ritrovare conoscenti e incontrarne di nuovi (con la solita indimenticabile galleria di ritratti: Blasetti, Camerini, Trilussa, Zavattini...), impegnarsi con Longanesi e Renato Castellani nella stesura di un'ambiziosa rivista di taglio “intellettuale” intitolata Il suo cavallo, destinata a risolversi in un insuccesso. Sono giorni segnati dall'amarezza e dalle preoccupazioni economiche («Giornata di abbattimento morale terribile. Sento la difficoltà ormai di trovare ormai lavoro nel mio campo, la mancanza di veri amici, soprattutto la mancanza di una donna... Cerco di dormirci sopra», scrive il 19 settembre), ma anche da letture fondamentali: Dostoevskij, Hamsun, Flaubert, Sainte-Beuve, i Ritratti immaginari di Walter Pater. La qualità e la varietà delle letture di Steno è una delle cose che più mi sorprendono, insieme alla singolare bellezza di passaggi come questo, datato 6 agosto: «Trinità dei Monti al vespero: la folla domenicale passeggia come se nulla fosse, alcuni giovani italiani cantano, le signore di buona famiglia guardano gli Alleati più che con espansione. Discorsi dei passanti inerti come il peso delle macerie dei bombardamenti».

 

 

Pochi minuti più tardi, S. e io stiamo bevendo un tè freddo seduti a un tavolino del bar della Galleria, circondati da nugoli di adolescenti della Roma “bene” che parlano a voce alta. Ci scambiamo qualche opinione sulla mostra, constatando come dell'intelligenza di Steno, della sua cultura, così evidenti nei suoi scritti e nei suoi disegni, rimanga ben poco. Nelle ultime pagine di Sotto le stelle leggo un appunto, datato 13 ottobre: «Le vite di Hamsun, Dostoevskij, Poe, Stevenson, Dickens sono continue accuse-insegnamento a noi scrittorelli signorini che pretenderemmo di stupire chissà chi scrivendo paradossi seduti al caffè della piazza cittadina... A noi piace la gloria ben nutrita, lavoriamo tutto l'anno per essere promossi a Voltaire». Un indizio per risolvere il “mistero” su cui mi sono arrovellato per tutto il pomeriggio? Secondo i figli Enrico e Carlo, Steno non mostrò mai a nessuno questo suo diario, quasi se ne vergognasse. Chissà, forse a un certo punto anche lui aveva cominciato a sentirsi uno di quegli «scrittorelli signorini», amanti della «gloria ben nutrita»: sbagliando, s'intende. Scettico e disincantato com'era, probabilmente in quel momento aveva deciso di mettere da parte ogni ambizione “alta” per dedicarsi, con identica intelligenza e impegno, all'intrattenimento “basso”. Riconosco che si tratta di speculazioni: il “mistero” di Steno non può che rimanere insoluto.

 

Finito il tè, S. e io facciamo per andarcene. Prima di infilarlo nella borsa, do un'ultima occhiata al catalogo. In copertina, sotto una foto del regista circondato di ritagli, campeggia il sottotitolo della mostra: C'era una volta l'Italia di Steno. E c'è ancora. Mi guardo attorno: la gioventù “bene” fa sempre più chiasso.

 

Tutte le fotografie sono di Sofia Petraroia.

 

La mostra: Steno, l'arte di far ridere. C'era una volta l'Italia di Steno. E c'è ancora, a cura di Marco Dionisi e Nevio De Pascalis. Roma, GNAM – Galleria Nazionale d'Arte Moderna, fino al 4 giugno. Ingresso libero.

Il libro: Steno, Sotto le stelle del '44, a cura di Tullio Kezich; prefazione di Enrico e Carlo Vanzina, Rubbettino/Cineteca Nazionale, 2017, pp. 192, € 12,00.

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Una mostra e un libro per il centenario della nascita

Nigeria Now

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Italian Version

 

When Dante Farricella (the art director of Sisters’ Grace) asked Peju Alatise to choose a place to be photographed, she was puzzled: "That’s not the kind of decision that is left to me when they set up an exhibition of my works.""But you are the artist," he replied. "No one can know better than you what your place is amid your works.”

She then chose to sit near the door that appears in her Flying Girls installation: eight little girls in a circle, all with small wings, wrapped in a cloud of swallows and surrounded by a sea of butterflies. The white, aerial door, which opens to an unknown somewhere, was decorated with a small orange rosette for this occasion. "The color of rebellion, according to my father. He promised me he would come with me. He left us before his time, and so I brought his color here."‘Here’ is Venice, at the 57th Edition of the Biennale of Art. Peju, along with Victor Ehikhamenor and Qudus Onikeku, has been selected to represent Nigeria for the first time at what is called the Olympics of Art. The space allocated for this is the Scoletta dei Battioro e Tiraoro, near the San Stae church. If coming by boat along the Grand Canal, it is easy to see; by foot, however, is a bit more complicated. We’ve gotten lost many times. But persistence is well-rewarded in the end. The Nigeria pavilion, with its minimalism, proved to be one of the most successful of this Biennale, and we have had the pleasure and privilege of speaking with the artists, and with Emmanuel Iduma, writer and exhibition co-curator.

 

From left: Emmanuel Iduma, Victor Ehikhamenor and Qudus Onikeku.

 

Nigeria has recently been presented in Western media as the driving force behind the so-called African cultural and artistic renaissance. Certainly in Lagos (or at least in certain areas) there are galleries, auction houses, cultural centers and exhibition spaces. Many artists (Alatise and Ehikhamenor among them) have seen market prices for their works rise rapidly. But when asked about this explosion in Nigerian art, they do not like the word choice. "It's an incorrect concept," says Ehikhamenor. "What is true is that in the past, to become known abroad, we had to wait for a Westerner to ‘discover’ us.” Today, thanks to the Internet and social networks, we can promote our work independently. If there has been a ‘boom’, it is not about creative production, but its transmission outside of traditional borders." How can we disagree? Nigeria boasts a very ancient artistic tradition, which goes far beyond the colonial era—you need only look to the NOK culture or the Kingdom of Ife or Benin. A number of highly-respected art collectives were established there, such as the Zaria Art Society (late 1950s) or the Nsukka group (from the 70s). The quality, quantity and originality of current productions come from these premises. There is a continuum that holds the story together. Considering and presenting as novelty something previously unknown to us – meaning, considering oneself as a measure of all things – is a very common human weakness, almost a venial sin. But if those who do it have the power, for example, to pack and label cultural phenomena, it can become very treacherous because it can lead to distortion of reality, to negation of the past. The Biography of Forgotten, Ehikhamenor's immersive work that welcomes those who enter the Scoletta, wants to reverse this distorted view.

 

The Biography of Forgotten by Victor Ehikhamenor.

 

It is an enveloping installation, specially designed for Venice. Seven large cloth drapes cover the walls, filled with graphics that characterize the works of this eclectic artist, and get their inspiration from signs and marks on the homes and sacred buildings of Udomi-Uwessan, his native village near Benin City. Hundreds of mirrors are applied to the drapes, which mirror not only the viewer’s image, but also the glitter of a series of traditional sculptures that descend from the ceiling, intertwining reflections and symbols that are also references to colonial issues. As Ehikhamenor explains, "Mirrors have been one of the main commodities used by whites to take away men, resources and even artworks from Nigeria." Any attempt at reparations for the trauma inflicted by colonialism cannot exist without a full awareness of the present and a reconstruction of memories. It is in this view that Ehikhamenor takes a (critical) position with respect to Damien Hirst's Golden Heads, exhibited at Palazzo Grassi on the occasion of the Biennale, which is essentially a copy of the bronze Head of Ife acquired by the British Museum. He does not discuss the legitimacy of plagiarism itself, but the fact that Hirst puts forth the sculpture without contextualizing it: in a world essentially ignorant of Africa and full of assumptions, this will inevitably lead at some point to the accusation that Nigerians imitated Hirst. "That's why we need, now more than ever, more biographers for our forgotten."

 

Qudus Onikeku.

 

We climb a stairway, enter a tent, and there running in front of us is the Qudus Onikeku trilogy, Right Here, Right Now. There are three performances by which this acrobat-dancer, who studied in France but remains firmly anchored to his Yoruba roots, connects the memories of the body, sense of identity, and concept of dance. "The body has a memory of everything," says Onikeku. "My traumas, but also those of my father and grandfather. And this memory can be activated through dance and brings us to rediscover things swept away by colonial narrative." It is a way to recover and renew a collective unconscious that maintains continuity between body and spirit. Carl Gustav Jung may come to the Western viewer’s mind. But in reality this view is at the heart of Yoruba thinking, which unites what in other cultures is analytically opposed. "When they tell me that art can be a tool for social transformation, I find that difficult to understand," the artist continues. "In my language, there is one word to indicate art and life. It is not conceivable that art is not intrinsically linked to life and vice versa." Onikeku's dance does not have an aesthetic purpose, but a narrative and investigative one. It is a tool to delve into, remember, connect the here and now.

 

Flying Girls by Peju Alatise.

 

Another ramp and there are the Flying Girls waiting for us. Peju Alatise is not only a sculptor and painter, but also a poet and writer. She likes to say about herself, "I have never become an artist. I have just always been. I always wanted to paint and do creative things." I already knew of her because of her High Horses triptych, sold a few years ago at a Bonhams auction for 40 thousand euros. Three mannequins hoisted on tall stands, wrapped in sumptuous fabrics, affecting the senses while completely hiding the faces: a work that staged and questioned the fate of invisibility and silence assigned to too many women in Nigeria. Girls with wings have a beauty and an even greater impact. The inspiration for this work is a story written by Peju, who speaks of Sim, a small Yoruba domestic slave balancing between two realities: the killing workload of a wealthy family of Lagos, and a dream world—the dream of flying free like a swallow or butterfly. The little girls in the circle, with their androgynous bodies and hairstyles that would be well-suited among the photographs of Nigerian photographer J.D. Okhai Ojeikere, are all small Sims and condemn a deep plague in contemporary Nigeria—Something about which, if you care about this country, you cannot keep silent.

 

Emmanuel Iduma.

 

How About Now is the title-question that joint curators Iduma and Adenrele Sonariwo — director of the Relay Gallery of Lagos—chose for this tripartite and unified setup. From distinct perspectives, using profoundly different artistic languages and materials, Ehikhamenor, Onikeku, and Alatise create a choral narrative, articulated between the present and the memory, stretching towards the truth and with awareness of contradictions. "We've been thinking for a long time about what could be the best way to represent a country like ours, which indirectly, through individual participation or Okwui Enwezor's artistic direction, had already been present at the Venice Biennale," Iduma told us. "And it seemed that a connection between artistic legacy and national identity could be the key to answer essential questions such as ‘How about now?’ We chose artists who, in line with the theme of the Biennale, bring art alive, looking to the future, but strongly feeling the theme of belonging."

 

Post-Script: Africa at the 2017 Biennale.

This time there is not a lot of Africa in Venice. Among the invited artists there are two sub-Saharans: Nigerian Jelili Atiku, known for his strong and courageous performances of condemnation, and Malian Abdoulaye Konate, who mainly expresses himself with works in fabric. Then there are also Moroccans Younes Rahmoun and Touloub Achraf; Egyptian Hassan Khan; and French-Algerian Kader Attia who, with his exhibition of sounds, movement and couscous gives further proof of his great visionary talent and the strength of his roots. There are also three African-Americans: Sam Gilliam, Senga Nengudi and McArthur Bionion. But it still is a long way from the previous edition, curated by Okwui Enwezor and characterized by a rich and varied African presence (19 invited artists, not including the collective Invisible Borders).

National participation, however, rose to nine (compared to five two years ago): Angola, Ivory Coast, Egypt, Seychelles, South Africa, Tunisia, Zimbabwe, and, of course, the debut of Nigeria. Kenya is also represented, albeit after a number of adjustments. After the scandal of the past edition (with the pavilion contracted to Chinese artists through an Italian curatorship, which was out of context of the local creative scene and halted in extremis, with many apologies, thanks to the energetic protest of Kenyan artists and intellectuals), the government announced a true participation. But a few days before the inauguration, and for reasons not entirely clear (a problem of money? Visas? Political vengeance?), the country has disappeared from the programs and press kits. The curator and artists decided to self-produce the exhibition, you can find it at the Palladio school in Giudecca. The exhibition is called Another Country, a title that explicitly refers to James Baldwin and aspires to remind everyone that another country, another world is possible. You just have to be willing to work for it.

 

Stefania Ragusa –Sisters’ Grace

Photos: Dante Farricella– Sisters’ Grace

 

Translation by Laura Giacalone.

 

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English Version

 

Quando Dante Farricella (l’art director di Sisters’ Grace) le ha chiesto di scegliere un posto in cui farsi fotografare, Peju Alatiseè rimasta interdetta: «Non è il tipo di decisione che mi viene lasciata, quando organizzano un set con le mie opere».

«Ma l’artista sei tu», ha risposto lui. «Nessuno può sapere meglio di te quale sia il tuo posto in mezzo ai tuoi lavori».

Lei allora ha scelto di sedersi vicino alla porta che compare nella sua installazione Flying Girls: otto bambine in cerchio, dotate tutte di piccole ali, avvolte da una nuvola di rondini e lambite da un fiume di farfalle. La porta bianca, aerea, che si apre verso un imprecisato altrove, per l’occasione era decorata con una piccola coccarda arancione. «Il colore della ribellione, secondo mio padre. Mi aveva promesso che sarebbe venuto con me. Se n’è andato prima del tempo e io ho portato qui il suo colore».Qui è Venezia, la Biennale d’Arte alla sua 57esima edizione. Peju, con Victor Ehikhamenor e Qudus Onikekuè stata selezionata per rappresentare per la prima volta la Nigeria alla cosiddetta Olimpiade dell’Arte. Lo spazio assegnato è la Scoletta dei Battioro e dei Tiraoro, vicino alla chiesa di San Stae. Passando dal Canal Grande, in vaporetto, si vede benissimo. Raggiungerla a piedi, invece, è un po’ più complicato. Noi ci siamo persi varie volte. Alla fine però l’ostinazione è ricompensata. Il padiglione Nigeria, nella sua essenzialità, si è rivelato uno dei più riusciti di questa Biennale e abbiamo avuto il piacere e il privilegio di parlare a lungo con gli artisti e con Emmanuel Iduma scrittore e co-curatore dell’allestimento.

 

Da sinistra: Emmanuel Iduma, Victor Ehikhamenor e Qudus Onikeku.

 

La Nigeria, negli ultimi tempi, è stata spesso presentata dai media occidentali come il polo trainante della cosiddetta renaissance culturale e artistica africana. Sicuramente a Lagos (o per lo meno in certe zone) ci sono gallerie, case d’asta, centri culturali e spazi espositivi. Sicuramente molti artisti (Alatise e Ehikhamenor tra questi) hanno visto crescere rapidamente le loro quotazioni di mercato. Ma ai diretti interessati sentir parlare di un’esplosione dell’arte nigeriana non piace. «È un concetto improprio», ci dice Ehikhamenor. «Quel che è vero è che in passato, per farci conoscere all’estero, dovevamo aspettare che un occidentale ci “scoprisse”. Oggi, grazie a internet e ai social network, possiamo promuovere in autonomia i nostri lavori. Se c’è un boom non riguarda la produzione creativa, ma la sua trasmissione all’esterno». Come dargli torto? La Nigeria vanta una tradizione artistica molto antica, che precede largamente la stagione coloniale, basti pensare alla civiltà Nok o al Regno di Ife o a quello del Benin. Su di essa si sono innervate fioriture accademiche di tutto rispetto, come la Zaria Art Society (fine anni ’50) o il gruppo di Nsukka (a partire dagli anni ’70). La qualità, la quantità e l’originalità delle produzioni attuali nascono da queste premesse. C’è un continuum che tiene insieme la storia. Scambiare e spacciare per novità quello che fino a un momento prima non si conosceva, ossia considerare se stessi come misura di tutte le cose, è una debolezza umana molto comune, quasi un peccato veniale. Ma se chi lo commette ha potere, per esempio quello di confezionare ed etichettare i fenomeni culturali, può diventare molto insidioso. Perché conduce alla deformazione della realtà, alla negazione del passato. The Biography of Forgotten, l’opera immersiva di Ehikhamenor che dà il benvenuto a chi entra nella Scoletta, vuole rovesciare proprio questa insidia.

 

The Biography of  Forgotten, Victor Ehikhamenor.

 

È un’installazione avvolgente, creata appositamente per Venezia. Sette grandi drappi di stoffa, che ricoprono le pareti, riempiti dai grafismi che caratterizzano i lavori di questo artista eclettico e sono ispirati ai segni presenti sulle case e gli edifici sacri di Udomi-Uwessan, il suo villaggio natale vicino Benin City. Sui drappi sono applicate centinaia di specchietti, che restituiscono allo spettatore la propria immagine ma anche i bagliori di una serie di sculture tradizionali che scendono dal soffitto, in un incrocio di sguardi e di simboli che rimanda anche alla questione coloniale. Come spiega Ehikhamenor: «Gli specchietti sono stati una delle principali merci di scambio usate dai bianchi per portare via dalla Nigeria uomini, risorse e anche opere d’arte». Qualsiasi tentativo di riparazione rispetto al trauma inflitto dal colonialismo non può prescindere dalla consapevolezza del presente e dalla ricostruzione della memoria. Ed è in quest’ottica che Ehikhamenor prende posizione (critica) rispetto alla Golden Heads di Damien Hirst, esposta a Palazzo Grassi, in coincidenza con la Biennale, che è essenzialmente una copia della testa di bronzo di Ife acquisita dal British Museum. Non discute la legittimità del plagio in sé, ma il fatto che Hirst proponga la scultura senza contestualizzarla: in un mondo sostanzialmente ignaro d’Africa e supponente, ciò porterà fatalmente qualcuno ad accusare i nigeriani, un giorno,di avere imitato Hirst. «Per questo oggi abbiamo bisogno più che mai di more biographers for our forgotten».

 

Qudus Onikeku.

 

Saliamo una rampa di scale, scostiamo una tenda e davanti a noi scorre la trilogia di Qudus Onikeku intitolata Right Here, Right Now. Sono tre performance attraverso cui questo acrobata-ballerino, che ha studiato in Francia ma è rimasto saldamente ancorato alle sue radici yoruba, mette in connessione la memoria del corpo, il sentimento identitario e la danza. «Il corpo ha memoria di tutto», spiega Onikeku. «Dei miei traumi, ma anche di quelli di mio padre e di mio nonno. E questo ricordo può essere attivato attraverso la danza e portarci a ri-scoprire delle cose spazzate via dalla narrazione coloniale». È un’azione di recupero e ricomposizione di un inconscio collettivo che mantiene la continuità tra corpo e spirito. Allo spettatore occidentale potrà venire in mente Carl Gustav Jung. Ma in realtà qui ci troviamo nel cuore del pensiero yoruba, che è portato ad unire quel che in altre culture viene analiticamente contrapposto. «Quando mi dicono che l’arte può essere uno strumento di trasformazione sociale, io fatico a capire», prosegue l’artista. «Nella mia lingua c’è una sola parola per indicare arte e vita. Non è concepibile un’arte che non sia intrinsecamente legata alla vita e viceversa». La danza di Onikeku non ha una finalità estetica bensì narrativa ed esplorativa. È uno strumento per scavare, ricordare, collegare qui e ora.

 

Flying Girls, Peju Alatise.

 

Un’altra rampa e ci sono le Flying Girls ad aspettarci. Peju Alatise è scultrice, pittrice ma anche poetessa e scrittrice. Di se stessa ama dire: «Non sono mai diventata un’artista. Lo sono sempre stata. Ho sempre voluto dipingere e fare cose creative». La conoscevo già per via del trittico High Horses, venduto qualche anno fa a un’asta da Bonhams per 40mila euro. Tre manichini issati su alti trespoli, avvolti in stoffe sontuose, che colpiscono i sensi ma nascondono totalmente i volti: un’opera che mette in scena e in discussione il destino di invisibilità e di silenzio assegnato a troppe donne in Nigeria. Le bambine con le ali hanno una bellezza e un impatto ancora maggiore. A ispirare l’opera è una storia scritta da Peju, che parla di Sim, piccola schiava domestica yoruba in bilico tra due realtà: il lavoro massacrante presso una famiglia benestante di Lagos e l’evasione onirica, il sogno di liberarsi in volo come una rondine o una farfalla. Le bambine del cerchio, con i loro corpi androgini e acconciature che avrebbero ben figurato tra gli scatti del fotografo nigeriano J.D. 'Okhai Ojeikere, sono tutte piccole Sim e denunciano una piaga profonda della Nigeria contemporanea. Qualcosa su cui, proprio se si ha a cuore il paese, non è possibile tacere.

 

Emmanuel Iduma.

 

How About Now?è il titolo-domanda che Iduma e l’altro co-curatore, Adenrele Sonariwo, direttore della Rele Gallery di Lagos, hanno scelto per questo allestimento tripartito e unitario. Da prospettive distinte, usando linguaggi artistici e materiali profondamente differenti, Ehikhamenor, Onikeku, e Alatise producono, infatti, una narrazione corale, articolata tra presente e memoria, tensione verso la verità e consapevolezza delle contraddizioni. «Abbiamo riflettuto a lungo su quale potesse essere il modo migliore di rappresentare un paese come il nostro, che indirettamente, attraverso partecipazioni singole o anche la direzione artistica di Okwui Enwezor, era già stato presente alla Biennale di Venezia», ci ha detto Iduma. «E ci è sembrato che mettere in risonanza l’eredità artistica e l’identità nazionale potesse essere la chiave giusta per rispondere a una domanda essenziale come How about now? Abbiamo scelto artisti che, per riprendere il tema della Biennale, facessero Arte Viva, affacciata sul futuro, ma sentendo forte il tema dell’appartenenza».

 

Post Scriptum: L’Africa alla Biennale 2017.

Questa volta non c'è tanta Africa a Venezia. Tra gli artisti invitati si contano due presenze subsahariane: il nigeriano Jelili Atiku, conosciuto per le sue forti e coraggiose performance di denuncia, e il maliano Abdoulaye Konate, che ha fatto del tessuto il suo materiale espressivo d’elezione. Ci sono poi i marocchini Younes Rahmoun e Touloub Achraf, l'egiziano Hassan Khan e il franco-algerino Kader Attia, che con la sua installazione a base di suoni, movimento e couscous dà una prova ulteriore del suo grande talento visionario e della forza delle sue radici. Ci sono anche i tre afroamericani: Sam Gilliam, Senga Nengudi e McArthur Bionion. Ma si resta in ogni caso lontani dall'edizione precedente, curata da Okwui Enwezore caratterizzata da una ricca e articolata presenza africana (19 artisti invitati, senza considerare il collettivo Invisible Borders).

Le partecipazioni nazionali, invece, salgono a 9 (erano state 5 due anni fa): Angola, Costa d’Avorio,Egitto, Seychelles, Sudafrica, Tunisia, Zimbabwe, la debuttante Nigeria e, dopo varie vicissitudini, anche il Kenya. Dopo lo scandalo della passata edizione (il padiglione appaltato ad artisti cinesi, attraverso una curatela italiana avulsa dalla scena creativa locale e stoppato in extremis e con tante scuse, grazie all'energica protesta di artisti e intellettuali kenyoti), il governo aveva annunciato una vera partecipazione. Ma a pochi giorni dall'inaugurazione e per ragioni non del tutto chiare (un problema di soldi? Di visti? Di vendette politiche?), il paese è sparito dai programmi e dalle cartelle stampa. Curatori e artisti hanno deciso allora di autoprodurre l'allestimento. Chi volesse può cercarlo e trovarlo alla scuola Palladio, alla Giudecca. Si chiama Another Country, titolo che si rifà esplicitamente a James Baldwin e aspira a ricordare a tutti che un altro Paese, un altro mondo è possibile. Basta essere disposti a lavorarci su.

 

Stefania Ragusa - Sisters’ Grace

Foto: Dante Farricella - Sisters’ Grace

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L’arte di Trevor Paglen

Il primato del segno

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La meraviglia provocata da un segno. Così potremmo definire il lavoro dell’artista Enzo Cucchi che nel segno trova la propria ragion d’essere nonché la fonte prima di emozione. Si tratta di un segno che sovente prende la forma di teschio o di fuoco fatuo; talvolta di animale o di creatura umana ingigantita, rimpiccolita, stilizzata, oppure ridotta a specifiche parti anatomiche; altresì di zona d’ombra o di paesaggio collinare privato delle tradizionali coordinate spazio-temporali e pertanto disorientante, onirico.

Immagini: 

Strand e Zavattini: Italia mia

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Giugno 1955, sede romana dell’Einaudi, conferenza stampa per la presentazione di un libro; sono presenti Giulio Einaudi, Italo Calvino, allora redattore, e l’autore, Cesare Zavattini; o meglio, uno dei due autori, perché si presenta Un paese, un “libro-film” (così viene descritto in quella sede), con fotografie di Paul Strand. Sulla “Stampa” del giorno seguente, l’inviato sostiene che più che una conferenza stampa si era trattato del “maggiore avvenimento mondano e culturale insieme di questa estate romana già soffocante a metà giugno”. In un primo tempo, Zavattini racconta il fallimento del suo progetto di un film dal titolo “Italia mia”, poi spiega che il progetto si era trasformato in una collana di libri, che manteneva però questo titolo: “un titolo – disse lo scrittore e sceneggiatore emiliano – che vuole essere un grido di fede”. A questo punto vengono descritte le linee della nuova collana Einaudi: “una guida fotografica che mostrasse lati di quell’Italia minore da molti a torto trascurata”. Interviene ancora Zavattini: “Spero che il turista quando si metterà in viaggio per il nostro bel Paese dia un’occhiata a questi libri. Vi troverà pochi monumenti, ma parecchi uomini, donne, bambini, e sarà un buon risultato se il turista di passaggio per un luogo illustrato dalla collana guarderà più attentamente la gente che lo abita e di qualcuno ricordando una frase, cercherà perfino di rintracciarlo per scambiare due parole con lui. Spero insomma che si cominci una biblioteca dove ogni villaggio, ogni città sia presente con la sua raccolta il più possibile numerosa di voci e di facce”.

 

Paul Strand © Aperture Foundation Inc., Paul Strand Archive.


A questo punto si comincia a descrivere Un paese– dedicato proprio a Luzzara, in provincia di Reggio Emilia, patria di Zavattini – le foto di Strand, le “didascalie” dello scrittore. Subito dopo si ritorna alla collana: prende la parola Luchino Visconti, che annuncia il suo libro su Milano (in un primo tempo aveva pensato alla via Emilia); non è presente Vittorio De Sica (sta girando Pane, amore e …), ma sta preparando un volume su Napoli; qualcuno riferisce che Eduardo De Filippo, invece, vorrebbe curare il libro su Genova, la città che “gli sta più simpatica”. Zavattini apre il dibattito e chiede consigli ai presenti: l’attrice Isa Miranda, milanese, dà suggerimenti a Visconti; Antonello Trombadori consiglia di evitare “spunti polemici troppo accesi”; dalla “Stampa” veniamo a sapere che sono presenti anche Sibilla Aleramo, Natalia Ginzburg e Carlo Lizzani; altri giornali riferiscono che tra il pubblico c’è anche Ernesto De Martino.

 

L’interesse per l’iniziativa di Zavattini ed Einaudi, dunque, fu notevolissimo. Ma le cose non andarono come si sperava. Un paese– un capolavoro indiscusso nella storia della fotografia – non fu certo un successo editoriale e la collana “Italia mia” finì qui. La storia di Un paese viene raccontata ora in una mostra da poco aperta a Reggio Emilia nell’ambito di Fotografia Europea, a cura di Laura Gasparini ed Alberto Ferraboschi. Esposizione e catalogo ne ricostruiscono in modo esemplare la genesi, le fasi della realizzazione, la ricezione, offrendo una serie di materiali inediti, in buona misura dall’archivio Zavattini (Reggio Emilia, biblioteca “Panizzi”). Sono i saggi di Gasparini e Ferraboschi, soprattutto, a mettere in fila le tappe di una vicenda artistica ed editoriale tutt’altro che lineare; intoppi, difficoltà, incomprensioni si intrecciano alla determinazione dei due protagonisti, la silenziosa costanza del fotografo e l’entusiasmo esuberante dello scrittore. 

 

Paul Strand © Aperture Foundation Inc., Paul Strand Archive.


Una volta si parlava di “ispirazione”, oggi è più di moda parlare di “creatività”; al di là dei termini usati, in molti rimane ferma l’idea – tutto sommato di derivazione romantica – che l’artista sia avvolto da una sua leggenda e, soprattutto, che l’opera d’arte sia esito di un’improvvisa illuminazione, misteriosa e fascinosa insieme. Ogni passo percorso nella mostra reggiana lo smentisce: qui c’è ben poco spazio per l’estrosità, la fantasia al potere, il colpo di genio. L’incastro tra lo studio del fotografo, la scrivania di Zavattini e il laboratorio della casa editrice è un affare complesso.

Da una parte c’è Strand, che si porta dietro una grande fama, ma anche una grande macchina fotografica in legno, il treppiede, e il telo nero, quasi fosse un fotografo del secolo precedente (in mostra lo vediamo in una foto di Arturo, figlio di Zavattini).

Strand si avvicina a uomini e donne, li piazza sempre davanti a a uno sfondo consistente, un muro, una porta, balle di paglia; in altre parole non li toglie mai dal contesto. Così scrive anni dopo Zavattini: “L'offesa che l'uno fa contro l'altro oggi come ieri consiste nel togliere dal contesto, dal dramma, dal confronto, anche uno solo; Strand non ne escludeva neanche uno. Siamo stati e siamo per lui eroi dal primo all'ultimo”. 

 

Poche fotografie a figura intera (ecco un’eredità degli “uomini del XX secolo” di August Sander), molti ritratti. Non sappiamo cosa dice loro; se parla, è Valentino Lusetti – che è stato prigioniero negli Stati Uniti – a tradurre. Sta di fatto che tutti, tranne un giovane contadino che accenna un timido sorriso, sono serissimi, anche il bambino di otto anni a cui piace la storia, ma non vuole più studiare. 

La moglie Hazel lo accompagna coi suoi appunti su carta azzurrina (persone, luoghi, cose) e intanto fa scatti anche lei. Luigi Ghirri ha scritto che queste sue foto sono “le sinopie del grande affresco di Strand”. 

 

 

Hazel Kingsbury Strand © Aperture Foundation Inc., Paul Strand Archive.

 

A volte, però, le sinopie vanno per conto loro: quella che Hazel scatta davanti a casa Lusetti – prima o dopo che il marito facesse la celebre foto che verrà scelta per la copertina del libro – sembra la ricreazione in mezzo alle ore di scuola. Il confronto dà il senso del lavoro, del lavorìo anzi, di Strand sulle persone e le cose.


Hazel Kingsbury Strand © Aperture Foundation Inc., Paul Strand Archive

 

Paul Strand © Aperture Foundation Inc., Paul Strand Archive.

 

Che cosa ha detto Strand ai cinque fratelli e alla madre, che cosa ha chiesto loro, com’è che tre lo fissano e tre distolgono lo sguardo? Da dove viene questa solennità? (So bene che non esiste alcuna relazione, ma quando guardo questa foto, penso alla Macelleria di Annibale Carracci, gli uomini in primo piano e la vecchia sotto un’architrave, su uno sfondo buio). Una foto studiata, costruita. Zavattini ricorda così il fotografo americano: “camminava avanti e indietro in mezzo alla gente intabarrata osservando tutto come un agente del fisco, toccava il catenaccio di una porta, uno stipite e indicava la linea di un muro”. Claudio Parmiggiani (nato a Luzzara) più tardi avrebbe scritto che Strand aveva ritratto la campagna, le vie, le case di Luzzara “in silenzio e con calcolo estremo”.

 

Nel libro si comincia con i paesaggi. La prima foto è accompagnata da una vera e propria introduzione geografica: “Questo è il Po, va verso il paese di Luzzara (…)”; e anche la seconda: “Anche questo è il Po, ma dopo che ha passato Luzzara una decina di chilometri (…)”. Il fiume ritorna poco dopo: è l’“anca della Paolina”, un vecchio alveo in cui si era inabissata una suicida per amore.Di nuovo il Po a metà del volume, con una barca di pescatori e due biciclette da donna sulla riva, fino all’ultima foto, un paesaggio di pioppeti e di fossi. La terza foto, a piena pagina, è un intrico di fili d’erba: vengono in mente le pagine di Ipocrita 1943, in cui Zavattini si propone di raccontare millimetricamente l’aspetto di un prato. 

 

Da qui in poi le foto si susseguono secondo un’impaginazione movimentata e in un montaggio per niente prevedibile, in cui si alternano  paesaggi, ritratti, foto di gruppi, vere e proprie nature morte. Solo ogni tanto si colgono nessi tematici: due signore fanno “la treccia” all’aperto e accanto, a piena pagina, un interno con pile e pile di cappelli di paglia, sormontati da un quadretto con la vecchia foto di un signore con un cappello in testa (quanto ha imparato Ghirri da foto come questa, con un’immagine dentro l’altra).

Solo quando le foto sono pronte, Zavattini comincia a scrivere. Ma non si tratta mai di vere didascalie, ce ne accorgiamo sin dalla prima: comincia con “Questo è il Po”, ma finisce con un ricordo personale (“nessuno crederà che una volta ebbi la voglia repentina di mangiare del pane del mio paese, così partii su due piedi da Milano, e quella notte mi addormentai col letto pieno di briciole”). E poi parlano i personaggi ritratti: “sono sindaco da due anni”; “ho sempre fatto il mediatore di formaggi”; “sono andata in Piemonte quest’anno con mia mamma”. In un’intervista del 1952, Zavattini aveva detto che il libro sarebbe diventato “un’Antologia di Spoon River alla rovescia: parleranno i vivi delle loro speranze, anziché dei loro fallimenti…”.

 

A volte, tra immagini e testo si crea un ritmo asimmetrico: in una pagina un contadino parla di sè, ma accanto ci sono rami di vite intrecciati a un olmo; nella pagina dopo, mentre vediamo una casa colonica e un borgo più lontano, uno che abitava a Villarotta racconta la storia di un truffatore finto marchese. In alcuni casi, la stessa impaginazione rimarca questa metrica  (volutamente) sfasata, facendo scorrere il testo senza fotografie.

Rispetto al tono “eroico” di Strand, quello di Zavattini è un controcanto che assomiglia piuttosto alla trama composita del “far filòs” contadino, tra racconto e chiacchiere; c’è posto per il risultato locale delle ultime elezioni, ma anche per la suora che si mette a cantare per far tacere le vecchie del ricovero che litigano. Un paeseè da guardare, ma anche da leggere.

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A Reggio Emilia la storia di Un paese
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Robert Rauschenberg: Among Friends

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In un 2017 già ricchissimo di eventi espositivi imperdibili, da documenta (14) alla Biennale di Venezia fino ad Art Basel, il MoMA ha da poco inaugurato una delle più belle mostre attualmente in corso. Si tratta di Robert Rauschenberg: Among Friends, la prima retrospettiva del XXI secolo dedicata all’artista, nato a Port Arthur (Texas) il 22 ottobre 1925 e scomparso a Captiva Island il 12 maggio 2008 a seguito della decisione personale di staccare il respiratore dopo un arresto cardiaco.

 

Veduta espositiva di Robert Rauschenberg: Among Friends. The Museum of Modern Art, New York, 21 maggio – 17 settembre 2017. Foto: Jonathan Muzikar; © 2017 The Museum of Modern Art

 

La retrospettiva, anticipata in parte alla Tate Modern di Londra (1 dicembre 2016-2 aprile 2017), approfondisce i sessanta anni di attività dell’artista e sarà visitabile al MoMA dal 21 maggio al 17 settembre 2017, per poi essere trasferita al Museum of Modern Art di San Francisco, dal 18 novembre 2017 al 25 marzo 2018. Organizzata in collaborazione con la Tate Modern, riunisce oltre 250 opere di varia natura – dipinti, sculture, disegni, stampe, fotografie, opere sonore, filmati relativi a performances –, dimostrando così l’estrema apertura da parte di Rauschenberg all’utilizzo indifferenziato di tecniche e materiali. Ma non solo: la mostra attesta soprattutto la volontà dell’artista di collaborare con le figure più influenti nella cultura postbellica americana: artisti visivi, musicisti, ballerini, scrittori, tra cui Trisha Brown, John Cage, Merce Cunningham, Sari Dienes, Morton Feldman, Jasper Johns, Billy Klüver, Paul Taylor, Jean Tinguely, David Tudor, Cy Twombly, Susan Weil. È per questa ragione che Robert Rauschenberg: Among Friends, già a partire dal titolo, sceglie di focalizzarsi sull’importanza del dialogo creativo e di strutturarsi come una “monografia aperta”, includendo cioè opere degli autori vicini al soggetto d’indagine a cui è dedicata.

 

Questa eccellente retrospettiva, inoltre, nasce da un lungo lavoro di équipe diretto dai due curatori Leah Dickerman (The Marlene Hess Curator of Painting and Sculpture, MoMA New York) e Achim Borchardt-Hume (Director of Exhibitions, Tate Modern, Londra), coadiuvati da due assistenti curatori del Department of Painting and Sculpture del MoMA: Emily Liebert e Jenny Harris. Un ruolo fondamentale è stato al contempo assunto da Charles Atlas, chiamato a curarne il design. Charles Atlas, video artist e filmmaker, ha lavorato come stage manager, designer dell’illuminazione e regista per la Merce Cunningham Dance Company dai primi anni Settanta al 1983, mantenendo poi un rapporto di lavoro con Cunningham fino alla sua morte avvenuta nel 2009. La sua profonda conoscenza dell’arte di Rauschenberg, anch’egli collaboratore di Cunningham dal 1954 al 1964 per oltre venti spettacoli, ha reso l’allestimento della mostra al MoMA una sorta di opera in sé, caratterizzata da continui spiazzamenti visivi derivati da accostamenti “ad effetto” di opere, video, documenti, nonché dal loro posizionamento spesso inusuale (due filmati, ad esempio, sono proiettati su sue lati di un volume aggettante sopra il varco di ingresso tra due sale).

 

Il concept della retropettiva nasce da una nota dichiarazione di Rauschenberg del 1959, per cui “Painting relates to both art and life. Neither can be made. (I try to act in that gap between the two)”. Il lavorare all’interno di questo spazio vuoto tra l’arte e vita è il filo rosso che permette di comprendere come egli sia riuscito a definire nuove modalità del fare arte e come abbia sempre proteso per lo scambio interdisciplinare. Scelto come filo rosso anche della mostra stessa, quel modo di lavorare trova sviluppo e conferma nelle numerose e ampie sale da cui essa è costituita, ciascuna delle quali documenta uno specifico momento di vita e di arte dell’artista a partire dal periodo trascorso al Black Mountain College nei pressi di Asheville (North Carolina), fino al trasferimento prima a New York negli studi di Fulton Street e Pearl Street, e infine a Captiva Island, in Florida.

 

La storia di Rauschenberg come autore inizia nel 1945, anno del suo congedo dalle armi per cui lavorava come tecnico dell’ospedale psichiatrico della marina militare. Inizia a studiare all’istituto d’arte del Kansas e all’Académie Julian a Parigi, in Francia, ed è lì che incontra la pittrice Susan Weil con cui, nel 1948, decide di iscriversi al Blanck Mountain College dove diviene allievo di Joseph Albers. In questi anni sfida la tradizione pittorica dell’Abstract Expressionism proponendo un’inclusione asistematica ed egualitaria di materiali artistici e di oggetti di uso quotidiano.La prima sala della mostra è dedicata a questo periodo germinale in cui Albers gli insegnò a esplorare le proprietà dei vari materiali e dove la loro combinazione diventò per lui un vero e proprio “mantra”. Oltre ai primissimi lavori di Rauschenberg (tra cui White Painting, 1951), la sala include opere di artisti a lui vicini quali Susan Weil, Cy Twombly, Aaron Siskind e Hazel Larsen Archer.

 

Robert Rauschenberg, White Painting, 1951. Robert Rauschenberg Foundation, New York. © 2017 Robert Rauschenberg Foundation

 

La seconda sala focalizza invece l’attenzione sulla serie dei Red Paintings (1953-54) e sui primi Combines (1954-55), presentando non solo il celebre Bed (1955) ma anche l’opera da sempre considerata la prima di questa tipologia di lavori: Charlene (1954), una grande tela sulla quale l’artista ha inserito specchi, un ombrello, fumetti, una luce che lampeggia e si spegne.

 

Robert Rauschenberg, Bed. 1955. The Museum of Modern Art, New York. Dono di Leo Castelli in onore a Alfred H. Barr, Jr. Foto: Thomas Griesel; © 2017 Robert Rauschenberg Foundation

 

Robert Rauschenberg,Charlene, 1954. Stedelijk Museum, Amsterdam. © 2017 Robert Rauschenberg Foundation

 

Nella medesima sala è inoltre documentata la sua prima collaborazione con altri artisti, attraverso la trasmissione della registrazione di Extensions 3 (1952), il concerto tenuto dal compositore Morton Feldman in occasione della prima mostra dei Red Paintings tenutasi alla Charles Egan Gallery nel 1954. Nello stesso anno, Rauschenberg collabora per la prima volta anche con Merce Cunningham e John Cage per lo spettacolo di danza Minutiae, la cui registrazione è proiettata al MoMa vicino a Target with Four Face (1955) di Jasper Johns.

 

I Combines più celebri sono però allestiti nella terza sala della mostra, dove tra gli altri troviamo Canyon (1959) e il celebre Monogram (1955-59) con la capra d’Angora impagliata “avvinta” da un pneumatico e posizionata su un grande collage dipinto realizzato su una piattaforma di legno.

 

Robert Rauschenberg. Monogram. 1955–59, veduta espositiva espositiva. Foto: Jonathan Muzikar; © 2017 The Museum of Modern Art

 

La maggior parte dei Combines esposti in questo terzo spazio trattano temi mitologici, in quanto l’intera salasi propone di affrontare l’interesse da parte dell’artista per la cultura classica del passato a cui egli si avvicina nel 1958. In quell’anno infatti, inizia a lavorare alla serie di disegni, conclusa nel 1960 e qui esposta, che illustra i 34 canti dell’Inferno di Dante Alighieri, inventando una nuova tecnica atta a trasferire su carta riproduzioni fotografiche tratte da riviste e giornali, per poi rilavorarle con altri materiali.

 

La sezione forse più interessante e ben allestita della retrospettiva è però la successiva, dedicata agli oggetti (tra cui l’Erased de Kooning Drawing, 1953) e alle performances realizzate da Rauschenberg negli anni Sessanta in collaborazione con i maggiori performers e ballerini del tempo: la prima, ovvero l’Hommage à David Tudor tenuta nelgiugno 1961 presso l’Ambasciata Americana a Parigi, ma anche Pelican (1963) e Map Room II (1965). Accanto ai filmati e alla documentazione relativi alle sperimentazioni nella danza realizzate con Cunningham e Taylor, la mostra documenta anche le collaborazioni di Rauschenberg con i compositoriCage, Feldman e Tudor attraverso suoni di sottofondo e registrazioni.

 

Peter Moore, foto della performance di Robert Rauschenberg, Pelican (1963), 1965. © Barbara Moore/Licensed by VAGA, New York, NY. Courtesy Paula Cooper Gallery, New York

 

Nel 1961 Rauschenberg si cimenta nei primi esemplari della serie di 150 silkscreen paintings costituite da immagini preesistenti tratte da riviste del tempo e continuamente riutilizzate in diverse combinazioni. Nello stesso periodo inizia a interessarsi anche alle nuove tecnologie: da qui la collaborazione con l’ingegnere Billy Klüver e con i Bell Laboratories nel New Jersey. La mostra non solo documenta le meravigliose silkscreen paintings ma anche due dei più ambiziosi esperimenti tecnologici realizzati dall’artista: Oracle (1962-65, progettata con Billy Klüver, Harold Hodges, Per Biorn, Toby Fitch e Robert K. Moore), e Mud Muse (1968-71, progettata con Frank LaHaye, Lewis Ellmore, George Carr, Jim Wilkinson, Carl Adams, e Petrie Mason Robie).

 

Robert Rauschenberg con Toby Fitch, Harold Hodges, Billy Klüver, e Robert K. Moore, Oracle, 1962–65, veduta espositiva. Foto: Jonathan Muzikar; © 2017 The Museum of Modern Art

 

La sezione successiva dell’esposizione, invece, è interamente dedicata a 9 Evenings: Theatre and Engineering, un evento tenutosi dal 13 al 23 ottobre 1966 a New York, al 69th Regiment Armory, ma concepito nel corso dei mesi precedenti da parte di Rauschenberg e di Billy Klüver con la collaborazione di artisti, coreografi, musicisti e di quaranta ingegneri dei Bell Laboratories. I video e i progetti delle singole performances presentate durante le 9 Evenings, tra danza, musica e tecnologia, sono esposti al MoMA assieme ai relativi volantini, manifesti e documenti d’archivio. Attorno ai nove filmati dell’evento, Atlas ha creato unallestimento che trasforma la loro visione nell’esperienza di una vera e propria installazione artistica video-sonora.

 

Nel 1970 Rauschenberg si trasferisce a Captiva, in Florida, e modifica il suo consueto repertorio di materiali, utilizzando quelli presenti sull’isola (ad esempio le scatole di cartone). Il MoMA documenta ampiamente tale produzione così come le opere realizzate nel periodo del viaggio in India (1975) dove l’artista collabora con gli artigiani e la scuola tessile del luogo, per poi attestare la sua nuova collaborazione con Merce Cunningham e John Cage per lo spettacolo Travelogue (1977).

Le sale conclusive rappresentano la ricchezza della tarda carriera di Rauschenberg attraverso la serie delle Gluts (1986-89, 1991-94), sculture in metallo ispirate all’economia contemporanea del Texas, paese nativo dell’artista, nonché attraverso opere come Holiday Ruse (Night Shade) (1991) e Mirthday Man (Anagram [A Pun]) (1997), dove egli sperimenta nuove tecniche di stampa per riprodurre fotografie in scala pittorica.

 

Un importante focus è quello dedicato alla lunga collaborazione di Rauschenberg con Trisha Brown durata dal 1979 al 1995, e iniziata con la progettazione del costume e delle scene di Glacial Decoy (1979). Le 620 diapositive fotografiche proiettate su quattro grandi schermi a costituire lo sfondo dello spettacolo, al MoMA sono presentate insieme a filmati documentari della performance messa in scena alla Brooklyn Academy of Music nel 2009 e ai filmati relativi a Set and Reset (1983) che attestano un’ulteriore collaborazione tra l’artista e Trisha Brown.

 

Trisha Brown, Glacial Decoy, 1979, con costumi, scene e luci di Rauschenberg (con Beverly Emmons), presso il Marymount Manhattan College Theater, New York, 20–24 giugno 1979. Da sinistra a destra: Brown, Nina Lundborg, e Lisa Kraus. Foto: Babette Mangolte; © 1979 Babette Mangolte

 

La sala conclusiva della retrospettiva dà invece conto della fondazione nel 1982 della Rauschenberg Overseas Culture Interchange (ROCI): un programma volto a incrementare il dialogo globale sull’arte che portò l’artista a viaggiare moltissimo, integrando così nel suo lavoro le culture e i materiali dei luoghi in cui di volta in volta aveva l’opportunità di soggiornare.

 

Robert Rauschenberg, poster di ROCI Cuba (Museo Nacional site), 1988. Robert Rauschenberg Foundation, New York. © 2017 Robert Rauschenberg Foundation

 

Il compendio necessario per comprendere Robert Rauschenberg: Among Friendsè costituito dalle pubblicazioni realizzate per l’occasione dal MoMA: l’imponente catalogo e un nuovo volume dedicato ai 34 disegni di Rauschenberg per l’Inferno di Dante. Il catalogo, riccamente illustrato e contenente molteplici materiali d’archivio, esamina l’intera produzione dell’artista e il suo uso indifferenziato di media diversi. A cura di Leah Dickerman e Achim Borchardt-Hume, presenta ben sedici contributi di nuovi scrittori emergenti e di eminenti studiosi, tra cui Yve-Alain Bois, Andrianna Campbell, Hal Foster, Mark Godfrey, Hiroko Ikegami, Branden W. Joseph, Ed Krčma, Michelle Kuo, Pamela M. Lee, Emily Liebert, Richard Meyer, Helen Molesworth, Kate Nesin, Sarah Roberts e Catherine Wood. Robert Rauschenberg: Thirty-Four Illustrations for Dante’s “Inferno” è invece un nuovo volume dedicato a questa preziosa serie di disegni presente nella collezione del museo. Il volume è edito in sole 500 copie che contengono il facsimile di ciascun disegno, rendendo così disponibile, per la prima volta dal 1964, l’intera serie in forma di edizione a stampa. A corredo dei disegni, il volume presenta interventi di due poeti del nostro tempo, Kevin Young e Robin Coste Lewis, in dialogo con la serie di Rauschenberg che viene approfondita in un saggio del curatore Leah Dickerman.

 

Copertina del volume Robert Rauschenberg: Thirty-Four Illustrations for Dante’s “Inferno” edito da The Museum of Modern Art, New York, 2017

 

Per coloro i quali avessero in programma un viaggio a New York, questa mostra potrebbe costituire una tappa imprescindibile per comprendere non solo l’opera dell’artista a cui essa è dedicata, ma anche l’arte degli anni Sessanta di cui Rauschenberg è stato un indiscusso precursore e un’indubbia pietra miliare.

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Al MoMA dal 21 maggio al 17 settembre 2017
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Picasso e il suo demone

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Jeder Mensch ist ein Künstler. Non credo potesse immaginare Joseph Beuys a che punto la posterità avrebbe adottato la sua celebre massima, secondo la quale, appunto, “ognuno è un artista”. Non certo nel senso da lui auspicato, e fatalmente impervio, della liberazione di una creatività che potesse non solo esercitarsi senza limiti, ma, tratto essenziale, fosse alla base di un nuovo patto tra umanità e cosmo, cui l’arte, ormai trasfigurata in “scultura sociale”, avrebbe conferito illimitate energie spirituali. Piuttosto, la creatività diffusa della nostra epoca sembra al contrario perversamente confermare i presupposti di quell’ordine alienante che per Beuys, e prima ancora per Nietzsche, costituiva la patologia originaria dell’uomo moderno. La convergenza, compulsiva, radicale, estatica, tra la natura spettacolare del neocapitalismo, i suoi nuovi strumenti di produzione e partecipazione immaginaria e cognitiva, la sua capacità di mobilitare e usare la spinta creativa individuale, ci attira sempre più in un territorio in cui i social networks rappresentano solo la seducente parte visibile di un immenso, cruciale sommovimento, in cui, avvertono i filosofi, ormai dissipata la distinzione tra lavoro e non lavoro, è la vita umana tutta a essere trasformata in valore economico.

 

Non è concesso più nutrire dubbi, d’altro canto, sul fatto che la febbrile produzione creativa nell’epoca della moltitudine abbia anche un inevitabile effetto degradante sulla pretesa dell’arte di conservare la propria antica, esclusiva capacità di dare visibilità a ciò che visibile non è ancora, di incarnare un momento aurorale, l’apparire denso di promesse di nuove configurazioni del sensibile. Nella sua condizione postmodernista e postmediale – vale a dire indipendente da supporti, tecniche, pratiche tradizionali –, l’arte-in-generale del nostro tempo, eterogenea, senza limiti né regole evidenti, rischia di apparire come un’attività genericamente creativa, il suo valore ridotto a mero rilevamento istantaneo della sua approvazione sociale, pragmaticamente assunta a indice unico del suo residuo prestigio, anche, o specialmente, laddove essa sembra farsi carico di “contenuti” politici in senso lato – narrazioni “resistenti”, archivi, memoria collettiva, il “comune”, ecc. – in funzione critica e decostruttiva.

 

Di fronte a questo paesaggio, in cui l’arte sembra vittima dell’indistinzione, da essa stessa istigata, con la non-arte – motivo questo essenziale della sua vicenda nell’ultimo mezzo secolo almeno –, sarebbe agevole assumere l’atteggiamento corrucciato e prevedibilmente reazionario di chi lamenta la perdita delle “buone pratiche”, della dubbia “verità del fare”, o anche quello, più benevolo, di quanti, e sono molti, si limitano a comporre tassonomie programmaticamente indifferenti a qualità e intensità dei loro oggetti. La sfida sullo sfondo del recente saggio di Gabriele Guercio, Il demone di Picasso. Creatività generica e assoluto della creazione (Quodlibet, pp. 252, euro 18), è al contrario precisamente questa: interrogare l’indistinzione, l’anything goes che caratterizza le esperienze artistiche più recenti da una prospettiva insieme di critica esigente e di penetrazione storica, con una disposizione intellettuale capace di affrontare con coraggio la contraddizione e tenti di rileggerla in modo produttivo, senza sottrarsi all’onere di una paziente ritessitura teorica e genealogica. 

 

Sarebbe stato scontato attendersi come punto di partenza di un simile percorso la figura di Marcel Duchamp, la cui invenzione maggiore, il readymade (il più famoso dei quali, l’orinatoio di porcellana ribattezzato Fountain, ha appena compiuto cento anni: doppiozero gli dedica lo speciale Duchamp 100), è all’origine della radicale trasformazione del campo artistico a partire dagli anni cinquanta dello scorso secolo. Invenzione grazie alla quale un’opera può fare a meno di ogni apporto manuale da parte dell’artista e condensarsi in un atto di natura mentale – nel puro enunciato “questo è arte” –, aprendo una nuova, illimitata prospettiva di riconfigurazione estetica dell’esperienza quotidiana. È invece con Pablo Picasso che Guercio decide di misurarsi, il Picasso sfacciatamente eclettico, smodato nel suo inventare e reinventare stili, complice della propria trasformazione in figura di culto – l’Artista geniale – ad uso dell’immaginario mediatico, in apparenza disponibile a ogni sorta di travestimento, esibizione o autoparodia, ma anche tenacemente dedito a inseguire il prodigio di una creazione assoluta, che si misura alla pari con la creatività generica ma è qualitativamente differente da essa.

 

Picasso, Natura morta con sedia, 1912.

 

Nel libro, l’opera di Picasso è analizzata anzitutto in un episodio marginale ma rivelatore, una fotografia del 1913 di un effimero assemblage realizzato nell’atelier al 242 di Boulevard Raspail, in cui i confini tra realtà e finzione, tra “dato” e “creato” sono consapevolmente violati e rimescolati, così da produrre una sorta di perpetua, caotica oscillazione: di fronte a una grande tela o un foglio bianco sul quale è abbozzata una figura umana che sembra reggere una chitarra vera con “braccia” realizzate con ritagli di giornale, compaiono un tavolino, una bottiglia, una pipa, ecc. anch’essi veri. In questa precoce “installazione”, che dal piano pittorico si espande nello spazio reale, sembra così dichiararsi una vera e propria impossibilità di stabilire un netto confine tra segni e cose, tra spazio reale e spazio della rappresentazione. Come pure accade nei collage cubisti dello stesso periodo –“macchine per vedere”, come le chiamò Jean Paulhan–, nella fotografia si afferma l’impossibilità di stabilire a priori una differenza tra dimensione artistica e non artistica. C’è però in tutto questo, scrive Guercio, un tratto profondamente destabilizzante: nella “incontrollabile labilità” della relazione tra arte e non-arte non solo manca un principio unificatore, malo stesso artista appare marginalizzato, il suo ruolo diminuito. In altre parole, il punto di origine dell’opera non è più il mondo interiore, l’occhio, la mano, dell’artista, quanto piuttosto il casuale assemblarsi di fronte a un osservatore, privilegiato quanto occasionale, di frammenti di mondo.

 

Questa modalità, che esorbita tanto dal paradigma romantico di un’arte “assoluta” quanto dal possesso di specifiche, selettive capacità tecniche ed espressive, è precisamente ciò che nel saggio viene definito “Creatività Generica”, non legata cioè a regole o tecniche predeterminate ma connessa piuttosto da un lato a un fondo antropologico – la “disposizione creativa” propria di ogni cultura – e dall’altro alla spinta espansiva e amalgamante propria in particolare della moderna cultura occidentale. Nella foto-installazione di Picasso, in altre parole, assistiamo alla nascita  di un nuovo “modo di essere e di fare aperto a tutti”, indipendente da uno specifico savoir faire e dalla stessa personalità dell’artista, immerso in quella dimensione transindividuale riassunta dal famoso concetto marxiano di “general intellect”: un’arte di tutti e per tutti che annuncia l’arte “globale”, postcoloniale e transculturale del nostro tempo.

                                 

Ma questa forma di creatività, è uno dei passaggi più interessanti del saggio, contiene al suo interno un’insidia: dischiude all’artista possibilità potenzialmente illimitate, attraverso le quali conquistare una capacità creativa in competizione con la stessa natura, ma al tempo stesso si rivela una tentazione demoniaca, una spinta a “produrre” che si accompagna a un’incapacità di decidere, a una indistinzione, e, più a fondo, a un sostanziale allineamento con uno status quo fondato sulla produzione e il consumo “creativi”. L’ideologia del marketing e il credo nel generico, sostiene Guercio, vanno di pari passo: creatori e consumatori creativi sono entrambi funzionali all’economia della conoscenza post-fordista, in cui si realizza perversamente l’antica promessa comunista della fine del lavoro come attività meramente ripetitiva e alienante.

 

Picasso, Composizione nell'atelier, 1913.

 

Approfondendo il parallelismo arte-lavoro –con la contestuale, e assai opportuna, contestazione di certe ottimistiche letture postmarxiste, da Negri in avanti, che vedono nella creatività generica, da un lato, e nella diretta politicizzazione dell’arte, dall’altro, due agenti “rivoluzionari” in grado di scardinare l’ordine neoliberista – Guercio può rileggere contropelo quanto nella vulgata postmodernista appare solitamente come un percorso di emancipazione: la libertà, l’anarchia, il deskilling, la spinta egualitaria, l’apertura al generico dell’arte tra secondo Novecento e XXI secolo.

 

Capiamo meglio a questo punto perché Picasso, e non Duchamp, appaia a Guercio la figura chiave per ridefinire le possibilità dell’arte nell’epoca del generico. Laddove per Duchamp la disseminazione (a determinate condizioni) del concetto unitario di arte nella “cosa qualsiasi” coincide con la sua costante riaffermazione (anche in assenza di creazione: Duchamp come curatore di mostre altrui, come alter ego femminile, come respirateur), per Picasso l’operazione artistica si misura direttamente con la propria deriva e declassamento in pratica anarchica, in lavoro “morto”, e insieme con la necessità di rivendicare una oggettività a se stesso, come “artefice e custode di ciò che non evolve né deriva da un’evoluzione” ma emerge all’improvviso, dal nulla.

 

Lo status antievoluzionistico dell’arte – tema in parte già affrontato da Guercio nel suo libro precedente, L’arte non evolve. L’universo immobile di Gino De Dominicis (Johan & Levi, Monza 2015, recensito qui su doppiozero) – appare dunque uno degli aspetti chiave dell’oeuvre di Picasso. Al tempo stesso però, destituendo il tipico schema storico-artistico di una ordinata successione di stili, in essa si apre una dimensione ancora diversa dell’esperienza di creazione. Mettendo al centro del proprio operare la cosalità dell’opera, facendone il “recipiente di intensità, dinamiche e qualità immateriali” della vita stessa, Picasso si addentra, sostiene Guercio, in una dimensione in cui si fondono immaginario e corpo, visione e desiderio, esistenza e immagini. L’obiettivo non è solo mostrare l’arte come qualcosa di vivente, un’aspirazione che attraversa del resto l’intero spettro dell’avanguardia modernista; piuttosto, l’ambizione è conservare le acquisizioni fondamentali della creatività generica, la libertà conseguita nell’esperimento del 1913, e allo stesso tempo esaltare la qualità e specificità dell’opera d’arte, il suo essere senza precedenti, senza cause dirette, senza paternità accertabile.

 

Il luogo elettivo, il recipiente alchemico in cui si realizza quella che appare forse la sfida più impegnativa affrontata da Picasso è l’incontro tra l’artista e la modella dell’atelier. Tema ossessivo, ostinatamente rivisitato lungo i molti decenni del percorso picassiano, l’incontro è anzitutto registrazione di un’esperienza amorosa, e anzi erotica in senso proprio, in cui la creazione si manifesta come una sospensione del tempo ordinario, in cui viene tentato il concepimento di un’“opera viva” e quindi di penetrare l’enigma, interamente materialistico, di una origine senza divinità, senza trascendenza, senza regola, senza radici.

 

In numerose raffigurazioni del tema – ad esempio nella grande tela del 1926 Le peintre et son modèle, o in quella dallo stesso titolo del 1928 – Picasso introduce ciò che Guercio, in alcune tra le pagine più difficili e originali del suo saggio, chiama “l’opera dentro”, vale a dire il quadro (o la scultura) nel quadro, che in alcune versioni viene direttamente osservata dai due protagonisti. La scena, come già osservato ad esempio da Michel Leiris, non è autobiografica bensì archetipica, è un setting dal valore emblematico. Picasso vi ritrae infatti non tanto sé stesso quanto il motivo, insieme mitico e storico, dell’artista al lavoro, il cui frutto, l’opera dentro appunto, è imprevedibile e imprevista, non riconducibile alla mera volontà dell’autore, e nemmeno, si potrebbe aggiungere, agli effetti di tecniche, come l’automatismo surrealista, che si propongono di attingere oltre, o sotto, l’attività consapevole. Ciò che nasce, che viene contemplato da artista e modella – e si riflette dapprima nello sguardo dell’artista-spettatore che abbraccia dall’esterno, facendola apparire, tutta la scena e alla fine in quello di tutti noi –, è invece una “certa quantità di non essere”, qualcosa che sfugge, che si sospende nel quadro. Qualcosa che esiste sul confine tra rappresentato e rappresentazione, ma partecipa di un’origine esterna, il corpo naturale della modella, pur essendo questo già metamorfosato sulla superficie pittorica. Nella scena primaria dell’atelier l’introspezione di Picasso rivela in altre parole la distanza, la separatezza insanabile che si apre tra i corpi e le loro immagini, ma al tempo stesso dichiara l’arte come forza in grado di abitare questo iato, di percorrere il regresso infinito che si apre tra individuo e mondo, tra creazione e materia, tra artista e opera.

 

Picasso, Le peintre et son modèle, 1926. 

 

Nella dialettica tra creazione “assoluta” e creatività generica, tra l’artista come produttore e l’artista come demiurgo (ne ho parlato ne L’immaginazione selvaggia) Picasso addita dunque alla nostra epoca una possibilità diversa, quella di sottrarsi al relativismo della creatività generica, e alla bulimica indifferenza dello spettacolo che essa alimenta, senza richiudere il confine tra arte e non-arte, senza rifugiarsi nel “mestiere”. Un’esperienza irriducibile a ogni altra che passa al tempo stesso nelle menti e nei corpi e manifesta una mancanza, un vuoto, un ignoto, la scoperta della differenza con un “altro da sé” altrove costantemente rimosso, per ridefinire lo spazio di una possibile eteronomia dell’arte. Muovendosi all’indietro, verso le fonti del modernismo, il saggio di Gabriele Guercio ambisce anche a formulare una critica della narrazione dominante che affronti il nodo attualissimo e scottante della convergenza tra creatività e modi di produzione, paradigmi sociali e culturali dell’attuale fase del capitalismo, cercando di superare implicitamente tanto la riduzione dell’arte a momento di una più vasta, anonima e pervasiva cultura visiva, quanto i tentativi di riattivare un potenziale politico dell’arte a partire da un investimento che resta perlopiù basato sul “contenuto” e su una fragile (e profondamente impolitica) sospensione del giudizio sul potere estetico dell’opera. Con ricchezza concettuale e un’intensità di argomentazione a tratti visionaria, il libro ritrova così un potenziale troppo spesso eclissato della storia dell’arte, la sua capacità cioè di interrogare le opere non solo come documenti di forme di vita trapassate, ma come tracce vive e insieme profezie di umanità potenziale.

 

Una versione più breve di questo articolo è apparsa su Alias.

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Postcards from South Africa

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A Short History of South African Photography, by Rory Bester, Thato Mogotsi and Rita Potenza, is an exhibition hosted by Fotografia Europea XII at the Cloisters of St. Peter, Reggio Emilia, to celebrate the 40thanniversary of the agreement (June 26, 1977) between Reggio Emilia and the African National Congress, and the centenary of the birth of Oliver Tambo (1917-1993), leader of the anti-apartheid movement and the ANC.

Chronologically ordered, it is a selection of images that traces the history of South Africa from the dominion of the British Empire to present day. The shots come from archival collections (Die Erfenisstigting Archives, UWC Robben Island Museum Mayibuye Archive, BAHA, Transnet, Times Media, Independent Media Archive), museums (Museum Africa, McGregor Museum, Smithsonian Institution), and artists. It is notable how the authorship of individual photographers gains more and more importance as the show moves forward, progressing closer to the present day. This also marks a shift from a photograph that is historical documentation to one that is historical metaphor.

 

It is a surprise to me that it is still preferable to devote space to the reconstruction of the memory of a former British colony, rather than to the Italian colonial history, especially at a time in which the racist connotations of the word ‘integration’ increase in volume and quantity. An interesting ‘oversight’ is on the ground floor of the cloisters where, at the entrance of the Berengo Gardin exhibition, a large picture of the artist's studio also features African masks from his collection. I call that an ‘oversight’ because, while I do not blame the curators of Berengo Gardin's exhibition, I think it is particularly symptomatic of the slow evolution of the decolonization mindset within our geographic boundaries, as proved by the (avant-garde?) spoils of past Cannibal Tours.

 

The exhibition A Short History of South African Photography is an example of how it is possible, working with archives, to not only present but absolutely construct and select a story and a memory that are not necessarily collective. In fact, as can be expected, almost every shot up to the 2000s was made by white photographers. Indeed the show's viewers, myself included, are all white (which is quite common in Italy).

 

Jodie Bieber, The Silence of the Ranto Twins, 1995, Courtesy the Artist.

 

Opening the show is a shot by Abe Goldstein about a miners' dance in Johannesburg in 1920. Many visitors to the South African mines in the 1920s were invited to watch these traditional dances performed by African miners. Photos of these performances for white visitors were common in that period and would appear on postcards, and business and tourist brochures. In the Goldstein shot, it is not clear whether it is a staging or spontaneous act. In this way, a photograph is capable of censoring the memory itself: the colonial gaze is inherent in everything that is not seen and which remains hidden.

 

Photography is not only a form of testimony, but is also, above all, a form of interpretation of history, as can be seen from the comparison of two images dated 1928: in the first, the South African women's national swim team consists of white women in either a swimsuit or uniform; in the second, The Waterbearers of the Venda Tribe of Sibasa are portrayed by Irish photographer Alfred Martin Duggan-Cronin. The connection of the two photographs reveals an ethnocentric prejudice: in seeking the nakedness of primitive man, Duggan-Croninimmortalizes it from the "objective" point of view of the European ethnographer.

 

Coming from Museum Africa is a photograph taken in Pretoria in 1938, depicting A Parish Priest with Two White Men Dressed as Zulu Warriors During the Celebrations of the Great Trek Anniversary, the "great migration" of the Boer colonists (in Dutch, "farmers") who, in rebellion against the policies of the British rule established in 1835, left Cape Colony and headed north, where they founded some republican communities beyond the Orange River, across into Natal and beyond the Vaal River. This carnivalesque image reminds us that, when slavery began in 1658, the first schools were run by confessional churches, and the fact that one of the consequences of the Great Trek was the establishment of the apartheid regime. Thus, a disconnection can be seen between the documentation and representation of apartheid: by focusing on minor details, in this case almost humorous, a vast part of reality is left outside the visual field of the images.

 

In 1949, the Voortrekker Monument in Pretoria, designed by Gerard Moerdyk (1890-1958), a great admirer of Mussolini, was inaugurated. To represent the event, celebrated in the city’s amphitheater, the exhibition curators chose a shot from the Die Erfenisstigting archive, where the separation between a white and a black crowd is highlighted. The inaugural ceremony held on December 16, 1949, commemorates the triumph of Voortrekkers over the Zulu inthe Battle of Blood River in 1838. It is an attempt at reconciliation between British and Afrikaner settlers.

 

In a photo on the opposite wall it is possible to see three well-dressed black men playing a sort of tic-tac-toe game on a sidewalk. Behind them, on the wall of a building, are the words "We won’t move." This photo, titled Waiting to Commence Forced Removals, was shot at Sophiatown around February 9, 1955, when D.F. Malan sent 2,000 police armed with guns and rifles to destroy Sophiatown, and remove and relocate its 65,000 inhabitants to Meadowlands. The National Party set up a residential-reserve enclosed compound with homes devoid of toilet, water and electricity. What is emerging also here is therosy and glossy portrayal of an episode of mass racism. Instead of the dead and the deportees, the photographer decided to capture three well-dressed men playing. In fact, even in fascist colonial photographs, the "indigenous" rarely worked.

 

Jürgen Schadeberg, We won't move, Sophiatown , 1955

 

However, I find it problematic that an image like this is "left as is" without accompanying explanations that mention the Natives Resettlement Act of 1954 by the National Party, or that suggest the disguised violence in a propaganda image. One may think the fault lies with the ignorance of those who cannot decode an image because they do not know the history of South Africa. But what if this happens within an exhibition that aims to illustrate a Short History of South Africa? With what impression can a visitor leave such exhibition if complete contextual information is not provided? Probably with the same impressions that come from a honeymoon safari or hunting trip between whites to South Africa.

 

Eli Weinberg is the photographer of We Stand by Our Leaders, portraying a crowd near Drill Hall, December 19, 1956, on the opening day of the Treason Trial of Nelson Mandela and other ANC leaders. Roads outside the courtyard are crowded with thousands of demonstrators. In the shot, a row of people of color, sympathetic to the accused, are seen in a polite and dignified manner. Men and women carry signs, "We Stand by Our Leaders"; among them, a smiling white baby in shorts and with a wristwatch stands out. He is the son of the photographer.

 

Eli Weinberg, We stanbd by our leaders, 1956, courtesy Times Media Collection.

 

Photographs like this, taken in public, show a form of complicity or obligation, mediated by the relationship between the photo’s subject and the white photographer: the apartheid system — with its immense resources of physical intimidation, bureaucratic control, and psychological coercion — causes the opposition, under the control of police and soldiers, to remain "in their place." The rigidity of the poses conveys an equally rigid interpretation of the event, time, and aesthetic choice of the photographer, opening up a reflection on the complicity of photography in building an archive.

 

Eli Weinberg, Police check passes and parcels, 1961, Courtesy UWC, Robben Island Museum, Mayibuye Archive.

 

Women taking a break on the lawns in front of the Union Buildings, Women's March, is the photograph chosen to symbolically represent the year 1956. Twenty-thousand women organized a march to Pretoria’s Union Buildings to protest the proposed amendments to the Urban Areas Act. They left signed petitions, addressed to Prime Minister Strijdom, who was sympathetic to Afrikaner nationalism, at his office doors. A protest chant composed for the occasion became a symbol of the women's struggle in South Africa: "Strijdom, Wathint 'abafazi, wathint' imbokodo" ("Strijdom, now you have touched the women, you struck a rock”). In the photograph, women take a break sitting on the lawns in front of the Union Buildings; they do not sit on the empty benches because they are reserved for Europeans. The archive is also an area of uncertainty in which the sense of guilt and atonement expresses the status of the privileged.

 

The first color image you encounter is At Durban: But the rickshaw puller is from Zulund. In the photograph, a Zulu man in traditional costume brings a white couple on his rickshaw to Durban town, one hour away by car. The three are posed smiling, looking at a fourth man who seems to be talking to them cordially, a few steps from the means of transport. Zulu men who ride rickshaw can still be found close to the Durban seafront.

 

Since 1950, colonial fascism has also been expressed through the law of citizen registration, which established the creation of registers on which the racial details of the inhabitants must be recorded. Each person is classified as "white, mixed, or indigenous, as the case may be." In the photo by David Goldblatt, Afternoon tea being served to two men repairing a car on a sidewalk in Fairview, taken in Johannesburg in 1965, the racial inferiority of a black woman serving tea to two white men is clearly shown.

 

David Goldblatt, Tè del pomeriggio servito a due uomini che stanno riparando un’auto su un marciapiede a Fairview, 1965.

 

The exhibition continues with the funeral of “The Cradock Four” and the struggles for non-racial politics through boycotts.

 

David Goldblatt, After their funeral a child salutes the Cradock Four, Cradock, Eastern Cape, 20 July 1985, 1985, black and white photograph.

 

The narrowest passageway of the exhibition is dedicated to 1994 and the "unconditional" release of Nelson “Madiba” Mandela, when the African National Congress (ANC) took office and Nelson Mandela was elected as the first president of a post-apartheid nation. It seems that the curators, opting for this setup, wanted to highlight the cosmetic policy of the move from a racist state to a confederal democracy, which has not disassociated the new South Africa from the colonial capitalism that has governed the country since the 16th century. This seems to be confirmed by 21st century photographs that are more evocative than actual documentation of events.

 

A photograph taken by George Hallett in Cape Town in 1997, Jeffrey Benzien demonstrating the wet bag method of torture at a hearing of the Truth and Reconciliation Commission, portrays a security officer showing this method of torture to the Commission for Truth and Reconciliation. The reconciliation of past liberation movements and racism put into action by the Commission for Truth, led by former Archbishop Desmond Tutu, reflects the spirit that animates the new South Africa. Among those who have obtained amnesty for crimes committed before April 1994 are assassins of members of the ANC and other political opponents, right-wing terrorists, members of the Conservative Party and of the Boere Kommando group. This feeling of reconciliation is also fueled by the relationship between white European imperialist settlers and a small corrupted"colored" and Asian bourgeoisie who work with colonial multinational companies.

 

George Hallet,  Jeffrey Benzien demonstrating the wet bag method of torture at a hearing of the Truth and Reconciliation Commission,  Cape Town, 1997.

 

In South Africa today, white people control almost the whole of the economy, directly and indirectly, and the majority of the excluded population functions as an internal neo-colony. In Italy, the policy of racial integration also translates into the opening of refugee camps, or parts of territory outside the normal legal order, where the legal status of the refugee is questioned (due to the discontinuity between birthplace and nationality). The presence of an exhibition in Italy in which apartheid is censored by the eyes of white colonists, while the last ten years of South African history are documented by historic metaphors of photographers of color, is an evidence of the self-righteousness with which history is turned into an embellished series of aesthetically respectable postcards.

 

Translation by Laura Giacalone.

 

A Short History of South African Photography, by Rory Bester, ThatoMogotsi and Rita Potenza. Fotografia Europea XII, Cloisters of St. Peter, Reggio Emilia, from May 5 to July 9, 2017.

 

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La telesocietà e i sensi

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Prosegue la riflessione attorno al tema delle immagini e della violenza al centro del dibattito svoltosi a Torino il 15/16 marzo. Come dobbiamo e vogliamo rapportarci a tutte queste immagini che pervadono e ossessionano la società occidentale? Che effetto ha il predominio dell’immagine sulla costruzione e tradizione del nostro canone culturale? È possibile formulare un’etica dell’immagine per il XXI secolo? Doppiozero pubblica oggi un'intervista a Peter Weibel, direttore del Centro delle arti e della tecnologia dei media di Karlsruhe.

 

Ama chi ti è più lontano come te stesso!

 

Come ben sappiamo, i nuovi media producono veri e propri sovvertimenti nel nostro concetto di realtà, e addirittura nella percezione del nostro stesso corpo. In che misura questi cambiamenti della realtà sono responsabili anche di profondi cambiamenti della nostra psiche e dello spazio pubblico? 

Fino ad oggi la realtà veniva costruita dal soggetto mediante due forme della percezione sensoriale: da una parte, mediante i sensi della vicinanza, vale a dire il soggetto poteva toccare, percepire e odorare qualcosa, dall'altra parte attraverso i sensi della distanza, gli occhi e le orecchie. Nella zona dell'accordo tra tutti i sensi, vicini e lontani, si costruiva il reale. Esisteva perciò un equilibrio tra la percezione sensoriale ravvicinata e quella dalla distanza. 

Da duecento anni o poco meno esiste, grazie alla tecnologia elettromagnetica, una nuova gerarchia: si è affermata la supremazia dei sensi della distanza. L’uomo ha voluto rafforzare i sensi della distanza preferendoli ai sensi della vicinanza. Vale a dire abbiamo dato vita ad una sorta di 'telesocietà' mediante fax, telefono, tele-visione, internet, e con ciò abbiamo allargato a tal punto il gap tra i sensi della vicinanza e quelli della lontananza che i primi non hanno più alcuna importanza. 

 

Le domande sono state poste dal prof. Federico Vercellone dell’Università di Torino e da Simone Lenz.

 

Che tipo di rapporto ci può essere tra sfera pubblica e sfera privata se la dicotomia tra interno ed esterno si riduce progressivamente per effetto delle immagini? 

 

Mi permetta di fare un esempio 'terra terra': ciò che la gente chiama amore o erotismo non è altro che il classico palcoscenico, o per meglio dire il campo di battaglia dei sensi della vicinanza, ovvero il toccare la superfice della pelle. Oggi però sono graditi anche i surrogati mediati dai i sensi della lontananza ed è questo ciò che oggi uno spettatore vede mediante la televisione, il sesso telefonico o attraverso youporn. È diventato un osservatore di primo ordine. Abbiamo edificato in questi ultimi duecento anni una telesocietà, e in questo regime dei sensi della lontananza è l'immagine ad avere un ruolo centrale. Lo spettatore vede il mondo con gli occhi di qualcun altro. Lo spettatore dice: guardo la televisione, ossia ‘tele-vedo’. In realtà non vede un bel niente, i suoi occhi sono stati addirittura espropriati di questa funzione, quanto meno, non sono là dove le cose accadono. Là c'è un altro con gli occhi di una telecamera. Lo spettatore vede il mondo alla televisione con gli occhi di qualcun altro. E un altro vede il mondo con gli occhi di una telecamera. Viviamo insomma in un regime 'scopico'.

 

Se l'identità dell'individuo si costituisce sempre di più grazie alle immagini, se essa si 'comunica' attraverso le immagini, come si modifica di conseguenza il sistema di valori che regola il comportamento dell'individuo nella sfera pubblica?

 

Noi non disponiamo ancora di una morale che regoli i sensi della lontananza. Nella Bibbia si dice: non desiderare la donna d'altri o le cose d'altri. In realtà da tempo il comandamento dovrebbe suonare: ama chi ti è più lontano – non il tuo prossimo – come te stesso. 

L’interpretazione dei dieci comandamenti privilegia i sensi della vicinanza – per migliaia di anni siamo stati fatti per quei sensi. Oggi possiamo guardare al di là della collina e vedere le nuvole. Quindi oggi viviamo in una realtà costruita dai sensi della distanza e crediamo di poter controllare questo mondo seguendo le regole dei sensi della vicinanza. 

 

Che tipo di relazione potrebbe affermarsi in un contesto di questa natura tra produzione di immagini, etica e diritto?

 

Anche i sistemi giuridici si sono formati a partire dai sensi della vicinanza. 

Quando vengono fotografate delle opere d’arte non si cita il fotografo. Se però, sono così abile da ridurre in cenere due interi grattacieli, teoricamente avrei il diritto di essere citato come autore, invece in questo caso si fa il nome del fotografo. Sono due posizioni che si contraddicono. Non abbiamo ancora imparato a distinguere tra artefice e autore. Anche nelle fotografie a carattere etnografico dovrebbero essere citati per nome i danzatori. Il diritto civile questo non l’ha ancora capito. Nella nostra società avida di immagini domina l’autore e l’artefice viene ignorato. Questo è il primo dei problemi. Se sto scattando una foto in cui una persona è sotto la minaccia delle armi, sono di fronte a una scelta – intervengo o fotografo? 

 La dipendenza dalle immagini ci porta a risolvere un conflitto etico in modo non umano. 

L’immagine risparmia all'uomo la fatica dell'azione. Già nella Bibbia c’è scritto, li riconoscerai dalle loro azioni. La credulità iconica è l’ultimo atto sacrale, l’ultimo residuo di religione – come prima della Riforma luterana. 

Ciò detto, la maggior parte delle immagini è comunque una messa in scena. 

Ma si tratta di elementi di prova giuridicamente validi? No, i tribunali non riconoscono alla fotografia un carattere documentale.

 

Lei ha sempre postulato una stretta relazione tra arte e scienza e ha inteso l’arte come una forma di conoscenza, cioè le ha attribuito una valenza epistemologica. In che modo le nuove tecnologie modificano questa forma di conoscenza?

 

Ad esempio è assurdo che Andreas Gursky, che crea le sue immagini al computer, venga considerato come appartenente alla tradizione della “scuola del documentario” di Düsseldorf. Non si sono ancora esaminate a fondo le premesse epistemologiche dell’immagine. 

L’arte, purtroppo, si è affidata al regno dei sensi della vicinanza. A iniziare l’osservazione anatomica fu per altro già Leonardo da Vinci, il cui Trattato della pittura segna la fondazione del carattere scientifico della pittura. Il pittore avrebbe a disposizione i mezzi della raffigurazione – punto, linea, superficie – grazie ai quali rappresenta la forma visibile degli oggetti

Leonardo sapeva però guardare sotto la superficie. Ora disponiamo di 'scalpelli morbidi', microscopi, ultrasuoni il che significa che la scienza ha ridefinito l’espressione “visibile”. Utilizziamo apparecchi per vedere più lontano di quanto ci consenta l'occhio umano. La scienza ha soddisfatto le aspirazioni di Leonardo da Vinci. I pittori invece si sono fermati all’occhio nudo. La scienza ha allargato il campo del visibile – ad esempio grazie alla tomografia computerizzata – ha reso visibile l’invisibile. 

L’arte ha abdicato al suo ruolo, non è più un sistema in grado di spiegare il mondo. 

Grazie a Dio ci sono oggi delle controtendenze. 

Gli artisti hanno oggi a disposizione strumenti simili a quelli dei medici, e in questo modo l’arte e la scienza si stanno riavvicinando. 

Ciò significa che sta iniziando un nuovo Rinascimento, che, come è tipico, viene osteggiato dai pittori e dal mercato. 

Allo stesso modo si diceva un tempo che la fotografia non era arte.

Basti pensare che nel 1936-38 Man Ray pubblicava uno scritto per accompagnare le sue fotografie dal titolo Man Ray: La Photographie n'est Pas l'Art, perché ne aveva le tasche piene. Negli anni ’60 tutti dicevano che la combinazione dell’arte con i media non era arte. Per questo motivo si è cominciato a parlare di opere e non di opere d’arte.

Quando nel 1989 fondai l’’Istituto per i nuovi media’ presso la Städelschule di Francoforte sul Meno, ci furono pittori che mi dissero: “Lei porta lo spirito meccanico nell’arte”. A cui potevo solo replicare “se lei è contrario allo spirito meccanico, scenda sotto (nello Städel) e butti via il pianoforte”. 

 

Uno dei motivi ricorrenti nella sua opera è la critica all’importanza crescente del libero mercato nell’interpretazione dell’arte e della sua rilevanza pubblica. Che ruolo ricopre l’economia nel giudizio estetico sulle opere e come può nuocere all’osservazione disinteressata?

 

Bisogna dare per assodato che per gran parte la storia della pittura è una storia di committenze. Da cui anche il bel libro di Svetlana Alpers Rembrandt’s enterprise (L’officina di Rembrandt). Oggi l’arte su commissione ha una valenza negativa. Quando è nata, dunque, l’idea dell’arte autonoma? I pittori accettavano incarichi e documentavano le vicende della chiesa o storie nobiliari, di poteri ecclesiastici, militari o aristocratici. Anche pittori di grande talento come Jan Vermeer e Diego Velázquez facevano parte di corporazioni di “artigiani-artisti”. 

Solo con la scomparsa del committente nel XIX secolo si instaura il libero mercato e l’artista si considera autonomo. Van Gogh non aveva committenze, quindi si è parlato per la prima volta di necessità interiore. 

Esclusi dal lucrativo e tradizionale Salon de Paris, nel 1884 per la prima volta gli artisti si riunirono in un “Salon Indépendant”.

In questo nuovo mercato sotto i tendoni valeva il motto: più scandalo uguale più visitatori. Così si spiega anche l’accusa rivolta a Manet di avere seguito il gusto delle masse con la sua Dejeuner sur l'herbe (1863). Effettivamente, si presentarono fino a 5000 visitatori e la borghesia andò a cercare là ciò che non poteva vedere a casa sua. Anche Cézanne imitò Ingres e dipinse odalische. Attraverso volgarità e oscenità si lucrò sul gusto delle masse e sul pubblico. Con buona pace dell'indipendenza. 

Poi fu necessario aumentare la dose e l’artista che si considerava un anti-bohémien cercò di stupire i borghesi: “épater les bourgeois”, si diceva in poesia – una sgradevole sottomissione dell’artista. 

Questo significa, quindi, che il mercato determinò una radicalizzazione. Si mostravano i colori assoluti o un quadro solamente in rosso, blu e giallo (Rodchenko, “Puro colore rosso, puro colore blu, puro colore giallo”,1921) – un programma riduzionista dunque. Vogliamo davvero un altro secolo di monocromia? Oggi la realtà è diventata così pressante, che ne dobbiamo prendere atto.

 

 

Insieme a Bruno Latour, Lei ha curato la rivoluzionaria mostra Iconoclash: Beyond the Image Wars in Science, Religion and Art e ne ha pubblicato il relativo catalogo. Condivide la sua tesi del fallimento della modernità? 

 

La Modernità è un programma riduzionista. Si pensi al titolo del famoso libro della Bauhaus pubblicato nel 1926 da Kandinsky: Punkt und Linie zu Fläche (Punto, linea, superficie). L’arte moderna non è arte astratta, è autorappresentazione dei mezzi della rappresentazione. È stato bandito l’oggetto e al tempo stesso, con Duchamp e la sua anti-arte, l’oggetto, il prodotto e la fotografia sono entrati nell’arte. 

L’intera arte moderna sottostà al paradigma della fotografia e ancora fino ai giorni nostri scambia l’artefice con l’autore. Si tratta di continue violazioni del copyright.

Il fatto che artisti come Warhol, che non è mai riuscito a fare un quadro in vita sua – le sue sono serigrafie ritoccate – vengano definiti pittori dimostra il potere dell’incompetenza del mercato. Warhol prende immagini della stampa scandalistica, foto di celebrità e di fatti di cronaca e ha successo così. Anche Koons si serve allo stesso modo delle fotografie. Così l’arte diventa più volgare, tanto da suscitare oggi la domanda: questa è arte o la si può buttare via? Un tempo si ricercava il sublime, oggi si preferisce dichiarare sublime l’ordinario.

 

A proposito dell’iconoclastia e della distruzione sistematica delle opere da parte dello stato islamico: come si spiegano allora la consapevolezza dell'uso delle immagini e la crudeltà dell'iconografia?

 

Nella cultura occidentale i media hanno portato a termine il loro compito di indurre le persone a provare piacere di fronte alla crudeltà o a un numero possibilmente elevato di cadaveri. La messa in scena di immagini crudeli assicura successo all’ISIS. L’ISIS sa farlo meglio della televisione, hanno imparato da Hollywood, le fanno concorrenza sul suo stesso originario terreno, quello delle immagini. E aggiungono la pretesa che si tratti di immagini reali. 

Diffondono paura e panico con le immagini attraverso i social media. 

La guerra delle immagini è la continuazione della guerra con altri mezzi. Questo l’ISIS l’ha capito. Dobbiamo renderci conto che i media europei funzionano in pratica come il ministero delle immagini dell’ISIS. Quando lo Spiegel mette in copertina l’attentatore siriano che preparava un attentato in un aeroporto, l’attentatore ha già raggiunto il suo scopo. Più è malvagia l’azione, più velocemente raggiungi la copertina dello Spiegel.

Abbiamo lasciato prosperare intorno a noi una cultura dell’assuefazione al ripugnante. L’ISIS non è il Diverso: l’ISIS siamo noi, è il nostro specchio. L’idealizzazione dell’ordinario diventa l’idealizzazione del crudele. I media della comunicazione dovrebbero dire: non ci stiamo più. Uno può discutere se Bob Dylan abbia o meno meritato il Nobel, ma la cosa non occupa più di un misero quarto di pagina. 

I media sanno che il pubblico si è involgarito. Si può cambiare rotta solo se i cittadini stessi, i soggetti, dicono: questo non lo vogliamo. Ma questi sono tempi in cui, malgrado io non abbia nemmeno un televisore, grazie alla legittimazione data dallo Stato, sono obbligato a pagarci le tasse lo stesso e non ho quindi la minima possibilità di protestare contro la televisione. Tutti sono volgarizzati a forza. Questa è l’etica del brutto dei mass-media.

 

Hanno dunque perso il loro valore gli ideali universalistici della modernità, che ancora Habermas ha difeso strenuamente? Dobbiamo attenderci una regionalizzazione/tribalizzazione dei valori?

 

Il problema dell’universalismo è che trascura la questione dell’appartenenza.

Si sogna un cosmopolitismo in cui tutti saremo cittadini della terra. Ma già a partire dalla lingua, dal sesso, dall’appartenenza etnica, la nostra vita è costruita sull’appartenenza. E se sono incluso, sono anche al tempo stesso escluso. Noi sogniamo un club i cui membri siano l’umanità intera, ma non siamo disposti ad accettare tutti nello stesso club. Lingue, religioni, etnie ecc. costituiscono propri club. Chi non parla inglese non può essere membro di un club in cui si parla inglese. Questo è il sogno dell’universalismo. Possiamo dire soltanto che siamo tutti uomini. Ma se lei si trova al confine le chiedono: “Lei è tedesco o straniero?” 

Non si può essere contemporaneamente membro di tre chiese. Noi diffondiamo l’idea che la varietà nella natura, nella cultura e nella religione sia un valore (vitale). Chi parla tre lingue però non è meglio di chi ne parla una sola. È necessario conquistare l’equivalenza ma senza eliminare l’appartenenza. Il sogno del cosmopolitismo è invece di eliminare l’appartenenza nel segno di una cittadinanza cosmopolita e della pace perpetua (Kant).

Il mondo però è fatto di differenze, grazie a Dio! Se mi considero come appartenente ai grassi e non ai magri, allora devo dirmi – e non è facile – che i grassi valgono quanto i magri. Tendiamo in buona fede a smussare le differenze ma in realtà non ci riusciamo perché ci sono vittime e colpevoli, assassini e assassinati e dovremmo anche riequilibrare la tendenza della giurisprudenza, a preoccuparsi in certi casi più dell’omicida che della vittima. 

Ciò che possiamo ottenere è di riconoscere gli stessi diritti ad ogni appartenenza, se questa si conforma ai valori ideali che una comunità più ampia ritiene essere importanti. Non otterremo mai che tutti li ritengano giusti. Il sogno dell’universalismo e del cosmopolitismo si basa su illusioni, sull’abolizione dell’appartenenza. 

 

MUSEO 2.0: Osservati dalla specola dell’oggi, che potenziale di democratizzazione offrono i nuovi media? Lei si è occupato di questo tema, tra l’altro con il progetto YOU: Das Museum und Web 2.0 (YOU: Il museo e il web 2.0) e con il saggio Das Museum im Zeitalter von Web 2.0 (Il museo nell’epoca del Web 2.0), in cui annuncia in modo programmatico che spetta alle nuove tecnologie il compito di democratizzare l’istituzione ‘museo’.

 

Trent’anni fa c’erano una mezza dozzina di biennali, oggi ce ne sono 120. I musei erano un collo di bottiglia, dove si presentava sempre la stessa arte europea e nord-americana, la modernità classica e così via. Lentamente, si fanno ora avanti anche figure che prima erano relegate ai margini. Ma tale apertura ha ridotto l’importanza delle biennali. Questa forma di selezione delle elite non funziona più e qui le biennali hanno un ruolo decisivo. 

Vorrei avere visitatori che imparano e trasformano il museo in un laboratorio, dove ci si possa anche rilassare in una lounge, mangiare e bere qualcosa. Il museo deve diventare uno spazio di riflessione e conoscenza, in cui possano insegnare persone competenti. Dove si possa, ad esempio, anche imparare a programmare. Attraverso le nuove tecnologie abbiamo la possibilità di cambiare il comportamento del pubblico nel museo perché non guardi da mero turista le immagini come fossero trofei. Oggi ci sono opere d’arte interattive e tecnologie VR (Virtual Reality), nelle quali il visitatore si deve muovere e con le quali deve interagire. I musei dovrebbero diventare laboratori didattici in cui i visitatori ottengono per la loro visita un’offerta di formazione. 

 

Traduzione dal tedesco di Irene Gilodi.

 

NOTA BIOGRAFICA 

Nelle sue numerose conferenze ed articoli Weibel scrive di arte contemporanea, storia e teoria dei media, film, video-arte e filosofia. Come teorico e curatore, si impegna a favore di un’arte e di una storia dell’arte che tenga conto della storia della tecnica e della storia della scienza. Nel suo ruolo di docente presso diverse Università e di direttore di istituzioni quali la Ars Electronica a Linz, lo Institut für Neue Medien (Istituto per i nuovi media) a Francoforte sul Meno, e il Zentrum für Kunst und Medientechnologie, ZKM (centro per l’arte e la tecnologia dei media) a Karlsruhe, è soprattutto attivo sulla scena europea della computer art, anche attraverso conferenze, mostre e pubblicazioni. (Wikipedia)

Peter Weibel dirige da gennaio 1999 il Zentrum für Kunst und Medientechnologie di Karlsruhe.

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Goethe Institut Turin. Intervista con Peter Weibel
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Cartoline dal Sudafrica

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Jodie Bieber, The Silence of the Ranto twins,

English Version

 

A short history of South African Photography, a cura di Roby Bester, Thato Mogotsi e Rita Potenza, è una mostra ospitata da Fotografia Europea XII a Reggio Emilia presso i Chiostri di San Pietro, per celebrare il 40° anniversario del patto tra la città di Reggio Emilia e l’African National Congress (26 giugno 1977) e del centenario dalla nascita di Oliver Tambo (1917-1993), leader del movimento anti-apartheid e dell’ANC.

Ordinata in senso cronologico, è una selezione di immagini che ripercorre la storia del Sudafrica da dominion dell’impero britannico ai giorni nostri. Gli scatti, provengono da collezioni di archivi (Die Erfenisstigting Archives, UWC Robben Island Museum Mayibuye Archive, BAHA, Transnet, Times Media, Independent Media Archive), musei (Museum Africa, Mc Gregor Museum, Smithsonian Institution) e artisti. È da notare come l’autorialità dei singoli fotografi acquisti sempre più importanza a mano a mano che si procede nell’esposizione, ovvero che ci si avvicina ai giorni nostri. Ciò segna anche un passaggio da una fotografia che è documento storico a una che è metafora storica.

 

Mi stupisce che tutt’oggi venga preferito dedicare spazio alla ricostruzione della memoria di una ex colonia britannica, invece che alla parentesi coloniale italiana, specialmente in un momento in cui le venature razziste che la parola integrazione porta con sé aumentano di volume e quantità. Interessante svista, a tal proposito, è al piano inferiore dei chiostri, ove all’ingresso della mostra di Berengo Gardin è stata allestita a parete una grande immagine dello studio dell’artista che, fra le sue collezioni, ha anche quelle di maschere africane. La chiamo svista perché non ne faccio una colpa dei curatori della mostra di Berengo Gardin, ma perché credo che sia un particolare sintomatico della scarsa evoluzione di un pensiero di decolonizzazione all’interno dei nostri confini geografici, e i bottini di passati Cannibal Tours ne sono prova (avanguardista?).

 

La mostra Una breve Storia del Sudafricaè un esempio di come sia possibile, lavorando con degli archivi, non solo presentare ma soprattutto costruire, selezionandola, una storia e una memoria, non necessariamente collettive. Infatti, come ci si può aspettare, quasi tutti gli scatti fino agli anni Duemila sono stati realizzati da fotografi bianchi. D’altronde anche i fruitori della mostra, inclusa la sottoscritta, sono tutti bianchi (il che non è in Italia una grossa novità).

 

Jodie Bieber, The Silence of the Ranto twins,

Jodie Bieber, The Silence of the Ranto Twins, 1995, Courtesy the Artist. 

 

Apre il percorso uno scatto di Abe Goldstein avente per oggetto una danza di minatori nel 1920 a Johannesburg. Molti visitatori delle miniere in Sudafrica negli anni Venti vengono invitati a guardare queste performance di danze tradizionali di minatori Africani. Fotografie di questi spettacoli per visitatori bianchi sono, in questo periodo, comuni e appaiono su cartoline, brochure aziendali e opuscoli turistici. Nello scatto di Golastein non emerge chiaramente il fatto che si tratti di una messa in scena, ma sembra piuttosto un atto spontaneo. Emerge così il modo in cui una inquadratura fotografica sia capace di censurare la memoria stessa: lo sguardo coloniale è tutto ciò che non vede o che non consente di vedere.

 

La fotografia non è solo una forma di testimonianza ma anche, e soprattutto, una forma di interpretazione della storia, come emerge dal confronto tra due immagini datate 1928: nella prima la squadra nazionale femminile di nuoto sudafricana è composta da donne bianche in costume da bagno o in uniforme; nella secondaI portatori d’acqua della tribù Venda a Sibasa sono ritratti da Alfred Martin Duggan-Cronin. La vicinanza delle due fotografie mette in luce un pregiudizio etnocentrico attraverso il particolare interesse del fotografo irlandese Duggan-Cronin nel cercare la nudità dell’uomo primitivo, immortalandola dal punto di vista “oggettivo” dell’etnografo europeo.

 

Proveniente da Museum Africa è una fotografia scattata a Pretoria nel 1938 che ritrae un Parroco con due uomini bianchi vestiti come guerrieri Zulu durante le celebrazioni dell’anniversario del Grande Trek, la «grande migrazione» dei coloni boeri (in nederlandese «contadini») che, insofferenti all’amministrazione inglese iniziata nel 1835, lasciano la Colonia del Capo dirigendosi a nord, dove fondano comunità repubblicane al di là dei fiumi Orange e Vaal e nel Natal. Questa immagine carnevalesca ricorda che, quando nel 1658 cominciava la schiavitù, le prime scuole erano gestite da chiese confessionali, oltre al fatto che una delle conseguenze del Grande Trek fu proprio l’istituzione del regime dell’apartheid. Si verifica quindi uno scollamento tra la documentazione di episodi dell’apartheid apparentemente definitivi e la loro rappresentazione: la focalizzazione su particolari minori, o come in questo caso goliardici, offusca una vasta fetta di realtà lasciata all’esterno del campo visivo delle immagini.

 

Nel 1949 a Pretoria viene inaugurato il Monumento Voortrekker, disegnato da Gerard Moerdyk (1890-1958), grande ammiratore di Mussolini. Per rappresentare l’evento, celebrato nell’anfiteatro cittadino, i curatori della mostra scelgono uno scatto proveniente dall’Archivio Die Erfenisstigting, dove è messa in evidenza la separazione tra una folla bianca e una nera. La cerimonia inaugurale, il 16 dicembre 1949, commemora il trionfo dei Voortekkers nel 1838 sugli Zulu nella battaglia di Blood River. Si tratta di uno sforzo di riconciliazione tra britannici e afrikaner.

 

In uno scatto sulla parete opposta si vedono tre uomini di colore ben vestiti mentre giocano ad una sorta di tris su un marciapiede. Dietro di loro sulla parete di un edificio campeggia la scritta “We won’t move”. Questa fotografia, intitolata Waiting to Commence Forced Removals, è stata scattata a Sophiatown in prossimità del 9 febbraio 1955, giorno in cui D.F.Malan invia duemila poliziotti armati di pistole e fucili a distruggere Sophiatown e a rimuovere i suoi sessantamila abitanti per trasferirli in massa a Meadowlands. Lì il Partito Nazionale ha istituito un recinto abitativo-riserva le cui case sono prive di servizi igienici, acqua ed elettricità. Ciò che emerge anche in questo caso è la pulizia e il perbenismo laccato con cui viene illustrato un episodio di razzismo di massa. Invece dei morti e dei deportati, il fotografo ha deciso di immortalare tre uomini ben vestiti mentre giocano. In effetti, anche nelle fotografie coloniali fasciste gli «indigeni» raramente lavoravano.

 

Jürgen Schadeberg, We won't move, Sophiatown , 1955

 

Trovo comunque problematico il fatto che una immagine come questa venga “lasciata passare” senza spiegazioni di accompagnamento che ricordino l’emanazione dell’Atto di Reinsediamento dei Nativi del 1954 da parte del Partito Nazionale o che suggeriscano le violenze camuffate da una immagine di propaganda. Forse è colpevole solo l’ignoranza di chi non è in grado di decodificare una immagine perché non conosce la storia del Sudafrica? Ma se è la mostra stessa a volere illustrare una Breve storia del Sudafrica, con che idea può mai uscire dall’esibizione un visitatore se non gli vengono fornite delle chiavi di lettura complete? Probabilmente con la stessa idea che può farsi del Sudafrica durante un Safari in viaggio di nozze o durante una battuta di caccia fra bianchi.

 

Di Eli Weinberg è la fotografia We stand by our leaders che ritrae una folla vicina alla Drill Hall il giorno di apertura del Processo del tradimento il 19 dicembre 1956. Nelson Mandela e altri leader dell’ANC vengono arrestati in un raid e processati per tradimento. Le strade al di fuori della corte sono affollate da migliaia di dimostranti. Nello scatto una fila di persone di colore, simpatizzante con gli accusati, è in posa in atteggiamento gentile e dignitoso. Uomini e donne portano il manifesto “We stand by our leaders”; tra loro spicca un bambino bianco sorridente, in calzoncini corti e con un orologio al polso. È il figlio del fotografo. 

 

Eli Weinberg, We stanbd by our leaders, 1956, courtesy Times Media Collection.

 

Fotografie come questa, ovvero scattate in pubblico, mostrano una forma di complicità, o forma d’obbligo, mediata dal rapporto tra il soggetto ritratto e il fotografo bianco: l’apparato dello stato dell’Apartheid – con le sue immense risorse di intimidazione fisica, controllo burocratico e coercizione psicologica – induce l’opposizione, sotto il controllo di polizia e soldati, a stare “al proprio posto”. La rigidità delle pose si trasmette in una più altrettanto rigida interpretazione dell’evento, del tempo fotografato e della scelta estetica del fotoreporter, aprendo una questione sulla complicità della fotografia nella costruzione di un archivio.

 

Eli Weinberg, Police check passes and parcels, 1961, Courtesy UWC, Robben Island Museum, Mayibuye Archive.  

 

Women taking a break on the lawns in front of the Union Building, Women’s March è la fotografia scelta per rappresentare simbolicamente in mostra l’anno 1956. 20.000 donne organizzano una marcia presso gli edifici dell’Unione a Pretoria per protestare contro gli emendamenti proposti dalla Legge sulle Aree Urbane. Contro i lasciapassare presentano una petizione indirizzata a Strijdom, Primo Ministro simpatizzante per il nazionalismo afrikaner. Una canzone composta per l’occasione e diventata simbolo della battaglia delle donne in Sudafrica recita: “Strijdom, Wathint’ abafazi, wathint’ imbokodo” (“Strijdom, se colpisci una donna, colpisci una roccia”). Nello scatto donne in pausa sui prati davanti allo Union Building non siedono sulla panchina, vuota, perché riservata a europei. L’archivio è anche una zona d’incertezza in cui il senso di colpa e l’espiazione esprimono la condizione dei privilegiati.

 

La prima immagine a colori che si incontra è At Durban: But the rickshaw puller is from Zulund. Nello scatto un uomo Zulu in costume tradizionale, la cui popolazione si trova ubicata a un’ora di macchina dalla città di Durban, porta una coppia di fidanzati bianchi sul suo risciò. I tre in posa guardano sorridendo un quarto uomo che pare parli con loro cordialmente, a pochi passi dal mezzo di trasporto. Uomini zulù che trainano risciò si trovano tutt’oggi vicino al lungomare di Durban.

 

Dal 1950 il fascismo coloniale si esprime anche attraverso la legge sull’anagrafe della popolazione, la quale stabilisce la creazione di registri in cui devono figurare dettagli razziali per gli abitanti dell’unione. Ogni persona è classificata come «bianca, meticcia o indigena, secondo il caso». Nella fotografia di David Goldblatt Tè del pomeriggio servito a due uomini che stanno riparando un’auto su un marciapiede a Fairview, scattata a Johannesburg nel 1965, l’inferiorità etnica e di diritto della donna nera che serve il tè a due uomini bianchi è messa in luce chiaramente.

 

David Goldblatt, Tè del pomeriggio servito a due uomini che stanno riparando un’auto su un marciapiede a Fairview, 1965.


La mostra continua dando spazio al funerale dei “quattro Cradock” e alle lotte di boicottaggio per una politica non razziale.

 

David Goldblatt, After their funeral a child salutes the Cradock Four, Cradock, Eastern Cape, 20 July 1985, 1985, black and white photograph.

 

Al rilascio “senza condizioni” di Nelson “Modibo” Mandela, all’entrata in carica nel 1994 dell’African

National Congress (ANC) e all’elezione di Nelson Mandela a primo presidente di una nazione post-Apartheid è dedicato il corridoio più stretto della mostra. Sembra quasi che i curatori, optando per questa soluzione di allestimento, abbiano voluto evidenziare la politica cosmetica di passaggio da uno stato razzista a una democrazia confederale, che non disgiunge il nuovo Sudafrica dal capitalismo coloniale, che dal XVI secolo di fatto governa il paese. Il che pare essere confermato dagli anni Duemila, raccontati da fotografie che sono più evocazioni di eventi che documenti veri e propri.

 

Una fotografia scattata da George Hallett a Cape Town nel 1997, Jeffrey Benzien demonstrating the wet bag method of torture at a hearing of the Truth and Reconciliation Commission vede messo in scena il metodo della “borsa bagnata” davanti alla Commissione per la Verità e la Riconciliazione.

La riappacificazione tra ex movimenti di liberazione e razzismo messa in Atto dalla Commissione per la Verità, guidata dall’ex arcivescovo Desmond Tutu, riflette lo spirito che anima il nuovo Sudafrica. Hanno ottenuto l’amnistia, riconosciuta per i crimini commessi fino all’aprile 1994, assassini di membri dell’ANC e di altri oppositori politici, terroristi di destra, membri del Parlamento per i conservatori, membri del Boere Kommando. Genera un tale sentimento di riconciliazione il legame tra le classi dei coloni imperialisti bianchi ed europei e una piccola “borghesia colorata” ed asiatica, che, corrotta, collabora con le multinazionali dei coloni.

 

George Hallet,  Jeffrey Benzien demonstrating the wet bag method of torture at a hearing of the Truth and Reconciliation Commission,  Cape Town, 1997.

 

In Sudafrica oggi i bianchi controllano la quasi totalità dell’economia, in modo diretto e indiretto, e la maggioranza della popolazione esclusa ha la funzione di neocolonia interna. In Italia la politica di integrazione razziale si traduce anche nella apertura di campi profughi, ovvero in pezzi di territorio posti al di fuori dall’ordinamento giuridico normale, e in cui è messa in discussione la legalità del rifugiato (dovuta alla discontinuità fra natività e nazionalità). Presentare in Italia una mostra in cui l’apartheid è censurata dallo sguardo di coloni bianchi, mentre gli ultimi dieci anni di storia sudafricana sono documentati da metafore storiche di fotografi di colore, documenta anche quanto perbene sia la sensibilità di chi aggiusta il trucco alla storia.

 

A short history of South African Photography, a cura di Roby Bester, Thato Mogotsi e Rita Potenza. Fotografia Europea XII, Chiostri di San Pietro, Dal 5 Maggio al 9 Luglio 2017.

 

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C’è qualcosa nell’aria di New York che rende il sonno inutile

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Piero Gilardi. Natura espansa

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Simone Ciglia Il tema della natura è uno degli assi portanti del tuo lavoro di artista, e su questo vorrei incentrare il nostro dialogo di oggi. Per farlo, ho pensato di seguire le occorrenze del termine “natura” – e le sue evoluzioni – nella tua opera. Credo che la prima volta in cui la parola compare sia nel titolo Tappeti natura, una serie iniziata nel 1965. Opere ambigue, che vivono nella dialettica fra naturale e artificiale e rivelano da un lato il rimpianto per una realtà ‘naturale’ che si sta perdendo – siamo in pieno boom economico – dall’altro il tentativo di riportare la natura – per quanto artificializzata – all’interno di un contesto privato.

 

Piero Gilardi Sì, ma anche per una componente di fiducia nelle tecnoscienze, che avevano portato la chimica italiana a vincere il premio Nobel. Nella mia ambivalenza – almeno quella che superficialmente si percepisce – c’è un investimento sulla natura ma anche sulle tecnoscienze. Oggi, in una dimensione post-human, il mondo macchinico può essere considerato un mondo non-umano col quale dobbiamo rapportarci attraverso uno scambio che arricchisce: come l’ibridazione uomo-animale ha arricchito nella storia dell’umanità la nostra cultura, anche il rapporto con il mondo macchinico può fornire degli elementi che ci aiutano a evolvere. Quando parliamo di evoluzione oggi parliamo di un termine molto a rischio, nel senso che in realtà i geologi per primi – ma oggi anche i filosofi – affermano che siamo entrati nell’Antropocene e andiamo verso la sesta estinzione della vita sul pianeta terra a causa dei fattori antropici. Io continuo a pensare che l’uso corretto, rispondente ai bisogni dell’umanità delle tecnoscienze è un uso evolutivo, che ci potrebbe aiutare. Ad esempio, nel contesto dell’ecologia riparativa, oggi gli studi della tecnoscienza possono portare soluzioni al problema del grande, quasi irreversibile inquinamento in cui il pianeta è immerso. Ad esempio potrebbero esserci dei bios geneticamente modificati capaci di assorbire e riciclare i fattori d’inquinamento sia nei territori che nelle acque. Dico subito la mia posizione. Io parto da un incanto personale per il mondo naturale legato alla mia storia personale. Ho passato i primi tre anni di vita nella natura perché – si era in tempo di guerra – la mia famiglia era sfollata in un paesino delle Prealpi. Per tre anni ho trascorso qui questa fase formativa del carattere – dal punto di vista psicanalitico i primi tre anni sono quelli in cui si forma il carattere e io sono sempre stato in mezzo all’erba, alle foglie, alla neve… Dentro di me, nel mio inconscio, ci sono sensazioni naturali fortissime; sovente escono fuori nei Tappeti natura con una tonalità affettiva e fiabesca proprio perché sono le sensazioni che ho avuto da bambino. Da bambino vedi le cose in maniera molto differente dagli adulti. Ho fatto questa premessa perché è importante per spiegare il mio lavoro. Serve a capire perché ho usato un materiale sintetico per fare i Tappeti natura. Il mio intento era quello di ricreare la natura – perché appunto condividevo questo sentimento che iniziava a nascere allora di perdita della natura. Gli anni Sessanta sono stati quelli del primo boom economico; la società industrialista era già altamente inquinante: non c’era nessuna precauzione rispetto alla contaminazione dell’ambiente, delle acque, dei territori… la macchina produttiva andava avanti a sporcare senza tregua. Le conseguenze poi si sono viste.

Ho usato un materiale sintetico perché avevo una speranza: che gli sviluppi delle tecnoscienze in quel periodo aprissero degli orizzonti evolutivi, capaci cioè di migliorare la vita di tutti. Il poliuretano espanso era un materiale nuovo nato naturalmente – come tanti altri – da studi militari. Nel dopoguerra, industrie italiane come la Olmo hanno acquistato il brevetto e messo in produzione questi materiali. Ma la mia scelta era principalmente dettata dal fatto di ricostruire un pezzo di natura che fosse fruibile dal corpo. Questo è il paradigma del Tappeto natura rispetto al mondo dell’arte: non è più un dipinto da contemplare in cui si vede un paesaggio ma è un pezzo di natura da vivere, usare col corpo, quindi col proprio apparato psicomotorio. Il poliuretano espanso era quel materiale sintetico

con la memoria di forma capace di svolgere questa funzione.

 

Piero Gilardi, Tappeto natura, 1966. 

 

Il coinvolgimento fisico dell’osservatore – forse non è nemmeno più il caso di chiamarlo così – si allarga con la serie, di poco successiva, degli Abiti natura.

 

Avevo già realizzato degli abiti negli anni Sessanta con indumenti variamente manipolati. Questo discorso era inerente allo sviluppo concettuale dell’arte moderna: c’era quindi l’esigenza – in me, Michelangelo Pistoletto, Aldo Mondino, Pierpaolo Calzolari e nel gruppo di artisti dell’Arte povera – di portare l’atto creativo nel vissuto delle persone, nella loro vita quotidiana. Allora l’orizzonte era quello dello spazio domestico; più avanti, questo ha voluto dire invece scendere in piazza, essere un militante, l’animazione politica nelle manifestazioni.

 

Infatti il passaggio successivo maturato nel 1968 va nella direzione dell’abbandono dell’arte, almeno di un certo modo di fare arte, in favore dell’impegno politico. M’interessa capire se era presente – e come – questo rapporto con la natura anche in quella stagione della militanza.

 

La natura è stata presente nel mio lavoro di animatore artistico-sociale rispetto alla intima natura umana. In quel periodo esercitavo il lavoro professionale di arte-terapeuta. Nelle parallele attività politiche collettive – dal dipingere dei murali con gli operai di una fabbrica occupata al preparare trofei di propaganda politica per difendere un’area verde che stava per essere cementificata – mettevo dentro questo sentimento della natura umana profonda, cioè l’inconscio. L’inconscio, che da un punto di vista psicanalitico corrisponde alla dimensione organica, è imprendibile secondo i nostri strumenti culturali: possiamo descriverne le manifestazioni e i segni che emergono nella vita reale ma non riusciamo a definirlo e quindi anche a controllarlo. È una parte della nostra istintività, del nostro incipit genetico: noi siamo degli animali. Le discussioni recenti sono incerte se far risalire a quattro o cinque milioni di anni fa la nascita della specie umana. Il vero salto di qualità nell’evoluzione dell’umanoide è stato tuttavia l’acquisizione del linguaggio, avvenuta secondo i paleontologi circa centocinquantamila anni fa, quindi in tempi abbastanza recenti. Gli ominidi avevano un repertorio d’istintualità a cui piano piano si sommava l’esperienza. Lo sviluppo del linguaggio ha permesso di accelerare l’elaborazione culturale delle nostre spinte istintuali – in termini psicanalitici, libidiche. In tutto il periodo in cui ho fatto dell’arte militante la componente naturale era la nostra parte istintuale e animale, che c’è in ciascuno di noi.

 

Durante quello che è stato definito il tuo “ritorno all’arte”, dagli anni Ottanta, il rapporto arte-natura ha attraversato una nuova declinazione in cui entrava – in maniera più evidente rispetto al passato – la componente tecnologica. Mi riferisco a installazioni come Inverosimile, ad esempio.

 

Inverosimileè l’installazione più grande che sono riuscito a realizzare. I vitigni danzanti hanno segnato un passaggio nel quale ho iniziato a lavorare con le nuove tecnologie. La motivazione principale era di nuovo umana, perché le nuove tecnologie permettevano nello spazio virtuale relazioni che altrimenti non sarebbero state possibili. Mario Canali, un artista italiano della New Media, diceva che la realtà virtuale è un sogno condivisibile: i nostri sogni sono un prodotto onirico del tutto individuale ma nessuno può entrare dentro il nostro sogno; nella realtà virtuale si può, invece. Si può creare uno scenario virtuale in cui altre persone entrano e interagiscono con la loro soggettività. Dal 1985 al 1995 ho lavorato nella dimensione della New Media Art e ho realizzato opere di tema ecologico, come l’installazione Survival sul tema della nascita della città ecologica.

Anche dentro al lavoro tecnologico c’era un’attenzione al dato biologico. Nel corso degli anni Novanta io insieme agli altri artisti pionieri della New Media Art – ci siamo spostati verso le biotecnologie. Ad esempio nel 2002 ho realizzato un lavoro intitolato Mitopoiesis: una performance teatrale interattiva, in cui l’esito della vicenda veniva determinato dagli spettatori con raggi laser. La vicenda riguardava la cura sperimentale con cellule staminali totipotenti clonate nel cuore di un uomo infartuato.

 

Piero Gilardi, Inverosimile, Ph. Musacchio e Ianniello, courtesy Fondazione MAXXI

 

Proseguendo questo itinerario storico, un altro passaggio nodale è rappresentato dal PAV, il Parco d’arte vivente, aperto a Torino nel 2008 come «museo interattivo della natura».

 

Nella progettazione del PAV, che ho svolto con un gruppo di architetti e operatori sociali, convergevano molte mie esperienze: anzitutto il mio rapporto forte con la natura ma anche la mia esperienza relazionale di animatore e di arte-terapeuta. In un certo senso il PAV è stato anche una mia “opera” – tra virgolette – in realtà è una struttura vivente che si sta evolvendo. Dall’apertura nel 2008 vi hanno lavorato molti curatori: da Nicolas Bourriaud a Gaia Bindi, specialista dell’arte ecologica; negli ultimi tre anni Marco Scotini, esperto di arte politica, ha portato al PAV l’attuale declinazione dell’arte agro-ecologica: ci sono degli artisti che lavorano in campagna e nelle comunità rurali per dare impulso all’agricoltura biologica, alla permacultura, con un lavoro di grande respiro culturale. Ad esempio Fernando García-Dory che lavora in un villaggio cerealicolo della Galizia, Myvillages, che ha creato orti urbani a San Francisco in zone morte (come all’incrocio delle autostrade), Futurefarmers, o Wurmkos in questo momento.

 

Una tua mostra piuttosto recente s’intitola Natura espansa: mi sembra una dizione abbastanza riassuntiva per descrivere la concezione della natura che emerge globalmente dal tuo lavoro.

 

Sì. Che cosa vuol dire il rapporto arte-natura oggi e in futuro? Il futuro ha sempre un piede nel presente. Se siamo d’accordo che siamo nell’Antropocene e quindi ci consideriamo anzitutto terrestri – cioè abitanti della terra (non più umani – e c’è una belle differenza!) – ci rendiamo subito conto di qual è il rischio che stiamo correndo. In questo periodo guardando la distruttività della nostra specie – dal Paleolitico a oggi – siamo sull’orlo di dare il colpo definitivo all’intera catena biologica sulla terra. Noi artisti dobbiamo lavorare per trasmettere questa consapevolezza al nostro pubblico, la gente in generale. Artisti come Futurefarmers fanno questo. Qualcuno dice che lavorare in campagna sia un arcaismo. No, è un punto di vista diverso, cioè quello di sentirti terrestre. Se ti senti terrestre cominci a pensare che ad esempio negli ultimi 50.000 anni noi uomini abbiamo distrutto tutti i grandi mammiferi; oggi stiamo distruggendo anche gli altri animali. Una delle specie spia è ad esempio le rane, che stanno sparendo a grande velocità. Se sei un terrestre ti preoccupi del fatto che stanno morendo gli animali, che pezzo dopo pezzo si sta esaurendo la catena biologica degli esseri viventi su questa terra. Noi artisti dobbiamo cercare di far prendere coscienza di questo problema, e lo facciamo con i nostri strumenti: il linguaggio estetico che oggi è profondamente ibridato con l’etica. L’estetica contemporanea non è assolutamente più una categoria isolata dell’agire e del pensare umano. Oggi l’estetica è ibridata con l’etica, e quest’ultima dà la consapevolezza di ciò che la specie umana sta facendo sul pianeta in questo momento: sta tagliando gli elementi di connessione della rete degli esseri viventi, compresa la vegetazione.

 

Secondo te l’arte ha la capacità di produrre un cambiamento rispetto a questa consapevolezza?

 

L’arte da sola no. Ma l’arte di oggi è un processo transculturale: non è più un’attività conchiusa nella dimensione della categoria estetica e simbolica. L’arte di oggi è interazione simbolica dinamica, si rapporta con la politica, la scienza, anche la filosofia (anche se quest’ultima è diventata la cenerentola del pensiero contemporaneo. I filosofi si sono accorti solo dieci anni fa che siamo nell’Antropocene, mentre i paleontologi lo dicono da trent’anni – il termine è stato coniato da un paleontologo americano nel 1949).

L’arte di oggi, con la sua capacità di coinvolgimento, d’ibridazione con le altre attività umane, sì, lo può fare collaborando con la politica e la scienza. Per politica intendo l’attività che fanno le moltitudini che lottano per i beni comuni, per la salvaguardia della natura, per migliorare la loro alimentazione. Dall’altra parte la scienza ci aiuta a capire meglio la situazione. Il fatto che dei geologi abbiano stimolato dei biologi a ricostruire la storia delle estinzioni della vita su questo pianeta dice molto sul fatto che gli scambi interdisciplinari permettono una conoscenza più approfondita della realtà. Noi artisti dobbiamo lavorare molto sul piano della conoscenza. Ci sono tanti artisti ecologici oggi che sono alla moda: sono operazioni di superficie che non cambiano niente. Anche l’arte se ha la capacità d’ibridarsi può incidere sulla realtà perché rafforza la coscienza di quella parte che, con un termine usato da Toni Negri, possiamo definire “moltitudini”. Se lavoriamo sul piano della cultura delle moltitudini mobilitate possiamo cambiare la politica. Non ci sono state solo sconfitte nella storia del movimento ecologico ma anche tante vittorie dimenticate presto.

 

Come quella sul nucleare, ad esempio.

 

Abbiamo vinto sul nucleare nel 1987. La stessa cosa non è accaduta di nuovo con le trivelle – a causa della nostra scarsa capacità di coinvolgimento. Gli artisti sul piano della prassi politica devono collaborare anche a che questa nostra consapevolezza, questo nostro patrimonio di conoscenze, questi nostri progetti di alternative – perché ci sono delle alternative, ad esempio la teoria della decrescita felice di Serge Latouche. I movimenti comunitari che fanno agricoltura biologica dimostrano in piccole situazioni campione che l’alternativa è possibile: è possibile un modello di produzione e sviluppo totalmente diverso, perfettamente ecosostenibile. E noi artisti possiamo aiutare il superamento del ritardo nella coscienza pubblica. C’è da dire che quest’ultima è bombardata dai media, i quali da un lato illudono che sia sufficiente cambiare la maschera alla macchina produttiva facendola diventare green economy, dall’altro assecondano le posizioni dei politici. Nella nostra società neoliberista di oggi – come d’altra parte anche in passato, da quando esiste la società borghese – c’è una separazione di compiti fra la politica e la scienza. Questo fa sì che i politici non si prendano carico delle preoccupazioni della scienza ma la utilizzino come dimostrazione formale, come dimostra la vicenda del riscaldamento globale.

I media assumono la posizione dei politici e la proiettano sul pubblico, il quale a sua volta – e parliamo di dinamiche della psicologia di massa – non vuole sentire che siamo in una situazione rischiosa per il nostro ambiente perché ci sono già troppe precarietà nel nostro mondo – rispetto al posto di lavoro, al welfare, ai diritti sociali. Il problema dell’ambiente ha tempi molto più lunghi – oggi si parla del 2050 come crinale: se nel 2050 la temperatura complessiva media si sarà alzata di più di due gradi, cominceranno a esserci i primi disastri sistemici e le prime estinzioni di massa di esseri viventi. La gente, che ha già tante preoccupazioni, non ci pensa. I tempi biologici del sistema ambientale sono più lunghi di quelli dell’esperienza quotidiana delle persone. Questo è il risultato di una colonizzazione culturale effettuata dal potere attraverso i media, che spingono tutti noi a vivere incollati nel presente, senza preoccuparci dell’avvenire e ovviamente dimenticandoci dell’esperienza del passato. Da molti anni discutiamo all’interno dell’ambiente degli artisti ecologici ma adesso c’è stato un salto di qualità nel momento in cui abbiamo assunto il paradigma dell’Antropocene: ci stiamo estinguendo e con noi si estinguerà tutta la catena biologica, se non cambiano radicalmente la nostra modalità di vita sociale.

 

Piero Gilardi, Tappeto natura. Ph: Elena Degregorio. 

 

Piero Gilardi: la natura come paradosso*

Carlotta Sylos Calò

 

Si è aperta il 13 aprile al MAXXI la mostra Nature Forever, curata da Hou Hanru, Bartolomeo Pietromarchi e Marco Scotini, e dedicata a Piero Gilardi. Profondamente influenzata dal pensiero critico di Michel Foucault, Gilles Deleuze e Félix Guattari, e tra gli esempi italiani più interessanti di impegno attraverso l’arte in questioni quali, l’ambiente, l’ecologia, il nucleare, la speculazione edilizia, la ricerca di Gilardi è stata tra le prime a interessarsi del rapporto tra uomo e natura, a utilizzare materiali industriali e tecnologici, per proporre una reinvenzione di luoghi, relazioni e paesaggi, convertendo l’evento artistico in un rito collettivo dalla caratterizzazione sociale e politica. Con questa mostra – ricca di opere e documenti – e il suo catalogo (Nature Forever. Piero Gilardi, a cura di Anne Palopoli, Quodlibet) il MAXXI rende omaggio a una delle ricerche più coerenti e impegnate dell’arte italiana, indirizzata a ribadire le energie creative e critiche del soggetto individuale e sociale.

 

Torinese, diffidente verso l’ambiente dell’accademia che considera ‘viziato’, Gilardi dopo il liceo artistico prosegue la sua formazione da autodidatta prediligendo, nel panorama piemontese, le mostre del Movimento Internazionale per una Bauhaus Immaginista, caratterizzato dalla libertà d’uso dei materiali e dalla critica alla logica capitalistica, cui oppone un'arte in grado di sollecitare il pubblico, attivandone pensiero e sensibilità. Questi riferimenti sono fondamentali per il giovane Gilardi che con Michelangelo Pistoletto e Aldo Mondino frequenta lo spazio gestito a Torino dal critico Michel Tapié e s’interroga sulla possibilità di produrre «oggetti artistici nello spazio del vissuto» (Intervista del 1973 di Mirella Bandini a Piero Gilardi, ripubblicata in Mirella Bandini, Arte Povera a Torino 1972, Umberto Allemandi&Co, Torino 2002, p. 99). L’interesse per il legame arte-vita, interpretato in varie declinazioni da molti giovani artisti di quegli anni, si traduce presto in Gilardi nella creazione di opere capaci d’interagire con il vissuto, individuale e collettivo, in cui la natura, presa come immagine e come oggetto, rimanda alla qualità della relazione tra uomo e realtà illuminando il quotidiano dei suoi spettatori.

 

Nascono così, nell’ottobre del 1965, i Tappeti-natura, oggetti in resina poliuretanica espansa, che riproducono – in scala reale e nei minimi dettagli – forme vegetali, animali e minerali ricreando interi habitat, dal greto di fiume all’orto, dal fondale marino al campo di papaveri. Simulacri che solo il tatto può smentire, questi lavori inducono lo spettatore a ridiscutere il valore e la sostanza di ciò che vede. Potenzialmente oggetti sostitutivi d’arredamento, pezzi di natura finta, isole artificiali messe a terra, più che esposte, calpestabili e toccabili come un’opera d’arte usualmente non è, e acquistabili a metro come pezze di stoffa, queste opere sono anche dispositivi di una riflessione sul consumo, sull’essere e l’apparire. Attraverso i Tappeti-natura e i successivi Vestiti-natura, paesaggi abitabili e poi indossabili, Gilardi segnala allo spettatore la complessità dell’esperienza – di un corpo a corpo con la realtà non regolato dall’uso e non limitato all’apparenza del visivo – e lo fa sottintendendo il dramma di una natura mortificata e stravolta dal mercato e dall’industria.

 

Piero Gilardi, Vestito Natura Anguria, 1967. 

 

Questo gruppo di opere reinventa dunque l’esperienza quotidiana giocando sul complesso rapporto naturale-artificiale e, insieme, indica lo stato fluido dell’oggetto d’arte: da dispositivo meravigliante a merce. Create con l’intenzione di recuperare l’esperienza individuale (a livello del pensiero e del corpo) queste opere pop – che rifuggono però la semplice funzione presentativa e si fanno forti del concetto marcusiano del gioco come trasformatore della realtà – esortano a riscoprire valori soggettivi negati dalla realtà massificata e standardizzata della civiltà industriale, intervenendo direttamente sul sistema di relazioni tra fruitore e oggetto, non solo ricercando nuove possibilità estetiche ispirate alla tecnologie e ai mass-media, ma soprattutto occupandosi di quelle relazionali e critiche. Un atteggiamento questo che è segno dei tempi e viene anzitutto dall’esperienza personale: quella di una natura deturpata che Gilardi intende ricostruire in un oggetto domestico da «offrire all’uso confortevole del corpo» (Nature Forever, p. 90).

 

Attraverso immagini-oggetti surrogati e paradossali, che imitano la decoratività dei consumi ma ne rifuggono la sostanza, Gilardi libera le esthesis e si schiera a favore di un rapporto dialettico tra cultura e società, rimanendo fedele a questo atteggiamento anche quando nel 1967, al culmine del successo per i suoi Tappeti, decide di rinunciare alla creazione di oggetti e dedicarsi alla dimensione comunicativa e relazionale dell’arte continuando a investire sulla “carnevalizzazione del mondo” per il ribaltamento dei luoghi comuni, delle attribuzioni sociali e delle funzionalità consuete (Marco Scotini, Politiche della vegetazione. Conversazione tra Piero Gilardi e Marco Scotini, Marco Scotini (a cura di), “Alfaecologia”, Speciale di “Alfabeta2”, anno V, numero 35, aprile-maggio 2014).

 

Nel 1969 Gilardi, infatti, abbandona «la metafora dell'arte» per «partecipare alla lotta rivoluzionaria» (Piero Gilardi, Dall'arte alla vita. Dalla vita all'arte, Parigi, 1981, p. 12) e prende parte ad attività artistiche e culturali (happenings, eventi, azioni, stampa di manifesti) direttamente calate nel sociale (raduni politici, teatro di strada, arte pubblica, atelier popolari) ed esemplificative di un’arte quale “movimento di pensiero”.

 

È con gli anni Ottanta che l’artista – senza rinunciare all’organizzazione d’iniziative politico-culturali – inaugura una nuova fase del suo lavoro sotto il segno della tecnologia digitale e dell’interattività. Alla fine del decennio riprende il binomio natura-cultura affrontato agli esordi, per scandagliarlo ulteriormente attraverso lo strumento delle nuove tecnologie elettroniche e informatiche, approfondendo la dimensione partecipativa sempre perseguita. Così i lavori prodotti, ormai veri e propri ambienti, inaugurano moderne e più forti modalità percettive. Dissociandosi totalmente dalla lettura passiva delle opere pop, Gilardi concentra il suo lavoro sulla polisensorialità cui unisce l’interattività potenziata dalla tecnologia, in grado di associare agli oggetti e agli ambienti il movimento e il suono. Il binomio arte-natura si arricchisce così di un altro importante dato: quello della tecnologia, un attore indispensabile per la costruzione di una narrazione sviluppata in base all’esperienza ludica del pubblico protagonista dell’opera.

 

Dalle forme biomorfiche dei tappeti, secondo l’obiettivo dell'interattività, della multidimensionalità e della polisensorialità, nasce nel 1989 l’installazione Inverosimile (1989). Si tratta della ricostruzione di un vigneto in forma ambientale, associata a un’interfaccia elettromeccanica capace di gestire i movimenti delle piante. Il pubblico entra nel vigneto e interagisce con l’ambiente: gli alberi si aprono al suo passaggio e le foglie luminose, una volta toccate, emettono vari suoni. Sul pavimento sono proiettati dei cerchi luminosi che, all'aumentare del pubblico nello spazio, si condensano fino a trasformarsi in una sorta di arancia, o di fuoco. Tutto dura venti minuti. La regia dell’esperienza è impeccabile: al pubblico è dato il tempo per acquisire confidenza con l’ambiente e relazionarcisi.

 

L'animazione dell'interattività è suddivisa in quattro temi – il vissuto, l'azione, la crisi e la catarsi – che, pur avendo una dinamica preordinata, restano aperti alla variabilità dei fruitori. La natura “in perdita” – secondo la definizione di Sottsass – dei tappeti ritorna dunque animata, a dimensione naturale, e proprio nel contesto agricolo della vigna, un luogo perfetto per un esercizio di conoscenza “aumentata” della natura all’insegna della collettività e dell’esperienza, che ha come tema principale proprio il triangolo uomo-natura-tecnologia. In un tempo in cui le consuetudini della relazione con l’ambiente, valide per secoli, si sono per sempre alterate, la realtà virtuale e le moderne tecnologie creano una natura potenziata e chiamano l'osservatore a essere un interlocutore attivo, non solo nel funzionamento dell'apparato visivo ed espositivo del lavoro, ma proprio dell'immaginario evocato. L’opera ricalca infatti non soltanto le forme dell’agricoltura ma anche i suoi sistemi: è collettiva, non autorale, è il frutto della collaborazione tra artisti e tecnici e ha modalità operative che richiamano il lavoro artigiano.

 

Piero Gilardi davanti al plastico del PAV, Torino 2003.

 

All’esordio del nuovo millennio la natura simulata dei tappeti, ancora legata all’umanesimo modernista, cede il passo a una ricostruzione più accattivante, in forma ambientale e quasi incantata. Qui il pubblico, spettatore e attore, riscopre un nuovo modello esperienziale fondato sulla comunità e sull’ascolto del contesto, un modello quindi alternativo, sul piano macropolitico, a quello sociale dominante, lo stesso che Gilardi contesta con l’ideazione e realizzazione del PAV, il Parco d’Arte Vivente (2008) di Torino.

 

Parco e centro d’arte interattivo della natura sorto su un’ex area industriale, il PAV è dedicato alla bio-arte e a esperimenti sociali al limite tra pratiche artistiche e rurali. Qui attività come l’agricoltura divengono strumenti di resistenza ai meccanismi economici imperanti del neoliberismo e la comunità del pubblico è chiamata all’esperienza personale. Come accadeva già con i Tappeti, gli eventi degli anni Settanta e le successive installazioni, con l’esperienza del PAV Gilardi riattiva la circolarità uomo-natura e arte-natura stabilendo la funzione primaria dell’arte – non icona ma «espressione di relazioni, di interazioni umane a livello simbolico e di eventi collettivi, transculturali ed ecosistemici» (Piero Gilardi, Common art?, in “Alfabeta 2”, 18 luglio 2015) – e lo fa coerentemente al principio di un'espressività diffusa e socializzata, nutrita dall’interazione tra soggetto e oggetto e tesa a indicare una maggiore e più “naturale” libertà intellettiva ed emotiva dell’individuo e della comunità, secondo una concezione che sboccia negli anni Sessanta e riesce a nutrirsi di quell’energia anche oggi. L’arte politica di Gilardi nasce infatti in un periodo di grande partecipazione politica e culturale in cui la letteratura, il cinema e le arti visive assumono di fatto il ruolo di avanguardia, in qualche misura anticipando tratti e riflessioni connaturate all’identità del nostro Paese, tra cui quelle riguardanti la natura. Questa presto adottata, oltre che come tema, come materiale attivo nel campo ormai espanso dell’arte, è il tramite attraverso cui guardare la realtà e insieme riconquistare una dimensione umana primaria, sacrificata nel riscatto economico e sociale degli anni del boom.

 

Le arti visive, cresciute fin dalle origini nell’osservazione del paesaggio, rilevano, in pieno decennio Sessanta, il cambiamento portato dall’industrializzazione e dalla civiltà di massa e guardano al rapporto uomo-natura e all’industria, ai suoi materiali e sistemi di produzione. In questo binomio Gilardi è profetico e già coglie – lo nota subito Ettore Sottsass – «il nocciolo concettuale della odierna concezione ecologica, che considera riparativo delle bio-tecnoscienze per il ripristino dei sistemi ecologici alterati e della biodiversità» (Nature Forever, p. 92). Un nocciolo concettuale che, sotteso alla sua intera ricerca, caratterizza tutte le ‘esperienze’ che Gilardi concepisce per il pubblico, nasce da un intreccio tra teoria e prassi sempre perseguito e mira a non lasciarsi portare, esercitando la propria esperienza, e quindi la propria coscienza, in un senso sempre più fattuale. Le utopie dell’unione tra arte e vita e dell’arte come bene comune degli anni Sessanta e Settanta, finalizzate all’emancipazione delle energie interiori attraverso l’espressione collettiva, si realizzano negli anni Duemila secondo la strada tracciata da un’estetica relazionale che intende, oggi come allora, ma oggi con più strumenti pratici e teorici, l’attività artistica quale possibile incarnazione di un’energia, soggettiva e quindi collettiva, capace di trasformazione.

 

*Questo contributo nasce dalla rielaborazione di un testo di Carlotta Sylos Calò precedentemente apparso su Il campo espanso. Arte e agricoltura in Italia dagli anni Sessanta a oggi, a cura di Simone Ciglia, CREA Consiglio per la ricerca in agricoltura e l'analisi dell'economia agraria, Roma 2015.

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Damien Hirst. Fantasmagorie della finzione

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In un grande lightbox liquido inabissato a Punta della Dogana – come la prua di un vascello arenato, nella città dell’acqua per antonomasia – ci troviamo in uno spazio sottomarino, appunto, dai colori squillanti. Due masse confuse, intuiamo gigantesche, si fronteggiano in lontananza; all’avvicinarsi cauteloso della camera si mettono gradatamente a fuoco, finché d’un tratto riconosciamo due archetipi plurimembri: un’orrorifica Idra e una seducente Dea Kali, che impugna una lama in ciascuna mano. Lo stesso impossibile incontro-scontro è presente, in due versioni, nella medesima sala: in una il colossale gruppo scultoreo in bronzo (cinque metri d’altezza per sei di lunghezza e tre di larghezza) è ricoperto di incrostazioni calcaree, coralli e muffe, conchiglie e madrepore; nell’altro, presentato come una «copia» del precedente, i due corpi tortili si presentano invece perfettamente lisci, glamour e sexy come in un fumetto di Moebius inopinatamente tridimensionalizzato; un ulteriore lightbox presenta una scena simile a quella del primo, ma ora attorno al monumento inabissato si aggirano quattro sommozzatori che lo illuminano, lo riprendono, si apprestano a imbragarlo per farlo riemergere alla luce.

 


Damien Hirst,  Hydra e Kalì, Venezia, 2017.

 

È l’highlight drammaturgico – cinematografico, anzi – della mostra-kolossal con cui Damien Hirst ha invaso Venezia – tanto estesa da occupare per intero entrambi gli spazi di cui s’è appropriato in città il complice François Pinault: oltre a Punta della Dogana, Palazzo Grassi –, Treasures from the Wreck of the Unbelievable (a cura di Elena Geuna, sino al 3 dicembre). Più che una mostra, una narrazione multimediale (ai numerosi video sottomarini, dalla resa visiva che nulla ha da invidiare alle più stupefacenti riprese di James Cameron, si aggiungono un tutorial interattivo che ci fa entrare nel vascello naufragato, unaserie di disegni e stampe di simulata fattura rinascimentale, soprattutto centinaia di etichette pseudomuseali straripanti di pseudoerudite informazioni, ciascuna evocativa come un racconto): quella del ricchissimo liberto di Antiochia Amotanius (alias Cif Amotan II, alias Aulus Calidius Amotan), vissuto tra la metà del I e l’inizio del II secolo d.C., che, raccolta nella sua hybris d’affrancamento la più preziosa collezione di statue, monili e cimeli provenienti dalle più varie culture dell’antichità, la carica sul più grande vascello mai costruito, l’Apistos (ossia «Incredibile»), indirizzandola a un tempio, da lui costruito per conservarla, sulla costa orientale dell’Africa. Il nuovoantico Titanic però fa ovviamente naufragio, e il Tesoro dell’Incredibile per quasi duemila anni resta immerso sott’acqua. La leggenda del tesoro perduto fiorisce nei secoli – da Pausania ai dotti rinascimentali – finché un anticonuovo liberto del nostro tempo, altrettanto facoltoso e altrettanto desideroso di rivincita, investe tutte le sue risorse nell’impresa del recupero. Individuato il relitto nel 2008, per nove anni si lavora al restauro, all’inventario e all’interpretazione dei reperti: che oggi, per la prima volta, vengono esposti al mondo.

 

Damien Hirst, Andromeda e il drago, Venezia, 2017. 

 

Tutto finto, ovvio. Tranne l’hybris, e la scommessa miliardaria (sessanta milioni di dollari, si vocifera: costo davvero paragonabile a quello di un blockbuster hollywoodiano), di Damien Hirst. Cioè il «collezionista», un cui auto-busto bronzeo figura a sua volta in mostra: mise en abîme delle infinite marche di finzione esibite (dall’incontro impossibile di figure di mitologie distanti come Kali e l’Idra all’uso di materiali a loro volta impossibili come il marmo di Carrara a scritte ben visibili, a tergo di certe statue, come «1999 Mattolini CHINA»; dalle citazioni di artisti contemporanei, e comunque futuri rispetto al periodo raccontato – Jeff Koons, Pierre Huyghe, Roberto Cuoghi, ma anche l’Ilaria del Carretto di Jacopo della Quercia –, sino a presenze pop grottescamente incongrue come Mowgli e Baloo del Libro della giungla, Pippo e Topolino, addirittura il robottone di Transformers presentato – con incongruenza al quadrato! – come idolo azteco: tutti debitamente fioriti delle incrostazioni sottomarine che fanno da leitmotiv dell’insieme).

 

Damien Hirst, Transformers, Venezia, 2017.

 

Questa spettacolare apoteosi iper-barocca del finto– che si contrappone al falso, appunto, per la sua provocatoria evidenza –intende evidentemente decostruire, col sarcasmo e l’arroganza che ben si conoscono nel trickster di Bristol, ogni ipotesi di filologia, attribuzionismo, ordine del discorso museale. Cioè ogni distinzione, appunto, tra vero e falso. L’arte come menzogna, si potrebbe manganellianamente dire: ma rivolta, anziché all’angosciosa decostruzione delle nostre (pseudo)certezze, a una spettacolarizzazione nichilistica – da postremo postmodernista sull’isola deserta – dell’azzeramento della storia. Emblematica la prima opera che ci accoglie a Punta della Dogana, un grande disco calendariale attribuito alla (dagli antichi parimenti inattingibile) cultura azteca. Infatti è proprio il tempo, la cronologia, il vero oggetto della finzione. Non senza intelligenza Hirst si riallaccia così alla discussione in corso sull’anacronismo, sovvertendone però il vettore: da ricerca di una verità preterita dalla violenza della storia (si pensi appunto, per esempio, alle indagini di Cuoghi sugli Assiri) all’allestimento di un luna park, indubbiamente esilarante, ma dall’esito a somma zero: consegnandosi cinicamente, come ha scritto sul manifesto Teresa Macrì, al «godimento futile dell’evento spettacolare» da parte delle orde di visitatori. Intanto già nelle prime settimane di “evento” pare che dai collezionisti (quelli veri) siano arrivati ordini per diversi milioni: e dunque, come ha scritto con asprezza Robert Storr sulla Lettura del Corriere della Sera, se non nella storia dell’arte, l’episodio – come già l’ominoso teschio di diamanti di For the love of God–è destinato a entrare in quella degli investimenti finanziari (ma una storia dei costi materiali dell’arte, sino alle concrezioni di lapislazzuli e malachite esposte da Hirst a Venezia, riuscirebbe assai istruttiva da leggere).   

 

Damien Hirst, Calendario azteco a Punta della Dogana, Venezia, 2017.

 

L’exploit s’incastona bene, in ogni caso, in una Venezia che ossessivamente s’interroga, in Biennale e fuori, sulle forme della narrazione – e sullo statuto della verità, appunto, che ogni performance narrativa inevitabilmente mette in questione: ben prima, si capisce, della così trendy discussione attuale sulla «postverità». Se la piatta mostra centrale, curata da Christine Macel coll’enfatico quanto generico titolo di Viva Arte Viva, è affollata di opere documentarie dai toni risentitamente autenticisti (che si accontentano, cioè, della mera ostensione di dati“reali”, al di qua di ogni loro elaborazione formale), nei senz’altro più interessanti padiglioni nazionali il discorso, opportunamente, si complica. In quello neozelandese, per esempio, uno spettacolare diorama di Lisa Reihana (una 52enne Maori), In Pursuit of Venus (infected), racconta in mezz’ora di “impossibile” piano-sequenza la storia dell’incontro fra Europei e Polinesiani, riproducendo con ironia sottile i toni edulcorati e oleografici coi quali l’evento veniva raffigurato ai primi dell’Ottocento.

 

Lisa Reihana, In Pursuit of Venus Infected, Venezia, 2017.

 

Quest’uso controveritativo dell’anacronismoè ancora più marcato nel lavoro bellissimo della 56enne Tracey Moffatt, che nel Padiglione Australia – intitolato nel suo insieme My Horizon (catalogo Thames and Hudson, a cura di Natalie King) – colloca per esempio Vigil, un fotomontaggio di stills da film di Hollywood dove lo sguardo inquieto, quando non proprio terrorizzato, di star come Elizabeth Taylor e Cary Grant incrocia, in “impossibili” controcampo, le scene drammatiche dei viaggi e dei naufragi dei rifugiati di oggi; ma anche, con allusivo chiasmo, il poetico The White Ghosts Sailed in: un breve ed enigmatico video girato nella baia di Sydney che, dilavato e graffiato in toni seppia, si presenta realizzato dagli Aborigeni nel 1788 (!), all’arrivo delle avanguardie europee al comando del capitano Arthur Phillip.

 

Tracey Moffatt, The White Ghosts Sailed, Venezia, 2017.

 

Le immagini, all’inizio solenni ed elegiache, a un certo punto accelerano, si spezzettano – come riprese da un operatore in fuga –, alludendo a una violenza tanto invisibile quanto storicamente documentata. L’uso del finto e dell’anacronismo, con procedimento perfettamente speculare rispetto a quello di Hirst, intende così produrre un documento impossibile, certo, che fa però riferimento a una storia vera: dando voce – in questo caso per immagini – a chi, come gli Aborigeni messi a tacere dalla violenza del tempo, non ha potuto trasmettercela.

 

Moira Ricci, Da buio a buio. Lupo mannaro, Quadriennale, 2017.  

 

L’autrice che più poeticamente incarna da noi queste tensioni – tra vero e falso, tra impossibile e necessario, tra passato e futuro– è la quarantenne toscana Moira Ricci. Che, a differenza della maggior parte dei suoi coetanei, lavora con lentezza: solo negli ultimi tempi sono stati davvero valorizzati suoi lavori risalenti a diversi anni fa, stratificati nel tempo come del tempo mettono a tema anse torpide e gorghi improvvisi. Risale al 2004, per esempio, la serie 20.12.53-10.08.04; tecnicamente semplici – realizzate con Photoshop –, le immagini hanno un’intensità emotiva lancinante: le foto di famiglia che ritraggono la madre scomparsa sono ritoccate dall’artista inserendo accanto a lei la propria stessa immagine. L’effetto Forrest Gump così ottenuto, però, nulla ha di ludico; e, se è implicita nell’operazione una certa ironia nei confronti dell’abuso patetizzante che nell’arte di oggi viene fatto delle foto di famiglia, lo struggimento trasmesso ha una sua bizzarra quanto innegabile autenticità.

 

Moira Ricci, 20.12.53,  2004.

 

Lo stesso si può dire di Dove il cielo è più vicino, un lavoro iniziato nel 2014 che ora si trova esposto nei Chiostri di San Domenico a Reggio Emilia (sino al 9 luglio, nell’ambito del Festival Fotografia Europea, curato da Elio Grazioli e Walter Guadagnini col titolo Mappe del tempo. Memoria, archivi, futuro): all’inizio del percorso vediamo dall’alto, in una lunga ripresa ipnotica realizzata da un drone, un doppio cerchio di fuoco divorare un campoarato già strinato dal crepuscolo estivo; alla fine un altro video ci mostra, accelerando in un’ora un lavoro durato giorni, un gruppo di persone – il padre dell’artista e altri famigliari e vicini di contado –che, a partire da una vecchia trebbia in disuso, costruiscono un’astronave, dall’aspetto fatiscente e improbabile come quello delle prime rudimentali macchine volanti nei filmati d’inizio Novecento. Esposti sono infine dei grandi pannelli sui quali, a grandezza naturale, sono riprodotte le immagini dei contadini che hanno partecipato all’impresa. Ciascuno di loro, con angolazioni diverse, guarda verso l’alto: con un’espressione indefinibile, un misto di attesa fiduciosa e inquietudine sottile, come pre-elaborando la nostalgia del futuro dal quale si troveranno inevitabilmente esclusi. Come in altri lavori “narrativamente” articolati di Ricci (penso alle «leggende rurali» di Da buio a buio, risalenti al 2009 ed esposte da Matteo Lucchetti all’ultima Quadriennale, al Palazzo delle Esposizioni di Roma), non manca un documento (o pseudo-tale) che pretende di fornire una spiegazione all’annoso mistero dei Cropcircles– rinvenuti nelle campagne degli Stati Uniti e altrove, e in genere attribuiti all’attività di astronavi aliene –, un pamphlet tardoseicentesco sul Mowing devil dell’Hartfordshire, il demone con la falce che si sostituisce ai contadini procedendo appunto in circolo.

 

Moira Ricci, Dove il cielo è più vicino, Reggio Emilia, 2017.

 

Con Dove il cielo è più vicino Moira Ricci davvero ritorna alla sua terra d’origine, «al suolo che segna il confine dell’universo» (come ha scritto qui Mauro Zanchi); annoda una riflessione antropologica su usi e leggende della propria comunità d’origine nel maremmano (dove il fuoco è davvero uno strumento antico dell’agricoltura) a un discorso di nuovo pseudo-autobiografico sulla propria famiglia e a una non meno commovente, a ben vedere, narrazione fantascientifica a ritroso (un po’ come quella che, nel magnifico inizio in Interstellar di Christopher Nolan, mescolava suggestioni faulkneriane a ipotesi futuribili). I paesaggi rurali, illuminati da colori vibranti che paiono usciti da Terrence Malick, si fanno scenario di uno struggimento da Streben romantico, di cui ricordo l’eguale solo nell’indimenticabile Gattaca di Andrew Niccol. La memoria di un futuro irraggiungibile equivale sempre, per la razza di chi rimane a terra, al venire trafitti da un raggio laser che si chiama nostalgia.

 

Locandine di Gattaca (1997) e Interstellar (2014). 


Una versione più breve di questo articolo è uscita su «Alias» l’11 giugno

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Lettera da Venezia

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La laguna propone in questo inizio di estate molti appuntamenti importanti, intorno alla Biennale di Christine Macel, che si presenta sotto lo strano titolo Viva arte viva. Guggenheim ospita una notevolissima retrospettiva di Mark Tobey, dal titolo Luce filante, a cura di Debora Bricker Balken, con un bel catalogo edito da Skira Rizzoli. Nel canone statunitense dell’arte, per solito il maestro della “scrittura bianca” viene ricordato come antesignano e pioniere dell’action painting, ma la sua opera ha molti altri elementi. In primo luogo, nella retrospettiva è evidente il contatto con l’Oriente, frequentato nel corso di numerosi viaggi, e da cui mutua per tempo l’arte calligrafica, inserendo già negli anni ’30 sequenze di parole cinesi nelle sue opere, dopo il precoce incontro nel 1924 con Teng Gui, che era venuto a studiare negli Stati Uniti. Tra i titoli delle numerose esposizioni tenute negli Stati Uniti nel corso della sua vita, prima di prendere la decisione di trascorrere le ultime sue stagioni, funestate dalla demenza senile, a Basilea, dove aveva cercato riparo dal fisco americano, spicca questo: Modern Religious Paintings alla Durand-Ruel Gallery di New York nel 1946.

 

Il senso del sacro nell’arte è il filo rosso della ricerca di Tobey, che scelse di aderire alla fede Baha’i, un credo sorto in Iran nell’Ottocento, intorno al pensiero del mistico Baha’u’llah, che per la sua visione ebbe a subire l’esilio. Come la lettera rubata di Poe, Tobey è sempre stato in piena vista nel mondo dell’arte USA, ma mantenendo una sua notevole idiosincrasia, non aderendo a movimenti e conservando sempre una posizione indipendente. Per una parte della sua esistenza, in effetti, come Andy Warhol fu attivo nella moda come disegnatore di stoffe e, in un momento in cui l’omosessualità era tabù, non fece mistero delle sue passioni. In questa retrospettiva colpisce specialmente un istinto, fortissimo, alla ricerca che lo vede attraversare molti stili (da un originale passaggio giovanile nel confronto con il Cubismo), mantenendo intatta la fiducia nel gesto dell’artista come azione magica, sintesi complessa del vivere da rendere in un gesto che sappia dare conto del mutevole flusso della vita. Fondazione Prada, che a Milano propone la divertente Francesco Vezzoli guarda la RAI, scorribanda in un immaginario anni ’70, tra eros e politica, coglie un risultato importante nella sua attività espositiva con il complesso, fascinosissimo lavoro The Boat is Leaking. The Captain Lied, firmato da Thomas Demand, Alexander Kluge e Anna Viebrock.

 

Mark Tobey, Luce filante.


A partire da una folgorazione per l’opera di Angelo Morbelli, maestro divisionista, che si concentrò specialmente sulla raffigurazione degli ultimi al Pio Albergo Trivulzio, ossia alla Baggina milanese, che sono il cuore dell’operazione (una selezione di questi lavori è esposta, e in catalogo compare un saggio di Aurora Scotti, studiosa dell’artista), si declina una riflessione aguzza su un mondo migrante, che lascia dietro di sé frammenti di memoria. Anna Viebrock, strepitosa scenografa di Christoph Marthaler, disegna ambienti che traggono origine dai quadri, ma destabilizzano sempre lo spettatore. Oltre le numerosissime porte possono esserci film d’opera (con una acuta intervista del coreografo Sidi Labi-Cherkaoui), brani musicali suonati da una banda, con scene tristissime di una inumazione di cadaveri dopo la Prima Guerra Mondiale. Tre piani densissimi di memorie, lancinanti immagini di fughe senza speranza, di cui si intesse il sogno infranto del Novecento, ribadito dai primi piani, spesso spietati, dei minifilm di Alexander Kluge, che in un minuto disegna un inquietante ritratto. Una rapsodia degli addii al secolo breve, che è allo stesso tempo spettacolo dell’inquietudine e del rimosso.

 

Non lontano da là, a Ca’ Pesaro, museo tanto importante quanto appartato, senza troppo clamore né senza dare soverchie spiegazioni, arriva l’importante collezione di Chiara e Francesco e Carraro, che entra nell’apparato museale, con vetri (magnifici, come sempre, quelli di Fulvio Bianconi per Venini), mobili, decorazioni e un nucleo selezionato di grande valore di dipinti, con tre magnifici quadri di Antonio Donghi e un raro dipinto di Gino De Dominicis. Il magnifico palazzo Fortuny a San Beneto dedica le magnifiche stanze della wunderkammer di Mariano e Henriette Fortuny al tema della creazione, con una notevolissima mostra dal titolo Intuition, che è in primo luogo un gioco di scatole cinesi. Negli spazi del museo l’esposizione (curata da Daniela Ferretti insieme a Axel Vervoordt, con l’intervento di altri co-curatori), è un viaggio nel gesto artistico. Stanze tutte bianche, tutte nere, con opere in tono, installazioni complesse, gesti materici, squarci improvvisi di riflessione. Un viaggio, insomma, nell’immaginazione, nei suoi riflessi, nella sequenza di opere e artisti, dalle neoavanguardie postbelliche al presente, che talvolta sembrano lontani, ma sono legati da un filo tenace, nella dimensione del “capriccio” (nel senso goyesco del termine), della rappresentazione del libero gioco della fantasia.

 

All’isola di San Giorgio, la Fondazione Cini propone tre mostre: Pistoletto, Boetti (Massimo e Minimo), e i vetri di Ettore Sottsass. Spicca quest’ultima, un vero e proprio gioiello, curato da Luca Massimo Barbero, con un ricchissimo catalogo Skira. Questo aspetto dell’opera, ricchissima, del designer che sempre più si staglia negli archivi del ‘900 per la sua indipendenza di visione, finora non era stato messo in evidenza. Tra gli ironici Lingam e le incantevoli Morosine un vero e proprio archivio di forme, in cui la tradizione muranese del ‘900 è messa in discussione secondo le regole di un personalissimo gioco, con forme ironiche, allusive, spesso cariche di risonanze ironiche. Infine, una breve gita fuori porta, per andare al Centro Candiani di Mestre, spazio multi centro, con cinema e sale. Qui sono in corso due mostre: Attorno a Tiziano. La luce e l’annuncio del contemporaneo, a cura di Luca Massimo Barbero e Gabriella Belli, in cui, secondo un percorso iniziato con Giuditta II, esposizione intorno al mito di Klimt, opere antiche vengono messe a confronto con la lezione del sacro nel Novecento, tra magnifici Fontana, Luigi Ontani che, ironicamente, faceva l’annunciazione a se stesso in un magnifico scatto degli anni ’70, mentre Dan Flavin ripensava il sacro tra luci al neon e barlumi d’oro.

 

Un nuovo capitolo, quindi, della discussa relazione tra la Serenissima e la Terraferma, mentre continuano, infiniti, i dibattiti e fioriscono le diatribe su possibili referendum per la separazione dei due luoghi. Al piano di sopra dell’enorme palazzo, segnato da infinite frecce verso le esposizioni, per non perdere la direzione, un frammento della vasta storia di Porto Marghera, di cui quest’anno si celebra l’anniversario. Una mostra, molto divertente, dedicata a Paolini, Villani & C. La Compagnia Veneziana delle Indie, che ribadisce il filo, talvolta dimenticato tra Venezia e l’Oriente, narrando le vicende di una impresa per tramite di oggetti e soprattutto immagini, legate al mito del thè, tra Caroselli d’epoca e film, come La casa da tè dalla luna d’agosto di Daniel Mann, in cui pubblicità e fiction si danno la mano.

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