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Il poeta anarchico che trasformò l'orinatoio in feticcio

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Un errore comune, a proposito dell'orinatoio, è pensare che sia stato Duchamp a trasformarlo in opera d'arte semplicemente firmandolo, dichiarandolo tale ed esponendolo in una mostra. In realtà Duchamp non ha fatto niente di tutto ciò: è stato il sistema dell'arte, quasi cinquant'anni dopo, a farlo. E uno dei principali artefici di questo anomalo processo di “artificazione” è un italiano altrettanto anomalo: Arturo Schwarz. 

Nato ad Alessandria d'Egitto nel 1924 da un ebreo tedesco e un'ebrea italiana, Schwarz è una figura eccentrica ed eclettica: poeta, trotskista, anarchico, surrealista, studioso dell'alchimia e della cabala, critico e gallerista di fama internazionale. I suoi precoci contatti con André Breton e tutti i grandi nomi del surrealismo gli hanno permesso di portare contributi importanti alla conoscenza dell'arte surrealista e dadaista. A Duchamp, in particolare, Schwarz ha dedicato un intenso lavoro critico, curando il primo grande catalogo generale e proponendo un'importante interpretazione basata sul pensiero alchemico. Decisiva, per il nostro argomento, è stata la sua iniziativa di costruire le repliche di 14 readymade, che hanno contribuito in maniera determinante a fare di Fountain il feticcio artistico che conosciamo. Le repliche dell'orinatoio realizzate nel 1964 sono in tutto 13: otto numerate più quattro fuori edizione e un prototipo. Oggi sono sparse in vari musei e in qualche collezione privata.

 

Sono andato a trovarlo poco dopo il suo novantatreesimo compleanno. Vive circondato da libri e da opere d'arte nella sua casa milanese, assieme alla giovane compagna, Linda, sposata pochi anni fa. Ma tra le opere che riempiono tutte le superfici libere della grande sala in cui ci troviamo, l'orinatoio non c'è.

“Ho regalato la maggior parte delle mie cose. E tutti i readymade”, dice con tono deciso. Linda indica un angolo della sala: “Me lo ricordo, era lì per terra...”. (Per la cronaca, Schwarz, i readymade, li ha anche venduti e con successo: l'ultima grande asta è stata quella tenuta il 13 maggio 2002 da Phillips de Pury & Luxembourg a New York, dove 14 readymade di una serie completa vennero valutati complessivamente tra gli 8,5 e i 12,6 milioni di dollari: vennero battuti per 5,3 milioni, ma al venditore pare ne fossero stati garantiti molti di più).

 

 

Il suo incontro con Duchamp avvenne verso la metà degli anni Cinquanta e, come lei ha raccontato in varie occasioni, fu preceduto da uno sogno sorprendente...

Sì, sognai che Duchamp stava cercando un suo manoscritto che non trovava perché era finito dietro un cassetto. Glielo scrissi e lui mi rispose con un telegramma e una sola parola: “Trouvé!”. Da allora diventammo amici. Andai a trovarlo a New York. Era un uomo di grande intelligenza e grande cultura, una persona molto, molto semplice, accogliente e affabile. Non si rendeva conto dell'importanza del suo ruolo nel mondo dell'arte... Non ci faceva caso proprio.

 

Qual è la cosa che più l'ha colpita, quando lo ha conosciuto?

La sua filosofia. Il suo modo di vedere l'arte e la gente. Un modo tutto suo... Da un lato c'era l'indifferenza totale, dall'altro c'era sempre la curiosità per quello che succedeva attorno a sé.

 

Com'è nata l'idea di fare delle repliche di Fountain e degli altri readymade?

È stata quasi una sua richiesta. Diceva che era continuamente ossessionato da persone che volevano fargli firmare oggetti per trasformali in readymade: gli portavano dei portabottiglie e gli chiedevano di firmarli. Allora decidemmo di fare noi un'edizione. Fu lui a decidere quali readymade replicare e il numero delle repliche.

 

Qual era il rapporto di Duchamp col denaro?

Indifferenza. Non ho mai discusso di denaro con lui... Il nostro rapporto non aveva nulla di commerciale, era un rapporto di amicizia. Non c'erano interessi economici di nessun genere. Aveva quello che gli bastava per vivere. Non era alla ricerca di denaro: non lo disprezzava, né lo apprezzava. 

 

Le copie dell'orinatoio e degli altri readymade possono essere considerate un monumento ironico al feticismo del sistema dell'arte attuale?

Non credo. Sono copie, come quelle di qualsiasi altra scultura. Comunque Duchamp non considerava l'orinatoio un'opera d'arte. Lo scelse come espressione di humour. E lo divertiva l'idea che finisse in un museo.

 

Duchamp ha detto: “Il fatto che i readymade vengano guardati con la stessa ammirazione che di solito si riserva agli oggetti artistici significa, probabilmente, che il mio tentativo di farla finita con l'arte è fallito”. Lei crede che alla fine Duchamp si sia arreso al sistema dell'arte?

No, era indifferente alla contraddizione. Era anarchico. Come lo sono io. Non a caso si definiva “anartist”, in assonanza con “anarchist”.

 

Vale anche per lei che, pur professandosi ancora trotskista e anarchico, è il principale responsabile dell'artificazione dell'orinatoio?

È la vita. Piena di contraddizioni.

 

 

Luca Maria Patella, MUT/TUM

 

Duchamp l’ho incontrato personalmente, ma vorrei dire di aver voluto essere… il suo analista (!). [La mia competenza di Jung, ecc., data dal 1957, con Ernst Bernhard]. Riguardo al meraviglioso Pissoir del ’17: ho notato che – nel ’18 – DUCHamp inventa la sua ultima opera dipinta, che intitola Tu m’. Se il Pissoir è rovesciato “fisicamente” (a formare la Fontaine), ho pensato che lo abbia anche rovesciato “linguisticamente”: poiché i “suoni” MUT e TUM sono esattamente speculari! Ho così costruito una mia opera, intitolandola MUT/TUM (vedi immagine allegata). In essa, il piccolo pannello perpendicolare, che separa le 2 metà, non contiene un vetro, ma una coppia di specchi, situati dorso a dorso (ogni specchio riflette una metà della scritta, e così la completa: proprio dove, in realtà, la copre ed occulta nell’altra metà). L’opera viene quindi a mostrare e dimostrare tutto il problema…
Ho scritto su ciò vari saggi, mentre, ad esempio, Bernard Blistène o Harald Szeeman l’approvarono in pieno. Al MUKHA di Antwerpen, nel ’90, ho realizzato una vasta Antologica, intitolata “DEN & DUCH dis-enameled”: DENis Diderot & DUCHamp sverniciati!

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Arturo Schwarz | Luca Maria Patella

Museo d’Inverno: fondato e diretto da artisti

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La proliferazione di curatoriavvenuta negli ultimi anni ha prodotto l’urgenza di indagare sempre più sulla necessità, legittimità e correttezza delle loro modalità operative. In realtà, ancor prima della nascita del cosiddetto curatore, quando cioè era ancora il critico militante a svolgere quella funzione, già si discuteva sul ruolo di colui il quale era chiamato a concepire una mostra e a scriverne, rispetto al ruolo creativo dell’artista.

Immagini: 

Era una casa molto carina

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A Milano, in occasione del Salone Internazionale del Mobile 2017, tra il pullulare degli eventi del Fuorisalone, ormai diventati più cult e più cool del Salone medesimo, ben due hanno come protagonista il binomio bambino-design: DESIGN WEEK Arte e design per bambini, una mostra allestita negli spazi del MUBA, il Museo del Bambino, alla Rotonda di Via Besana, e Giro Giro Tondo. Design for Children, altro evento espositivo, visitabile nella sede del Triennale Design Museum.

Sebbene entrambe le rassegne trattino il medesimo tema, lo affrontano in realtà in due maniere differenti.

 

Al MUBA, che non cessa di ospitare i suoi destinatari eletti, consentendo loro di proseguire imperterriti i giochi, sono esposti arredi e oggetti di design frutto di una ricerca, da parte di designers e di aziende internazionali, meno attenta alla loro forma finale di quanto non sia al loro fine ludico, nonché alla necessità di assecondarne il libero utilizzo da parte dei loro piccoli fruitori designati.

In Triennale, invece, i pezzi esposti –of course tutti firmati da archistar e prodotti dai mostri sacri dell’industria del settore, come la sede impone– sono invece connotati dalla semplice riduzione di scala in rapporto ai loro omologhi progettati e realizzati per gli adulti. Girando per le sale è come se ci si trovasse catapultati nel mondo di Gulliver, dove gli oggetti grandi sono stati rimpiccioliti a ‘misura di bambino’, mentre quelli nati piccoli (come ad esempio i pezzi di Giovannoni per Alessi) sono stati parossisticamente ingranditi fino a farli torreggiare come giganti.

 

DESIGN WEEK Arte e design per bambini

 

La mostra, visitabile solo durante la Design Week, ovvero dal 4 al 9 aprile, è il risultato del lavoro di Unduetrestella, la prima realtà curatoriale che dal 2009 concentra la propria attenzione sul design per bambini durante l’evento del Salone. Il claim della rassegna è #DontStop: don’t stop sleeping, don’t stop walking, don’t stop eating, don’t stop reading, don’t stop drawing, don’t stop playing, don’t stop swapping, don’t stop housing, don’t stop flying, don’t stop bathing, don’t stop hanging. Il titolo è mutuato da quello di un altro evento ospitato nella medesima sede fino al 1 maggio 2017, “Vietato non toccare”, omaggio a Bruno Munari.

 

In uno dei deambulacri della Rotonda della Besana, quello di sinistra, tra le gigantesche colonne che salgono a sostenere le luminose volte, sono ospitate alcune installazioni, tra cui l'aeroplano Amelia (Kids' Garret), una seduta ispirata alla vera storia dell’aviatrice americana Amelia Earhart, che nel 1930 fu la prima donna ad attraversare l'Atlantico in un volo in solitaria. L’inconsueta seduta, accolta con straordinario successo dai bambini che fanno a gara a sedervisi sopra, è corredata da tutone ispirate a quelle in uso tra i piloti d'aereo degli Anni Trenta e da cuffiette in pelle con occhialoni (come non evocare subito l’immagine di Snoopy che duella con il Barone Rosso?). Poco discosto è in mostra, naturalmente touch free, il Metrosauro (TocTocLab), uno strumento ludico composto da elementi modulari pieghevoli in legno, tratti dai metri da falegname, che permette di creare una miriade di composizioni tridimensionali oltremodo suggestive. Continuando ad aggirarsi fra le colonne si incontrano casette in legno che paiono disegnate dai bambini (o da Paul Klee) e che, in realtà, sono armadi e contenitori e poi ancora culle dalla foggia antica, tavolini che imitano campi di basket in miniatura e tante, tantissime sedie dai colori sgargianti e dalle fogge più inconsuete, rigorosamente realizzate con materiali ecologici e dipinte con tinture atossiche, tra le quali i bambini si aggirano curiosi.

 

Alcuni fotogrammi degli oggetti di design esposti al MUBA, ospitato nei suggestivi spazi della Rotonda di Via Besana a Milano.

 

Silvia Marlia, una designer di arredi per bimbi ispirati alla lezione educativa di Rudolf Steiner, ha scritto queste note, intitolate Il design visto da 1m di altezza:

Parlando di design, in vista del Salone del Mobile, vedo che spesso i progettisti o le aziende, riducono le dimensioni degli arredi già esistenti, pensandoli adatti ai bambini, ma i bambini non si muovono come gli adulti, né hanno la stessa prospettiva. Giocano a terra, gattonano e guardano da sotto in su, perché il loro apparato scheletrico e muscolare, è in via di sviluppo e fra i 3 e 5 anni hanno un’altezza compresa tra 90 e 110cm. Dovremmo sdraiarci a terra e pensare così gli arredi per l’infanzia, ponendo una grandissima attenzione al dettaglio. Infatti, i bambini nelle diverse fasi di apprendimento, esercitano la loro attenzione verso dettagli minimi, come ad esempio una formica in mezzo ad una strada, che osservano molto a lungo, così come qualsiasi oggetto minuscolo.”

 

La “forma” inoltre non è un dato sensibile, bensì un portato culturale la cui percezione/comprensione è frutto di educazione e di fatica diuturna. Vi sono persino alcuni individui che non riescono a identificarla neppure da adulti, proprio perché non educati a farlo. Ricordo che quando insegnavo Storia dell’Arte, uno dei primi assiomi che comunicavo ai miei allievi era: “l’occhio vede ciò che la mente conosce” (Goethe), annunciando loro che sarebbe stato quello il lavoro che ci apprestavamo a fare, ovvero informare la mente per educaregli occhi a vedere e a “conoscere”, per poi saper “riconoscere” la forma, fosse essa stata frutto della storia o della contemporaneità. E per ottenere buoni risultati era palese che sarebbero occorsi anni di studio e di infinita dedizione. Dunque, come potrebbero i bambini percepire d'emblée le complesse e spesso concettose forme del design? Ci riusciranno, ma solo se li si educa a farlo.

 

Mobili al MUBA 

 

Giro Giro Tondo. Design for Children – decima edizione del Triennale Design Museum

 

Il percorso della mostra, visitabile dal 1 aprile 2017 al 18 febbraio 2018, si articola in diverse sezioni, ciascuna delle quali è stata affidata da Silvana Annichiarico, l’ideatrice del progetto, ad un curatore esperto del tema. Così, mentre dell’Ouverture si è occupato Stefano Giovannoni (che è anche l’Art Director dell’allestimento), Arredi è a cura di Maria Paola Maino; Giochi di Luca Fois con Renato Ocone; Architetture di Fulvio Irace; Segni di Pietro Corraini; Animazioni di Maurizio Nichetti e Strumenti di Francesca Balena Arista. Le sezioni, che si susseguono senza soluzione di continuità, sono intervallate da focus dedicati a figure di rilievo nella storia del Design, come ad esempio Bruno Munari, a cura di Alberto Munari; Riccardo Dalisi, a cura di Francesca Picchi in collaborazione con Studio Dalisi; alla pedagogia e ai Maestri (elementari), a cura di Franca Zuccoli e Monica Guerra. Un settore è poi dedicato alla iconicità dell’affabulazione, di cui è Pinocchio il principale protagonista, a cura di Enrico Ercole.

Si tratta di una rassegna molto ricca e opulenta e visitandola si prova un effetto-Luna Park generato dal sovrabbondante affastellamento degli oggetti esposti. Sebbene quella di una non-regia unificante sia una precisa scelta dall’ideatrice del progetto, supportata da una giustificazione teorica ben argomentata nel catalogo (edito da Electa), essa rende difficile la percezione dei messaggi sottesi. Forse una minor concentrazione di oggetti avrebbe giovato alla fruibilità dell’esposizione.

 

Alcune vedute degli stand della mostra in Triennale. Nel primo fotogramma Quadratino, personaggio di Antonio Rubino, eletto a immagine simbolo della rassegna, riprodotta anche sulla copertina del catalogo (Electa).

 

Devo confessare che a me, figlia della materialistica borghesia brianzola che negli Anni del Boom economico a Sant'Ambrogio veniva accompagnata dalla mamma a “scegliere i regali” alla Rinascente (che poi la Notte di Natalele avrebbe ‘portato’ Gesù Bambino–non ho mai capito perché il Bambin Gesù dovesse andare alla Rinascente a prendere i regali, con tutte le infinite divine possibilità che mi figuravo avesse), l'effetto troppo pieno di questa rassegna ricorda quei giorni, quel luogo e quel modo di esporre,di cose mostrate con doviziosa abbondanza, per sedurre il pubblico e indurlo all'acquisto. Vi leggo, insomma, un trend merceologico che è ovviamente estraneo sia ai curatori che agli organizzatori, quanto lo è, a maggior ragione, alla sede ospitante. Absit iniuria verbis, ma tant'è, queste sono le sensazioni e il ricordo che la visita alla mostra hanno evocato in me.

 

 

Sulle pareti interne della Galleria dell'architettura, poi, una casetta verde aperta sui lati corti e resa percorribile come un corridoio, in una carrellata di foto in monitor viene presentato il tema delle variazioni stilistiche, concettuali ed etiche subite dagli asili (qui chiamati Le Case per bambini) dal Novecento ad oggi. Che la sezione sia rivolta a un pubblico adulto è confermato dalla collocazione alta dei fotogrammi e che quest'ultimo debba anche essere specializzato è sottinteso dalla mancanza di didascalie esplicative. Molto dotto, invece, il suo corrispettivo in catalogo.

 

Il catalogo, infatti, è un valido strumento per approfondire gli argomenti trattati nelle singole sezioni, perché contiene saggi dei rispettivi curatori, con tutti i crismi della storia, gli input didattici e le intenzioni documentarie, con note, immagini e citazioni. E si sa: “Verba (leggasi esposizione) volant, scripta (leggasi catalogo) manent”; ma così non vale.

 

Non posso impedirmi, inoltre, di interrogarmi sul fatto che probabilmentei bambini, in luogo di una casa con‘funzioni-azioni’e con oggetti loro imposti dagli adulti, ne prediligerebbero di certo una senza, essendo in grado da par loro di sopperire a quelle assenze con la fantasia, Sergio Endrigo docetEra una casa molto carina/ Senza soffitto senza cucina/ Non si poteva entrarci dentro/ Perché non c'era il pavimento/ Non si poteva andare a letto/  in quella casa non c'era il tetto/ Non si poteva fare pipì/ Perché non c'era il vasino lì./ Ma era bella, bella davvero.

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Design e infanzia

Plural Biography. Virginia Ryan 2000–2016

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Italian Version

 

If the world was not created to end up in an exhibition, we can turn to an exhibition to understand more about the world: it is not about looking at art, but looking through art.

This was the aim of a curatorial project presented at Palazzo Lucarini, focusing on the works by Virginia Ryan, an artist who spent the years from 2000 to 2015 between Ghana and Ivory Coast. Fifteen years are a considerable amount of time in a person’s life. Virginia Ryan is neither a globetrotting artist focusing on short-lived site-specific projects, nor an artist rooted in one single place. She describes herself as a “reluctant nomad.”

 

An Australian of Irish descent, she spent part of her life in Scotland, got married in Italy and moved with her ambassador husband to Egypt, Yugoslavia and Brazil, and then to Ghana and Ivory Coast. Her life is a never-ending journey, a life spent in travel.

Her singular but not single-faceted existence can be regarded as a cultural biography that symbolically evokes and reflects the diasporic nature of our present lives. It is a plural biography, one and multiple at the same time, intersecting the lives of others.

Her art derives from an existential search, which allows her to escape decorative formalism and conceptual abstraction. It is a way to bring order into her life, to keep it together and move on, with no feeling of longing for the past. Her artistic view of the world enables her to orientate, draw maps, and make sense of reality. Her art can therefore be seen as a visual diary that collects evidence of her passage. It shapes her existence, acting as an anchor to a nomadic life that constantly forces her to move on and start over.

 

Ph: Virginia Ryan, Installation view, Palazzo Lucarini 2017, courtesy of the artist.

 

Her penchant for assemblage and photomontage, for found objects, for perishable and recycled materials, opens up a dialogue with the history of art, but arises from a personal need, from her experiences in Africa. Faced with the wounds and transience of life, with the passing of time that encompasses and erases everything, Virginia Ryan gives life to meticulous assemblages of materials, patchworks where stitch marks are not concealed: an art of memory that alters its object by ripping or erasing it.

This is clearly shown by the titles of her works of art, such as Landing to Accra (2002), Exposures (2001-2005), Castaway (2003-2008), and Topographies of the Dark (2007-2008), all inspired by a sense of uncertainty and displacement that she felt in facing cultural diversity and social inequality, running the risk of losing her own identity while being determined to rediscover herself, to move the line between “familiar” and “alien” a little bit further.

In her bricolage works, she brings together multiple layers of sense, highlighting points of contact and contrast between different forms of life. So it happens that the ocean motif, which appears in most of her works, simultaneously reminds us of the relaxing beach holidays of Westerners and local middle classes, the issues of human trafficking and oil pollution, and the world of the dead evoked by the people from the Gulf of Guinea.

 

Ph: Virginia Ryan, Goldfield, Kumasi 2002, courtesy of the artist.

 

Virginia Ryan’s experience of Africa does not come from the fringes, but from the elitist world of Western expatriates. However, she does not confine herself to it, but presents herself openly, with no disguises, reflecting on her own identity and focusing on the social relations that shape her own perceptions. She tries to free herself from the identities assigned to her, moving from one to another so as to have more room for action. She brings out her Australian origins to escape her role as the Italian ambassador’s wife; goes back to her Irish descent to support colonized peoples; and asserts her feminist identity in a male-dominated world.

 

In this regard, Exposures: A White Woman in West Africa is a very significant work. Photographed by friends, workers, and passers-by, Virginia is portrayed in her everyday activities in Accra. We see her getting her hair done and having a massage, entertaining guests at parties and events, participating in a TV show, shopping at a supermarket, or in hospital with malaria. “Is that everybody’s dream of Africa?” – she writes in the catalogue – but this is actually the life of many Westerners in Africa.

In the pictures, she looks like a royal beauty, always smiling and well dressed: a blond white woman surrounded by black people. In this semi-ethnographic account of “white tribes”, what appears as everyday life is actually presented in a different light, one that highlights colour, producing a disturbing effect on the viewer.

 

Ph: Virginia Ryan, Detail, 'I Will Shield You' series 2016, courtesy of the artist.

 

What is most upsetting in these photographs is the portrayal of the exclusion mechanisms inherent in our ordinary lives, the presence of our colonial heritage in the everyday relationships between white and black people. Virginia’s image becomes a disruptive element because in these pictures white people lose the “privilege of invisibility,” as anthropologist Steven Feld describes it; a privilege that is only granted to those in hegemonic positions, for whom skin colour is not an issue.

Overexposed to the black people’s gaze, Virginia experiences her own vulnerability: “I have been told that the Ghanaian twin word for whites, obroni, actually means not pale-skin, but ‘without skin’ – or at least that this is one of the possible meanings. It shocked me when I heard that. Can that be true? Is that how I look? Like some sort of skinned, peeled, ghost-like apparition, whilst they look so round and succulent?” What emerges here is not so much the representation of racial discrimination as the act of resistance performed by an independent mind.

 

Ph: Virginia Ryan, The Rue Du Commerce, 2013, courtesy of lettera27 art collection.

 


Virginia Ryan’s gaze, like our own, is not free from ethnocentric assumptions, but does not indulges inthe exotic stereotypes she inherited from her culture. In her works, she captures a contemporary, post-nostalgic, urban Africa, where exoticism is only present in the form of irony. The fact that she is a woman also plays a relevant role.It is actually in a Western male imagery that Africa isseen with lustful eyes, as a virgin land to be discovered and conquered.

 

Virginia Ryan is far from this rhetoric of discovery and conquest, as if nobody had never been to Africa before, or Africans had not already produced their forms of knowledge and self-representation. Her creations are a‘re-mediation’ of cultural artefacts through which local reality is experienced: works of art, media, advertising, and mass culture. Her access to reality is filtered by images produced or disseminated locally; her artistic work is embedded in cultural forms created by others. The result is a series of collage works based on old posters from a film theatre in Grand Bassam, Ivory Coast (L’Histoire Sans Fin, 2014); long rolls of cloth with printed portraits taken from Ivorian photo archives due for destruction (….); sculptural paintings created by assembling objects found by the seaside, material remains of past lives (Castaway, 2003-2008); or painted pictures of large advertising billboards populating the streets of Abidjan (Selling Dreams, 2012-2014).

 

Ph: Virginia Ryan, Found photographs from Grand Bassam, installation Spoleto, courtesy of the artist.

 

Her “intermedia” art comes from the objects and images that weave the fabric of reality. Here, the line between reality and imagination, between what is ours and another’s, between individual and collective, becomes blurry but is still visible. While this artistic re-mediation process weakens the relation with the starting context, it does not erase the communicative intention of the original artefact. So it happens that Virginia Ryan’s works make us feel not only observers but also observed, enabling us to look at art but also through art.

 

Translation by Laura Giacalone.

 

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Palazzo Lucarini Contemporary, Trevi, Italy (March 4 – April 25)

Biografia plurale. Virginia Ryan 2000–2016

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English Version

 

Se il mondo non è stato creato per finire in una mostra, possiamo però tentare di partire da una mostra per capire qualcosa di più del mondo: si tratta non solo di guardare all’arte, ma di guardare attraverso l’arte.

Questa è stata l’ambizione del progetto curatoriale che a Palazzo Lucarini espone l’opera di Virginia Ryan, artista che dal 2000 al 2015 ha vissuto fra Ghana e Costa d’Avorio. Quindici anni sono un periodo considerevole nella vita di una persona; Virginia non è l’artista globetrotter che fa progetti site-specific mordi e fuggi, ma non è neppure un’artista stanziale, che mette radici in un luogo: come lei stessa dice, la sua è la vita di una “nomade riluttante”.

 

Australiana di origine irlandese, Virginia ha vissuto in Scozia, si è sposata in Italia e si è trasferita poi – con il marito ambasciatore – in Egitto, Iugoslavia e Brasile, per arrivare infine in Ghana e Costa d’Avorio: il suo è un viaggio che dura una vita, un soggiornare nel viaggio.

Esistenza singolare, ma non unica, la vita di Virginia può essere vista come una biografia culturale che incrocia e condensa, con la forza simbolica della sua opera, il carattere diasporico dell’esistere contemporaneo. Proprio per questo, la sua è una biografia plurale: una e molteplice, interseca le vite degli altri.

L’arte di Virginia Ryan nasce da un’urgenza esistenziale, che le consente di sfuggire sia al formalismo decorativo che all’astrazione concettuale: è lo strumento con cui cerca di fare ordine nella propria vita, di tenerla insieme per andare avanti, senza nessuna nostalgia delle origini. La sua percezione artistica del mondo le consente di orientarsi, fare senso, mappare la realtà. La sua opera traccia un diario visuale che produce prove del proprio passaggio e ne serba memoria: dà forma alla sua esistenza, offrendo dei punti di ancoraggio a una vita di spostamenti che le impongono di ricominciare sempre da capo.

 

Ph: Virginia Ryan, Installation view, Palazzo Lucarini 2017, courtesy of the artist.

 

La sua predilezione per gli assemblaggi e i fotomontaggi, per gli objet trouvé e i materiali deperibili e riciclati, dialoga con la storia dell’arte, ma muove da un’esigenza interiore e dalle esperienze del suo periodo africano. Davanti alla fragilità della vita, alle lacerazioni che attraversano la realtà, al tempo che tutto inghiotte e cancella, il lavoro di Virginia Ryan prende la forma della raccolta paziente, della ricucitura che non nasconde le cicatrici, di un’arte della memoria che altera, con strappi e cancellature, ciò che vuol salvare.

I titoli di molte sue opere lo enunciano con chiarezza: Landing to Accra (2002), Exposure (2001-2005), Castaway (2003-2008), Topographies of the Dark (2007-2008) muovono dal senso di precarietà e spaesamento di chi deve confrontarsi quotidianamente con la diversità culturale e la disuguaglianza sociale, con il rischio di perdersi e la volontà di ritrovarsi, cercando di spostare sempre un po’ più in là il confine fra il familiare e l’estraneo.

In questo lavoro di bricolage si compongono così ogni volta spazi stratificati di senso, zone di contatto e frizione fra forme di vita diverse. Così accade ad esempio nel frequente richiamo all’oceano che percorre le sue opere, dove si sovrappongono il relax balneare degli occidentali e della borghesia locale, la memoria della tratta, l’inquinamento petrolifero e il mondo dei morti dei popoli del Golfo di Guinea.

 

Ph: Virginia Ryan, Goldfield, Kumasi 2002, courtesy of the artist.

 

Virginia Ryan non muove i suoi passi in Africa dai margini, ma dal mondo elitario degli expat occidentali. Lì però Virginia non si ferma, né si nasconde: si dichiara apertamente e, nell’esporsi senza mascheramenti, lavora riflessivamente su sé stessa, dentro la rete delle relazioni sociali che imbrigliano il suo sguardo. Cerca di smarcarsi dalle identità che le vengono assegnate, muovendosi dall’una all’altra per guadagnare uno spazio di manovra: fa valere la propria origine australiana per sottrarsi all’ufficialità del suo ruolo di moglie dell’ambasciatore italiano, riprende le sue ascendenze irlandesi per porsi dal lato dei popoli colonizzati, negozia, in un mondo molto maschile, la sua identità femminista.

 

Exposure. A white woman in West Africa, è da questo punto di vista un’opera molto significativa. Fotografata da amici, dipendenti e passanti, Virginia appare nelle sue attività quotidiane ad Accra. La vediamo dal parrucchiere e dal massaggiatore, intrattenere gli ospiti a feste e ricevimenti, partecipare a una trasmissione televisiva, fare la spesa al supermarket o in ospedale con la malaria. “Is that everybody’s dream of Africa? … Non sembra un’Africa da sogno?” – scrive nel catalogo – ma è in realtà la vita di molti occidentali in Africa.

Gli scatti la ritraggono regale, curata e sorridente: bionda e bianchissima con tanti neri intorno. Niente di più o di diverso dalla banale quotidianità (un reportage quasi-etnografico sulle “tribù dei bianchi”) ma restituita sotto una luce diversa, quella che illumina il colore, attraverso l’introduzione di uno scarto minimo che mette in tensione chi guarda, generando un effetto perturbante.

 

Ph: Virginia Ryan, Detail, 'I Will Shield You' series 2016, courtesy of the artist.

 

Quel che ci turba nelle fotografie di Virginia Ryan è l’immagine urtante della nostra normalità escludente: l’eredità coloniale che ancora cova nelle pieghe del quotidiano rapporto tra bianchi e neri.

Se la visibilità di Virginia diventa imbarazzante è perché in queste foto i bianchi perdono quel “privilegio dell’invisibilità” – come dice l’antropologo Steven Feld – di cui gode chi occupa una posizione egemonica e non è costantemente rimandato al colore della propria pelle come a un problema.

Sovraesposta sotto lo sguardo dei neri, Virginia fa l’esperienza della propria vulnerabilità: “I have been told that the Ghanian twi word for Whites, Obroni, actually means not pale-skin, but ‘without skin’ – or at least that this is one of the possible meanings. It shocked me when I heard that. Can that be true? Is that how I look? Like some sort of skinned, peeled, ghost-like apparition, whilst they look so round and succulent?”. Quello che qui appare, non è tanto l’altro vittimizzato dalla discriminazione razziale, ma quello che le resiste, che afferma l’autonomia del proprio sguardo.

 

Ph: Virginia Ryan, The Rue Du Commerce, 2013, courtesy of lettera27 art collection.

 

 

Lo sguardo di Virginia Ryan, come quello di tutti noi, non è scevro da presupposti etnocentrici, ma non coltiva gli stereotipi esotizzanti che eredita dalla propria cultura: l’Africa che ritroviamo nelle sue opere è un’Africa post-nostalgica, urbana e contemporanea, in cui le ultime tracce di un esotismo estenuato si consumano nell’ironia. Qui forse conta anche il fatto che Virginia sia una donna: l’Africa oggetto di uno sguardo concupiscente, vergine, terra di scoperta e di conquista, è il prodotto di un immaginario occidentale maschile.

 

Virginia è lontana dalla retorica del viaggio e della scoperta, quella di un’immediata presa di possesso, come se nessuno ci fosse passato prima, come se gli africani non avessero da sempre già prodotto un sapere e delle immagini di se stessi. L’arte di Virginia va piuttosto nella direzione di un lavoro di ri-mediazione degli artefatti culturali che mediano il senso locale della realtà: arte, media, pubblicità, cultura di massa. Il suo accesso alla realtà è filtrato dalle immagini che si producono o circolano localmente, la sua autorialità artistica si innesta sulla creatività culturale degli altri. Quello su cui lavora sono allora i poster consumati dal tempo dei cinematografi di Grand Bassam, che lei assembla e ridipinge (L’Histoire Sans Fin, 2014) o le foto delle persone che trova negli archivi destinati al macero dei fotografi ivoriani, che poi stampa su lunghi rotoli di tessuto; oppure ancora i dipinti scultorei creati assemblando oggetti trovati sulla spiaggia, resti materiali di vite vissute (Castaway 2003-2008) o le fotografie ridipinte dei grandi manifesti pubblicitari che costellano i principali snodi di Abidjan (Selling Dreams 2012-2014).

 

Ph: Virginia Ryan, Found photographs from Grand Bassam, installation Spoleto, courtesy of the artist.

 

L’opera di Virginia assume così il carattere di un lavoro intermediale, fatto attraverso le cose e le immagini che tessono la trama della realtà. Qui i confini fra il reale e l’immaginario, il proprio e l’altrui, l’individuale e il collettivo, tendono a confondersi, ma non a svanire: da un lato questo lavoro di ri-mediazione autoriale indebolisce il nesso con il contesto di partenza, ma dall’altra non arriva mai a cancellare l’intenzione comunicativa che era alla base dell’artefatto originario.È questo il motivo per cui accade che con le opere di Virginia Ryan non solo sentiamo di guardare, ma anche di essere guardati, di poter guardare non solo all’arte ma anche attraverso l’arte.

 

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Palazzo Lucarini Contemporary, Trevi (4 marzo – 25 aprile 2017)

Duchamp. Fontane e altro

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Cosa non ha scatenato Fontana di Duchamp da cent’anni a questa parte neanche Saâdane Afif ce lo saprà mai dire in maniera esauriente. Questo artista, Afif, ha vinto nel 2009 il Premio Duchamp del Centre Pompidou con un progetto intitolato The Fountain Archive, che a gennaio il prestigioso museo parigino ha esposto nel suo stato attuale. Si tratta per l’appunto del più completo archivio sul readymade di Duchamp mai messo insieme, ovvero di come compare riprodotto nelle pubblicazioni che Afif ha rintracciato a livello internazionale

 

 

Del resto i siti su di esso si moltiplicano tuttora, e le immagini che vi si rifanno, anche fuori dal mondo dell’arte, ragazze e ragazzi con scritto R. Mutt sul braccio o non so dove, vestiti a forma di Orinatoio… insomma è diventato uno scandalo di successo planetario – anche in Cina: si ricorderà il famoso quadro di Shi Xinning con un attonito Mao Zedong che lo scruta.

 


Molti gli artisti che vi si sono rifatti, degli italiani ne abbiamo interpellati almeno tre storici, che ci hanno dato tre versioni così diverse, e direi complementari, necessarie in realtà secondo noi a dare almeno un assaggio delle sfaccettature dell’opera in questione, nonché della personalità del suo autore e della sua influenza. Si sarà notato come Baruchello miri all’intelligenza complessiva, Patella alla forma per così dire psico-linguistica, mentre Gioli rende esplicito il rimando corporeo-sessuale, nonché alchemico. Duchamp è stato tutto questo, e anche il readymade, non lo si può ridurre al suo aspetto di provocazione o a quello formale. Si ricorderà che Duchamp, in difesa e a spiegazione del gesto di Mutt, nel testo pubblicato sul numero speciale della rivista The Blind Man dedicato al “Caso Richard Mutt” non lo difendeva esteticamente ma piuttosto eticamente da un lato (se lo statuto dell’esposizione diceva che qualsiasi opera presentata andava accettata senza discriminazione né giudizio, cioè ogni opera era “d’arte”), dall’altro lo legava piuttosto a quella che dichiarava essere niente meno che l’invenzione più rappresentativa degli Stati Uniti d’America, ovvero l’“idraulica”! Metafora interessante, no?, specie oggi che si parla da ogni parte di “società liquida”.

 

Carla Subrizi ha aggiunto altre rielaborazioni dirette di Fontana e molte altre se ne possono evocare. A me viene in mente in modo particolare, per ricordo personale, una lettera aperta di Mattia Moreni per una fanzine che fabbricavo con Marco Cingolani alla fine degli anni ottanta e che si chiamava Ipso Facto. Moreni parlava in modo particolare di Duchamp, a sua volta con una metafora alquanto insolita, un po’ macabra, direi, ma curiosa: “Ho conosciuto Duchamp prima della morte: aveva gli occhi fosforescenti di quelli che stanno per morire fosforescenti”. Voleva dire di una luce – mi pare che rimandasse a una citazione da Goethe – che si stava esaurendo, spegnendo? Comunque, poi prendeva di mira proprio Fontana esplicitando un pensiero che molti devono aver avuto: e se l’Orinatoio tornasse alla sua funzione? Se ci pisciassimo dentro? Magari dentro il museo stesso: “Pisciare, oggi, nel pisciatoio di Duchamp al museo di Filadelfia, sarebbe un avvenimento performato illibato, oltretutto intenso – dove l’operazione coincide con il sublime – quanto quello di esporlo, chiamandolo Fontana”. A parte il rovesciamento del readymade, la sua restituzione alla realtà, verrebbe rovesciato anche lo scandalo con uno scandalo opposto, ma sublime.

 


Non molti ricorderanno che già il trio Gilles Aillaud, Eduardo Arroyo e Antonio Recalcati aveva “raddrizzato” l’Orinatoio– e restituito anche al luogo di origine, non al museo ma alla toilette pubblica – nel loro Vivre et laisser mourir ou La fin tragique de Marcel Duchamp nel 1965, dove l’orinatoio figura appeso su un fondo di piastrelle. L’opera a sei mani, accompagnata anche da un testo narrativo in stile thriller di “messa a morte” dell’artista, fece grande scalpore e non poche furono anche le proteste nei confronti dell’accanimento su un artista comunque così importante trattato in modo impietoso, ma diventò anche un manifesto della riscossa di chi difendeva le ragioni della pittura, non riducibile alla “retinicità” come Duchamp aveva preteso.

 

 

Quanto a Marco Cingolani, da parte sua ha cavalcato la metafora liquida di Fontana rivoltandola contro Duchamp e realizzato alla fine degli anni ottanta le serie – sia in pittura-collage, sia in miniscultura, come nella duchampiana Scatola-in-valigia, dove, si ricorderà, c’è una versione in miniatura di Fontana– intitolata significativamente Liquidare Duchamp, cioè appunto farla finita con tutta la storia a cui aveva dato adito, quel modo di considerare l’arte e il fare artistico.

 

 

In tempo non più di scandali un’altra restituzione è la ripresa di Fontana probabilmente più recente, esplicitamente intitolata America, di Maurizio Cattelan, del 2016. Si tratta, com’è noto, di un wc d’oro 16 carati installato in una toilette del Guggenheim Museum di New York. (In realtà il riferimento più diretto è naturalmente a Piero Manzoni e alla sua Merda d’artista, e alla famosa fotografia in cui si fece ritrarre con una scatoletta in mano sulla porta del gabinetto, ma non molti americani li conoscono e rimandano direttamente a Duchamp: vedi Calvin Tomkins). Pare che ci sia costantemente la fila fuori dalla porta: tutti ci vogliono pisciare dentro! Vendetta o godimento (da parte dello spettatore)? Fallimento o rivincita (da parte dell’artista)? Né l’una né l’altra, se capiamo bene Cattelan, cioè appunto l’aldilà dello scandalo, la sua spettacolarizzazione che vanifica le opposizioni, cent’anni dopo.

 

 

E non si dimentichi di pulirsi eventualmente con qualche pagina di Toilet Paper (come già intitolava la rivista di sua invenzione)!

Quest’ultimo è peraltro il titolo anche della serie, iniziata nello stesso 1965, di Vivre et laisser mourir, di Gerhard Richter, con il rotolo della carta igienica dipinto in sfocato, uno dei primi secondo questa modalità che lo renderà famoso.

 

 

Insomma tutta una storia si disegna a partire da Fontana, la quale, ricordiamolo ancora una volta, in realtà non fu mai esposta e venne smarrita subito dopo la famosa unica fotografia scattata per essere pubblicata nel dossier di The Blind Man. Sicuramente anche di questo ci vuole parlare Saâdane Afif: in fondo Fontana non esiste, potrebbe anche non essere mai esistita realmente, ovvero è di fatto, esiste nella forma delle riproduzioni e dei discorsi che si sono fatti e si fanno su di essa, di queste immagini fantasma e parole intorno, a cui abbiamo voluto aggiungere anche quelle del nostro piccolo omaggio.

Adieu.

 

Paolo Gioli

      

Ho sempre pensato alla Fontana di Duchamp come a un calco in negativo del bacino di un uomo. Svuotato di viscere e di testicoli ma comunque gran emanatore di sperma, dà vita a Marcel.

 

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Elio Grazioli | Paolo Gioli

Santiago Sierra. Il denaro e la colpa

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In quest’epoca di crisi, di conflitti e di ascesa di nazionalismi, gli artisti o scelgono di disinteressarsi ai fatti del mondo ripiegandosi su loro stessi – e quindi, nei casi più felici, grandi narrazioni sull’io, sull’esistenza, sulla psicoanalisi – oppure, al contrario, operano una critica delle condizioni sociopolitiche del nostro tempo. Spesso il rischio è quello di scadere in una retorica buonista, quando non superficiale, oppure di produrre mostre densissime, complesse, cerebrali, forse più simili ad una tesi di laurea in Scienze Politiche. Pochi sono in grado di mettere a nudo i meccanismi del sistema dall’interno come Santiago Sierra (Madrid, 1966), con durezza e rigore, ma anche in maniera lineare.

 

Santiago Sierra, Black flag.


L’artista infatti individua un problema, una falla nel tessuto sociale, e lo mostra per quello che è. Spesso realizza performance controverse in cui sfrutta direttamente con quelle fasce di popolazione in cui si individua una criticità (come disoccupati, immigrati, prostitute) per dare loro voce. Offre loro un salario minimo per svolgere azioni spesso inutili quando non dolorose, come farsi tatuare una linea sulla schiena, come in “Riga di 250 cm tatuata su 6 persone retribuite”, realizzata nel 1999 a L’Avana. Di questi meccanismi di sfruttamento e di queste differenze sociali siamo tutti colpevoli. Ecco quindi due parole chiave della sua pratica artistica: il denaro e la colpa. 

 

Santiago Sierra, Burned word.


Ne ho discusso con Santiago Sierra, che ho incontrato al PAC in occasione di “Mea Culpa”, la sua prima mostra antologica in Italia. Restio a parlare, non è uno di quegli artisti che di norma rilascia interviste. Riusciamo a scambiare qualche parola dopo la conferenza stampa. Per prima cosa dice di essere felice della mostra perché ha potuto agire in totale libertà. Di norma è un lungo processo di negoziazione, di addomesticamento, mentre in questo caso ho fatto quello che volevo nonostante siano opere dense e problematiche. Questa non è una cosa normale e perciò è preziosa. Un pregio della mostra è quello di essere prevalentemente costituita dalla documentazione, a parte alcune opere sculturee, l’installazione al primo piano “21 moduli antropometrici di materia fecale umana realizzati dai membri di Sulabh International” e le due performance realizzate in occasione dell’opening (una con alcuni senzatetto di Milano su compenso pari a 10 euro, l’altra invece con un veterano di guerra pagato per stare in piedi rivolto contro a un muro).

 

Santiago Sierra, Cube of carrion, 2015.


In questo modo non viene snaturata la sua pratica artistica, cosa che sarebbe facilmente accaduta integrando nell’allestimento alcuni oggetti usati nelle sue azioni, unicamente come feticcio/reliquia. Chiedo a Santiago in che modo realizza le sue performance e con quale criterio sceglie le persone che vi partecipano: Le persone in realtà si scelgono da sole. Si rendono disponibili volontariamente e ciò che ne risulta è una sorta di tracciato della nazione. Il salario minimo mette a nudo una verità: chi è disposto a fare qualcosa per pochi soldi è perché sta male ed ha fame. Per “Forma di 600x57x52cm” sono stato anche tacciato di nazismo per questo, perché si erano rese disponibili solo persone di colore.

 

Egli stesso definisce la sua pratica “antitesi della partecipazione”, in quanto chi partecipa alle sue performance si limita a fare ciò per cui è pagato. Negli anni ’70 la partecipazione aveva un altro senso, significava partecipare all’evento culturale. Vi era un forte senso di partecipazione alla società. Oggi partecipazione significa vendere il proprio tempo a terzi. 

A questo proposito, nel suo saggio del 2004 “Antagonism and Relational Aesthetics”, Claire Bishop, dopo aver messo in luce la matrice marxista del lavoro di Santiago Sierra, afferma che la sua pratica è relazionale (in riferimento a Bourriaud) nel senso che problematizza la natura delle interazioni tra individui, che sono sempre spaccate in due e determinate da rapporti di potere. Non riconcilia nessuno, anzi amplifica la tensione: il conflitto resta irrisolto. Sfruttatore e sfruttato, vittima e carnefice sono entrambi parte del sistema, e perciò ciascuno è colpevole.

 

Santiago Sierra, Veteran ukraine.


La mostra inizia già dal titolo, che è stato scelto dai curatori Diego Sileo e Lutz Henke e permette una chiave interpretativa del mio lavoro. È una provocazione. La colpa in realtà non esiste. È una parola chiave che spiega il sistema: serve infatti al sistema per creare un colpevole. Probabilmente se avessi dovuto dare io il titolo alla mostra, avrei scelto qualcosa nelle mie corde di molto descrittivo come “Santiago Sierra: 50 lavori” oppure “Santiago Sierra: 50 opere”. Normalmente scelgo titoli descrittivi che riportano numeri, cifre. Sono titoli che non nascondono nulla, anzi rivelano, mentre “Mea culpa” invece interpella il visitatore. Non dà risposte, ma al contrario invita ad interrogarsi sulla struttura del sistema in cui viviamo. Ben consapevole del reale impatto della sua pratica artistica nel mondo reale, afferma: Io faccio l’artista perché non posso fare altro. Questo è un mondo dominato dal mercato e dalle guerre. Verrà poco influenzato da quello che faccio io.

 

Santiago Sierra. Mea Culpa, a cura di a cura di Diego Sileo e Lutz Henke, PAC Padiglione d’Arte Contemporanea (29 Marzo 2017 - 04 Giugno 2017).

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PAC (29 Marzo 2017 - 04 Giugno 2017)

Ricalcare più vive membra

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Sottotitolo: 
Monica Biancardi e Gabriele Frasca

Sullo schermo appare un sipario rosso; sul suo sfondo si proiettano le silhouettes di due spettatori, di spalle, in attesa che il sipario si apra. Poi si materializza, sul bianco, una seconda immagine – che sovrasta la precedente. All’inizio vediamo disegnarsi solo delle linee verticali: il colore è lo stesso rosso dell’immagine-matrice, ma le linee sono come evidenziate da una pulsazione interna. Poi, a partire da quelle linee di forza, appare il resto dell’immagine-eco: una donna è seduta, i piedi nudi poggiati su dei gradini metallici; il suo corpo è incorniciato, forse imprigionato, dalle linee verticali rosse, pure di metallo, che – capiamo ora – sono le sbarre della ringhiera di sicurezza posta ai lati della scala. La donna ha il volto seminascosto dalla mano destra che lo sorregge, nella posa canonica della melancholia. Ma la riconosciamo: perché anche il vestito che indossa è dello stesso rosso del sipario, e presenta le stesse pieghe. Mentre va in scena, nel giro di pochi secondi, questo piccolo quanto acutissimo dramma della percezione e del riconoscimento, si sente una voce maschile – sullo sfondo del paesaggio sonoro, sottile quanto straniante, di Stefano Perna – leggere a voce bassa, come esausta: «l’interprete che il ruolo strema / oppure il pubblico che fissa il suo sipario / per tutta la durata della farsa / che nemmeno si recita sul palco». La donna è l’autrice delle due fotografie, Monica Biancardi; la voce è quella di Gabriele Frasca.

 

 

Il titolo di quest’ammaliante «drammaturgia per immagini» è RiMembra e il video è in proiezione alla Biblioteca Museo Nitsch, a Napoli, nell’ambito della mostra omonima di Biancardi (fino al 21 maggio). Ed è lo stesso titolo del bellissimo libro (Damiani, pp. 72, € 25) nel quale queste fotografie – collazionate a gruppi di due, qualche volta di tre, dall’attentissimo progetto grafico di Leonardo Sonnoli – si presentano accompagnate, oltre che dal rotolo continuo dei versi di Frasca, da un’acuta postfazione di Lorand Hegyi. Ma soprattutto, direi, da una manciata di versi, in apertura, di Michelangelo Buonarroti:

 

Molto diletta al gusto intero e sano

l’opra della prim’arte, che n’assembra

i volti e gli atti, e con più vive membra,

di cera o terra o pietra un corp’umano.

Se po’ ’l tempo ingiurioso, aspro e villano

la rompe o storce o del tutto dismembra,

la beltà che prim’era si rimembra,

e serba a miglior loco il piacer vano.

 

Il frammento di sonetto, scodato delle terzine, è databile (stando all’ultima edizione delle Rime e lettere, a cura di Antonio Corsaro e Giorgio Masi, Bompiani 2016) al 1557-60; ed è uno dei componimenti di Michelangelo che più acutamente metta a tema l’atto della mimesi artistica, l’assembrare le fattezze di un corp’umano nelle più vive membrapiù vive perché delle nostre più resistenti, più durature – costituite dalle materie dell’arte plastica. Così che la beltà originaria, col suo così fragile piacer vano, possa essere rimembrata anche dopo l’azione devastante, su di essa, del tempo ingiurioso, aspro e villano.

           

Con «furiosa» torsione sintattica, e fissità dell’immagine verbale, squisitamente manieristiche, questi versi fanno rimare l’assembrare con il rimembrare, le membra e il loro dismembrarsi. Dunque collegano l’arte del far somigliare il simulacro al suo referente con l’azione della memoria, passando per il tramite del corpo: della sua umana caducità.

 

Ma nella nostra memoria poetica, è il caso di dire, il verbo rimembrare (associato oltretutto alla beltà) non può che richiamare un esemplare più recente, e molto più canonico, di quello michelangiolesco (del quale, peraltro, può aver tenuto conto). A Silvia di Leopardi inizia, infatti, proprio con rimembri. Una memoria attribuita, con sottile gioco di specchi, al personaggio che è in effetti oggetto della memoria di chi scrive: un soggetto che torna ossessivamente alla di lei beltà che splendea, quand’era ancora in vita, negli occhi ridenti e fuggitivi, e poi nella man veloce, nelle negre chiome, forse soprattutto nella voce, col suo perpetuo canto, della giovane recanatese Teresa Fattorini adombrata dal senhal tassiano che, a ben vedere (lo ha mostrato Franco D’Intino in un bellissimo saggio), altro non è che un fantasma, un revênant (che nella fattispecie riprende il motivo persefoneo, della Kore adediretta che ciclicamente ritorna fra i viventi). Anche Leopardi, dunque, sta ragionando – con linguaggio diverso da quello michelangiolesco, certo – sul proprio modo di assembrare ciò che rimembra: facendo a sua volta cioè, della materia verbale, qualcosa di aëre perennius. (E infatti, se oggi ci ricordiamo della viva beltà di Teresa, lo dobbiamo unicamente a queste sue parole.) La materia persistente della poesia, la materia verbale, è un equivalente di quella memoria inorganica “professionalmente” evocata da Michelangelo sulla quale, non a caso, si chiude il testo di Leopardi: «con la mano / la fredda morte ed una tomba ignuda / mostravi di lontano». La mano rimembrata è quella della beltà vivente di Teresa; quella assembrata appartiene al simulacro di Silvia, scolpita nel ricordo come facevano gli artisti di quel tempo (penso al Monumento funebre a Cristina d’Austria di Canova o, più vicino a Leopardi, ai lavori di un neoclassico minore, Pietro Tenerani, che nei Canti sono oggetto di ekphrasis nel componimento Sopra un basso rilievo antico sepolcrale dove una giovane morta è rappresentata in atto di partire accomiatandosi dai suoi).

 

Pietro Tenerani, Bassorilievo funebre per Clelia Severini,  1825 (Roma, San Lorenzo in Lucina).

 

Nella sua formidabile (quanto accademicamente svillaneggiata) produzione saggistica, spesso Gabriele Frasca ha ragionato sul rapporto di emulazione – ma anche spettrale sostituzione – fra la trasmissione della memoria genetica e quella, non genetica, operata mediante parole e immagini. Un’ambivalenza profonda appartiene in qualche misura a chiunque rimembri e assembri, in forma di simulacro, la beltà vivente: da un lato attraverso tali simulacri – non importa se materiati di parole, o di cera o terra o pietra– serbiamo la memoria di quei corpi, di chi magari è presente nel momento in cui lo ritraiamo ma la cui vita, sappiamo, avrà una durata mortale; ma questa sopravvivenza si produce a costo di una trasmutazione, una transcodificazione non genetica che in qualche misura è il doppio speculare, il revênant dello stesso processo col quale il corpo invecchia e muore. Nel sostituirsi alla materia vivente – anche con la migliore delle intenzioni, quella appunto di farla sopravvivere nella memoria – il simulacro inorganico corrisponde all’azione del tempo sulle fibre viventi che esso in qualche modo vorrebbe riparare, o contraddire. A questa dialettica ineludibile pare alludere già Michelangelo, quando parla del tormento di rendere il corpo umano in cera, terra o pietra: quelle più vive membra sono più vive, s’è detto, in quanto più resistenti di quelle organiche; ma sono anche più morte perché non animate dalla vita che, assembrandole, rimembrano.

 

Questo senz’altro mostrano, in ogni caso, i versi di Frasca. Che, come detto, spesso in passato (per esempio nel magnifico saggio La scimmia di Dio. L’emozione della guerra mediale, Costa & Nolan 1996) ha ipostatizzato questa dialettica in un film anni Cinquanta, L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel (fatto oggetto, nei decenni, di ripetuti quanto significativi remakes). L’«ultracorpo» è appunto il simulacro che si sostituisce al corpo vivente. Nel caso del film di Siegel – perfetto esempio dell’immaginario paranoide d’epoca maccartista – chi allestisce il simulacro (gli invasori alieni) ha intenzioni esplicitamente ostili; ma l’esito, a ben vedere, non è così distante da quelle dei simulacri che tutti noi realizziamo.

 

 

 Penso per esempio al pupazzetto di carta che lascia – con intenzioni appunto minacciose – Gaff, il “poliziotto cattivo” alla fine di Blade Runner (il film che nel 1982 Ridley Scott trasse da Philip K. Dick: un’altra delle ossessioni saggistiche di Frasca) nell’appartamento della replicante Rachael, la donna-simulacro amata da Rick Deckard. Anche quell’origami apparentemente innocuo è un sostituto del corpo umano, e in quanto tale adombra il venir meno dei corpi: il loro essere sostituiti, fagocitati da una riproduzione inorganica. Con questo gesto Gaff brutalmente allude alla natura artificiale del corpo di Rachel: simulacro di natura particolare poiché angosciato – al pari degli altri “replicanti” che Deckard ha lo sgradevole incarico di “ritirare” dalla circolazione, nella Los Angeles del 2019 – dalla data di “scadenza”, che essi ignorano, impressa nel loro organismo da chi li ha fabbricati.

 

 

A questa dialettica si riferiscono, Biancardi e Frasca, nel corpo del loro lavoro comune: l’una costruendo una «drammaturgia» dell’assembrare e del rimembrare, prima che nelle immagini video, nella costruzione del suo libro; l’altro, nelle sue pagine, inseguendo da par suo le immagini della fotografa, sua complice annosa. Prendiamo per esempio l’immagine posta in copertina al libro. È un’immagine che, presa a sé, può trarre in inganno: facendo venire in mente le figure corrive di Fernando Botero, l’ambivalenza grottesca di attrazione erotica e orrore teratologico che esse incutono. Ma se solo si apre il libro, e si procede nella lettura dell’immagine che a quella del piatto superiore viene così affiancata da quello inferiore – il dettaglio di un elemento decorativo scultoreo, che presenta le stesse pieghe del corpo della donna ritratta di spalle in copertina –, si capisce come di tutt’altro genere sia la trappola percettiva allestita da Biancardi. Hegyi definisce «coerenza materiale» il modo in cui la fotografa assembra corpi viventi a elementi inorganici (per esempio, come in questo caso, architettonici): la parola coerenza fa pensare all’ultima delle Lezioni americane, che Italo Calvino non fece in tempo a scrivere ma che, frugando fra le sue carte preparatorie, si è scoperto avrebbe dovuto intitolarsi appunto Coerenza, e alludere a quella che Edgar Allan Poe nei suoi scritti saggistici chiamava consistency: una continuità universale in cui sussunti nel medesimo ciclo sono enti organici e inorganici, sino a cancellare tale distinzione. Si pensa ai corpi cubici di Luca Cambiaso (descritti da Achille Bonito Oliva nell’Ideologia del traditore); ma è questa, in effetti, una costante del manierismo non solo cinquecentesco: la troviamo in un pittore cubista del Novecento come Fernand Léger ma anche alle origini stesse della nostra letteratura, in autori cui spesso ha guardato Frasca come Guido Cavalcanti (nel bellissimo sonetto Tu m’hai sì piena di dolor la mente, che ci mostra un uomo fatto «di rame, di pietra o di legno») o Guido Guinizzelli (in quello, ancora più impressionante, Lo vostro bel saluto e ’l gentil sguardo, in cui il soggetto si trova tramutato in una «statüa d’ottono, / ove vita né spirto non ricorre, / se non che figura d’omo rende»).

 

 

 Ma cosa significa l’azione dell’assembrare? Cosa vuol dire che un oggetto ce ne rimembra un altro? Che cosa implica trovare nella realtà – o addirittura, prendendo in questo caso trovare nel senso poetico del trobar, ossia produrre artificialmente – un equivalente di quello che ci ha tanto colpito? Nel suo testo Frasca parla di una «matrice dove scinde l’ombra che intanto che moltiplica rimembra»; e infatti le immagini di Biancardi sono sempre immagini moltiplicate – raddoppiate il più delle volte, in altri casi triplicate – come se riproducessero un eco, un riverbero, un effetto rebound: quello appunto dell’immagine che ne rimembra un’altra (in una delle immagini appaiono gli anelli sulla superficie dell’acqua). L’interrogativo va allora riformulato così: qual è l’immagine-matrice (per usare l’immagine di Frasca), e quale l’immagine-eco? Dall’impaginazione del libro non è dato desumerlo. Prendiamo per esempio il primo dittico in esso contenuto: l’artista ci dice che la prima immagine che ha fotografato è quella riportata nella metà inferiore della pagina (riporto le sue parole dalla presentazione del libro al MADRE di Napoli, lo scorso 12 aprile: «ripresa un inverno a Procida, a Terra Murata. Lì dove vengono lasciate tutte le cose che non vengono più utilizzate della settimana santa, nella famosa processione del Cristo morto. Questo tronco blu, sul quale erano cresciuti dei funghi, è stato l’inizio di questo progetto»), e questo infatti ci mostra l’“impaginazione” del video.

 

 

Così sappiamo che l’immagine-matrice è la seconda, e l’immagine-eco la prima: invertendo quello che è il tradizionale ordinamento di lettura di noi occidentali, che anteponiamo la sinistra alla destra e l’alto al basso. Col mettere in discussione questo nostro “inconscio narrativo”, analitico, RiMembra enfatizza il procedimento sintetico (e diciamo pure “poetico”) col quale siamo invece abituati a “leggere” le immagini – il cui accostamento segue in questo lavoro, come abbiamo visto, principi di analogia formale e strutturale. Eppure in alcuni casi ci è impossibile evitare forme di lettura più “narrative”.

 

 

 Prendiamo per esempio uno dei dittici che personalmente mi hanno più emozionato, quello in cui troviamo raffigurata a sinistra una bellissima donna anziana, col volto reclinato dal quale si diparte un’onda di fluenti capelli bianchi. Alla sua destra, un uomo e una donna si baciano appassionatamente sullo sfondo di una parete monumentale. Col suo essere sfocata la foto appare “rubata”, scattata al volo: un bacio rubato che può ricordare (non formalmente ma in quanto «atto fotografico», per dirla con Philippe Dubois) il celebre Bacio davanti all’Hotel de Ville di Robert Doisneau, 1950 (che, ironicamente, a posteriori si scoprì essere stato realizzato, invece, impiegando due giovani attori in posa). C’è anche in questo caso – come mi fa notare Monica – un’“eco” strutturale (la filigrana dei capelli della donna anziana pare riprodurre quella sottile che percorre la pietra alle spalle degli amanti), ma è appunto impossibile non “leggere” la successione in modo “narrativo”, ossia come flashback nostalgico di un remoto calco di vita – un po’ alla maniera dell’Ultimo nastro di Krapp di Beckett, per convocare la massima ossessione di Frasca saggista e traduttore – rimembrato dalla donna. (In realtà confida Monica come la successione, com’è anche “logisticamente” verosimile, ha visto svolgersi prima il “bacio rubato” e poi, a distanza di tempo, la messa in posa della donna anziana.)

 

Robert Doisneau, Baiser de l'Hotel de Ville, 1950.

 

Nel descrivere queste immagini, come abbiamo ascoltato, Frasca parla di «un unico affiorare di relitti, da riportare in secco e giustapporre». Relitti, appunto, sono le impressioni che degli oggetti visti serbiamo nella nostra memoria genetica per poi riprodurli con strumenti inorganici, verbali o iconici che siano. Questa doppia articolazione della memoria, diciamo, è stata messa a tema da Frasca sin dalle origini della sua opera in versi: nella prima raccolta poetica, Rame, pubblicata in due diverse versioni nel 1984 e nel 1999 (e ora rifusa, insieme al successivo Lime, nel volume Lame, con postfazioni di Giancarlo Alfano e Riccardo Donati, fuoriformato L’orma 2016: già da questi titoli – che “ruotano” attorno all’innominato «Rime» – è facile capire quanto quello dei simulacri sia tema decisivo nel suo immaginario) si trova un dittico di testi brevissimi – sonetti ridotti ancora più crudelmente di quello michelangiolesco – rispettivamente intitolati Calcare e Ricalcare:

 

su questa pietra stampa questa pietra

quanto resta di pelle che fu tesa

fin quando steso tese la sua tetra

crosta l’asciutto stampo dell’attesa

con cui ciascuno fra i midolli scruta

quel che sarà dell’ultima venuta

 

cosi se seguitai seguirti dammi

il senso dell’impronta da seguire

per calcare la strada degl’inganni

senza aver sempre voglia di finire

finire col ringhiare contro il cielo

se la corolla crolla sullo stelo

 

Il tema, centrale nella poetica di Frasca, è quello del riprodurre e fare propri i calchi della tradizione letteraria. Ma più in profondità allude anche a quello che per me è sempre stato il DNA del suo immaginario, cioè appunto la somiglianza (ma segreta antinomia) fra riproduzione genetica e ricalco non genetico della memoria umana. Non è un caso che nei suoi versi torni spesso il tema della fotografia (e non tanto nella forma dell’ekphrasis quanto come «atto fotografico»): come dire che la scrittura si pone quale equivalente della riproduzione delle immagini, del suo calcare e ricalcare gli oggetti della realtà fenomenica. Il ricalcoè l’immagine che produciamo per riprodurre quello che ci ha calcato, ci si è timbrato nella memoria: nello sforzo, a volte vano altre più fortunato, di riprodurre quel calco, di ricalcare l’impronta che la vita ha impresso sulla nostra mente.

 

Nel suo testo Hegyi spiega come tutto il lavoro di Biancardi si possa riassumere nel continuo ritornare di immagini agenti (come si diceva appunto, di quelle della memoria, nel pensiero del Cinquecento): immagini sempre attive che alludono al calco, all’impronta di qualcosa che è stato sottratto e che proprio per questo lascia memoria di sé. C’è tutta una tradizione filosofica che può essere evocata. Pensiamo ai paragrafi delle Ricerche filosofiche di Wittgenstein sul tema dell’air de famille: perché le cose si somigliano? Cosa c’è nelle cose che ci fa percepire una somiglianza tra loro? Oppure a certi frammenti degli stessi anni, meno noti di altri suoi, di Walter Benjamin, per esempio la Dottrina del somigliante (destinata a essere rielaborata nella sua teoria letteraria, al momento di parlare di un testo evidentemente attinente a questo tema, Le affinità elettive). O infine all’opera tarda di Paul Ricoeur, il più grande pensatore contemporaneo della memoria.

 

Il lavoro di Biancardi si dispiega nel tempo perché – come nello sviluppo analogico delle vecchie immagini fotografiche – ogni immagine-matrice necessita di una certa decantazione. Sino a ispirarle, magari a distanza di anni, disegni (riprodotti da Sonnoli nel corpo del testo di Hegyi) che, di quell’immagine prima, riprendono magari pochi tratti – nervature strutturali o motivi decorativi che però, “baroccamente”, si rivelano a loro volta portanti. Per esempio, esposta al Nitsch, dell’immagine dialettica composta dal sipario (che una didascalia c’informa essere relativo a un dramma di prigionia e liberazione, Fidelio) e dall’autoritratto col vestito rosso, che descrivevo all’inizio, è presente anche l’immagine-nesso, il link disegnato a mano che, dell’immagine-eco, finisce così per essere una sorta di “cartone”. Un diagramma composto dalla memoria della prima immagine, e dalla sua rielaborazione fantastica.

 

 

Perciò questo lavoro aveva bisogno dell’ulteriore immagine rappresentata dai versi: di Michelangelo e del suo emulo di cinque secoli dopo. È costitutivamente, strutturalmente poetico un lavoro sull’immagine che calca e ricalca la memoria del mondo: perché ogni volta compone, con quella matrice, un’immagine dialettica che è, a tutti gli effetti, una rima mentale. Colpisce che il nostro poeta che sulla rima più ha lavorato, in questi trent’anni e passa, proponga stavolta un testo che di rime è del tutto privo. Perché tutto il suo testo, in effetti, rima: con le immagini e, loro tramite, col mondo. Con la sua beltà, e il suo piacer vano, che il tempo provvederà presto a dismembrare ingiurioso.    

 

Una versione più breve di questo articolo è uscita su «Alias» il 23 aprile. Libro e video di RiMembra verranno presentati da Andrea Cortellessa e Franco Nucci – con la partecipazione degli autori – a Roma, al MACRO di Via Nizza, il 13 giugno alle 18.00

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Monica Biancardi e Gabriele Frasca

Arte, Africa, Rivoluzione

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Da sinistra: Marco Scotini, Direttore artistico di FM Centro per l’Arte Contemporanea; Adama Sanneh, Direttore dei programmi di Fondazione lettera27; Simon Njami, Scrittore, Curatore, Direttore artistico della Biennale di Dakar 2016 e 2018.

 

English Version

 

A che serve l'arte? È una domanda che mi faccio spesso, dalla mia posizione di non-artista, di non-curatrice, di donna che ha messo l'impegno sociale al primo posto nella scala personale dei valori e che dalle arti visuali è attratta e al tempo stesso intimidita. È una domanda a cui ho trovato una risposta convincente (seppur parziale e non definitiva) anche grazie a Simon Njami, Adama Sanneh e Marco Scotini, che lo scorso primo aprile erano ai Frigoriferi Milanesi per parlare di arte, Africa e rappresentazioni africane.

 

Talk con Simon Njami, Adama Sanneh e Marco Scotini all’interno della mostra Il Cacciatore Bianco / The White Hunter. Memorie e rappresentazioni africane presso FM Centro per l’Arte Contemporanea, Milano. Sullo sfondo: William Kentridge, Office Love, 2001, Collezione Laura e Luigi Giordano.

 

Alle loro spalle un arazzo di William Kentridge. Dalla mia postazione posso scorgere un’installazione di Yinka Shonibare: manichini senza testa, in abiti settecenteschi realizzati in wax, scrutano i libri di una biblioteca. Sono seduta a terra, a gambeincrociate, come la maggior parte del pubblico. L’effetto è elegantemente artistico e informale.

Questa conversazione a tre rientra nel “pacchetto” di appuntamenti collegati alla collettiva The White Hunter, inaugurata il giorno prima. Una mostra di arte contemporanea africana, hanno scritto i giornali. Ma non è proprio così. Si tratta piuttosto di un progetto che fa dialogare opere tradizionali e contemporanee dal e sul continente, ma il suo focus non è su dipinti e sculture, bensì sugli sguardi incrociati e asimmetrici che nel tempo si sono scambiati cacciatori bianchi e prede nere.

 

In primo piano: Yinka Shonibare, The age of Enlightment – Adam Smith, 2008, Collezione La Gaia.  In secondo piano: Rashid Johnson, Self Portrait as the Professor of Astronomy, Miscegenation and Critical Theory at the New Negro Escapist Social and Athletic Club Centre for Graduate Studies, 2008.

 

Scotini, docente alla Naba, direttore artistico del Centro per l’Arte Contemporanea dei Frigoriferi e curatore della mostra, è il padrone di casa; Sanneh, direttore dei programmi della Fondazione Lettera 27, è stato uno dei suoi preziosi advisor nell’allestimento; Njami, con il suo curriculum strepitoso e fresco di riconferma alla testa della Biennale di Dakar, l’ospite d’onore. Scotini fa le presentazioni e mette subito le cose in chiaro: la presenza del noto curatore di origine camerunese non è un espediente acchiappa-pubblico e nemmeno un caso. C’è un gioco di date, infatti, che in questo contesto la rende particolarmente sensata. The White Hunter prende le mosse dalla prima esposizione pubblica di scultura africana mai fatta in Italia, alla Biennale di Venezia, nel 1922. Un progetto in linea con il mood europeo dell’epoca, orientato all’arte e il più possibile distante dall’etnografia, ma che non fu capito dalla stampa e dall’intellighenzia. La stroncatura che ne derivò portò alla rimozione dell’arte africana dal dibattito culturale italiano e dalle manifestazioni artistiche per un lungo periodo.

 

Per ritrovare una presenza ufficiale dell’Africa a Venezia, con un padiglione dedicato, bisognerà aspettare il 2007. A curarlo sarà proprio Simon Njami, insieme con Fernando Alvim. Check-list (questo il titolo) non viene concepita come una mostra di opere africane ma come uno spazio africano. La provenienza degli artisti passa in secondo piano rispetto ai contenuti e alla loro capacità di creare risonanze e assonanze. I lavori di Andy Wharol e Jean Michel Basquiat (Usa), Alfredo Jaar (Chile), Miguel Barcelò (Spagna), trovarono così posto accanto a quelli di Bili Bidjocka (Camerun), Ghada Amer (Egitto), Santu Mofokeng (Sudafrica)…Njami e Alvim furono investiti da un fuoco incrociato di critiche feroci e complimenti entusiasti.

 

Perché è importante ricordare il 2007 e il padiglione Africa? L’episodio sancisce, su un piano istituzionale, l’esistenza e la possibilità di un modo di guardare l’Africa e la sua creatività diverso rispetto a quello che era andato imponendosi a partire da Magiciens de la Terre, la grande esposizione realizzata al Centre Pompidou di Parigi da Jean-Hubert Martin nel 1989, con l’idea di mostrare la creatività planetaria. In pratica: il primato dell’arte sulla geografia, dell’intenzione sulla spontaneità, delle persone in carne ed ossa sul feticcio dell’autenticità africana. «Questa immagine rigida, artificiale è qualcosa di veramente nocivo», osserva Njami. «Al tempo di Magiciens de la Terre, mi sono trovato con il curatore della mostra che si occupava della sezione Africa che mi ha chiesto dei consigli per la Costa d’Avorio. Gli ho segnalato tre artisti. Successivamente lui si è lamentato: "Non mi avevi detto che questi hanno fatto la scuola di belle arti", come se ciò fosse stato un ostacolo. E allora? "Volevamo gente autentica". Ma chi o cosa può dirsi autenticamente africano? Tante mostre sono state costruite con l’obiettivo di celebrare l’autenticità africana. Ma quando la rappresentazione è trasformata in un’essenza, la nozione (arbitraria) di autenticità diventa un criterio di esclusione e non di conoscenza. Chi non soddisfa i requisiti è tagliato fuori. Anche se è un artista e magari vive in Africa».

 

Adama Sanneh è sulla stessa lunghezza d’onda. «Abbiamo dato volentieri il nostro contributo a The White Hunter perché è una mostra che non pretende di rappresentare, raccontare o spiegare l’Africa, ma si focalizza sullo sguardo, che è una questione personale e soggettiva. Suggerisce delle domande, sull’altro e in primo luogo su se stessi. Perché abbiamo bisogno di creare la diversità? Perché– per dirla con James Baldwin (molto in auge al momento, grazie al film I’m not your negro – avete/abbiamo bisogno di un negro? E che cos’è il negro se non l’ipostatizzazione del diverso?».

Nella prima sala della mostra, subito dopo avere attraversato la capanna africana interpretata da Pascal Marthine Tayou, si può vedere un film della coppia di cineasti Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, intitolato Pays Barbare. «È stato realizzato con immagini d’archivio degli anni ’20», spiega Scotini. «Scene in cui i colonizzatori, divise chiare e cappello safari, si contrappongono ai corpi nudi degli africani. Costante è il collegamento visivo tra sguardo della macchina da presa e cannocchiale del cacciatore. La telecamera dell’esploratore e il mirino del fucile in fondo hanno lo stesso bersaglio: sempre di ‘caccia grossa’ si tratta. Lo sguardo si rivela un fattore originario e imprescindibile nella costruzione dell’alterità, prima che questa si tramuti in dipendenza, subalternità e sottomissione. Ma dichiara anche la posizione dell’osservatore».

 

Il cacciatore infatti non esiste senza la preda. I ruoli, però, sono ben più intercambiabili di quanto comunemente si creda. «Conosco persone che sono andate in Africa per comprare maschere, sentendosi cacciatori», dice Njami. «Ma sono state raggirate, divenendo prede».

La dialettica cacciatore/preda, così evidente nel contesto coloniale, non è in realtà una sua prerogativa. Mutatis mutandis, si ritrova in ogni epoca, in ogni relazione con l’alterità, in ogni forma di dominio. Probabilmente non è estirpabile. Riconoscerla però assicura un vantaggio in termini di comprensione (di sé, dell’altro) e di azione. Non solo e non tanto allo scopo di invertire le posizioni, di ribaltare lo schema di potere, quanto per riuscire a creare le condizioni per non farsi prendere, sul piano fisico e su quello dell’immaginario. L’imprendibilità della preda: questa oggi è la condizione di possibilità della rivoluzione.

 

«Ragionare su questi concetti, sul senso dell’arte e su come l’immagine dell’Africa venga sistematicamente costruita e rimandata ci dà la possibilità di mettere in discussione la società che ci circonda». Con questa affermazione Adama Sanneh chiude il cerchio rispetto alla questione iniziale. A cosa serve l’arte? A cosa servono le mostre? Possiamo provare a rispondere: a suscitare domande; ad abbozzare risposte; a ricordare che dietro ogni realtà manifesta se ne trova una latente. A trasformarci, per dirla con Paul Ricoeur, in maestri del sospetto.

 

«Non è per forza questo il ruolo dell’arte, ma è una possibilità che esiste e che trovo rilevante: essere uno strumento di sviluppo per il pensiero critico. In questo modo si può trasformare la società. Inoltre il linguaggio artistico permette di affrontare tematiche che in certi contesti, quelli autoritari per esempio, sarebbero off limits. Ce lo conferma l’esperienza che stiamo facendo con il format At Work di lettera27, ideato in collaborazione con Simon: costruire spazi di dialogo e una nuova generazione di pensatori, soprattutto dove ciò non è scontato». Ed è anche quello che The White Hunter si propone con il suo percorso espositivo, orientato alla decostruzione dello sguardo e delle parole chiave che ricorrono in ogni discorso sull’Africa. In un momento in cui il continente viene dichiarato “di gran moda” da tutti i media mainstream, in cui il mercato dell’arte comincia a coccolare i creativi africani, il primo passo è mettere da parte le mode e ricominciare a farsi domande. Dal dubbio comincia la rivoluzione.

 

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Appunti intorno a una conversazione e a una mostra

Art, Africa, Revolution

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From left: Marco Scotini, artistic director of FM Centre for Contemporary Art, Milan; Adama Sanneh, Fondazione lettera27’s program director; Simon Njami, writer, curator, and artistic director of the Dakar Biennale in 2016 and 2018.

 

Italian Version

 

What is the purpose of art? This is a question I often ask myself, as a non-artist, a non-curator, and a woman who puts social engagement at the very top of her value list and is both attracted to and intimidated by visual arts. It is a question to which I finally managed to find a convincing answer (although partial and non-definitive), also thanks to Simon Njami, Adama Sanneh and Marco Scotini, who gave a talk on art, Africa and African representations at Frigoriferi Milanesi on April 1, 2017.

 

Talk with Simon Njami, Adama Sanneh and Marco Scotini held on the occasion of the exhibition The White Hunter. African memories and representations, FM Centre for Contemporary Art, Milan. In the background: William Kentridge, Office Love, 2001, Laura and Luigi Giordano Collection.

 

Behind the speakers was a tapestry by William Kentridge. From my position I could see an installation by Yinka Shonibare: headless mannequins, with wax-printed garments from the 18th-century, intent on looking at some library books. Like most of the audience, I was sitting cross-legged on the floor. This gave the artistic environment an elegant but informal feel.

The three-speaker talk was part of a series of events related to The White Hunter collective exhibition, which had been inaugurated the day before. The press described it as a contemporary African art exhibition, but it was not exactly so. It was actually a project aimed at establishing a dialogue between traditional and contemporary works of art from and on Africa; the focus was not on paintings and sculptures, but on the intertwining and asymmetrical looks that have been exchanged over time between white hunters and black preys.

 

In the foreground: Yinka Shonibare, The Age of Enlightenment – Adam Smith, 2008, La Gaia Collection. In the background: Rashid Johnson, Self Portrait as the Professor of Astronomy, Miscegenation and Critical Theory at the New Negro Escapist Social and Athletic Club Centre for Graduate Studies, 2008.

 

Marco Scotini – a teacher at Naba, artistic director of the Frigoriferi Milanesi Centre for Contemporary Art, and curator of the exhibition – acted as host. Among his valuable advisors was Adama Sanneh, Fondazione lettera 27’s program director. Simon Njami, with his outstanding curatorial achievements and recent reappointment as artistic director of the Dakar Biennale, was the guest of honor. Introducing the event, Scotini immediately set things straight: the presence of the renowned curator of Cameroonian descent was neither an audience-attracting maneuver nor an accident. There were previous events that made his presence particularly significant in this context. The White Hunter exhibition was actually inspired by the first African sculpture exhibition created in Italy, at the Venice Biennale, in 1922. In line with the European cultural climate of the time, the 1922 exhibition followed an artistic rather than ethnographic approach, but was slated by the press and intellectual circles. The harsh criticism that it received led to the exclusion of African art from Italian cultural debates and art exhibitions for a long time.

 

Africa was officially welcomed back to Venice only in 2007, with a dedicated pavilion curated by Simon Njami and Fernando Alvim. The resulting exhibition, entitled Check-list, was not conceived as a showcase of African works of art but as an African space. The artists’ country of origin faded into the background compared to the content and range of meanings evoked. Works by Andy Wharol and Jean Michel Basquiat (USA), Alfredo Jaar (Chile), and Miguel Barcelò (Spain) were set alongside those by Bili Bidjocka (Cameroon), Ghada Amer (Egypt), and Santu Mofokeng (South Africa). The work by Njami and Alvim sparked both fierce criticism and enthusiastic applause.

 

Why is it important to remember the 2007 African pavilion? The event gave institutional recognition to a different way to look at Africa and its creative production, distancing itself from the views exemplified by Magiciens de la Terre, the global creativity exhibition curated by Jean-Hubert Martin at the Centre Pompidou in Paris in 1989. In other words, the African pavilion established the primacy of art over geography, of intention over spontaneity, of real people over the notion of African authenticity. “This rigid, artificial imagery is something truly damaging, ” says Njami. “At the time of Magiciens de la Terre, the curator in charge of the Africa section asked me for advice about Ivory Coast. I gave him the name of three artists. Later he complained, ‘You didn’t tell me they attended the Academy of Fine Arts,’ as if that were a hindrance. So what? ‘We were looking for authentic people.’ But who or what can be regarded as authentically African? Many exhibitions have been created with the aim of celebrating African authenticity. But when representation is transformed into an essence in itself, the (arbitrary) notion of authenticity becomes a criterion for exclusion, rather than a tool for knowledge. Those who do not meet these requirements are left out. Even though they are artists and live in Africa.”

 

Adama Sanneh was on the same wavelength. “We were glad to contribute to The White Hunter exhibition because it does not aim to represent, portray or explain Africa, but focuses on our gaze, which is a personal and subjective matter. It raises questions about the ‘other,’ but more importantly about ourselves. Why do we need to create diversity? To use James Baldwin’s words (a writer particularly in vogue these days, thanks to the film I Am Not Your Negro), why do you/we need a ‘nigger’ in the first place?And what is a nigger if not the hypostatization of diversity?”

In the first exhibition room, immediately after the African hut created by Pascal Marthine Tayou, it was possible to watch Pays Barbare, a film by Yervant Gianikian and Angela Ricci Lucchi. “The film includes archival footage from the 1920s,” explained Scotini. “Colonizers are shown in their light-colored uniforms and safari helmets, in contrast with the Africans’ naked bodies. There is a constant visual connection between the eye of the camera and the hunter’s scope. The explorer’s camera and the riflescope have the same target: after all, they’re big-game hunters. Our gaze is a determining and fundamental factor in the process of constructing otherness, which results in subalternity and subjugation. But it also reveals the viewer’s stance.”

 

There is no hunter without a prey. These roles are much more interchangeable than normally expected. “I know people who go to Africa to buy masks, feeling like hunters,” said Njami. “But end up getting swindled and turn into preys.”

The hunter/prey relationship, so evident in the colonial context, does not end with it. Mutatis mutandis, it can be found in all ages, in every relationship with otherness, in all forms of dominion. It is probably not eradicable. However, by becoming aware of it, we can come to a better understanding (of both ourselves and others) and take action. Not only, and not necessarily, to reverse roles and overturn power relations, but to avoid being caught both physically and in imagery terms. The uncatchable prey: that’s the way to revolution.

 

“By reasoning on these concepts, on the meaning of art, on how the image of Africa is constantly constructed and displayed, we can really question the society we live in.” With this remark, Adama Sanneh circles back to the original question. What is the purpose of art? What is the goal of exhibitions? We can try to answer: to raise questions, to sketch out answers, to remind us of the latent meaning hidden behind every manifest reality, to become – as Paul Ricoeur would have it – “masters of suspect.”

 

Art does not necessarily take on this role, but it can actually serve this meaningful purpose and be a tool for the development of critical thinking. That is the way to change society. Artistic language makes it possible to address issues that would be off-limits in certain contexts, such as under authoritarian regimes. This is also confirmed by our experience with At Work, a project created by lettera27, in partnership with Simon Njami, to develop spaces for dialogue and inspire a new generation of thinkers, especially in places where this is not easily achievable.” This is also the aim of The White Hunter exhibition, which tries to deconstruct both our perspective and the recurring key words in all debates about Africa. At a time when the African continent has become “fashionable” in mainstream media, and the art market has begun to turn to African artists, the first thing to do is to put current trends aside and start questioning ourselves. For it is from doubt that revolution is born.

 

Traduzione di Laura Giacalone.

 

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Notes on a Talk and an Exhibition

Postcards from Europe

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Prosegue la riflessione attorno al tema delle immagini e della violenza al centro del dibattito svoltosi a Torino il 15/16 marzo. Come dobbiamo e vogliamo rapportarci a tutte queste immagini che pervadono e ossessionano la società occidentale? Che effetto ha il predominio dell’immagine sulla costruzione e tradizione del nostro canone culturale? È possibile formulare un’etica dell’immagine per il XXI secolo?

Un'intervista di Silvia Mazzucchelli a Eva Leitolf per contribuire a costruire un dibattito attorno al tema, urgente e fondamentale.

 

 

Ho incontrato la fotografa Eva Leitolf al convegno “Etica dell’immagine” che si è svolto il mese scorso a Torino, presso il Goethe Institut. Il suo lavoro, “Postcards from Europe” (Kehrer, 2013), esplora da molti punti di vista il fenomeno complesso e in continuo mutamento della migrazione di migliaia di persone verso le frontiere europee, attraverso l’accostamento di immagini e testi scritti dalla stessa fotografa. Nata nel 1966 a Würzburg, Eva Leitolf vive e lavora a Monaco e nella foresta bavarese. I suoi lavori sono stati esposti in molte istituzioni internazionali, fra cui il Rijksmuseum ad Amsterdam, il Netherlands Photo Museum a Rotterdam, lo Sprengel Museum a Hannover e la Fondazione Mast a Bologna. Inizio l’intervista chiedendole come è nata l’idea di realizzare “Postcards from Europe”.

 

SM: Il suo progetto "Postcards from Europe" delinea una nuova geografia dell'Europa che muove dal centro e si spinge verso i suoi confini. Dal 2006 il suo lavoro l’ha portata dalla Spagna e dalle enclaves spagnole di Ceuta e Melilla, al Marocco, al confine ungherese con l'Ucraina, ai porti della Manica di Calais e Dover e poi in Italia e in Grecia, documentando la situazione disperata dei migranti. Vuole raccontarci la genesi e l'evoluzione?

EL: Prima di tutto vorrei fare riferimento a quello che tu hai definito "documentare la disperazione dei migranti". Direi che questo non è del tutto vero, poiché il mio lavoro è volto principalmente a mostrare come noi, nel senso di società europee, dialoghiamo con la sofferenza, come gestiamo questa sofferenza, cerchiamo di proteggere i confini e come politicamente e socialmente ci occupiamo del fenomeno delle migrazioni. Non si tratta puramente di documentare la sofferenza dei migranti, perché penso che questo sia già stato ampiamente fatto.

Ma rispondendo alla tua domanda, come ho mostrato nel mio discorso al convegno qui a Torino “Etica dell’immagine”, ho iniziato a lavorare per un periodo piuttosto lungo su argomenti connessi alla storia tedesca. Nel 2006 ho fatto un viaggio in Marocco e sono giunta a Melilla, per caso. Mi sono confrontata con questa immagine di scale improvvisate, realizzate dai migranti che vogliono superare la recinzione di confine intorno a Melilla.

Credo che sia stato il punto di partenza che ha anche innescato il mio interesse per questo argomento perché, come si può leggere nel testo della cartolina, ho incontrato un'associazione denominata Fondazione Prodein e il portavoce della Fondazione ha raccontato che credeva che il governo avesse lasciato intenzionalmente le scale sulla spiaggia per creare l'impressione che ci fosse una valanga inarrestabile di migranti e giustificare l'uso della forza.

Quindi, per me, questo è stato davvero interessante, perché l'immagine non solo mostra il tentativo delle persone che cercano di superare la recinzione, ma la sua strumentalizzazione da parte del governo. Ci sono molte stratificazioni su cui costruire il significato e questodal mio punto di vista è stato molto interessante.

 

In autumn 2005 the Spanish government announced plans to strengthen the border defences at its North African enclave of Melilla. Every day during the following weeks hundreds of migrants attempted to scale the fence using makeshift ladders. According to eyewitness the Guardia Civil used stun guns, tear gas, rubber bullets and live ammunition. At least fourteen migrants lost their lives, fatally injured in the razor-wire of the fence or shot dead by border guards (according to the Spanish government from the Moroccan side). A spokesman for the Fundación Prodein said he believed that the government had intentionally left the ladders on show to create the impression that there was an “unstoppable avalanche of immigrants” and justify its use of force. Later the same year, the Eropean Union announced it would give Morocco forty million euros, largely for policing and border security. “Der Spiegel, 27 September 2005; interview with José Palazón of Fundación Prodein in Melilla on 6. Eva Leitolf, Ladders, Melilla 2006, Copyright © VG Bild-Kunst, Bonn 2017.

 

SM: "Postcards from Europe"è un lavoro complesso che cerca di rappresentare una situazione complessa. Si tratta di un archivio aperto, in continua evoluzione, dove lei abbina fotografie a elementi testuali, ricercati da una vasta gamma di fonti, come in altre sue opere, ad esempio nell'ultima: "Matter of Negotiations" (2016-2017 ) che si occupa della Svizzera a partire dai suoi confini. Le sue immagini trovano significato soprattutto in relazione alle parole. Insieme diventano di volta in volta un commento, una critica o una tacita risposta. La fotografia non è abbastanza?

EL: Bella domanda! Si può dire che c'è una storia che riguarda la produzione, la contestualizzazione e anche il consumo di fotografie. Se penso a una mostra come "The Family of Man" di Edward Steichen, realizzata al MOMA nel 1950, una delle sue idee era che la fotografia è uno strumento per la comunicazione che può essere inteso ovunque. Vedevi persone nate in Germania, nei Paesi Bassi, in Sudafrica. Poi la gente rideva, ballava, si sposava e moriva in Grecia, in Svizzera, a Hong Kong. Quindi c'era la volontà di delineare un’unità globale, che cercava di farci credere che siamo un tutt’uno, che siamo in grado di fare le stesse cose: nascere, andare a scuola, sposarci e infine morire. Le complesse differenze sociali, culturali o politiche che spesso ci impediscono di avere le stesse possibilità e che creano disuguaglianze non sono parte dell’immagine. La fotografia è una possibilità di comunicazione, ma non è un linguaggio universale. Quindi sì, penso che la fotografia non è sufficiente per lavorare su fenomeni complessi. E non dico che il testo è l'unica possibilità di affrontare queste problematiche, ma credo che sia un modo possibile e sto cercando di scoprire quanto lontano ci si possa spingere.

 

SM: Vorrei chiederle di un aspetto del suo lavoro: l'assenza di violenza nelle sue immagini. In "Postcards from Europe” possiamo vedere una spiaggia a Tarifao una riserva naturale in Italia. Penso a "Playa de los Lances, Tarifa, Spagna 2009", “Vendicari Nature Reserve, Italy, 2010” o “Orange Grove, Rosarno, Italy 2010” (l'immagine che appare sul poster del convegno). Ci sono solo"paesaggi innocenti" o "un momento di silenzio e di assenza". Non si vedono eventi reali: i migranti che muoiono in mare o le violenze che essi subiscono, che lei illustra nelle sue note scioccanti. O penso al suo lavoro“German Images” in cui volge la sua attenzione verso i crimini di matrice razzista in Germania. Nei primi anni Novanta ha fotografato le scene del crimine, le vittime, i carnefici e gli spettatori non coinvolti. Nel 2006, tornando allo stesso tema, limita il contenuto visivo ai luoghi in cui i crimini sono stati commessi. Perché sceglie di utilizzare questa strategia?

EL: Come hai detto, nella prima parte di“German Images”, ci sono ancora persone nelle fotografie. Ma mi sono resa conto che avere queste persone presenti nelle immagini permette allo spettatore di identificarle, o di indicarle come vittima o carnefice, e ciò gli consente di pensare,d i fare un passo indietro ed avere l’impressione che questo non ha niente a che fare con lui o lei come spettatore.

Come spettatore non sono coinvolto, perché posso sempre indicare qualcuno con il dito e dire: “guardate questo ragazzo povero o queste persone violente”. Questi pensieri mi hanno fatto smettere di scattare immagini alle persone. Poi mi hai chiesto dell’assenza di violenza nelle mie immagini: non ci sono persone, nessuna azione, nessuna traccia di violenza attiva o di eventi violenti.

Tutti abbiamo immagini esplicite in mente e tutti abbiamo una memoria delle immagini collegate alle notizie, ad esempio di piccole imbarcazioni colme di migranti che cercano di scendere da una barca sulle rive del Mediterraneo.

Le portiamo con noi. Il lavoro si riferisce anche a quelle immagini latenti.

 

On 27 October 2007 two walkers came across several shoes washed up on a beach in the nature reserve of Vendicari. During the following days seventeen corpses were found there. On their own initiative the couple obtained a list of the names of the dead from the authorities, contacted the relatives in Egypt and Palestine and arranged for a Muslim funeral to be held. About one hundred people attended the ceremony officiated by the imam of Catania on 1 November 2008, including relatives of the dead and local police. The events led to the founding of Borderline Sicilia. “RagusaNews.com, 24 October 2008; interview with journalist Roman Herzog, Noto, 23 January 2010”. Eva Leitolf, Vendicari Nature Reserve, Italy 2010, Copyright © VG Bild-Kunst, Bonn 2017.

 

SM: Nell’immagine “Ferry Crossing, Melilla-Almeria, Mediterranean 2009”lei descrive con poche parole il suo personale viaggio di ritorno in Spagna dal Marocco. Si mette nella stessa posizione dei migranti: in una barca. Cito dal suo testo: “On 10 January 2009 I took the Juan J. Sister from Spanish Melilla on the Moroccan coast to Almería in Spain. The seven hour crossing cost me € 19.20. At least 14,714 migrants died attempting to enter Europe between 1988 and 2007, with 10,740 reported to have drowned in the Mediterranean and Atlantic on their way to Spain. Journal, 10 january 2009, Almería; DerSpiegel, 7 May 2008; Fortress Europe, press release, 10 February 2010”.

Quale è il suo intento: stimolare una visione critica, incoraggiare le persone a cercare gli eventi non rappresentati nelle immagini per capire meglio o far leva sull’empatia di chi guarda la sua foto?

EL: Prima di tutto vorrei fare riferimento a quello che stai dicendo: "tu ti metti nella stessa posizione dei migranti in una barca". Forse a prima vista sembra essere così, ma penso che attraverso le somiglianze, anche le differenze diventino molto evidenti: è una barca vuota, non è affollata, è solida e sicura. È una situazione che puoi confrontare, ma in questo confronto emerge la differenza. Il testo rivela che sto pagando per il viaggio e sono al sicuro, posso andare avanti e indietro e non corro alcun rischio per fare questa traversata.

Ma per tornare a quello che mi hai chiesto in merito al mio intento, ho innanzitutto deciso di comprendere meglio questo fenomeno e come ci occupiamo di esso. Quindi è più simile a un viaggio sul campo per scoprire e conoscere situazioni e luoghi specifici. Faccio questo per me stessa, ma allo stesso tempo con le mie immagini e i testi offro degli strumenti anche allo spettatore.

E penso sia abbastanza chiaro che non sto cercando di provocare reazioni emotive in esso, perché credo che siamo eccessivamente nutriti di possibilità per essere molto eccitati, arrabbiati o molto emotivi. Non è a questo che sto puntando, perché vi è già una grande copertura mediatica ed è un modo semplice per ottenere reazioni emotive. Inoltre, allo stesso tempo, ci si può rapidamente allontanare, perché si pensa: "non posso farci niente".

Comunque, si tratta di notizie da consumare e, se lo si desidera, di essere emotivamente intrattenuti. Questo non è ciò a cui voglio contribuire.

 

On 10 January 2009 I took  the Juan J. Sister from Spanish Melilla on the Moroccan coast to Almería in Spain. The sevenhour crossing cost me € 19.20. At least 14,714 migrants died attempting to enter Europe between 1988 and 2007, with 10,740 reported to have drowned in the Mediterranean and Atlantic on their way to Spain. “Journal, 10 January 2009, Almería; Der Spiegel, 7 May 2008; Fortress Europe, press release, 10 February 2010”. Eva Leitolf, Ferry Crossing, Melilla-Almerìa, Mediterranean 2009, Copyright © VG Bild-Kunst, Bonn 2017.

 

SM: Durante la conferenza Adriano Fabris parla della sua immagine "Orange Grove". Secondo il filosofo è una metafora che rappresenta la condizione delle immagini nel mondo contemporaneo. Possiamo vedere la relazione tra "apparizione" e "apparenza", tra le immagini che appaiono (arance sull'albero) e quelle che scompaiono (le arance a terra). Cosa ne pensa?

EL: Sono pienamente consapevole che se guardi le mie immagini e non sei a conoscenza dei testi che le accompagnano, esse sono abbastanza aperte a qualunque tipo di interpretazione. Innanzitutto è un albero di arance con delle arance marce sotto, che ho visto a Rosarno, in uno specifico ambiente sociale e politico di cui ho parlato nel testo sulla cartolina. Ma allo stesso tempo non voglio forzare lo spettatore ad avere una visione, un'interpretazione, un solo significato.

 

In January 2010 the price obtained by Calabrian citrus growers for their Moro and Navel oranges was five euro cents per kilogram. They paid their mostly illegally employed and undocumented African and Eastern European seasonal workers between €20 and €25 for a day’s work. Depending on the variety and the state of the trees a worker can pick between four and seven hundred kilograms of oranges in a day. The business was no longer profitable and many farmers left the fruit to rot. During the 2009–2010 harvest there were between four and five thousand migrants living in and around Rosarno, most of them in abandoned buildings or plastic shelters, without running water or toilets. On 7 January 2010 local youths fired an air-gun at African orange-pickers returning from work and injured two of them. The ensuing demonstration by migrant workers ended in severe clashes with parts of the local population, during which cars were set on fire and shop windows broken. Accommodation used by seasonal workers was burned and hundreds fled, fearing the local citizens or deportation by the authorities. On 9 January, under police protection from jeering onlookers, about eight hundred Africans were bussed out to emergency accommodation in Crotone and Bari.
“A Season in Hell: MSF Report on the Conditions of Migrants Employed in the Agricultural Sector in Southern Italy, January 2008; tagesschau.de, 10 January 2010; interviews with orange farmers and seasonal labourers, Rosarno, 27–29 January 2010”.
Eva Leitolf, Orange Grove, Rosarno, Italy 2010, Copyright © VG Bild-Kunst, Bonn 2017.

 

SM: Il suo lavoro è stato spesso descritto come una "combinazione di strategie documentarie e concettuali". Qual è la sua intenzione? Esplorare la tensione tra ciò che può essere visto e ciò che è lasciato all’immaginazione? Verificare le possibilità e limiti della rappresentazione?

EL: Sono interessata alla tensione tra ciò che si può vedere, ciò che può essere lasciato all'immaginazione e ciò che è innescato dal testo. Nella mostra puoi entrare, guardare le fotografie e posizionarti in un certo modo verso le immagini. La tua vista può cambiare con i testi che accompagnano le immagini.

In un contesto ideale tu prendi le cartoline a casa e tre settimane dopo puoi iniziare a rileggere le cartoline e collocarti in una nuova posizione, perché non hai l'immagine che inizialmente va con il testo, quindi è nuovamente separato e io sono molto interessata a questi processi. Alla fine, non conta tanto verificare le possibilità e i limiti della rappresentazione visiva, ma lavorare con essi, esplorarli, interrogarli.

 

SM: Lei afferma di creare "immagini che assomigliano a un teatro vuoto dove lo spettatore è in grado di proiettare i propri pensieri e le proprie emozioni". Può spiegare queste parole?

EL: Questo ha qualcosa a che fare con quello che mi hai chiesto prima inerente alla scomparsa delle persone nelle mie immagini. Mi sono resa conto che non avendo persone nelle immagini, ho parti e spazi vuoti abbastanza grandi. Ed ho iniziato a pensare a queste immagini, quasi come hai detto, come a palcoscenici e spazi vuoti, dove qualcosa era accaduto o qualcosa sta accadendo o qualcosa accadrà. Ciò rappresenta la possibilità di impegnarsi più in profondità con lo spettatore.

 

The North African city of Melilla has been a Spanish possession since 1497. Morocco declared its claim to Melilla and the second Spanish exclave, Ceuta, as soon as it became independent from Spain in 1956. With the support of the European Union, the eleven kilometres of border defences have been repeatedly upgraded to repel unauthorised immigration. Three parallel fences up to six metres high are topped with rolls of razor wire and monitored by movements sensors, infrared cameras and watchtowers. “Tagesschau, 28 August 2000; Der Tagesspiegel, 24 June 2008”. Eva Leitolf, Rostrogordo Picnic Park, Spanish-Moroccan Border, Melilla 2009, Copyright © VG Bild-Kunst, Bonn 2017.

 

SM: Il suo lavoro è intitolato “Postcards from Europe 03/13 work from the ongoing archive”. È fatto da un archivio che continua a crescere? Qual è il suo rapporto con la memoria? Possiamo considerare il suo lavoro e la combinazione di immagini e parole, come il tentativo di contribuire alla costruzione di una memoria collettiva?

EL: Il titolo della pubblicazione è "Postcards from Europe 03/13". Il "03/13" si riferisce al mese e all'anno in cui questa selezione è stata pubblicata. Questo offre la possibilità di esaminare gli eventi che normalmente non sono così noti, di cui non si parla, a volte sono solo piccoli eventi di cui non siamo consapevoli. Quindi forse è un contributo a una memoria collettiva, ma anche il tentativo di tenere un resoconto alternativo, o di molte narrazioni diverse, che non possono essere parte del discorso principale.

 

SM: Come lavora? Trascorre molto tempo nei luoghi che fotografa? Che tipo di rapporto si stabilisce con le persone che incontra?

Prima di partire, faccio molte ricerche sui luoghi nei quali voglio andare, per avere una buona idea di quali posti voglio visitare. Di solito viaggio in una sorta di camper-van. Quando mio figlio non andava a scuola, abbiamo viaggiato insieme, ma ora deve essere a casa. A volte arrivo in un posto e trovo un'immagine proprio lì, e ci metto un'ora, ma a volte trascorro diversi giorni a incontrare persone, per essere coinvolta nei loro racconti. Quindi non posso generalizzare. A volte devo aspettare un tempo o una luce particolare. Cerco di entrare in contatto con le persone che vivono lì e che sono coinvolte nelle situazioni che incontro.

 

SM: Fred Ritchin nel suo saggio "After Photography" scrive e suggerisce che la fotografia può cambiare il mondo. Vorrei concludere con il titolo del suo lavoro: “Postcards from Europe". In un primo momento evoca momenti felici e luoghi belli, come con le cartoline, anche se rivela una situazione diversa. Qual è il suo scopo? Evocare la tragica condizione dei migranti in Europa o suggerire la una possibilità di speranza? A suo parere, qual è il futuro dell'Europa, delle persone che vi abitano e di coloro che raggiungono i suoi confini?

EL: Possiamo discutere a lungo su ciò che Ritchin intendeva con "cambiare il mondo". Mi stai chiedendo se voglio evocare la tragica condizione delle persone che vengono in Europa, o suggerire una possibilità di speranza. Sono interessata a questioni più strutturali, come l'interdipendenza degli sviluppi socio-politico-storici, piuttosto che guardare ai migranti come vittime o minacce. Sono più interessata a come noi, intesi come società europee, affrontiamo questo fenomeno, a come amministriamo le persone che cercano di venire da noi, a come cerchiamo di assicurare le frontiere, e questo porta alla tua ultima domanda: qual è il futuro dell'Europa per le persone che ci vivono e per quelle che vengono qui.

Penso davvero che sia importante affrontare la migrazione con maggiore trasparenza, con parametri più chiari e programmi politici realmente più definiti. La Germania, ad esempio, per molto tempo, ha negato di essere un paese di immigrazione.

Non credo che il mio lavoro suggerisca una possibilità di speranza, è piuttosto un tentativo di guardare da vicino come affrontiamo la situazione, anche per esaminare gli errori che sono stati fatti.

 

As I waited for the Igoumenista to Ancona ferry, a crowd of several hundred angry residents blockaded the access road to the port, demanding “a town worth living in” and an end to the “siege of the illegals” living on the hillside overlooking the port.
Over a period of several hours while the demonstration was taking place the Greek police fired tear gas at the migrants and their makeshifts shelters. At times the air was so thick with gas that travellers queueing for the ferry were unable to leave their vehicles.
“Journal, 3 May 2011, Igoumenista”.
Eva Leitolf, Igoumenista Ferry port, Greece 2011, copyright © VG Bild-Kunst, Bonn 2017.

 

SM: Penso all'ultima legge ungherese sulla migrazione che è più restrittiva rispetto ad altri posti in Europa. Cosa ne pensa, lei ci è stata...

EL: Sono stata in Ungheria, ma sono passati alcuni anni e sto per partire per un viaggio dove voglio esaminare paesi come la Serbia, l'Ungheria, l'Austria, la Germania e gli eventi che sono avvenuti dopo l’autunno del 2015. Inoltre ho letto che l'Ungheria ha installato campi al confine con la Serbia, per metterci le persone e per impedire loro di entrare in Ungheria.

 

SM: Presso la Fondazione Mast a Bologna abbiamo potuto vedere il suo lavoro “Company Town. Ein Konzern, eine Stadt (2015-2016)”. È costituito da un ciclo di 24 immagini e 30 testi proiettati in sequenze continue su cinque schermi. Lei pone in discussione il rapporto tra la fabbrica, l'industria e la città, usando l'esempio della Volkswagen a Wolfsburg. Vuole raccontarci qualcosa?

EL: Nel 2005 sono stata invitata dal nuovo direttore del Kunstmuseum Wolfsburg, che ha invitato diversi artisti, come John Bock e Julian Rosefeldt, provenienti da ambiti diversi, a produrre un lavoro su Wolfsburg per la sua prima mostra chiamata “Wolfsburg unlimited”.

Tutti avevamo una sorta di carta bianca. Io ho deciso di esaminare la relazione tra la città e l'azienda. Nelle mie opere non sono mai nominate Wolfsburg e Volkswagen, anche se è abbastanza chiaro, non è un segreto, ma nel mio testo parlo della città e della fabbrica.

Per me è stato davvero interessante imparare, scoprire come la città e l'azienda sono interconnesse e come hanno questo passato difficile. Wolfsburg è stata fondata da Hitler che ha posto a terra la prima pietra della fabbrica nel 1938. È ancora un passato difficile di cui i giornali locali, per esempio, non vogliono parlare.

Lo scandalo della Volkswagen ha messo in evidenza la problematica sottaciuta che vi è sempre stata: come la città dipende dalle tasse della società. Dopo lo scandalo improvvisamente le scuole non potevano essere rinnovate o nuovi spazi pubblici non potevano essere impiantati.

È stata la prima volta che ho lavorato con degli schermi, una nuova esperienza. Si trattava ancora di far interagire l’immagine con il testo, ma non c'era un testo specifico che accompagnava un'immagine specifica. Vi era un flusso di immagini e testi che si alternavano insieme su questi cinque schermi.

 

SM: A cosa sta lavorando al momento?

EL: Dopo questo impegno che avevo a Wolfsburg e lo scorso anno in Svizzera, sono molto felice di poter riservare un po' di tempo per tornare a "Postcards from Europe". Voglio viaggiare in Grecia, Serbia, Ungheria, Austria e tornare a Germania per affrontare ciò che è successo dopo il 2015.

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Intervista con Eva Leitolf

Piero Gilardi: la natura come paradosso

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Un nuovo contributo a sostegno del Progetto Jazzi, un programma di valorizzazione e narrazione del patrimonio culturale e ambientale, materiale e immateriale, del Parco Nazionale del Cilento (SA).

 

Si è aperta il 13 aprile al MAXXI la mostra Nature Forever, curata da Hou Hanru, Bartolomeo Pietromarchi e Marco Scotini, e dedicata a Piero Gilardi. Profondamente influenzata dal pensiero critico di Michel Foucault, Gilles Deleuze e Felix Guattari, e tra gli esempi italiani più interessanti di impegno attraverso l’arte in questioni quali, l’ambiente, l’ecologia, il nucleare, la speculazione edilizia, la ricerca di Gilardi è stata tra le prime a interessarsi del rapporto tra uomo e natura, a utilizzare materiali industriali e tecnologici, per proporre una reinvenzione di luoghi, relazioni e paesaggi, convertendo l’evento artistico in un rito collettivo dalla caratterizzazione sociale e politica. Con questa mostra – ricca di opere e documenti – e il suo catalogo (Nature Forever. Piero Gilardi, a cura di Anne Palopoli, Quodlibet) il MAXXI rende omaggio a una delle ricerche più coerenti e impegnate dell’arte italiana, indirizzata a ribadire le energie creative e critiche del soggetto individuale e sociale.

 

Torinese, diffidente verso l’ambiente dell’accademia che considera ‘viziato’, Gilardi dopo il liceo artistico prosegue la sua formazione da autodidatta prediligendo, nel panorama piemontese, le mostre del Movimento Internazionale per una Bauhaus Immaginista, caratterizzato dalla libertà d’uso dei materiali e dalla critica alla logica capitalistica, cui oppone un'arte in grado di sollecitare il pubblico, attivandone pensiero e sensibilità. Questi riferimenti sono fondamentali per il giovane Gilardi che con Michelangelo Pistoletto e Aldo Mondino frequenta lo spazio gestito a Torino dal critico Michel Tapié e s’interroga sulla possibilità di produrre «oggetti artistici nello spazio del vissuto» (Intervista di Mirella Bandini a Piero Gilardi (1973) ripubblicata in Mirella Bandini, Arte Povera a Torino 1972, Umberto Allemandi&Co, Torino 2002, p. 99).

 

 

L’interesse per il legame arte-vita, interpretato in varie declinazioni da molti giovani artisti di quegli anni, si traduce presto in Gilardi nella creazione di opere capaci d’interagire con il vissuto, individuale e collettivo, in cui la natura, presa come immagine e come oggetto, rimanda alla qualità della relazione tra uomo e realtà illuminando il quotidiano dei suoi spettatori. Nascono così, nell’ottobre del 1965, i Tappeti-natura, oggetti in resina poliuretanica espansa, che riproducono – in scala reale e nei minimi dettagli – forme vegetali, animali e minerali ricreando interi habitat, dal greto di fiume all’orto, dal fondale marino al campo di papaveri. Simulacri che solo il tatto può smentire, questi lavori inducono lo spettatore a ridiscutere il valore e la sostanza di ciò che vede. Potenzialmente oggetti sostitutivi d’arredamento, pezzi di natura finta, isole artificiali messe a terra, più che esposte, calpestabili e toccabili come un’opera d’arte usualmente non è, e acquistabili a metro come pezze di stoffa, queste opere sono anche dispositivi di una riflessione sul consumo, sull’essere e l’apparire. Attraverso i Tappeti-natura e i successivi Vestiti-natura, paesaggi abitabili e poi indossabili, Gilardi segnala allo spettatore la complessità dell’esperienza – di un corpo a corpo con la realtà non regolato dall’uso e non limitato all’apparenza del visivo – e lo fa sottintendendo il dramma di una natura mortificata e stravolta dal mercato e dall’industria.

 

Questo gruppo di opere reinventa dunque l’esperienza quotidiana giocando sul complesso rapporto naturale-artificiale e, insieme, indica lo stato fluido dell’oggetto d’arte: da dispositivo meravigliante a merce. Create con l’intenzione di recuperare l’esperienza individuale (a livello del pensiero e del corpo) queste opere pop – che rifuggono però la semplice funzione presentativa e si fanno forti del concetto marcusiano del gioco come trasformatore della realtà – esortano a riscoprire valori soggettivi negati dalla realtà massificata e standardizzata della civiltà industriale, intervenendo direttamente sul sistema di relazioni tra fruitore e oggetto, non solo ricercando nuove possibilità estetiche ispirate alla tecnologie e ai mass-media, ma soprattutto occupandosi di quelle relazionali e critiche. Un atteggiamento questo che è segno dei tempi e viene anzitutto dall’esperienza personale: quella di una natura deturpata che Gilardi intende ricostruire in un oggetto domestico da «offrire all’uso confortevole del corpo» (Nature Forever, p. 90).

 

Attraverso immagini-oggetti surrogati e paradossali, che imitano la decoratività dei consumi ma ne rifuggono la sostanza, Gilardi libera le esthesis e si schiera a favore di un rapporto dialettico tra cultura e società, rimanendo fedele a questo atteggiamento anche quando nel 1967, al culmine del successo per i suoi Tappeti, decide di rinunciare alla creazione di oggetti e dedicarsi alla dimensione comunicativa e relazionale dell’arte continuando a investire sulla “carnevalizzazione del mondo” per il ribaltamento dei luoghi comuni, delle attribuzioni sociali e delle funzionalità consuete (Marco Scotini, Politiche della vegetazione. Conversazione tra Piero Gilardi e Marco Scotini, Marco Scotini (a cura di), “Alfaecologia”, Speciale di “Alfabeta2”, anno V, numero 35, aprile-maggio 2014).

 

Nel 1969 Gilardi, infatti, abbandona «la metafora dell'arte» per «partecipare alla lotta rivoluzionaria» (Piero Gilardi, Dall'arte alla vita. Dalla vita all'arte, Parigi, 1981, p. 12) e prende parte ad attività artistiche e culturali (happenings, eventi, azioni, stampa di manifesti) direttamente calate nel sociale (raduni politici, teatro di strada, arte pubblica, atelier popolari) ed esemplificative di un’arte quale “movimento di pensiero”.

 

È con gli anni Ottanta che l’artista – senza rinunciare all’organizzazione di iniziative politico-culturali – inaugura una nuova fase del suo lavoro sotto il segno della tecnologia digitale e dell’interattività. Alla fine del decennio riprende il binomio natura-cultura affrontato agli esordi, per scandagliarlo ulteriormente attraverso lo strumento delle nuove tecnologie elettroniche e informatiche, approfondendo la dimensione partecipativa sempre perseguita. Così i lavori prodotti, ormai veri e propri ambienti, inaugurano moderne e più forti modalità percettive. Dissociandosi totalmente dalla lettura passiva delle opere pop, Gilardi concentra il suo lavoro sulla polisensorialità cui unisce l’interattività potenziata dalla tecnologia, in grado di associare agli oggetti e agli ambienti il movimento e il suono. Il binomio arte-natura si arricchisce così di un altro importante dato: quello della tecnologia, un attore indispensabile per la costruzione di una narrazione sviluppata in base all’esperienza ludica del pubblico protagonista dell’opera.

 

Dalle forme biomorfiche dei tappeti, secondo l’obiettivo dell'interattività, della multidimensionalità e della polisensorialità, nasce nel 1989 l’installazione Inverosimile (1989). Si tratta della ricostruzione di un vigneto in forma ambientale, associata a un’interfaccia elettromeccanica capace di gestire i movimenti delle piante. Il pubblico entra nel vigneto e interagisce con l’ambiente: gli alberi si aprono al suo passaggio e le foglie luminose, una volta toccate, emettono vari suoni. Sul pavimento sono proiettati dei cerchi luminosi che, all'aumentare del pubblico nello spazio, si condensano fino a trasformarsi in una sorta di arancia, o di fuoco. Tutto dura venti minuti. La regia dell’esperienza è impeccabile: al pubblico è dato il tempo per acquisire confidenza con l’ambiente e relazionarcisi. L'animazione dell'interattività è suddivisa in quattro temi – il vissuto, l'azione, la crisi e la catarsi – che, pur avendo una dinamica preordinata, restano aperti alla variabilità dei fruitori. La natura “in perdita” – secondo la definizione di Sottsass – dei tappeti ritorna dunque animata, a dimensione naturale, e proprio nel contesto agricolo della vigna, un luogo perfetto per un esercizio di conoscenza “aumentata” della natura all’insegna della collettività e dell’esperienza, che ha come tema principale proprio il triangolo uomo-natura-tecnologia. In un tempo in cui le consuetudini della relazione con l’ambiente, valide per secoli, si sono per sempre alterate, la realtà virtuale e le moderne tecnologie creano una natura potenziata e chiamano l'osservatore a essere un interlocutore attivo, non solo nel funzionamento dell'apparato visivo ed espositivo del lavoro, ma proprio dell'immaginario evocato.

L’opera ricalca infatti non soltanto le forme dell’agricoltura ma anche i suoi sistemi: è collettiva, non autorale, è il frutto della collaborazione tra artisti e tecnici e ha modalità operative che richiamano il lavoro artigiano.

 

Piero Gilardi, Tappeto natura, 1966. 


All’esordio del nuovo millennio la natura simulata dei tappeti, ancora legata all’umanesimo modernista, cede il passo a una ricostruzione più accattivante, in forma ambientale e quasi incantata. Qui il pubblico, spettatore e attore, riscopre un nuovo modello esperienziale fondato sulla comunità e sull’ascolto del contesto, un modello quindi alternativo, sul piano macropolitico, a quello sociale dominante, lo stesso che Gilardi contesta con l’ideazione e realizzazione del PAV, il Parco d’Arte Vivente (2008) di Torino.

Parco e centro d’arte interattivo della natura sorto su un’ex area industriale, il PAV è dedicato alla bio-arte e a esperimenti sociali al limite tra pratiche artistiche e rurali. Qui attività come l’agricoltura divengono strumenti di resistenza ai meccanismi economici imperanti del neoliberismo e la comunità del pubblico è chiamata all’esperienza personale. Come accadeva già con i Tappeti, gli eventi degli anni Settanta e le successive installazioni, con l’esperienza del PAV Gilardi riattiva la circolarità uomo-natura e arte-natura stabilendo la funzione primaria dell’arte – non icona ma «espressione di relazioni, di interazioni umane a livello simbolico e di eventi collettivi, transculturali ed ecosistemici» (Piero Gilardi, Common art?, in “Alfabeta 2”, 18 luglio 2015) – e lo fa coerentemente al principio di un'espressività diffusa e socializzata, nutrita dall’interazione tra soggetto e oggetto e tesa a indicare una maggiore e più “naturale” libertà intellettiva ed emotiva dell’individuo e della comunità, secondo una concezione che sboccia negli anni Sessanta e riesce a nutrirsi di quell’energia anche oggi.  

 

L’arte politica di Gilardi nasce infatti in un periodo di grande partecipazione politica e culturale in cui la letteratura, il cinema e le arti visive assumono di fatto il ruolo di avanguardia, in qualche misura anticipando tratti e riflessioni connaturate all’identità del nostro Paese, tra cui quelle riguardanti la natura. Questa presto adottata, oltre che come tema, come materiale attivo nel campo ormai espanso dell’arte, è il tramite attraverso cui guardare la realtà e insieme riconquistare una dimensione umana primaria, sacrificata nel riscatto economico e sociale degli anni del boom. Le arti visive, cresciute fin dalle origini nell’osservazione del paesaggio, rilevano, in pieno decennio Sessanta, il cambiamento portato dall’industrializzazione e dalla civiltà di massa e guardano al rapporto uomo-natura e all’industria, ai suoi materiali e sistemi di produzione. In questo binomio Gilardi è profetico e già coglie – lo nota subito Ettore Sottsass – «il nocciolo concettuale della odierna concezione ecologica, che considera riparativo delle bio-tecnoscienze per il ripristino dei sistemi ecologici alterati e della biodiversità» (Nature Forever, p. 92). Un nocciolo concettuale che, sotteso alla sua intera ricerca, caratterizza tutte le ‘esperienze’ che Gilardi concepisce per il pubblico, nasce da un intreccio tra teoria e prassi sempre perseguito e mira a non lasciarsi portare, esercitando la propria esperienza, e quindi la propria coscienza, in un senso sempre più fattuale.

 

Le utopie dell’unione tra arte e vita e dell’arte come bene comune degli anni Sessanta e Settanta, finalizzate all’emancipazione delle energie interiori attraverso l’espressione collettiva, si realizzano negli anni Duemila secondo la strada tracciata da un’estetica relazionale che intende, oggi come allora, ma oggi con più strumenti pratici e teorici, l’attività artistica quale possibile incarnazione di un’energia, soggettiva e quindi collettiva, capace di trasformazione.

 

*Questo contributo nasce dalla rielaborazione di un testo di Carlotta Sylos Calò precedentemente apparso su Il campo espanso. Arte e agricoltura in Italia dagli anni Sessanta a oggi, a cura di Simone Ciglia, CREA Consiglio per la ricerca in agricoltura e l'analisi dell'economia agraria, Roma 2015.

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Progetto Jazzi

Se l’avanguardia incontra il popolo

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È il 1968. Ketty La Rocca realizza l’opera Segnaletiche, una composizione di segnali stradali con su scritto: “Il senso di responsabilità”, “Io tu e le rose”, “Amava molto gli animali”. Di queste la prima ha la freccia verso sinistra ed è in cima, le seguenti con la freccia nella direzione opposta e cioè verso destra. Anche senza soffermarsi sulle citazioni o sui contenuti veicolati, in quest’opera sono presenti i temi dell’estetica del tempo: la coincidenza di testo e immagine, l’impiego di oggetti d’uso comune decontestualizzati, ma soprattutto il riferimento a una dimensione esterna all’arte e ai suoi luoghi. In primo luogo, l’immagine fonda il suo impianto visivo su una grafica verbale (o verbo-visiva per usare un tecnicismo). Quindi, la segnaletica stradale diventa supporto materiale e semantico, ed è al tempo stesso supporto, immagine e concetto. La scelta della stessa come supporto implica il rimando a un immaginario condiviso, tanto comune, che inevitabilmente dirotta lo sguardo di chi osserva e legge al di fuori dei luoghi dell’arte. È su questa linea che si muove la ricerca di Alessandra Acocella nel saggio Avanguardia diffusa. Luoghi di sperimentazione artistica in Italia. 1967-1970, pubblicato per Quodlibet (collana Biblioteca Passaré, diretta da Pietro Nicoletti e patrocinata dalla Fondazione Passaré). E cioè il tentativo di ricomporre le fila di un panorama artistico che ha avuto il suo svolgersi all’aperto. Non solo. Ma che ha scelto luoghi comunemente periferici alla centralità delle metropoli.

 

 

Il libro ripercorre quanto accaduto in Italia tra il 1967 e il 1970 quando, già forte di una disinvolta fusione dei linguaggi, la sperimentazione artistica ricercava un dialogo stretto e privo di mediazioni con il territorio, inteso sia in termini geografici che sociali. Sono questi gli anni in cui le istanze di autonomia dell’arte trovavano una loro forma nelle pratiche e ponevano le basi per gli ulteriori sviluppi del decennio a venire. Dalla poesia sonora a quella visiva, fino all’avanguardia musicale o architettonica, Acocella si muove nel proliferare di tendenze e diversità concettuali e formali, ragionando soprattutto sulla trasformazione del rapporto tra opera e spazio. In particolare sul progressivo superamento dell’opera plastica, espressione di una relazione spaziale fondata sull’equilibrio dei volumi, a favore di un’opera semantica, fondata sulla relazione dialettica con l’ambiente.

 

Più precisamente, invece che di arte ambientale, Acocella preferisce parlare di “una storia delle manifestazioni all’aperto” e del modo in cui queste hanno attraversato i luoghi dove sono state “ideate, vissute, recepite”. È infatti esattamente questo l’ordine in cui ogni episodio viene rigorosamente ricostruito e raccontato, dalle corrispondenze che hanno generato l’idea del singolo progetto tra artisti e istituzioni, alla sua realizzazione, fino alle reazioni di pubblico, istituzioni e stampa, e quindi agli epiloghi artistici, sociali e politici.

 

Insieme al distanziamento dalla categoria di arte pubblica, un secondo aspetto significativo, e innovativo di cui si pregia questa ricostruzione risiede nell’estensione dello sguardo oltre le esperienze poveriste o quelle dislocate nei territori più centrali. Negli ultimi anni si iniziano a incontrare altri studi e occasioni di confronto che rileggono il periodo e le tensioni dell’arte verso lo spazio pubblico. Tra questi, Alessandra Pioselli ad esempio, con L’arte nello spazio Urbano. L’esperienza italiana dal 1968 a oggi (Johan&Levi 2015), contribuisce a una rilettura sulla convergenza tra esperienze autonome e strutturate, e l’inquadramento artistico nei contesti pubblici. O ancora il convegno Arte fuori dall’arte. Incontri e scambi fra arti visive e società negli anni Settanta (Università Cattolica, Milano 12-13 ott. 2016) a cura di Cristina Casero, Elena di Raddo, Francesca Gallo, ha riunito i contributi di storici, critici e protagonisti di diverse generazioni. Quello che sembra accadere non è solo il recupero di una memoria sfilacciata. È anche la ricerca di un diverso approccio di studio e di una diversa definizione. Un dettaglio interessante che vorrei sottolineare, è come le spinte di una rilettura provengano in primo luogo dalle realtà accademiche. Quelle su cui si sta posando la lente d’ingrandimento sono per lo più esperienze considerate ai margini dal mercato come dalla storiografia generalista. A volte neanche riportate dagli stessi artisti nei propri curricula. Esperienze che sono state emblema di un’effervescenza le cui tracce sono ancora tutte da raccogliere e che, sebbene non sia ancora entrata a regime nella letteratura storico artistica, ha costituito il tessuto nel quale si sono mossi artisti, critici e testimoni più o meno riconosciuti, potendo anche sperimentare senza nulla a perdere.

 

Il viaggio di ricognizione di Acocella inizia a Fiumalbo nel 1967. Provincia di Modena. Quasi mille metri sul livello del mare. L’occasione è Parole sui muri. Di questa Acocella ricostruisce la fitta corrispondenza tra Claudio Parmiggiani, artista, e Mario Molinari, sindaco del centro che ne costituirebbe la genesi e l’ideazione. Parmiggianni ne divenne il curatore unico, con il supporto del “comitato organizzativo”: Henry Chopin (musicista), Corrado Costa (Gruppo 63), Adriano Spatola (Geiger). In questo caso, solo artisti; tutti altalenanti tra il mondo della poesia, dell’immagine, della musica. Ogni dato è stato ricomposto grazie alla dettagliata ricchezza dei contenuti filologici del testo, testimoni diretti di un panorama dove gli artisti stessi potevano essere i promotori principali della divulgazione dei nuovi linguaggi. Qui, l’esclusione di qualsiasi contributo critico fu confermata nella scelta editoriale con un catalogo privo di testi critici, ma contenente tutte le recensioni dell’evento pubblicate sui giornali. Parole sui muri si ripeté l’anno successivo, nel 1968, con la stessa partecipazione numerica degli artisti, ma – riporta Acocella – senza la stessa vivacità. L’esperimento era riuscito la prima volta per la sua vena inedita. Nei due anni, la rassegna riunì la scena italiana d’avanguardia, dalla poesia visiva ad altre forme di sperimentazione. Ketty La Rocca presentava la sua segnaletica comune, ispirandosi tra le altre cose alla canzone di Orietta Berti. Dal balcone del Municipio, Henry Chopin, recitava poemi sonori. Anche la sperimentazione filmica ebbe il suo spazio con il film ad esempio di Alberto Grifi, Transfer per camera verso Virulentia. Dalla ricostruzione così dettagliata emerge anche il dato reale della risposta pubblica. Il girovagare per il piccolo centro del paese da parte di artisti venuti da tutta Italia con atteggiamenti che sfuggivano a quelli canonici non passò inosservato. Al termine dell’iniziativa la DC ne approfittò per un bilancio contro lo spreco del denaro pubblico dell’amministrazione di governo a sostegno di eventi, dal loro punto di vista, non adeguati alla morale, attraverso un manifesto di protesta affisso per la città di cui si riporta qui l’apertura:

 

“ Raccolti qui in tendopoli / da Voi sovvenzionati / quei capelloni luridi […]”

 

Lavori di affissione, Fiumalbo 1967. Courtesy Archivio del Comune di Fiumalbo.

 

Oltre alla naturale circostanza espositiva, una delle necessità più urgenti era quella di dialogare con il territorio e di contribuire a definire delle soggettività capaci di riconoscersi nei nuovi linguaggi, senza esserne respinte. Inoltre, si è detto sopra, il valore dell’opera come volume nello spazio perdeva progressivamente importanza a favore di un riscontro emotivo o partecipativo sul tessuto sociale e culturale del luogo. Scrive Luciano Caramel nel 1969 a proposito di campo Urbano:

 

«l’inserimento effettivo del coefficiente estetico nella vita della comunità e quindi l’apertura sociologica, il coinvolgimento popolare, il superamento di una dimensione gustativa o esilmente “decorativa”».

 

La citazione è riportata da Acocella e viene da domandarsi se non sia proprio questo che intenda parlando di “Avanguardia diffusa”. Le dinamiche dell’organizzazione corale (o “dal basso”, per usare un’espressione più familiare a molti) e l’esclusione di una direzione programmatica si ritrovano in altri episodi raccolti da Acocella. Uno di questi è Un paese + l’avanguardia artistica. Località: Anfo, comune della provincia di Brescia. All’epoca poco più di 500 abitanti. Il deus ex machina dell’iniziativa anche in questo caso è un artista; anche in questo caso protagonista della poesia visiva. Parliamo di Sarenco (Isaia Mabellini). Appena ventenne e di origini bresciane. Artista, giovane, legato a quegli stessi territori. Ulteriore aspetto d’interesse che emerge dalla lettura della corrispondenza è che, nonostante i contenuti a tratti provocatori e anticonvenzionali delle opere, le istituzioni locali erano ben disposte a sostenere e promuovere queste iniziative artistiche, non ultimo per il loro potenziale attrattivo. Qualunque essa fosse, si trattava di costituire un’occasione di interesse per un luogo e trasformarlo in catalizzatore turistico. Il caso di Anfo si presta bene a giustificare quanto appena detto anche per le possibilità ludiche che hanno generato alcune opere, come ad esempio i gonfiabili di Jorrit Tornquist, artista austriaco residente in Italia dagli anni Sessanta, o quello di Hidetoshi Nagasawa, sul modello del Grande oggetto pneumatico (1960) del Gruppo T, messi nelle acque del lago, o ancora il Biscione da divertimento del gruppo Ti.Zero di Torino.

 

Andrea Bersano, Maria Grazia Magliocca, Giorgio Nelva e Marco Parenti, Biscione da divertimento, Anfo 1968. Courtesy Quantica Studio, Torino.

 

Cito il gonfiabile per introdurre la reazione dei rappresentati locali della DC, perfettamente sovrapponibile a quella dell’episodio di Fiumalbo. Il segretario della sezione locale scrisse:

“Da questa manifestazione, ho rilevato, a mio modesto giudizio […] delle opere di manifestazione sessuale, maoiste, antireligiose, e anarchiche […]”.

 

La carrellata prosegue con lo stesso rigore considerando la genesi, gli episodi significativi, i protagonisti, le opere e le reazioni. Soprattutto queste costituiscono la cartina tornasole del valore delle manifestazioni: la loro capacità di riferirsi a una creatività diffusa presente sul territorio italiano negli anni Sessanta. Quindi in ordine: VI Premio Masaccio (San Giovanni Valdarno, 1968). NuovoPaesaggio (Milano, 1968), mostra cancellata e ricordata da F.M. [Fabio Mauri suppone Acocella] nell’articolo Una mostra da Salvare (Almanacco letterario Bompiani, 1969). Al di là della pittura (VIII Biennale d’arte contemporanea, San Benedetto del Tronto, 1969), curata questa da critici come Gillo Dorfles, Luciano Marcucci, Filiberto Menna. Come sottolinea Acocella, la mostra riprendeva il saggio di Dorfles su Artificio e natura (Einaudi 1968) e creava un terreno di confronto con la parallela esperienza poverista, che pubblicava il celebre catalogo Arte povera + azioni povere a pochi mesi di distanza (maggio 1969), dove lo stesso Dorfles si dichiarava a sostegno di iniziative di scambio con il territorio, che non fossero calate a piombo dall’alto delle istituzioni.

 

Allestimento-opera di Gianni Pettena sulla facciata del Palazzo d’Arnolfo (Dialogo Pettena-Arnolfo), San Giovanni Valdarno 1968. Courtesy Museo Casa Masaccio. Archivio Premio Masaccio, San Giovanni Valdarno.

 

A seguire ancora: Nuovi materiali, nuove tecniche (Caorle, 1969) che recuperava e rinnovava nelle intenzioni la manifestazione che dalla fine degli anni Cinquanta si svolgeva nel comune veneto. L’innovazione dell’episodio passava attraverso l’allestimento diffuso della rassegna, distribuito per le calli cittadine sotto la direzione di Giuseppe Fronzoni (architetto). Quindi Meno 31. Rapporto estetico per il Duemila (Varese, 1969) e Campo Urbano (Como, 1969).

Come si legge, in linea con quanto affermato sopra, l’intento di Meno 31 era quello di “sensibilizzare l’opinione pubblica ai problemi di vitalizzazione e tutela del centro storico”.

 

Mario Di Salvo e Carlo Ferrario, Riflessione, Como 1969; sullo sfondo: intervento di Gianni Pettena (Laundry). Foto © Paolo Zanzi.

 

Di fatto il valore di sperimentazione trovava conferma nelle polemiche a volte aspre che ne uscivano sulla definizione di arte pubblica piuttosto che sul rinnovamento delle istituzioni. Campo Urbano, il cui catalogo fu curato da Luciano Caramel, Bruno Munari e Ugo Mulas, fece esplodere il dibattito critico sull’arte in Piazza. Caramel, critico d’arte, in opposizione a Francesco Vincitorio – sostenitore del rinnovamento delle istituzioni permanenti, promuoveva invece una “prospettiva operativa extramuseale, contingente, effimera […] capace di rispondere alla dinamicità delle proposte estetiche e alle loro istanze democratizzanti” (Acocella, p. 179). Protagonista di Campo Urbano sembra essere per Acocella il tempo libero (p. 181) e in particolare la sua fruizione. Anche questa era uno degli argomenti di sviluppo di un decennio che, per la prima volta in Italia, aveva portato alle masse e ai vari livelli sociali la possibilità di avere e immaginare un tempo libero. La vitalità e la vasta partecipazione si comprimono per Acocella, con un evento cui si rimanda normalmente l’esordio della strategia della tensione e del conseguente timore per gli spazi pubblici: la strage di piazza fontana del 12 dicembre del 1969. Questo clima di “riesame critico” è riassunto da Interventi sulla città e sul paesaggio (Zafferana Etnea 1970), evento di chiusura del saggio, che vide la partecipazione dei critici Francesco Vincitorio, Lara Vinca Masini e degli artisti Franco Vaccari e Ugo La Pietra e che, si svolse in contemporanea alla quarta edizione del premio letterario Brancati Zafferana, diretto quell’anno da Pier Paolo Pasolini. Acocella raccoglie e ricostruisce le tappe di una tensione tra arti visive e critica letteraria per l’utilizzo degli spazi pubblici, che sfociò in gesti di estrema provocazione come l’incendio di cumuli di copertoni in strada.

 

Segnali di fuoco. Intervento di Ugo La Pietra con Getulio Alviani e Maurizio Nannucci (Segnali di fuoco), Zafferana Etnea 1970. Foto Ugo La Pietra. Courtesy Archivio Ugo La Pietra, Milano.

 

Tra gli aspetti più evidenti di questa ricostruzione sono la presenza radicata e capillare di una volontà auto organizzata di artisti sul territorio e uno scenario caratterizzato da almeno due polarità contrapposte. Due Italie che premono l’una sull’altra per la rispettiva affermazione. Da un lato residui di perbenismo conservatore atterrito dallo spettro malefico del comunismo e della rivoluzione dei costumi. Dall’altro liberi artisti che si divertono a sparigliare le carte e a intervenire nelle periferie non urbane con pratiche dirette di presenza, portando nella dimensione reale e più periferica i dibattiti che le élite intellettuali masticano già da alcuni anni attraverso, ricorda ad esempio Acocella, testi come Opera Aperta (1962) di Umberto Eco.

È in questo senso forse che va intesa allora l’avanguardia diffusa del titolo, cioè un’avanguardia capillare, un sottobosco che ha contribuito a mantenere vivi i dibattiti in superficie e a generare identità fondate su nuove estetiche di base.

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Alessandra Acocella. Avanguardia diffusa

La possibile collaborazione tra pubblico e privato

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Fa sempre piacere trovarsi di fronte a persone che, nonostante i numerosi titoli e incarichi ottenuti, si dimostrano disponibili, entusiaste del proprio lavoro e anche molto umili (nel senso nobile del termine). È il caso di Ilaria Bonacossa, classe 1973, milanese di nascita, con una laurea in Storia dell’Arte conseguita all’Università Statale di Milano e un Master in Curatorial Studies al Bard College di New York.

Immagini: 

Documenta a Atene

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Documenta, celebrato emblema della volontà germanica di investire denari e spazi nelle trame dell’avanguardia, dalla dimensione raccolta di Kassel approda a una delle città più tumultuose del Mediterraneo, che negli ultimi venti anni è al centro di una vicenda economica, politica e sociale molto complessa. Adam Szymczyk, il curatore, punta su una versione francescana dell’evento, con poche cene e mondanità. Tutta la città è invasa da eventi che spesso sono minimi, e non di rado difficilmente individuabili, per cui necessita di prendere appuntamento. Appartamenti in stradine vicino al Museo Archeologico (in cui nessuna delle gentilissime maschere sa dare informazioni sulla prevista installazione del rumeno-tedesco Daniel Knorr), ospitano installazioni sulla relazione architettura/politica nella tormentata vicenda ateniese postbellica, uno spazio anonimo in Tossitza Odos ha una serie di “orgasmi”, ossia oggetti in vetro curvati in modi ambigui, ispirati al guru queer Preciado, più interessante come autore (magnifico il suo Texto junkie, uscito in Italia da Fandango), che come curatore. 

 

Il punto è girare tutta la città, scoprendo luoghi inediti, musei e collezioni spesso in condizioni precarie, a cui la gran rassegna offre soccorso. In periferia, a Kifissia, i muratori aspettano a restaurare la casa-museo di Ghiannis Tsaruchis, strepitoso pittore, costumista e scenografo, legato alla memoria di Maria Callas, per cui realizzò mirabili scene e costumi di una celebre Medea a Dallas. Omosessuale, artefice di un coloratissimo mondo di marinai e di cupidi nerboruti, sarebbe contento che alacri muratori stiano rimettendo a posto la sua dimora. Quando la costruì, a fine anni ’60, era isolata in campagna, ora è nel cuore di un territorio residenziale: gli operai che tirarono su i muri compaiono tutti in dipinti e disegni, e facevano a gara per farsi fare il ritratto.

 

Le sue illustrazioni per Kavafis, magnifiche, sembra che abbiano ispirato il giovanile e magnifico lavoro grafico di David Hockney intorno al poema dedicato a Cesarione. Legato a Visconti, suo collezionista, a Bolognini, ebbe una lunga collaborazione con Lila De Nobili, con cui negli anni ’70 a Parigi inventò una paradossale accademia per l’insegnamento della pittura di icone. Tra i lavori esposti spicca specialmente il magnifico corpus delle Troiane, suo unico spettacolo come regista, di magnetica evidenza. Nel 1977, poco dopo la fine della dittatura dei colonnelli, tornato dall’esilio a Parigi, mette in scena nel parcheggio di un complesso edilizio in rovina ad Atene una versione memorabile delle Troiane: donne in nero, semplici nell’abito, vengono tormentate da soldati che per tutti erano una memoria recente e terribile. Tsaruchis ebbe legami con tutti, ma la sua prima mostra è avvenuta per l’impegno del Museo Benaki solo nel 2010. Niki Gripari, nipote dell’artista, accoglie con grande gentilezza tutti i visitatori, e racconta con affetto il profilo, le avventure dell’artista, i suoi amori, le sue ossessioni, ma anche le difficoltà della Fondazione, che Tsaruchis pensò prima della morte, soprattutto le brillano gli occhi quando ricostruisce le trame di spettacoli, che ha visto o a cui ha collaborato, come la mirabile ultima Manon Lescaut di Visconti a Spoleto nel 1973, canto del cigno per il regista e per Lila De Nobili, che decise poi di abbandonare la scena. 

 

 

Altro scrigno, incomparabile per ricchezza di materiali, è quello della casa-museo di Nikos Ghika, pittore cubista, appartenente al Museo Benaki. Qui ci accoglie uno storico dell’arte assai dotato per la narrazione, George Manginis, che offre numerosi piani per comprendere una collezione eccezionale, per vastità e complessità. Il padrone della dimora, appartenente a un' illustre famiglia, fu in contatto con molti intellettuali e artisti, amico diletto di Henry Miller (forte è la sua presenza ne Il colosso di Marussi dello scrittore americano, gioiello di viaggio riproposto qualche anno fa da Adelphi) e di Patrick Leigh Fermor (autore del celebre Mani), che ha lasciato un’altra dimora-museo nella città, sempre gestita dal dinamicissimo Benaki. Manginis sottolinea la complessità di una cultura che nel Novecento è stata segnata in modo fortissimo dalla politica, in una sequenza di guerre, disastri e contrapposizioni, a partire dalla tragica diaspora dei greci cacciati dalla Turchia nel 1922.

 

I duecento ritratti di artisti, poeti, studiosi, intellettuali spiegano un mondo in cui tutto è stato politicizzato: l’archeologia, la bizantinistica vennero orientati a celebrare una tradizione nazionale tanto difesa strenuamente, quanto spesso difficile da identificare nei suoi tratti. Anche la lingua fu un campo di battaglia tra autori di sinistra che volevano raffigurare l’idioma quotidiano (demotico) e altri, conservatori, che cercavano una difficile se non impossibile classicità moderna. Figure come Nikolaos Skalkottas, che trasferiva la musica popolare nella dimensione sonora di modelli schonberghiani, e per questo veniva marginalizzato nelle vicende musicali greche, oppure come Stratis Tériade, che fu estensore del catalogo dell’opera di Picasso, nonché editore dei surrealisti e curatore dell’influentissima rivista Minotaure, spiegano che la città, crocevia di Oriente e Occidente, seppe comunque seguire le piste dell’avanguardia. 

 

La casa Ghika, di cui colpisce il design modernissimo, opera dell’artista, con una sorta di “neoclassicismo brutalista”, fatto di spazi e volumetrie equilibratissime, realizzate però in  cemento armato, fa riflettere su come le mappe del moderno non passino solo da Parigi, ma esista anche una traiettoria meno frequentata, e che sarebbe l’ora di riacquisire in tutta la sua complessità, che tocca la Bucarest di Tristan Tzara e Mircea Eliade, la Varsavia di Witkiewicz e Gombrowicz, la Zagabria di Miroslav Krleza, e Atene, nei suoi molti incroci di figure e motivi. Il teatro e il cinema in questa vicenda hanno avuto un peso importante: nella casa Ghika spicca una cartolina di Vittorio Gasmann a Kathina Paxinou, chiamata con affetto mamacita, in omaggio al suo storico personaggio in Per chi suona la campana. Le potenti revisioni aristofanesche di Karolos Koun (famoso per una vivacissima versione di Gli uccelli), stanno insieme al profilo di Alexis Minotis e alle immagini del magnifico melodramma Stella di Michael Cacoyannis, protagonista una mirabile Melina Mercouri, scene di Ghiannis Tsaruchis che in questa casa è molto rappresentato.

 

 Nel Parco Elefteria (ossia Libertà) è ospitato uno dei più notevoli luoghi della memoria, appartato dentro il verde si trova la memoria delle micidiali azioni della Junta, ossia dei colonnelli che dal 1967 al 1974 esercitarono una micidiale dittatura in Grecia. Nelle sorprendenti sale del museo della Resistenza Antidittatoriale e Democratica i volti dei morti, spesso ragazzi, sono attaccati al muro in foto d’epoca, tra articoli di giornali ingialliti, ciclostili, oggetti realizzati in carcere.

 

Spiccano specialmente le icone barricadere di capi della rivolta rappresentati con il mitra a tracolla, la bandoliera, ma come se fossero dei San Michele Arcangelo. L’artista spagnolo Daniel Andujar realizza un notevole volume, dal titolo LTI – Lingua Tertii Imperii, che analizza, in omaggio al capitale libro di Viktor Klemperer, l’idioma della dittatura nella sua continua e distorta manipolazione della classicità e la reazione internazionale, tra ciclostili, riviste, volantini. All’Odeion, ossia Conservatorio, spazio notevolissimo, con auditorium brutalista di cemento di grande impatto, rende invece omaggio a un’altra figura capitale, Iannis Xenakis, e da lì presenta, incrociandoli con le notevoli opere pittoriche dell’albanese Eli Hila, che dipinge le spiagge di Albania segnate dai bunker di Hoxha, le partiture e le immagini di sperimentatori musicali come Pauline Oliveros e Alvin Curran. Ci vorrebbe molto tempo per poter vedere tutti i luoghi coinvolti, ma senz’altro il filo con la memoria cittadina è l’elemento più forte, disegnando un' immagine di Atene lontana dalle memorie classiche e ben collocata nelle trame del ‘900 e del presente.

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Il primo capitolo dell'edizione 2017

Guida alla Biennale d’arte 2017

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Quattro, come i punti cardinali, sono le tematiche attorno alle quali ruota la Biennale, intitolata forse un po’ ottimisticamente (perché un senso di rovine e morte pervade molti dei lavori presentati), viva arte viva

– l’ozio; 

– i libri degli artisti;

– le trame e le tessiture;

– la magia.

Il percorso, proposto dalla curatrice francese Christine Macel, è diviso in 9 Padiglioni: i primi due sono nel Padiglione centrale dei Giardini e gli altri sette nelle Corderie dell’Arsenale.

   

Iniziando, come è bene sempre fare, dall’Arsenale (perché è lì che la persona chiamata a curare la Biennale ha più spazio per raccontare e svolgere abbondantemente la sua idea), si entra quindi nel terzo padiglione: Padiglione dello Spazio Comune. Lì si incontra subito il tema delle trame e delle tessiture, ma, sovente, anche quello dei libri. I fili come trame del mondo e connessione tra le persone e la storia. Qui anche le danze sono intese come intrecci che seguono fili invisibili che uniscono gli uomini in un rito antichissimo.

   

La sarda Maria Lai (1919-2013) ha tessuto miti e ricordi sepolti nella memoria collettiva. I suoi Telai sono assemblaggi di fili, scampoli di stoffa, legno e oggetti di uso comune. Un codice visivo di nodi e fiocchi che rappresenta le relazioni tra le famiglie, i racconti e le leggende raccontate in una rete di rapporti arcaici. Storia universale (1982) e Geografia (1992) mostrano un mondo interconnesso e aggrovigliato. Infine, i 17 libri impacchettati con la “carta musica”, Enciclopedia pane (2008), mostrano nella maculatura della pasta cotta, sotto le cordicelle infiocchettate, un senso del Tempo che si trattiene e non si perde, soltanto nelle tradizioni. 

   

L’americana Anna Halprin (1920), testimonia di un rapporto stretto con la Natura nel video Danza planetaria (2017): la cerimonia di girotondi non casuali che seguono una trama simile alla danza delle api attorno ai fiori. 

   

Gli spagnoli Antoni Miranda (1942), Joan Rabascall (1935), Jaume Xifra (1934) e la francese Dorothée Selz (1946) hanno organizzato performance (delle quali vediamo i video) ad alto tasso simbolico: una cerimonia funebre in onore di tutti i defunti (Memorial, 2 novembre 1969) e un banchetto con cibi e bevande colorate (Rituale in quattro colori, 20 maggio 1971)

   

Il quarto padiglione (Padiglione della Terra) presenta uno dei video più belli di tutta la Biennale: il lavoro del giapponese Koki Tanaka (1975), Of Walking in Unknown (2017), che documenta un viaggio a piedi di quattro giorni da Kyoto alla centrale nucleare più vicina. Tanaka attraversa un paesaggio di rottami e scarti, ferraglie arrugginite e insetti morti. Raccoglie gli oggetti più significativi (cocci, pezzetti di metallo, cordicelle slabbrate) e una loro scelta è mostrata in una lunga bacheca al lato del grande schermo dove viene proiettato il video. Alle immagini del video si sovrappongono spesso altre immagini, più dettagliate, in formato piccolo che danno l’effetto di un microscopio o di un cannocchiale che mettono a fuoco avvicinandosi o allontanandosi.

   

Nel quinto padiglione (Padiglione delle Tradizioni) c’è ancora un artista sardo, Michele Ciacciofera (1969) che, con una magica e suggestiva istallazione, Janas Code (2016-2017), presenta su nove tavoli oggetti svariati: elementi naturali, forme di ceramica colorata, favi rivisitati, fossili di pesci e ammoniti chiusi in libri dipinti. Sulle pareti, libri composti da favi e arazzi semivuoti, sostenuti da strutture a quadri di metallo che rimandano alla tradizione popolare sarda e alla leggenda dell’origine delle “domus de janas” (strutture funerarie dell’epoca neolitica): un’ape venne trasformata in fata da una scintilla scappata dal dito di un dio…

   

Un misto di tradizioni antiche e linguaggi contemporanei è anche il lavoro della sudcoreana Yee Sookyung (1963) che, in Traslated Vase. Nine Dragons in Wonderland (2017) assembla sculture con frammenti di vasi di ceramica tradizionale coreana, dando nuova vita a una colonna bitorzoluta di cocci bianchi, azzurri e oro. 

   

Nel sesto padiglione (Padiglione degli Sciamani) si incontra il suggestivo lavoro del marocchino Younès Rahmoun (1975), 1. Taqiya-Nor (2016), composto da 77 berretti di lana che coprono altrettante lampade distibuite sul pavimento (77, cifra sempre ricorrente nelle sue opere, è il numero dei gradi della fede, secondo Maometto), e i film di due performance realizzate sulle due sponde dell’Oceano atlantico (in Brasile e nel Senegal) dal brasiliano Ayrson Heráclito (1968), O Sacudimento da Casa da Torre e O Sacudimento da Maison des Esclaves em Gorée (2015), sul tema della deportazione degli schiavi, incentrata sul medesimo rito magico della “scuotimento”, consistente nel colpire con fasci di foglie e rami ogni angolo delle abitazioni per scacciare gli spiriti degli antenati morti.

   

Ancora più interessante è il settimo padiglione (Padiglione Dionisiaco) dove sono esposte alcune opere dell’artista svizzero-tedesca Heidi Bucher (1926-1993) che immergeva indumenti intimi femminili in un’emulsione di plastica (un lavoro simile a quello fatto dalla stilista milanese Gentucca Bini): pannelli freddamente gommosi che lasciano traparire, in sottovuoto, mutande e sottovesti imprigionate e fermate nel tempo come insetti nell’ambra (Blaues Kleidchen, 1978 e Unterhose, 1978). Accanto ci sono le opere “erotiche” della libano-americana Huguette Caland (1931) e, in paricolare, il grande Christine (1995), con tre donne (come le Grazie) che traspaiono da una miriade di linee e macchie, come fili e tessuti, in una trama di molte tonalità di grigio.

   

Di grande effetto è la “stanza con corridoi” di uno dei maggiori artisti di oggi: il franco-algerino Kader Attia (1970), che rappresenta con efficacia e poesia l’incontro/scontro tra culture diverse. L’installazione ha per tema le “vibrazioni narrative”: nei corridoi sono esposti variopinte e attempate riviste, copertine di vecchi dischi, fotografie della tradizione musicale del Nordafrica e del Medioriente e un televisore che mostra un video sul suono e la questione transgender; nella sala centrale (l’“agorà”) membrane coperte da grani di cuscus, sotto cupole trasparenti, si muovono per le sollecitazioni di acuti canti e musiche stridenti, disegnando, ogni volta che torna la quiete, suggestivi mandala. 

   

Nel Padiglione dei Colori (l’ottavo) colpisce Brésil (2015): l’enorme (7 metri di lunghezza per 2,35 di altezza) e variopinto arazzo dell’artista del Mali, Abdoulaye Konaté (1953), che fa parte di un’istallazione comprendente vari oggetti del Brasile trasformati in “amuleti” (grigri): un pallone da calcio, una sedia disegnata dall’architetta Lina Bo Bardi, un diario di viaggio…

   

Questo trionfo di tessuti e stoffe è concluso da una parete sulla quale sono addossate balle di fibra colorate, una sorta di enormi cuscini: Scalata al di là dei terreni cromatici (2016-2017), dell’americana residente in Francia Sheila Hicks (1934) che definisce le sue opere “tessiture senza pregiudizi” nel senso che sono un po’ tutto: design, artigianato, architettura…

   

Il padiglione finale (Padiglione del Tempo e dell’Infinito) raggiunge il culmine con un’istallazione molto elaborata e ricca di spunti poeticamente teatrali: El hombre con el hacha y otras situaciones breves (2014; 2017) della newyorkese, di origine argentina, Liliana Porter (1941). Una figurina maschile armata di un’accetta sta all’origine (ma non è ben chiaro: potrebbe esser lì alla fine, quasi a dare il colpo di grazia) di una sequela caotica di oggetti rotti o frantumati, di tutte le dimensioni (da pezzi di ceramica, a sedie accatastate al muro, a un pianoforte sventrato). Un lavoro che ricorda i “plastici-istallazioni” dei fratelli britannici Jake e Dinos Chapman, ma con maggiore umanità e sensibilità filosofica e artistica. 

 

 

Tra i padiglioni nazionali successivi, vanno segnalati:

la Georgia, dove Vajiko Chachkhiani con Living Dog Among Dead Lions (2017) ha trasportato una vecchia dacia di legno nella quale, dal soffitto, piove dentro in continuazione sul pavimento e le suppellettili. Un’atmosfera molto tarkovskjiana che trasmette un senso di malinconia e umida rovina; 

la Nuova Zelanda, dove Lisa Reihana, presenta Emissaries (2016) proiettando su uno schermo che occupa per lungo tutta la parete di quattordici metri, un divertente e surreale video multicanale che prende in giro, dal punto di vista Maori, le imprese di James Cook;

la Repubblica popolare cinese dove si presenta l’interessante lavoro di un gruppo di artisti e artigiani – Wu Jian’an, Tang Nannan, Yao Huifen e Wang Tianwen – che hanno fondato una “Rete di creazione intertestuale e collettiva” il cui obiettivo è la creazione di una nuova pittura e video mediante il rinnovamento della calligrafia e della pittura a inchiostro. Particolarmente belle sono le foto in b/n del certamente più versatile Tang Nannan, Beach Series (2008-2012) e la parete dove una grande mappa (Map of Succession of Teachings) mostra le foto dei volti degli artisti e delle loro opere unite da fili colorati che disegnano una mappa sofisticata e intrecciata dei rapporti, delle influenze e dei debiti artistici.

 

 

Il padiglione italiano, curato da Cecilia Alemani, si intitola, riprendendo un’opera pubblicata nel 1948 dal grande antropologo Ernesto de Martino, Il mondo magico, e lodevolmente presenta le opere di soli tre artisti.

Si entra in una specie di grande e moderna officina per la fabbricazione di Cristi crocifissi: un gruppo di giovani armeggia attorno a un forno e un calderone che fonde e cola materiale organico in un unico stampo. Sotto cupole di plastica, che sembrano igloo, stanno a seccare i crocifissi e vengono rapidamente intaccati da parassiti e muffe che fanno iniziare un processo di decomposizione delle superfici delle statue. In fondo alla sala stanno ordinati e classificati pezzetti anatomici “sbagliati” e crocifissi venuti male. L’istallazione-performance del modenese Roberto Cuoghi (1973), Imitazione di Cristo (2017) è di grande impatto visivo e risulta assai stimolante per il fatto che tutto il processo è concepito per non ottenere mai lo stesso risultato, pur utilizzando sempre il medesimo stampo.

 

 

Meno riuscito il video della milanese residente a New York, Adelita Husni-Bey (1985), La seduta (2017) che mette in scena una conversazione tra un gruppo di giovani sui rapporti di potere economici e sociali dell’età contemporanea.

Infine, il veneziano Giorgio Andreotta Calò (1979), con Senza titolo. La fine del mondo (2017), che occupa tutto lo spazio dell’ultimo stanzone, propone una messa in scena molto suggestiva e misteriosa. Si entra in un ambiente semibuio, oppresso da un basso soffitto di tavole appoggiate, come un soppalco, su una struttura di tubi Innocenti, ad alcuni dei quali stanno attaccate sculture in bronzo bianco raffiguranti grandi conchiglie. Attraverso una scalinata metallica, appoggiata sul fondo, si sale al piano superiore dove si può ammirare il soffitto con le capriate lignee a vista che si riflette su una lunga superficie nera e liscia. Dopo un po’ ci si accorge che si tratta di un’enorme piscina piena d’acqua immobile, ma non si può fare a meno di perdere il senso complessivo dell’architettura confondendo l’alto con il basso. 

 

All’ingresso dei Giardini ci si imbatte subito in una novità: il padiglione lungo e stretto, commissionato anni fa da Electa e progettato da James Stirling (Padiglione Stirling, appunto), quest’anno si intitola La mia biblioteca e contiene i libri che ciascun artista presente alla mostra ha scelto tra i suoi preferiti. Il progetto si ispira al saggio di Walter Benjamin, Aprendo le casse della mia biblioteca. Discorso sul collezionismo (1931; trad. it. Henry Beyle, Milano 2012), ma si è dovuto scontrare con l’esigenza di avere, il più possibile, tutte le opere non nella lingua originale nella quale l’artista le ha lette, ma in inglese. Comunque la visita al padiglione è piuttosto interessante e, a volte sorprendente: per chi volesse avere l’elenco completo dei libri presenti lo trova nel Catalogo generale della Biennale.

 

 Il Padiglione Centrale, come dicevamo, presenta i primi due pezzi (1. Padiglione degli artisti e dei libri e 2.Padiglione delle Gioie e delle Paure) del discorso della Curatrice. Entrando, sulla sinistra, si trovano le variazioni sul tema della scrittura, opere di artisti che non scrivono libri nel senso letterale del termine: la tedesca residente a Milano Irma Blanc (1934); l’austriaco Franz West (1947-2012); i filippini Katherine Nuñez (1992)e Issay Rodriguez (1991), che riproducono manuali tecnici e libri d’arte originali rielaborati poi con tecnologie digitali per creare i motivi di un ricamo; l’inglese originario dello Zambia John Latham (1921-2006) che dà fuoco ai libri; il cinese Liu Ye (1964) che ridipinge le copertine dei libri che ama; l’arabo Abdullah Al Saardi (1967) che dopo aver tenuto per anni un diario ha preso recentemente a scrivere su rotoli che conserva in scatole metalliche raccolte quotidianamente; il cinese Liu Ye (1964), che ha dipinto elegantemente le copertine di Lolita di Nabokov. 

  

Ci sono poi gli artisti che oziano (Cristine Macel: “l’idea di creatività legata a quel momento di inoperosità e di disponibilità, di inerzia laboriosa e di lavoro dello spirito, di tranquillità e azione in cui appunto nasce l’opera d’arte”) con una carrellata di persone che schiacciano pisolini (Mladen Stilinovič, Yelena Vorobyeva e Victor Vorobyev, Frances Stak): curiosi ma assai meno interessanti.

   

Nel Padiglione delle Gioie e delle Paure (sulla destra rispetto all’entrata) ci sono invece artisti che presentano lavori più “tradizionali” (dipinti, film e foto), a volte sorprendenti. I surreali “scarabocchi” che rappresentano mani colorate del primo ministro albanese Edi Rama (1964); il film documentario, Sensitization to Colour (2009), della polacca residente a Berlino Agnieszka Polska (1985) su una mitica mostra a Poznań, nel 1968, del pittore Włodzimierz Borowski; il siriano, che risiedeva a Berlino, Marwan (1934-2016) ha saputo essere un pittore “figurativo” con una forza quasi tridimensionale: dipingeva ritratti dove si legge bene “il tema del dualismo vita morte, assenza presenza, amore odio”; il poeta e performer magiaro Tibor Hajas (1946-1980), con sorprendenti tableaux fotografici di grande qualità tecnica, come Surface Torture (19/12/1978), mostra il suo corpo in una sequenza sulfurea di gesti che evocano associazioni tragiche; sempre sul corpo lavora l’assai interessante artista ceco Luboš Plný (1961), disegnando complicate mappe anatomiche su collage di immagini che ricordano le mappe dell’agopuntura cinese; assai noto e apprezzato è il lavoro dell’americana Kiki Smith (1954), soprattutto le sculture, ma davvero belli sono questi disegni che rappresentano, su sottile e traslucida carta nepalese, un universo femminile fragile e autobiografico; infine la vera sorpresa di questa sezione è la cinese di Hong Kong, Firenze Lai (1984): le sue figure, apparentemente ingenue, sono simbolicamente sproporzionate e rimangono spesso in parte tagliate fuori dai quadri: “I suoi dipinti e disegni sono delle finestre sui momenti fugaci che esistono tra essere e non essere, quando la mente e il corpo mutano, nel tentativo di adattarsi alla vita frenetica del mondo esterno. (…) Vanno considerati come specchi della nostra stessa identità, piene di ambiguità, ma ci colpiscono per la loro intensità emotiva”.

 

 

Meno interessanti delle ultime edizioni sono quest’anno i padiglioni nazionali. Bellissimo è quello degli Stati Uniti, che costringe i visitatori ad entrare e uscire dalle porte laterali, di servizio perché il piazzale antistante a l’ingresso principale è pieno di detriti e rifiuti. Mark Bradford con Tomorrow Is Another Day tenta di fare il racconto del periodo di incertezza, dissesto e violenza nel mondo nel quale viviamo, ma mostrare anche le azioni e le opportunità che ci sono: una testimonianza, come scrive lui, “della fiducia nella capacità dell’arte di coinvolgere tutti in un dialogo profondo e anche in una pratica positiva”. Bradford ha stravolto completamente il neoclassico padiglione americano, riempiendolo di masse bulbose con la superficie butterata (ottenuta colpendo con una pompa a pressione strati sovrapposti di carta prestampata) e modificando le pareti e la cupola centrale con grovigli di nastri verde-gialli, dello stesso materiale, che paiono le spire di una piovra. Al centro incombe una Medusa che sembra un orrendo gomitolo. Sulle pareti libere sono esposte alcune opere pittoriche astratte di grandi dimensioni, e di notevole bellezza. In alcuni di essi Bradford utilizza le cartine per permanente nero violacee, cangianti, in ricordo del salone di bellezza dove lavorò con sua madre. Prima di uscire si viene bloccati da un grande schermo dove si proietta il video Niagara (2005) che mostra un suo vicino di casa che si allontana ancheggiando come Marilyn Monroe nell’omonimo film. 

 

 

Interessante è il padiglione dell’Austria per le opere di Erwin Wurm che espone fuori un camion a testa in giù, come piovuto dal cielo, quasi un palazzo visitabile entrandovi con la scala dalla pancia (Stand quiet and look out over the Mediterranean Sea, 2016-2017). All’interno, un vecchio camper con vari fori e le istruzioni dell’artista su come infilarci dentro la testa o un braccio, o come sedersi su un pezzo della carrozzeria portato fuori: l’opera d’arte diventa quindi il modo in cui il fruitore la usa e si adatta alle istruzioni immaginate dell’artista.

 

 

Il padiglione della Grecia è stato trasformato in una sorta di teatro antico-contemporaneo con una videoinstallazione narrativa ispirata alle Supplici di Eschilo (che hanno come protagoniste un gruppo di persone perseguitate in cerca di asilo). George Drivas mette in piedi un vero e proprio Laboratorio dei dilemmi: un gruppo di attori (tra i quali la sempre affascinante Charlotte Rampling) dibattono delle implicazioni morali e scientifiche di un controverso esperimento di biologia.

   

Il grande artista-fotografo Dirk Braeckman è il protagonista del padiglione del Belgio: lavorando con la fotografia analogica mette in discussione le convenzioni fotografiche. Il flash della sua macchina fotografica rimbalza sulla superficie del soggetto, sulla texture di pareti, tendaggi, tappeti e poster creando un effetto metallo grigio ghiacciato che spersonalizza le figure, oscurandone l’immagine.

  

Il bel padiglione della Svizzera, progettato dall’architetto Bruno Giacometti fratello di Alberto Giacometti, non ebbe mai la possibilità di esporre le opere del grande scultore (per tutta la vita Giacometti rifiutò di presentarle in quella sede). Il curatore Philipp Kaiser ha voluto “riempire” questa assenza con una serie di sculture create appositamente e un’istallazione filmica di grande suggestione: Flore (2017) di Teresa Hubbard e Alexander Birchler . Il film (che dura 50 minuti, ma vale assolutamente la pena di impiegarli a guardarlo) è la storia di un americano che ha scoperto di essere il figlio naturale di Giacometti. La madre (Flora Mayo), figlia di una famiglia agiata americana, era stata fatta sposare giovanissima con un matrimonio combinato. Caduta quasi subito in depressione, e decisa a separarsi, per evitare lo scandalo i genitori la mandarono a studiare arte a Parigi. Là, negli anni Venti, conobbe il già sposato Giacometti. Nacque un amore che portò anche a uno scambio di ritratti scultorei: lei, nel 1927, scolpì il busto di lui (andato distrutto, ma è visibile una copia in mostra) e Giacometti fece altrettanto, sempre nello stesso anno (Ritratto di donna. Flora Mayo). Poi lei tornò improvvisamente negli Stati Uniti, perché aspettava un bambino. I genitori le tagliarono gli alimenti e Flora fu costretta a vivere di stenti, senza mai rivelare, nemmeno al figlio, chi fosse suo padre. L’ultima scena del film è di quelle che non si dimenticano facilmente: si vede l’anziano signore, che ha narrato la storia mostrando foto e lettere e commuovendosi spesso, arrivare con passo incerto nella Galleria di Zurigo e, fermandosi difronte alla statua di Giacometti, esclamare “È la mia mamma!”

 

 

Avendo scritto una guida che seleziona soltanto le opere e gli artisti che, a mio sindacalissimo parere, sono notevoli, non vorrei contraddirmi in conclusione criticando due padiglioni, ma sento la necessità di far notare un paio di criticità stridenti con lo spirito stesso dell’esposizione. Anzitutto il Padiglione della Germania (che ha vinto il Premio della Giuria della Biennale). Anne Imhof ha stravolto la struttura del padiglione, circondandolo di una rete metallica e creando un corridoio trasparente sotto il pavimento dove corrono su e giù dei cani doberman. Sulla rete tentano di arrampicarsi, come migranti in fuga, attori che poi ricadono tra cani. L’intento del messaggio dell’artista può anche essere lodevole, ma la realizzazione risulta assai banale e forse persino offensiva verso coloro che scappano e cercano di superare muri e barriere, e nemmeno giusto per i cani, costretti a correre in un recinto scomodo sotto gli occhi degli spettatori.

   

Poco più in là il padiglione della Russia, sotto il titolo di Theatrum Orbis, presenta i lavori irrilevanti del Recycle Group (Blocked Content), sul Nono Girone della Divina Commedia, e di Sasha Pigorova (Garden), sulla forza dell’oscurità, e dedica il posto centrale a Cambio di scena di Grisha Bruskin che mostra la sua visione messianico-pessimistica della situazione odierna, dove dominano la violenza, il terrore e le strategie di controllo e repressione. Questo quadro abbastanza semplicistico del momento attuale, spiegato in una sorta di manifesto appeso alla parete, viene rappresentata con decine di figure bianche, tutte uguali, masse senza volto inquadrate compatte in falangi di cortei senza meta, circondate da altre figure più alte con fattezze extraterrestri e sormontate da strani uccelli predatori e vecchi aeroplani (che sembrano usciti dai manifesti di propaganda degli anni Trenta). Ma il senso della “denuncia” viene sintetizzato in un grande compasso (come quello del simbolo della massoneria) che controlla le masse…

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Diavolo mietitore o extraterrestre?

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Tra la realtà e la fiction si insidiano immagini, storie e ricordi, che inducono interpretazioni e credenze, o sospetti e vacillamenti della credulità. Oggi si tende a pensare che il diavolo sia molto abile a usare Photoshop e postproduzione, e che agendo direttamente dentro la vita si insinui nella percezione dei mortali, così che le persone confondano spesso la finzione o l’inganno con la verità. Come dentro a un racconto borgesiano: accadono fatti, avvengono incontri, e si è talmente portati dalla narrazione seducente che alla fine non si è più sicuri di cosa sia più vero e convincente, se l’immedesimazione nel racconto o il quotidiano vissuto giorno per giorno. Il documento fotografico o video testimonia veramente un fatto accaduto? È più vera la realtà o ciò che si è immaginato come vero e poi riprodotto? Forse dipende da quanto una e l’altro influiscono nelle scelte di ogni individuo. 

 

Moira Ricci, Dove il cielo è più vicino, Il diavolo mietitore, 2014, courtesy Laveronica contemporary art gallery.


Nel frontespizio di The moving devil, un pamphlet del 1678, il demonio è descritto mentre realizza due ovali concentrici in un campo, adagiando a terra le spighe mietute, che paiono ardere come fiamme. I patiti dei cerchi nei campi di grano e i movimenti filoextraterrestri considerano questa immagine e questa storia come un precedente storico e una testimonianza indiretta legati a un incontro ravvicinato del terzo tipo. Così il diavolo, ovvero un essere celeste caduto sulla Terra, viene interpretato come fosse un alieno. Qui la storia viene considerata una rappresentazione simbolica di un evento non ancora dimostrabile, consegnata alla credulità o alla critica dei lettori. Molti ancora oggi credono alle leggende. La storia inventata, una volta che qualcuno la crede vera, può modificare in parte la realtà?

 

The moving devil or strange news out of Hartford-fhire woodcut, 1678, Folger Shakespeare library.


A giudicare dalla fortuna delle religioni in ogni periodo storico si è indotti a pensare che la finzione possa modificare in grandi percentuali la vita degli umani, influenzando le loro azioni. Qualcuno insinua che la fortuna delle religioni sia sottilmente voluta dal diavolo stesso. Nel pamphlet seicentesco viene narrata la storia di un ricco proprietario terriero che respinge la richiesta di aumento di ricompensa del bracciante nel periodo della mietitura. Il contadino, deluso e arrabbiato, si licenzia dal padrone nominandogli la figura ultraterrena: “Che lo mieta il diavolo, allora!” […] Accadde così che proprio quella notte il campo di avena iniziò a splendere come se fosse in fiamme, ma il mattino dopo si presentò mietuto alla perfezione […] Non si sa se mietuto dal diavolo o da un altro demone: di certo non da un essere umano.

 

Quando il padrone si avvicinò alle balle d’avena, non aveva più la forza né per sollevarle, né per portarle via”. Questa leggenda nasce quando in Inghilterra i padroni cominciano a recintare i campi, a introdurre nuove tecniche e colture, che modificano il paesaggio agrario. All’accorpamento delle proprietà frammentate e alla privatizzazione delle terre comuni consegue un peggioramento delle condizioni di vita dei contadini poveri, che non hanno più diritti di pascolo, di spigolatura e di caccia, da secoli alla base della loro sopravvivenza. 

 

Mosaico raffigurante un serpente cornuto avvolto in spirale, XII secolo San Demetrio corone, Cosenza, chiesa di Sant'Adriano.


Moira Ricci parte da questa leggenda per modificare qualcosa della storia che appartiene a lei, alla sua famiglia e ai suoi conterranei, ma che si può allargare all’universale. Dove il cielo è più vicinoè un progetto iniziato nel 2014 e ora esposto a Reggio Emilia, nel chiostro di san Domenico, nell’ambito di Fotografia Europea. In un video girato con un drone, la visione dal cielo inquadra un ampio campo con due cerchi di fuoco concentrici, evocando la leggenda del diavolo mietitore, tramandata oralmente dai contadini.  

 

L’artista, come una figliola prodiga, ritorna alla sua terra d’origine, alla Maremma e al suolo che segna il confine dell’universo, e medita sul rapporto tra le sue radici e il cielo, nel luogo dove la sua famiglia è dedita al rispetto delle fatiche delle generazioni precedenti. È un ritorno a una terra in crisi, sempre meno coltivata dai contadini, spesso abbandonata: “Io ho fatto questo lavoro con uno stato d’animo molto confuso e contraddittorio. Come molti della mia generazione, ho abbandonato il podere uscendo così dalla tradizione famigliare. Adesso che sono spesso a casa, mi accorgo di non essere capace di mantenere un terreno fertile e dunque di tenere vivo un podere. Ormai ce ne sono rimasti pochi di contadini che sanno coltivare la terra, i poderi sono stati venduti a persone che ci vengono solo in vacanza. Con il mio lavoro non voglio polemizzare, non posso proprio io che me ne sono andata, ma piuttosto ritraggo una situazione che conosco bene e reagisco con quello che so fare”.

 

Moira Ricci, Dove il cielo è più vicino, Il diavolo mietitore, 2014, courtesy Laveronica contemporary art gallery.


Dove il cielo è più vicinoè allo stesso tempo una tensione, una preghiera, un tentativo di fuga, una reazione ai controllori celesti, una presa di coscienza: chi vuole elevarsi verso il suo cielo interiore deve prima nutrire e curare la terra da cui parte. Con i due cerchi di fuoco Moira Ricci rievoca la poetica di Joan Jonas, si connette con i segni geometrici e astratti incisi sulle rocce dai popoli del neolitico, e cerca di ristabilire una dimensione magica e sacrale. Si affida ai mezzi e ai linguaggi dell’arte primitiva, a due semplici cerchi concentrici, per avvicinarsi alla dimensione che si trova a una certa distanza dalla realtà in cui vive l’uomo. Questi cerchi infiammati nel paesaggio non sono legati al solo luogo, ma sono da intendere come riflessioni e segni rivolti verso un’altra dimensione, vera o solo immaginata non importa, perché si tratta di reiterare gesti che giungono da tempi remoti: tracce come cuciture tra due realtà, quella presente e quella proiettata nel futuro, nella dimensione più lontana del cielo, anche verso quel maligno che sta da un’altra parte. Sono messaggi rilasciati dagli adepti rurali per il cielo, tracce di un avvicinamento o di un collegamento extraterrestre, o testimonianze certe della presenza del diavolo mietitore?

 

O qua su o qua giù, particolare della morta con Lucifero e i diavoli.


Moira Ricci lascia che le risposte stiano in sospensione nel tempo, così che ogni singolo spettatore possa essere portato a vedere dall’alto, in volo sulle terre come in un viaggio onirico. I due cerchi concentrici sui campi e sulle colline vengono trasfigurati in simboli luminosi, che collegano la preistoria al presente.

Sempre in riferimento a questa tensione poetica, un secondo video documenta le fasi di lavorazione per costruire – con l’aiuto di famigliari e amici – un’astronave, partendo da una trebbiatrice. L’ingenuo progetto, pur essendo un tentativo destinato al fallimento, considera superflua la riuscita finale del decollo e rimarca invece uno spazio per darsi da fare, qui e ora, con quello che c’è a disposizione. Un lavoro, quindi, che determina la volontà di andare oltre, di ridefinire la realtà per affrontare il futuro, una sorta di viatico alla non rassegnazione: “Per la trebbia-astronave ho scelto di fare il video, che in realtà è un time-lapse e dunque si tratta di foto, perché per me era importante far vedere innanzitutto la trasformazione dalla trebbia all’astronave con tutto quello che succedeva in mezzo.

 

Moira Ricci, Dove il cielo è più vicino, 2014, courtesy Laveronica contemporary art gallery.


In che altro modo potevo fare per non perdermi quei momenti d’interazione spontanea tra le persone che hanno collaborato alla costruzione? Sono partita senza sapere cosa sarebbe successo e se sarei riuscita a ottenere qualcosa alla fine. Ho proposto a mio padre di fare un’astronave, lui ha disegnato su una lavagna in modo elementare come la voleva e da lì l’abbiamo costruita a braccio in 37 giorni. In questo caso quello che mi sono costretta a imparare è stato molto; una tecnica tra le tante è stata la saldatura”.

La metamorfosi da una forma a un’altra, resa nel video con l’effetto del time-lapse, testimonia che la trebbia diviene una navicella spaziale nell’avvicendarsi del giorno e della notte, attraverso la fatica e la partecipazione delle persone coinvolte, aprendo anche alla possibilità che si possa elevare verso una prospettiva ultraterrena. Foto di grandi dimensioni mostrano poi coloro che hanno costruito un mezzo, utile per trasformare l’impossibile in un viaggio: rivolgono lo sguardo e le loro aspettative verso l’alto, in direzione del cielo, con il sorriso dei contadini cosmonauti, con la speranza che si apra una via di collegamento con l’universo. E questo è un primo passo, forse, per far evolvere finalmente la specie umana.

 

Moira Ricci, Dove il cielo è più vicino, Il diavolo mietitore, 2014, courtesy Laveronica contemporary art gallery.


Moira Ricci, Dove il cielo è più vicino, Fotografia Europea, 

Chiostri di San Domenico, via Dante Alighieri, 11 - 42121 Reggio Emilia

dal 5 maggio al 12 luglio

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Moira Ricci a Fotografia Europea

Contemporary African Art: A question of label?

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Italian Version

 

When I was asked to work with a new contemporary art gallery focusing specifically on African artists, my first reaction was, of course, one of joy and excitement, not only because this was the kind of job I had always longed for, but also because the word “African,” associated with contemporary art, triggered a number of ideas, thoughts and impressions on which I had been reflectingfor a while. First of all, why do we talk about“African” art? This is not a merely geographical designation, as this label is also used to indicate works by artists of African descent born and/or based in other countries, as a consequence of the so-called “diaspora.” Besides, North African art is usually regarded as a category of its own, due to its “Arab” and “Islamic” influences. Therefore, “African” art is neither a geographical label nor a category in itself, as there are no stylistic, thematic or technical features that can univocally be attributed to it.

 

C-Gallery, Room 1, Maimouna Guerresi – Kimathi Donkor - Mary Sibande - Robert Pruitt , courtesy of C-Gallery and the artists.

 

Yet, most of the 2017 spring cultural events in Paris were about “contemporary African art” –from Art Paris Art Fair, which had Africa as a guest of honor,to a number of exhibitions and conferences spread across the city. The 2016 Armory Show in New York also put the spotlight on Africa, and so did many other institutions and exhibitions around the world. Based on this, one would assume that “contemporary African art” must be something quite specific, but how can we define such specificity? When describing Africa, the West has never been able to get rid of its long-standing imperial gaze. The Magiciens de la Terre exhibition, for example, had the merit of bringing a number of artists from all over the world to the attention of large audiences, but it was not able to go beyond the mere reproduction of power relations between French culture and minorities. Thus, it failed to give equal dignity to the exhibited works and artists, perhaps because the audience was not ready for it; and this inevitably gave way to exoticism, with foreign cultures presented as variations from the norm, which was obviously identified with Western culture. Things do not seem to have changed much since then.While this current focus on contemporary African art has certainly given visibility to artists affected by a center-periphery hierarchical perspective, this glorification of minority as such is indeed counter-productive.

 

C-Gallery, Room 1, Maimouna Guerresi - Joel Mpah Dooh - Coby Kennedy , courtesy of C-Gallery and the artists.

 

By labeling contemporary art as “African,” we mark it as different from non-African contemporary art and fall into aninclusion/exclusion trap, creating a perception of difference where there was none to begin with. Suffice it to say that most contemporary African works of art cost less than their non-African counterparts, although being created by equally talented artists. So why is this distinction still made? I have been asking myself this question for months; the answer would probably open up a number of other issues that would be difficult for me to sort out. I wonder if I’m not too permeated with my own Western culture to see that an African specificity does exist. What if my tools are actually too limited to approach these matters? What if the otherness of “contemporary African art” is actually a form of resistance to the Western art system and its delirious market, a form of self-defense and self-differentiation that we create to make clear that the Western system is not the only one, but there is also a parallel and different African system with which it is possible to interact without merging. I have difficulty believing that this is the case; or rather, I don’t think this can be a winning and lasting approach in a globalized world where market embraces everything in order to survive.

 

C-Gallery.

 

As far as I can see, another danger exists: the danger of turning this“African art” label into a market trend, into a speculative bubble that pushes up sales as long as it is necessary, until a new trend comes out and replaces it. If this were the case, then “contemporary African art” would only be a moment in history, rather than history itself. In the end, I ask myself how I can contribute, as a curator and gallery manager, to avoiding these traps, and encourage others to follow suit. This is my challenge, but it is also the challenge of our present time. Perhaps, we need a great cultural revolution that will eventually make all these issues pointless. What I know is that history will certainly find its way, and I hope this time it will be a history written by many, by all.

 

Photos by Raffaelle Bellezza.

Traduzione di Laura Giacalone.

 

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Arte Contemporanea Africana, questione di etichetta?

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English Version

 

Quando mi è stato chiesto di lavorare per una nuova galleria d’arte contemporanea che avrebbe trattato in prevalenza artisti africani, la mia prima reazione è stata ovviamente di grande gioia, non solo perché il lavoro era molto vicino a ciò che avevo da sempre desiderato, ma anche perché quell’aggettivo “africana” accostato all’universo arte contemporanea per me evocava una serie di idee, riflessioni, sensazioni che proprio in quel periodo andavo concependo. Intanto perché si parla di arte “africana”? Non si tratta di un aggettivo prettamente geografico in quanto viene in genere associato anche alle opere realizzate da artisti di origine africana, ma nati e/o residenti in altri Paesi in tutto il mondo, frutto della cosiddetta Diaspora. Inoltre si tende, per esempio, a far categoria a parte dell’arte Nordafricana con le sue influenze “arabe” e “islamiche” spesso più marcate. Dunque non è una questione geografica, ma non si tratta nemmeno di una vera e propria categoria perché non esistono cifre stilistiche o tematiche o tecniche proprie solo dell’arte africana.

 

C-Gallery, Room 1, Maimouna Guerresi – Kimathi Donkor - Mary Sibande - Robert Pruitt , courtesy of C-Gallery and the artists.

 

Eppure. Le manifestazioni culturali della primavera parigina 2017 sono state interamente dedicate all’Arte Contemporanea Africana, a partire da Art Paris che annunciava l’Africa come ospite d’onore della fiera, per arrivare alle molteplici mostre e conferenze che hanno animato tutta la città. L’edizione 2016 di Armory Show a New York aveva come focus l’Africa e così via per tutta una serie di altre istituzioni e iniziative in tutto il mondo. Ne deduco che l’Arte Contemporanea Africana sia dunque qualcosa di specifico, ma come definire questa specificità? Ogni volta che l’Occidente ha provato a descrivere l’Africa non ha saputo liberarsi di quello sguardo imperialista in cui si trova imprigionato da centinaia di anni. Ricordo per esempio una mostra simbolica come “Magiciens de la Terre” che se da un lato aveva avuto il merito di portare all’attenzione del grande pubblico artisti provenienti da tutto il mondo, dall’altro non era riuscita ad andare oltre una riproposizione delle strutture di potere, raccontando il dialogo tra la cultura francese e le minoranze. La mostra non riusciva a trasmettere una pari dignità ai lavori e agli artisti esposti, forse perché l’audience non era preparata a recepirla in questo modo, inevitabilmente si cadeva nel fascino dell’esotismo trattando le culture estere come scarti della norma dove la norma era ovviamente la cultura occidentale. Non sono sicura che oggi sia diverso. Credo che questa tendenza odierna di presentare grandi rassegne dedicate all’arte contemporanea africana abbia il merito di presentare artisti che senza dubbio sono penalizzati all’interno di un sistema che ragiona ancora in termini di centro e periferia, ma proprio questo atteggiamento di esaltazione della minoranza in quanto tale si rivela controproducente.

 

C-Gallery, Room 1, Maimouna Guerresi - Joel Mpah Dooh - Coby Kennedy , courtesy of C-Gallery and the artists.

 

Etichettando l’arte contemporanea come africana la distinguiamo inevitabilmente dall’arte contemporanea che africana non è, cadendo nella trappola dell’inclusione/esclusione, facendo percepire come diverso qualcosa che diverso non è. Basti notare che la maggior parte delle opere di arte contemporanea africana costa meno di quelle non africane, pur a parità di curriculum. Ma allora perché portare avanti questa distinzione? Questa è la domanda che mi trascino da mesi, e forse la risposta apre ad altre considerazioni che non so se sono in grado di sbrogliare. Mi chiedo se non sono io ad essere troppo permeata dalla mia cultura occidentale da non comprendere che una peculiarità africana esiste, mi chiedo se non siano i miei strumenti ad essere troppo limitati per approcciarmi a questi argomenti. Mi chiedo se la volontà di distinguere l’Arte Contemporanea Africana non sia una forma di resistenza al Sistema dell’Arte Occidentale e al suo delirante mercato, una forma di autodifesa e autodifferenziazione per dire che il Sistema Occidentale non è l’unico, ma esiste anche un Sistema Africano parallelo e diverso con cui si può dialogare senza però fondersi. Fatico però a credere che sia così, più che altro fatico a credere che una tale posizione possa essere vincente e duratura in un mondo globalizzato in cui il mercato ingloba tutto ciò di cui necessita per autoalimentarsi.

 

C-Gallery.

 

Dunque mi sovviene un altro “pericolo” per l’Arte Africana, il pericolo che questa etichetta possa fare di essa una moda al servizio del Mercato, una bolla speculativa che alimenti le vendite per il periodo necessario, fino all’esplosione di una nuova tendenza che soppianterà la precedente. E allora l’Arte Contemporanea Africana diventerebbe solo un momento nella storia e non la storia stessa. In ultima analisi mi chiedo quindi come posso io, in quanto curatrice, in quanto gallerista, fare in modo di uscire da questi trabocchetti riuscendo inoltre a portare con me quella parte di pubblico che avrà voglia di seguirmi. Questa è la mia sfida, ma forse si tratta proprio della sfida del nostro tempo, forse serve una rivoluzione culturale talmente grande da rendere privi di senso tutti questi ragionamenti. Quello che so è che la storia in qualche modo ne verrà a capo, quello che spero è che al tavolo dei narratori, questa volta, si siederanno in tanti, tutti. 

 

Photos by Raffaelle Bellezza.

 

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Il Complesso Artico

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Il futuro del Nord

 

Fine aprile 2017, sala Roosevelt della White House. Trump firma un provvedimento legislativo che, in rottura con la precedente amministrazione, riapre di fatto la possibilità di compiere trivellazioni petrolifere nelle acque dell’Artico e dell’Atlantico. È un regalo all’industria delle energie fossili e alle compagnie petrolifere come Conoco e Shell, i cui interessi sono ben rappresentati nell’attuale governo. Un gesto retorico per produrre “energia americana”. Per l’occasione Lisa Murkowski, senatrice repubblicana dell’Alaska e presidente del comitato del Senato per l’energia e le risorse naturali, esorta Trump a condividere il motto del suo stato: “North to the future”. Che il mito dell’Alaska come ultima frontiera americana o, meglio, come “ultima roccaforte terrestre della grande fauna nordamericana del Pleistocene” (Paul Matthiessen) sia ormai infranto?

 

L’Alaska è una risorsa naturale: lo è nel senso della sua biodiversità ecologica ma anche nel senso della più grande riserva di petrolio del mondo che resta da sfruttare. A causa di questi interessi economici, l’Artico è già segnato dalla concentrazione di diossido di carbonio nell’atmosfera, dallo scioglimento dei ghiacci nella zona polare, dalla combustione del carbone fossile, dall’aumento delle temperature, dalla perdita di permafrost, dalla scomparsa della neve sostituita da piogge glaciali, dall’aumento del livello del mare nelle zone costiere (come riassume T.J. Demos, Decolonizing nature. Contemporary Art and the Politics of Ecology, Sternberg Press, 2016). Il suo ecosistema, le risorse naturali e la catena alimentare, che in questa zona si sono mantenute stabili per millenni, sono ormai turbati, al punto che le popolazioni autoctone sono obbligate a trasferirsi altrove.

 

Le acque dell’Oceano Artico e la costa nordest dell’Alaska sono troppo fragili per diventare una zona industriale. Nell’eventualità di una perdita di petrolio, ad esempio, la situazione andrebbe fuori controllo, a causa della mancanza d’infrastrutture: la guardia costiera più vicina è a 1000 miglia, come ricorda Kristen Miller, direttore esecutivo ad interim dell’Alaska Wilderness League. In quest’area remota ogni emergenza rischia di trasformarsi in una catastrofe. Senza contare le condizioni estreme di lavoro, l’incertezza sulle questioni di sicurezza, l’impatto ambientale sulla vita costiera e sul cambiamento climatico.

 

Ph: Subhankar Banerjee. 

 

Del resto già nel 2015 la compagnia anglo-olandese Shell ha fallito clamorosamente, dopo sette anni di trivellazioni e un investimento colossale di sette miliardi di dollari per installare pozzi petroliferi. Quel potenziale di idrocarburi vagheggiato dalla compagnia non si è mai materializzato, in compenso sono falliti i test sull’inquinamento atmosferico e si sono moltiplicati i problemi con l’impianto di trivellazione, gli incendi e le violazioni degli impianti. Se la politica ambientale di Obama non è stata esemplare, è perlomeno riuscita a proteggere questa riserva naturale, preziosa per gli Stati Uniti e per la Terra. In fondo già due presidenti, Jimmy Carter e Dwight D. Eisenhower, si erano battuti in questo senso. Pochi, tuttavia, conoscono questa zona meglio del fotografo Subhankar Banerjee.

 

Dai Tropici all’Artico

 

Cosa spinge Subhankar Banerjee, nato nel 1967 a Calcutta (Kolkata), a spingersi nel nordest dell’Alaska? E a trascorrerci quattordici mesi nell’arco di due anni, sette mesi nel 2001, sette nel 2002? Ufficialmente il fatto che esistono poche immagini dell’Arctic National Wildlife Refuge, per lo più stereotipate, fatte solo di ghiaccio e neve. Studiata da biologi e botanici, la riserva resta tuttavia invisibile agli occhi del mondo. L’impulso documentario spinge l’artista indiano a documentare il trascorrere delle stagioni e i suoi abitanti, la sfera ecologica e quella antropologica, l’eco-sistema, le tribù autoctone, gli animali e la struttura geologica. Non si tratta di un mero reportage: è lì in quanto esploratore, “un po’ allo stesso modo in cui Henry David Thoreau ha studiato il ciclo delle stagioni nel Walden Pond, in un’immersione e una contemplazione totali”.

 

Ph: Subhankar Banerjee.

 

Dal tropico all’artico, dal tepore della terra nativa (35 gradi a maggio) al gelo di una terra ignota dove la temperatura può scendere sotto i 50 gradi, da una zona densamente popolata a una delle più desertiche sulla terra. Un’attrazione eccessiva per gli opposti quella di Banerjee. Cresciuto nel Bengala Occidentale, esposto alla pittura sin da giovane, così come al cinema, alla poesia e alla letteratura, Banerjee studia ingegneria elettronica prima di trasferirsi a Las Cruces in Nuovo Messico per laurearsi in fisica teorica e computer science – una formazione che gli tornerà utile nelle sue esplorazioni fotografiche. Nel frattempo frequenta associazioni ambientaliste come il Sierra Club, club amatoriali di foto e di alpinisti, e compie escursioni nel sudovest del Pacifico quando si trasferisce a Seattle.

Ottobre 2000, Churchill, Manitoba, Canada. Armato della sua attrezzatura fotografica, Banerjee si trova in un luogo conosciuto dai turisti per immortalare gli orsi polari: “Vedevo un orso e poi improvvisamente otto veicoli di grandi dimensioni che convergevano sull’animale”. In quel momento gli fu chiara una cosa: che voleva andare là dove gli orsi vivevano in santa pace, in un ambiente trasformato il meno possibile dalla mano e dagli interessi umani. La sua attenzione cadde presto sul nordest dell’Alaska.

 

19 marzo 2001, Banerjee arriva nel villaggio di Kaktovik. Malgrado i preparativi e l’esperienza alpina, e malgrado sia il primo giorno di primavera, l’impatto è brutale: il termometro segna 40 gradi sotto zero, il vento soffia a 80 km all’ora. Come correre in moto dentro un congelatore senza confini. Banerjee lo ricorda come un incubo, persino come un inferno, se l’immagine delle fiamme sotterranee non fosse qui così inappropriata se non celestiale. In preda alla disperazione, si chiede cosa sia venuto a fare in un luogo così alieno rispetto alla sua terra nativa, dove l’inverno dura fino a maggio, così remoto che molte cime, valli e laghi non hanno nome. Si chiede perché ha abbandonato un lavoro sicuro alla Boeing di Seattle per imbarcarsi in quest’esperienza folle. Folle anche per la mancanza di fondi, perché il progetto, estremamente costoso, è per ora autofinanziato.

 

Malgrado il freddo, Robert Thompson, un attivista e cacciatore Inuit che lo guida nella sua spedizione, suggerisce: “Andiamo a fare un giro”. Quando la temperatura diventa insopportabile, a incoraggiarlo ci pensa Thompson, che se ne esce con una di quelle frasi che getterebbero nello sconforto l’animo più ottimista: “Non ti preoccupare. Le cose andranno di male in peggio ma tu sopravviverai”. Entrambi i pronostici si avverarono. La temperatura scese, il vento aumentò, e Banerjee, a colpi di caffè caldo e altri accorgimenti locali, sopravvisse, percorrendo lunghe distanze con ogni mezzo disponibile: a piedi, in zattera, in kayak, in motoslitta, in aereo.

 

Ph: Subhankar Banerjee.

 

Il freddo artico ha un impatto anche sull’attrezzatura tecnica di Banerjee, limitata a fotocamere medio formato o 35mm, senza batterie o altro materiale, inutilizzabile a temperature così rigide: “Dovevo usare vecchie macchine fotografiche meccaniche con poche o nessuna parte elettronica”. La pellicola diventa così fragile che si spezza facilmente e bisogna prestare attenzione a caricarla e avvolgerla. “Le mie macchine fotografiche sono del tutto meccaniche; non c’è nemmeno un esposimetro”, che tiene nella giacca a vento. In fase di sviluppo, infine, la stampa digitale gli permetterà di aggiustare i contrasti, i punti luce e le ombre.

 

Se le immagini che associamo istintivamente all’Artico sono in bianco e nero, Banerjee usa il colore: “Mi sembrava che molti considerassero l’Artico come un luogo incolore di neve e ghiaccio, ma quello che mi ha sorpreso è scoprire la ricchezza del colore e della vita in questa terra, anche quando era completamente coperta di neve. Il colore era l’unico mezzo attraverso cui potevo esprimere i miei sentimenti su questo paesaggio nordico, fragile ma ricco”. E le foto, prese da terra o dall’alto con un gusto pittorico per il paesaggio e un penchant per il sublime, mostrano bene lo spettro cromatico dell’Artico.

 

Non sorprende che il lavoro di Banerjee si nutra della pittura di Jean-François Millet, Brueghel, John Constable, oltre che della tradizione della fotografia di paesaggio. Al riguardo, vengono spesso evocati i paesaggi scultorei in bianco e nero di Anselm Adams, o quelli a colori di Eliot Porter, con le sue scene intime e spesso nuvolose, adatte a cogliere i dettagli più minuti. Banerjee ricorda anche Robert Adams e persino Nan Goldin, la cui comunità LGBT di New York, colpita dall’arrivo dell’AIDS, non potrebbe essere più lontana dall’estetica rarefatta dell’artista indiano. Ma entrambi i fotografi condividono il coinvolgimento totale col soggetto ritratto, lontano da ogni forma di oggettività documentaria o neutralità dell’osservazione.

 

Il complesso artico

Col passare del tempo, Banerjee si ambienta, grazie anche all’aiuto e all’ospitalità delle famiglie autoctone Inuit o Gwich’in. Scopre “un luogo in cui l’esistenza della vita, inclusa la flora e la fauna e le culture native, è modesta e fragile. Utilizzando delle composizioni semplici, in gran parte la luce smorzata dei giorni nuvolosi e un processo meditativo di osservazione, volevo ritrarre la dualità della grandezza e della semplicità”. L’esperienza artica lo convince che non si trova ai margini del mondo ma, al contrario, nel “luogo più connesso sulla terra. Ho cominciato a definire questa connettività globale e la connettività locale e regionale in rapporto alle specie che migrano qui da tutto il mondo”, ovvero caribù, balene, balenottere, oltre 160 specie di uccelli e così via.

 

Ph: Subhankar Banerjee.

 

Più radicalmente, l’Artico si rivela essere il luogo stesso che gli insegna a vedere. E quello che vede assume un ruolo politico inatteso: “In seguito ho realizzato una connessione tossica: come gli uccelli migrano, così migrano le tossine che finiscono nell’ecologia artica. In questo modo i popoli e gli animali artici sono diventati estremamente inquinati, soprattutto in Groenlandia e a nord dell’Artico canadese, sebbene il fenomeno si stia diffondendo ovunque. È una connessione tragica”. Mercurio, PCB, DDT: la liste di sostanze tossiche che hanno un impatto su uomini, animali e piante è lungo. Le fotografie e le didascalie raccolte nel libro Arctic National Wildlife Refuge: Seasons of Life and Land, pubblicato dalla casa editrice no profit Mountaineers Books, sono una testimonianza preziosa del complesso artico. Ma la storia non finisce qui.

 

L’affaire dello Smithsonian

Seattle, 19 marzo 2003. Banerjee è in giro quando riceve una telefonata: “Accendi la TV”, dice in preda alla smania la direttrice esecutiva dell’Alaska Wilderness League, l’associazione con base a Washington con cui ha già collaborato. La senatrice democratica Barbara Boxer sta mostrando una delle sue foto al Congresso degli Stati Uniti che discute del futuro dell’Arctic National Wildlife Refuge. G.W. Bush infatti vuole aprire circa 6.000 km2 della costa alle trivellazioni petrolifere, con l’appoggio dei Repubblicani dell’Alaska, pronti a speculare sul loro territorio. Lo descrivono come una distesa brulla, gelida e inanimata per dieci mesi all’anno, “a flat white nothingness” e un “frozen wasteland of snow and ice”, secondo l’allora Segretaria degli Interni Gale Norton. Il senatore dell’Alaska Frank Murkowski, brandendo un cartoncino bianco, esclama che si tratta di un’immagine accurata dell’estremo nord. Al di là dell’inconsapevole rimando all’arte astratta, l’intento è chiaro: dimostrare che non è in gioco alcun rischio ambientale.

 

Già, se non fosse che le fotografie di Banerjee dimostrano che il cartoncino bianco è una fake news: nell’Artico la vita pullula lungo l’arco delle quattro stagioni. Le sue immagini diventano così un documento probatorio impugnato dalla senatrice: come lasciare che un habitat con una biodiversità così ricca si trasformi in una terra industriale? La proposta repubblicana viene rigettata. Una vittoria per la difesa dell’ambiente e per il potere delle immagini.

 

Ph: Subhankar Banerjee.

 

Un nuovo colpo di scena doveva turbare i sonni di Banerjee. La senatrice Barbara Boxer invita gli eco-scettici a visitare l’imminente mostra di Banerjee al Museo di storia naturale dello Smithsonian a Washington. Un’istituzione federale, in quanto tale, non dimentichiamolo, soggetta alle pressioni politiche del governo in carica. A quel punto lo Smithsonian comincia a smarcarsi dalla mostra: prevista nei pressi della grande rotonda, viene spostata in una sala defilata dietro la caffetteria; all’ingresso del museo viene bandita qualsiasi informazione; le didascalie delle foto, veri e propri testi che le distinguono da un’estetica da National Geographic, spariscono, malgrado fossero state già approvate. Spariscono anche le citazioni dello scrittore e naturalista americano Peter Matthiessen, quelle del poeta e saggista Terry Tempest Williams e persino una dichiarazione del presidente Jimmy Carter: “Sarà un grande trionfo per l’America se possiamo conservare il Rifugio Artico nel suo stato puro e incondizionato”. Ciliegina sulla torta, poco dopo lo Smithsonian contatta la casa editrice del libro chiedendo che il logo del museo sia rimosso.

 

Insomma, quello dello Smithsonian non fu un semplice gesto curatoriale come si tentò di farlo passare, ma un vero e proprio atto di censura che rispondeva a una precisa agenda politica. E sembra che le cose siano andate dopotutto a buon fine, perché il primo ordine era stato di cancellare la mostra.

Fortuna che la stampa reagì. Che delle foto di paesaggi naturali per quanto esotici facciano così paura non è un pessimo segno della salute della democrazia e della perversità degli interessi economici che la sostengono? Il 20 maggio 2003, in un’interrogazione parlamentare, il senatore democratico Richard Durbin chiede ragione del comportamento dello Smithsonian, che si trincera dietro la neutralità dell’istituzione scientifica e l’equidistanza verso le controversie politiche. A quel punto non si contano più le istituzioni artistiche americane che vogliono esporre le foto di Banerjee, il cui intrinseco valore politico è ormai palese. Seasons of Life and Land, ancora sconosciuto in Italia, è insomma un “resoconto post-antropocentrico della biodiversità” quanto uno “sguardo critico degli effetti sempre più distruttivi delle attività societarie e industriali sulle forme di vita non umana e le loro vicinanze” (T.J. Demos, Decolonizing nature).

 

Costruire il reale

Banerjee torna in Alaska tre mesi nel 2006 e un mese nel 2007, in parte in compagnia di Peter Matthiessen che, lo stesso anno, lo accompagna anche a Bruxelles, dove intervengono a una conferenza dell’UNEP (United Nations Environment Programme) sul cambiamento climatico nell’Artico. Poi parte un mese in Siberia con l’ormai amico Thompson – la sua guida artica –, a stretto contatto con due comunità indigene (Yukaghir e Even), la cui vita quotidiana è documentata in un articolo uscito su “Vanity Fair”. Pare sia il primo articolo in occidente sul cambiamento climatico in Russia. Nel 2010 fonda il sito ClimateStoryTellers.org sul global warming, impegnato a far conoscere una zona sperduta ma non per questo, come ci vogliono far credere, desolata e disponibile – come un cartoncino bianco – a qualsiasi intervento umano. Quel cartoncino bianco è stato già scarabocchiato da troppe mani. Il lavoro di Banerjee dimostra che l’arte ha ancora il potere di nominare, pensare e immaginare il reale.

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Subhankar Banerjee verso Nord
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