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Van Gogh: il mio Giappone

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Van Gogh: passeggiate giapponesi

Mariella Guzzoni

 

“Sono in Giappone qui”

Vincent, lettera alla sorella Willemien, Arles, 14 settembre 1888

 

Ogni mostra o catalogo sui maestri giapponesi del Mondo Fluttuante accenna a Vincent van Gogh come a uno degli artisti che, più di altri, ha subito il fascino delle prime immagini ukiyo-e giunte nelle mani del mercato dell’arte parigino nella seconda metà dell’Ottocento. Come Van Gogh guardò al ‘suo’ Giappone?

Dalle prime famose tele riprese da Hiroshige, da Père Tanguy alle Scarpe, dagli autoritratti parigini all’autoritratto da giapponese di Arles, le opere che parlano di Giappone sono molte. Una passeggiata dietro alle quinte di questi quadri ci porta nella mostra Van Gogh: il mio Giappone, aperta alla Biblioteca Sormani di Milano (fino al 25 novembre) a scoprire alcune sorprese: le ispirazioni letterarie, il contesto editoriale, le illustrazioni, le copertine magnetiche di Le Japon Illustré, con le opere che Van Gogh appendeva nel suo studio del Sud. Tra le stampe dei maestri giapponesi dell’ukiyo-e amati da Vincent, spiccano i tre album di Hokusai delle Cento vedute del Fuji, con la versione nei toni di grigio della grande onda; gli attori e le cortigiane di Kunisada e di Eisen, i paesaggi di Hiroshige. Il percorso di snoda nei vari periodi della vita del genio olandese, e mostra come Van Gogh assorbì la poetica giapponese restituendola in uno stile sempre più personale, in profonda sintonia con se stesso e con la grandezza della natura.

 

Da Anversa a Parigi

Vincent van Gogh era un collezionista, aveva più di 400 stampe giapponesi. La sua collezione inizia festosamente ad Anversa nel novembre del 1885: “il mio studio non è male, soprattutto perché ho appuntato alle pareti una serie di stampe giapponesi che mi divertono molto. Sai, quelle piccole figure femminili nei giardini o sulla spiaggia, cavalieri, fiori, rami nodosi”. Ha appena lasciato l’Olanda e la tavolozza contadina, ora un mondo nuovo è sotto i suoi occhi: “Bene, questi porti sono un’enorme Japonaiserie, fantastica, singolare, strana”, scrive a Theo a fine novembre. 

Lettore vorace e multilingue, quando raggiunge il fratello a Parigi nel febbraio 1886, ha già letto tutto del romanzo francese moderno e conosce l’atmosfera giapponesizzante di molti di essi, in particolare quelli dei fratelli Edmond e Jules de Goncourt. Nei romanzi dell’epoca in mostra, come Chérie, Manette Salomon, En 18... si scoprono le righe che raccontano i salotti parigini, ‘tutti pazzi’ per il Giappone. Vincent ammirava molto i fratelli Goncourt, come leggiamo nelle sue lettere. 

 

 

Dei due anni che Van Gogh trascorre a Parigi sappiamo ben poco, ma le pagine di alcuni tra i più importanti libri illustrati sul Giappone come Promenades Japonaises di Émile Guimet illustrato da Félix Régamey (presentato all’Exposition Universelle del 1878), e L’art Japonais di Louis Gonse (Parigi, 1883), rivelano le contaminazioni visive e le intersezioni tra gli artisti occidentali e il mondo orientale. Dai magnifici acquerelli e schizzi dal vivo di Régamey, diario etnografico del suo lungo viaggio in Giappone a fianco del collezionista Guimet, alle curiose illustrazioni d’invenzione degli artisti francesi che il Giappone non l’avevano mai visto, alle illustrazioni più fedeli all’originale nell’autorevole volume di Louis Gonse, interessanti d’après che portano doppia firma (oriente-occidente), il panorama editoriale dell’epoca è ricchissimo e tutto da scoprire.  

 

 

Nel Maggio 1886 esce un numero speciale di Paris Illustré curato da Sigfried Bing, con la famosa copertina della cortigiana di Kesai Eisen (ripresa da Van Gogh) e con un lungo testo di Hayashi Tadamasa: per la prima volta è un giapponese a parlare del suo paese.  

Tutto questo affascinò Van Gogh forse ancor più della lezione impressionista. Tra febbraio e marzo 1887 egli organizza una mostra della sua collezione di stampe ukiyo-e, una vera anteprima parigina, a LeTamburin, il ristorante amato dagli artisti, e gestito da Agostina Segatori, sua amica e modella, di cui abbiamo due tele giapponesizzanti. Come anni prima con le copie da Millet, inizia allo stesso modo il suo apprendistato orientale con due famosi d’après da Hiroshige, ma si diverte a sperimentare anche la scrittura giapponese: pennella ideogrammi e firme in guisa di cornice per il suo Susino fiorito e per il Ponte sotto la pioggia

             

L’enigma delle Scarpe

È in questo contesto visivo di confini porosi e desideri sperimentali che si inscrive ‘un enigma’ nascosto in una delle opere più famose di Van Gogh. Si tratta di un piccolo dettaglio (in basso a destra) in una delle cinque versioni delle Scarpe parigine che non è mai stato notato né studiato prima. La frontalità delle Scarpe preferite da Martin Heiddeger cattura lo spettatore, e quel dettaglio sfugge… Cosa succede di tanto enigmatico? Van Gogh trasforma il grosso laccio della scarpa sinistra in qualcosa d’altro: un rametto o radice rotondeggiante. Una scrittura orientale… Sembrerebbe di sì. La metamorfosi è impressionante.  Abbiamo un laccio che non è più un laccio e che non potrà più essere allacciato.

 

Utagawa Hiroshige, Stazione 40, Chiriu; Utagawa Hiroshige, Stazione 30, Hamamatsu (1855)

 

Non si tratta dei rami o delle radici contorte e nodose che Vincent aveva disegnato fin qui, come le Radici in un terreno sabbioso dell’Aia, siamo di fronte a qualcosa di diverso. Una piccola radice che si anima come un albero giapponese… Vincent aveva molte opere di Hiroshige – tra cui molte delle Cinquantatré Stazioni della Tokaido, di cui possedeva la “tate-e Edition”, la cosiddetta Tokaido “verticale”. Tutti paesaggi straordinari, dove uomo e natura si compenetrano in un equilibrio di forze perfetto. Molti sono gli alberi che paiono animarsi, contorcersi, spezzarsi. Radici nude che paiono danzare. 

 

A sinistra, Vincent van Gogh, Scarpe (1886), Amsterdam, Van Gogh Museum.


Accanto alle Scarpe, alla luce della lente d’ingrandimento, c’è una radice rotonda legata a un gesto, un gesto del corpo e della mente. Non appoggia da nessuna parte. È lì sulla tela che le fa da supporto come se la tela, d’improvviso, fosse un foglio da scrivere. Il risultato che ne deriva all’occhio dello spettatore è di un gesto rasserenante, un gesto poetico. Non c’è forza, non c’è dramma in quella forma. Un rapido colpo di pennello, l’essenza di un attimo: qualcosa che ben si accompagna allo sguardo dell’Autoritratto con stampa giapponese che Van Gogh dipinge poco prima di lasciare Parigi. I suoi occhi sono per la prima volta a mandorla, la Provenza è annunciata, un sogno orientale. 

 

Vincent van Gogh, Autoritratto con stampa giapponese (1887), Basilea, Kunstmuseum; Keisai Eisen, Donna in piedi (1820-30)


In Provenza

A fine febbraio 1888 è ad Arles, in cerca di un sole più vivo, di una luce più forte. “Sono in Giappone qui”. Progetta dei piccoli album da 6 o 10 o 12 vedute, “come gli album dei disegni originali giapponesi”. Legge Madame Chrysanthème di Pierre Loti che cattura la sua fantasia anche per le bellissime illustrazioni, “l’hai letto?” scrive al fratello, “mi ha dato da pensare questo, che i veri giapponesi non hanno niente sui muri”. La semplicità dei giapponesi.

Intanto a Parigi Sigfried Bing inaugura nel Maggio 1888 Le Japon Artistique con le sue copertine iconiche; la nuova rivista mensile è ricca di lunghi articoli che raccontano vita costumi e artigianato giapponese. Le illustrazioni a colori di molte stampe e manga sono ora fedeli agli originali, tavole fuori testo realizzate in fotoincisione da Gillot. A Vincent non sfugge nulla: “Tra le riproduzioni di Bing trovo splendidi il disegno del filo d’erba, i garofani, e l’Hokusai”, scrive al fratello da Arles.

 

Anonimo, Studio di erbe; Bumpo, Garofani; Hokusai, Granchi, Personaggi sotto la pioggia, in Le Japon Artistique, Maggio e Giugno 1888.


Hokusai occupa un posto d’onore per Van Gogh. Lo paragona a Delacroix, e alla Barca di Cristo tra le onde che aveva visto con Theo ai Champs Élysées. La forza del colore di quella piccola tela aveva colpito il critico Paul Manz: “non sapevo che si potesse arrivare ad essere così terribili con del blu e del verde”, aveva scritto nel suo articolo.  

Beh, prosegue Van Gogh, “Hokousai ti fa lanciare lo stesso urlo – ma lui con le linee, con il disegno: quelle onde sono degli artigli, la barca è presa là dentro, lo si sente”, scrive a Theo l’8 settembre 1888.   

 

Eugène Delacroix, Cristo addormentato durante la tempesta (ca. 1853), New York, Metropolitan Museum; Katsushika Hokusai, La [grande] onda presso la costa di Taganawa (ca. 1830-32).


Dalla Provenza chiede al fratello di acquistare altri Hokusai da Bing, le “300 vedute della montagna sacra e le scene di genere”. In realtà Hokusai, dopo il successo della prima serie delle 36 vedute a colori, si mise a viaggiare e realizzò le famose Cento vedute del monte Fuji raccolte in tre album, considerate il suo capolavoro, di raffinata invenzione. Nel secondo possiamo ammirare la versione nei toni di grigio del Fuji sul mare con in primo piano una versione avvolgente della grande onda, insieme ad altre immagini di onde e di flutti che furono nelle mani di Vincent e ispirarono il suo pensiero, i suoi sfondi, la sua voglia di arrivare a disegnare  veloce come un lampo. “Il giapponese disegna veloce, molto veloce, come un lampo, e questo perché i suoi nervi sono più fini, il suo sentimento più semplice”. 

 

Katsushika Hokusai, Il Fuji sul mare; Il Fuji del drago ascendente (ca. 1834-1835), da: Le cento vedute del monte Fuji.


E così come Hokusai era per Van Gogh “uno dei più grandi maestri di schizzi dal vivo”, insuperabile per velocità e sintesi, Utagawa Kunisada (anche se nelle lettere non ne cita mai il nome), doveva essere tra i preferiti, per i suoi ritratti così immediati e dirompenti. Attori, cortigiane, guerrieri, nella sua collezione ve ne sono a centinaia, insieme a tanti lavori di altri artisti tra i quali Utagawa Kuniyoshi, Toyohara Kunichika, Keisai Eisen, oltre a molti trittici della vita nelle case, dei mestieri, delle stagioni, e poi fiori, insetti, uccelli e piccoli album. 

 

Utagawa Kunisada, Attore kabuki, Immagini nello specchio (1860); Utagawa Kuniyoshi, La Principessa Izutsu (ca. 1842).


La Provenza, con la sua natura incontaminata, il sole più forte, era per Van Gogh il ‘suo’ Giappone. “Vorrei che tu passassi qui qualche tempo”, scrive a Teo nel giugno 1888, “dopo un poco ti accorgeresti che la vista cambia, si vede con un occhio più giapponese, si sente il colore in un altro modo”. La Casa Gialla di Arles è un sogno orientale, ma anche il suo progetto culturale, un luogo dove i pittori avrebbero potuto vivere come fa l’artista giapponese, immerso nella natura a studiare “un solo filo d’erba”.  Un pezzetto di mondo “senza intrighi” lontano da Parigi, questo voleva Van Gogh, una comunità di pittori, semplice, essenziale: “a quanto pare sembra che anche i giapponesi guadagnino ben poco denaro e vivano come semplici operai”, scrive all’amico Bernard.

 

Operaio dell’arte sin dal 1882, ai tempi dell’Aia, Van Gogh sapeva immergersi nei boschi olandesi al punto di prendere “annotazioni stenografiche” e trascrivere sulla tela quello che la natura gli “aveva detto”. Era dunque naturalmente predisposto, più di altri, all’incontro con la poetica dei maestri del paesaggio, come Hiroshige e Hokusai, dove il mondo della natura, nei suoi diversi elementi, risponde a un’unica forza universale, a una concezione unitaria dell’essere. Uomo e natura, natura e uomo in fondo era questa, anche per Van Gogh, una lotta costante, una ricerca senza sosta: “cerco sempre la stessa cosa, un paesaggio un ritratto, un ritratto e un paesaggio […] l’arte è l’uomo aggiunto alla natura,” scrive da Arles alla sorella Willemien.  È difficile immaginare, oggi, l’impatto delle stampe giapponesi nella Parigi di Van Gogh, in un momento in cui la tradizione occidentale dirigeva lo sguardo dello spettatore verso un punto di fuga, gli assegnava un posto, mentre la pittura giapponese arrivava a rifiutare un punto di vista fisso, lasciando allo spettatore la libertà di muoversi nell’immagine. 

 

Una rivoluzione, dunque, non solo o tanto per i colori piatti, la costruzione dell’immagine, l’inquadratura, i pesi, ma una nuova finestra sul mondo, che Van Gogh accoglie in pieno e trasforma nel suo linguaggio. Lo scrive al fratello con la sua solita semplicità, ecco “quei due disegni della Crau e della riva del Rodano che non hanno l’aria giapponese e forse in realtà lo sono più di tanti altri”. All’amico Bernard racconta di più delle colline di Montmajour, dove torna in continuazione per respirare le sensazioni di quel paesaggio piatto sotto di lui. “Ho fatto due disegni di questo – questo paesaggio piatto dove non c’era nient’altro che .   .   .   .   .   .   .   .   .   .  l’infinito .   .   .  l’eternità”. 

Sospende il tempo all’amico che legge lasciando grandi spazi tra i puntini sulla lettera, tutta una riga di soli puntini e lì, in mezzo, l’infinito. Questo è il senso profondo del suo Giappone, e forse l’aspetto più autentico della civiltà giapponese: entrare nei ritmi del cosmo, e della sua forza spirituale.

 

Vincent van Gogh, La Crau vista da Montmajour (1888); Il Rodano visto da Montmajour (1888), Amsterdam, Van Gogh Museum.


Le vedute quasi aeree, gli orizzonti alti e senza cielo, i disegni a inchiostro, le onde, gli sfondi o i cieli eseguiti a cannuccia con la velocità dei giapponesi, e in uno stile sempre più personale, sono ormai una vera ‘scrittura’, la sua, sicura e inconfondibile. 

La trasformazione è anche sul suo volto: nel settembre 1888 Van Gogh dipinge il ritratto di sé più stupefacente della sua vita, da monaco giapponese, “semplice adoratore del Buddha eterno”. È così che compie la sua rivoluzione nel ritratto moderno.

“Il tempo qui è ancora bello, e se fosse sempre così sarebbe meglio del paradiso dei pittori, sarebbe Giappone in pieno”. È il 29 settembre 1888.

 

 

Il Giappone di Van Gogh

Rocco Ronchi

 

Per il filosofo è quasi inevitabile confrontarsi con le Scarpe di Van Gogh. Almeno da quando il “filosofo” per eccellenza del Novecento, Martin Heidegger, le ha elette a esemplificazione dell’essenza dell'arte, dando origine ad un dibattitto che dura ancora oggi. Nella versione delle scarpe prediletta da Heidegger, Mariella Guzzoni ha rilevato però la presenza di un dettaglio finora mai notato e studiato, probabilmente perché, come scrive, “la frontalità delle Scarpe cattura lo spettatore, e quel dettaglio sfugge...”. In forma apparente di laccio, in basso a destra, c'è una specie di radicella tondeggiante: è un laccio che non potrà allacciare nessuna scarpa, forse, aggiunge Guzzoni, non rappresenta nemmeno qualcosa, ma è l'importazione sulla tela di una scrittura giapponese...

 

La scoperta di Mariella Guzzoni non è priva di conseguenze. Infatti, scombina le carte non solo della lettura heideggeriana, ma, più in generale, della lettura che la “linea maggiore” del pensiero novecentesco ha fatto dell'opera d'arte. Che siano d'accordo o meno sull'interpretazione heideggeriana delle Scarpe, i filosofi nel Novecento hanno condiviso un paradigma, dividendosi poi sulla sua applicazione: l'opera è una autentica opera d'arte se ciò che mette in opera è la Verità. Anche il post-modernismo, con la sua apologia dei simulacri, non fa eccezione: la “potenza del falso” non è altro che il rovescio speculare della Verità che ogni autentica opera mette in opera. Il patto stretto tra arte e Verità è indissolubile anche quando l'arte professa ironicamente la menzogna o la parodia del vero.

 

Vincent van Gogh, Scarpe (1886), Amsterdam, Van Gogh Museum

 

Scrivo Verità con la maiuscola a capolettera, perché la Verità in questione non è il semplice essere vero di una proposizione o di una immagine (la proposizione funziona infatti come immagine di qualcosa) che si misura dalla sua adeguazione o meno all'oggetto raffigurato. La filosofia novecentesca ha mostrato una sorta di aristocratica ripulsa per questa “volgare” concezione del vero come “corrispondenza”. Da almeno due secoli, niente è meno accetto nei salotti buoni dell’estetica e della teoria dell'arte quanto l'ingenuo naturalismo mimetico. La Verità messa in opera dall'opera d'arte è piuttosto la condizione di possibilità di ogni derivato essere-vero nel senso della corrispondenza. Heidegger è chiarissimo in proposito: le Scarpe di Van Gogh non sono un paio di scarpe. Non sono né un paio di scarpe (un particolare) né il paio di scarpe, vale a dire l'idea o l'essenza delle scarpe (un universale). Quelle scarpe sono piuttosto il “che c'è” delle scarpe e del contadino che le ha portate, come lo sono del mondo fatto di sudore e di fatale rassegnazione alla fatica che il contadino ha abitato e di cui la loro usura è testimonianza. Le scarpe sono l'evento (singolare) di un mondo, il suo “storicizzarsi”, il suo “accadere”. Le scarpe di Van Gogh sono il presentarsi del Senso nel quale ogni esistenza storica è “gettata”.

 

I filosofi hanno la fortuna di disporre di una stenografia concettuale che permette loro di sintetizzare efficacemente questioni straordinariamente complesse. Possono infatti scrivere che le scarpe di Van Gogh non sono un “ente” o la raffigurazione di un “ente” (particolare) o l'idea di un “ente” (universale); le scarpe di Van Gogh sono piuttosto l’“essere” dell’“ente” (singolare). Dell'ente determinato, le scarpe, appunto, mostrano il suo “che c'è”, il suo “darsi”, il suo “apparire”. Nell'opera d'arte è, dunque, messa in opera una Verità, che non è nient'altro che l'essere dell'ente. Questo è da intendersi nel suo senso più immediato: sulla tela di Van Gogh “ci sono” delle scarpe. Ora, tutta l'intelligenza del filosofo consiste nello spostare l'attenzione dalle scarpe raffigurate al loro “esserci” singolare. Ecco la Verità con la maiuscola a capolettera che, secondo il paradigma heideggeriano, è messa in opera dall'opera d'arte!

 

Ma sulla tela di Van Gogh, nota Guzzoni, c'è anche quel “rametto tondeggiante”, che scombina tutto... Esso funziona come dettaglio. I dettagli non sono particolari. Ingrandito da una lente, il “particolare” si rivela omogeneo al tutto che lo contiene, mirabile esempio dell’unità di intenti che governa un'opera riuscita (o un uomo ben vestito, il quale resta elegante perfino nei particolari impercettibili). Il dettaglio, invece, rivela qualcosa di eterogeneo che, per quanto sia parte empirica del tutto, è in eccesso rispetto all'insieme che lo contiene. Esso mina dall'interno la rappresentazione, come lo farebbe una piccolissima macchia d'unto nei pantaloni dell'uomo elegante. La radicella nelle scarpe di Van Gogh è un siffatto dettaglio. Essa porta fuori. Ma dove porta? Geograficamente e culturalmente porta in Giappone, speculativamente porta fuori dall'essere dell'ente, fuori dalla Verità come Evento e come Storia.

 

Vincent van Gogh, Scarpe (1886), e dettaglio, Amsterdam, Van Gogh Museum

 

In realtà le due direzioni sono la stessa direzione: il Giappone di Van Gogh è la messa in questione dell'ontologia dell'opera d'arte. Quella radicella restituisce la tela di Van Gogh alla bidimensionalità della superficie sottraendola alle profondità ontologiche della storia alla quale era invece ricondotta dall'interpretazione filosofica. La radicella è un segno dalla natura sfuggente. È una scrittura giapponese, suggerisce Mariella Guzzoni. Ora, in una cultura alfabetizzata scrivere e dipingere sono attività differenti: la lettera scritta è la riproduzione della voce che parla e la pittura è raffigurazione del mondo muto là fuori. Ma che ne è di questa differenza di natura, dove, come in Giappone, la raffigurazione è parte integrante della scrittura? La differenza di natura diventa differenza di grado e implica il riferimento a un genere comune che comprende entrambe non essendo né ciò che noi chiamiamo scrittura né ciò che noi chiamiamo pittura, disegno ecc. Scrivere e dipingere sfumano l'uno nell'altro, come ben sanno i traduttori dei poeti orientali, che fanno sempre precedere alle loro traduzioni una raccomandazione. Bisogna tener presente, avvertono, che la scrittura in oriente non si cancella davanti al significato che veicola o alla musicalità che esprime. La scrittura nella sua qualità figurativa è parte integrante del testo. La stessa cosa è ripetuta poi in qualsiasi presentazione dell'opera “pittorica” di un maestro giapponese, la quale, come è noto, lascia largo spazio alla scrittura. Non c'è qui un testo di commento alla raffigurazione, come saremmo portati a credere, ma vi è continuità senza soluzione tra quanto noi, alfabetizzati, chiameremmo testo e quanto chiameremmo figura o disegno. Dove insomma il nostro occhio alfabetizzato scorge una combinazione di elementi eterogenei, c'è la semplicità di un terzo che li contiene entrambi (fatto che spiega il primato in Giappone della calligrafia tra le arti).

           

E qual è questo elemento che li tiene insieme? Il genere comune è ciò che lo psicoanalista Jacques Lacan, di ritorno nel 1971 da un viaggio in Giappone, ha chiamato la “lettera”. La lettera non è evidentemente ciò che si intende comunemente, il carattere alfabetico. La lettera è piuttosto il tratto del pennello che scivola su di una superficie con maggiore o minore intensità. È l'atto generatore della figura: figura che non è né l'espressione di un voler dire né la raffigurazione di un mondo esteriore, ma, per quanto la cosa possa apparirci strana, è un essere vivente. Questo tratto non è nulla e, al tempo stesso, è il tutto, o, meglio, è ciò che dà vita al tutto. Hokusai nel suo “Testamento” del 1834 doveva avere di mira la potenza generatrice della lettera quando scriveva beffardo: “A settantatré anni ho un po' intuito l'essenza della struttura di animali e uccelli, insetti e pesci, della vita di erbe e piante e perciò a ottantasei progredirò oltre; a novanta ne avrò approfondito ancora più il senso recondito e a cent'anni avrò forse veramente raggiunto la dimensione del divino e del meraviglioso. Quando ne avrò centodieci, anche solo un punto o una linea saranno dotati di vita propria”.

 

Le Scarpe di Van Gogh sono per Heidegger il luogo dell'incidenza della Verità. Di quale verità poi si trattasse (verità questa volta con la minuscola a capolettera), se fossero cioè le scarpe del contadino radicato nella Terra o l'autoritratto dell'artista deraciné che vaga in un mondo divenuto estraneo (l'ipotesi di Meyer Schapiro), di questo si poteva poi discutere infinitamente e, di fatto, si è discusso. Restava incrollabile la fiducia che l'opera d'arte dovesse mettere comunque in comunicazione con una Verità che è l'archistruttura di tutte le verità particolari. È la Verità che si presenta alla prima persona, nella sua singolarità, e che dice: io sono la Verità più vera di ogni verità semplicemente proposizionale (la verità homoiosis, la verità adaeguatio), perché della verità sono il fondamento di possibilità. Del significato, di ogni significato storicamente determinato, io sono l'Origine. Ma se ha ragione Mariella Guzzoni, non è più la Verità a “storicizzarsi” nell'opera. A nessun grande pittore giapponese sarebbe del resto mai venuta in mente un'idea del genere. Ed è, forse, venuto il tempo che anche le Scarpe di Van Gogh siano liberate dall'obbligo di funzionare come significanti del Vero, della Storia, del Mondo (e, in ultima analisi, dell'Uomo e dei suoi drammi) e siano restituite alla loro dimensione “letterale”. Si sarebbe così più fedeli a Van Gogh che nel Giappone sognava la natura e soltanto la natura.

 

Per saperne di più

 

La collezione delle stampe giapponesi del Van Gogh Museum (che comprende anche quella di Vincent e Theo) è consultabile online. Si veda inoltre Japanese prints. Catalogue of the Van Gogh’s Musuem Collection, a cura di Keiko van Bremen, Willem van Gulik, Tsukasa Kodera e Charlotte van Rappard-Boon (Van Gogh Museum, Waanders, 2006); Louis Van Tilborg Van Gogh and Japan (Van Gogh Museum, 2006); Hokusai, il vecchio pazzo per la pittura, a cura di Gian Carlo Calza (Electa, 2010); Ukiyoe. Il mondo fluttuante, a cura di Gian Carlo Calza (Electa, 2004). Il volume Le scarpe di Van Gogh, a cura di Elio Grazioli e Riccardo Panattoni (Riga 34, Marcos y Marcos, 2013) ripercorre e ricostruisce il dibattito filosofico inaugurato da Martin Heidegger intorno al dipinto Le scarpe (sopra illustrato). Si veda anche Massimo Recalcati, Melanconia e creazione in Vincent van Gogh (Bollati Boringheri, 2014). Si segnala inoltre che al Metropolitan Art Museum di Tokyo è in corso la mostra Van Gogh & Japan (24 ottobre 2017 - 8 gennaio 2018) che si sposterà a Kyoto, al National Museum of Modern Art per riaprire i battenti ad Amsterdam al Van Gogh Museum, dove è in programma a partire dal dal 23 marzo fino al 24 giugno 2018.

 

Van Gogh: il mio Giappone, Biblioteca Sormani, Milano, dal 7 al 25 novembre 2017.

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Tempo e memoria nelle immagini di Roberto Toja

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Cos’è lo scorrere del tempo? Nella Berlino riunificata, a ormai quasi trent’anni dalla caduta del muro, ciò che attrae il visitatore non è la parte occidentale il cui aspetto commerciale la rende omologata alle altre metropoli europee. Ad affascinare è quella parte orientale che per lungo tempo è rimasta immersa in un’atmosfera immobile dalla quale emerge una storia che ha toccato molti e che porta ancora i segni della Guerra fredda e della dominazione sovietica.

 

Questa parte della città è oggi inequivocabilmente il segno distintivo di Berlino. Rappresenta la rivincita di un luogo a lungo confinato dietro un muro culturale e politico oltre che fisico. Chi oggi visita Berlino rimane affascinato proprio dalla zona est, a dimostrazione di quanto la memoria sia un elemento persistente, tanto da far scattare il desiderio di voler essere testimoni di ciò che è accaduto.

Questo aspetto introduce le motivazioni che hanno spinto Roberto Toja a recarsi a Berlino e che traspaiono molto chiaramente dalle fotografie raccolte nel libro Warum die zeit? (MFD Edizioni, 2017). Non la semplice volontà di documentare con un reportage l’attualità della vita, certamente più complessa dopo quel 9 novembre 1989. Nemmeno quella di ritrarre scene quotidiane in un luogo che allude a uno stato iconico. La motivazione reale che ha spinto l’autore a recarvisi è proprio quella di essere testimone della memoria ivi custodita o, se vogliamo, di quel “tempo che scorre” e che ognuno di noi vuole vivere pienamente. “Ho in mente– scrive l’autore – un modello [ideale?] di città, e voglio ritrovarlo all’interno del tempo in cui posso dire di esserci stato”. 

 

Il tempo, elemento condizionante per eccellenza del nostro guardare. Si dice che lo scatto fotografico lo fermi. Tuttavia il tempo è indipendente e lo possiamo chiaramente vedere in queste immagini dove ci appare metafisico ma anche concreto, fermo eppure in movimento. È come se dettasse un ritmo che si appropria del suo stesso esistere costringendo l’autore a stare al suo passo. La sequenza delle foto che ci viene proposta parte dalla classica inquadratura orizzontale alla quale si alternano trittici che sembrano mostrare mondi paralleli nei quali qualcosa avviene contemporaneamente. 

 

© Roberto Toja, da Warum die zeit?


© Roberto Toja, da Warum die zeit?


Strette, lunghe, è quasi percepibile lo scorrere della pellicola cinematografica. Passano, una dopo l’altra, creando quel movimento che materializza il tempo. Queste alternanze creano una sorta di intermittenza che destabilizza il senso percepito linearmente del suo scorrere. 

Le immagini si formano autonomamente. Mentre lo sguardo si sofferma su qualcosa, attraverso una rete di pensieri, si crea la forma. Questa forma non si rivelerà veramente allo sguardo prima di aver osservato la fotografia una volta stampata. Per questo l’immagine si stacca dall’autore nel momento stesso in cui viene scattata cominciando a vivere di vita propria, cosa che le permetterà di essere interpretata da ciascun osservatore secondo il proprio punto di vista. 

 

In questo lavoro è visibile il “tempo vissuto” di Berlino, rappresentazione difficile da realizzare perché il tempo è materia indefinibile. Verosimilmente abbiamo a che fare con la memoria di un uomo, di una città, di un Paese, un sentimento collettivo che la memoria stessa innesca in chi osserva. Chi ha visto la trilogia di Heimat diretta da Edgard Reitz – una pellicola straordinaria che condensa la Storia grande e quella piccola, l’estetica intesa come dottrina della conoscenza sensibile e l’appartenenza a un luogo non soltanto come luogo di nascita ma come territorio del Sé (penetrato dalla presenza dell’individuo e dalla sua anima), può forse comprendere a cosa alludo. Le fotografie di Roberto Toja sono, a loro modo, un pezzetto di tutto ciò, e questo grazie proprio alla disposizione d’animo con cui l’autore si pone davanti al soggetto che sta ritraendo, che ha a che fare con l’ascolto, del luogo stesso e della memoria. 

 

© Roberto Toja, da Warum die zeit?


In una scena del film Smoke, del regista Wayne Wang, Auggie il protagonista gestore di un tabacchi, mostra al suo amico scrittore diversi album in cui sono incollate centinaia di fotografie che lui scatta da anni sempre alla stessa ora, sempre nello stesso punto, sempre con la stessa inquadratura. Eppure in quella inquadratura sempre uguale accadono moltissime cose. “Sono tutte uguali”, dice l’amico scrittore. Gira i fogli degli album velocemente. Auggie osserva: “Non capirai mai, se non vai più piano. Lo sai com’è: […] il tempo mantiene il suo ritmo”. Il miracolo avviene quando lo scrittore si imbatte in una fotografia in cui davanti all’obiettivo di Auggie, alle 8.00 di una mattina qualsiasi, riconosce sua moglie Ellen, morta di recente. Ed ecco che la memoria irrompe nel tempo e quello che sembra essere un luogo qualunque improvvisamente la contiene e diviene “altro”.

Ciò che accade osservando le immagini di Roberto Toja è proprio l’emergere di una memoria che lui per primo intende incontrare in quello che è il suo tempo ma che, nel momento in cui lo osserviamo, diventa anche il nostro, in una sorta di sentimento di comunanza.

 

© Roberto Toja, da Warum die zeit?


Le fotografie si compongono da sole, dunque. Avviene un’interazione tra soggetto e fotografo, un dialogo che conduce a una rappresentazione all’interno della quale ognuno vive la sua parte. Il formarsi delle immagini è frutto di una relazione. Non è infrequente sentire autori che affermano di non essersi resi conto di alcuni particolari se non dopo aver visto le foto stampate, il soggetto interagisce con il ritraente determinando una relazione. Senza questa relazione l’immagine semplicemente non esiste e non può suscitare alcuna emozione in chi la guarda. Un altro esempio cinematografico che ci può aiutare a capire di cosa stiamo parlando è la famosa scena del film Blow-up di Michelangelo Antonioni in cui il fotografo protagonista della storia scatta una fotografia a due amanti in un parco, ma soltanto dopo averla stampata si accorge di aver ripreso qualcosa di strano sul fondo. Ingrandendo l’immagine arriva a vedere ciò che non aveva visto al momento dello scatto: un’ombra che si rivela essere il corpo di un cadavere. La fotografia, dunque, sa di esistere e interagisce.

Ma torniamo all’elemento fondante della ricerca fotografica di Roberto Toja contenuto già nel titolo del lavoro stesso: “Perché il tempo?” La convenzione stabilita dall’uomo vuole che il tempo venga ridotto a una semplice unità di misura: da qui a lì è un certo tempo, passato il quale qualcosa è accaduto. Qui l’autore però intende occuparsi del tempo cercando di capire la sostanza di cui è fatto, il suo senso in relazione all’accadere. 

 

© Roberto Toja, da Warum die zeit?


© Roberto Toja, da Warum die zeit?


In queste fotografie vediamo figure sospese e al contempo fluide. All’interno di ogni immagine c’è un microcosmo che è parte integrante del macrocosmo. Esso può vivere in maniera indipendente ed essere ugualmente parte di qualcosa di più grande che pulsa e si muove. Se potessimo guardare dall’alto, contemporaneamente, tutte le scene riprese, ci accorgeremmo di guardare una massa in movimento – “un’entità biologica, viva, all’interno di un proprio tempo organico” – come lui stesso scrive. Un corpo. 

Vediamo quindi che la fotografia è molto meno governabile di quanto si possa pensare. Forse possiamo scegliere con quale dispositivo scattarla e le relative misurazioni ma sarà sempre lei a scegliere noi. Sarà lei che ci indurrà a osservarla dandoci l’illusione di aver deciso cosa scattare e quando.

 

IL LIBRO: Warum die zeit? di Roberto Toja, MFD Edizioni, 2017. 97 pp. Formato 35x30, rilegato

L’AUTORE: Roberto Toja, appassionato di pittura del Cinquecento, dopo la laurea in Storia dell’Arte Medievale e Moderna, si avvicina alla fotografia inizialmente come semplice mezzo sussidiario agli studi di arte e architettura rurale subalpina, per poi allargarsi al reportage sociale, fino a giungere alla professione vera e propria. Successivamente comincia a lavorare a una sua ricerca artistica, fin da subito intima e crepuscolare, principalmente legata alla narrazione della memoria e della sua perdita, all’oblio e allo scorrere del tempo.

Le sue immagini esposte in gallerie d’arte, fanno parte di prestigiose collezioni private e museali, quali Fotografia Italiana e Alinari. Per i suoi progetti predilige la forma del libro in quanto oggetto che ridona consistenza alla memoria salvandola dall’oblio.

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Per un’arte radicale

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Fred Moten e Stefano Harney nel libro The undercommons (2013) sostengono che nelle democrazie occidentali neoliberiste lo “studio”, inteso come istruzione impartita da un’istituzione, è un atto individualistico e performativo che mira a mantenere invariate le classi sociali esistenti.

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Artisti contemporanei al Quirinale

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Mi colpisce che i pezzi che vado scrivendo sugli artisti, su Alias, inizino con la menzione della città visitata: come fossi un inviato speciale in terra straniera. Perché tale sono, per costituzione, a scrivere del “mondo dell’arte”: con la speranza – o l’illusione – di recarvi lo sguardo impregiudicato, da outsider, del Persiano di Montesquieu. Imperdibile, allora, la mostra curata da Anna Mattirolo (Da io a noi. La città senza confini, fino al 17 dicembre) al Quirinale, per la Direzione generale arte e architettura contemporanee e Periferie urbane del MIBACT. Per almeno due ragioni: la prima, che vale per tutti, è che in assoluto è la prima volta, questa, che uno spazio così istituzionale si “apre” a quello che i francesi chiamano extrême contemporain (cioè ad artisti di una generazione non ancora canonizzata, o sull’orlo di esserlo: si va da Alfredo Jaar, del ’56, ai gemelli De Serio, del ’78, più due o tre fuori quota come Jimmie Durham e Alberto Garutti).

 

Luca Vitone (Genova 1964), «Panorama (Roma)», 2006, tre cannocchiali con diapositiva, pedana in legno


Non è un’esperienza banale vedere gli interni del Quirinale (io per esempio non l’avevo mai fatta), e com’è ovvio ne vale la pena. La seconda risponde invece a una mia rivalsa personale: per i nati e cresciuti nell’estrema periferia, più prestigio e bellezza vanta il centro di una città e più questa si trasforma, per loro, in un supplizio di Tantalo (a Roma, per esempio, il divide della ZTL, e dello sfacelo dei trasporti pubblici, contrappone due fasce urbane incomunicabili; gli imprigionati nella parte maledetta, della città-museo, vivono unicamente gli svantaggi). Tale da ispirare ai forclusi, quorum ego, un risentimento – nei confronti dei soggiornanti nel centro storico, beatamente ignari del magma urbanistico-sociale che fermenta a una decina di chilometri da loro – che giustamente un’amica artista, una volta, mi ha contestato come razzista. L’estraneo, quieto Persiano si trasforma, a quel punto, in un Calibano gonfio di risentito sarcasmo: come quello che schiuma Sangue cattivo nella Stagione all’inferno di Rimbaud. Ma ognuno, si sa, è il terrone di qualcun altro. E allora la rivalsa prelibata dell’outsider consiste nel fare la fila per l’identificazione, fuori del Palazzo, con una sfilza di persone di norma aduse a muoversi, ovunque, con magica souplesse. Ovunque ma non al Quirinale. Il Centro che più Centro non si può, con (è il caso di dire) sovrana equità, ci tratta tutti come meteci della medesima, infima Suburra. 

 

Maurizio Cattelan (Padova 1960), «Turisti»,  1997, piccioni imbalsamati, dimensioni variabili, foto Delfino Sisto Legnani.


Più che giusto, allora, che all’immaginario delle periferie sia appunto dedicata la mostra che ha trovato una così simbolica cornice. Un cortocircuito esplicito, nelle parole della curatrice, illustra i Turisti di Maurizio Cattelan: una serie di piccioni, raggelati nella consueta tassidermia illusionistica, appollaiati con quieta minaccia hitchcockiana sulle opere degli altri artisti (in origine erano esposti alla Biennale del ’97), nonché su marmi stucchi e pannelli dorati della Sala di Augusto (quella del Trono, cioè, di Papi e Re). «Con questa semplice dislocazione», scrive appunto Mattirolo, «la solennità dello spazio espositivo viene violata, annullando i confini fra interno ed esterno». Ma questo, diciamo “metafisico”, è lo spiazzamento che all’intera mostra dà una coerenza tutt’altro che banale – in diversi momenti, anzi, non meno che esilarante.

 

Vedovamazzei (duo nato nel 1991 da Simeone Crispino e Stella Scala), «My Weakness», 2000, materassi, bicicletta


Nella stessa sala figurano anche due delle installazioni più efficaci: My weakness di Vedovamazzei (al secolo Stella Scala e Simeone Crispino) è una pila di materassi attempati e forse lerci – giacigli da clochards che vantano però, da Rauschenberg a Tracey Emin, una loro specifica nobiltà d’en bas– in cima alla quale troneggia, come su un altare, la Bianchi miracolistica dell’eroe popolare Fausto Coppi. Seconda chanceè invece il titolo di un lavoro di Eugenio Tibaldi: una struttura in tubi Innocenti raccolti in varie locations del disagio contemporaneo, dai paesini lucani alle industrie dismesse nelle Marche (vi campeggiano incollati, come in un’edicola di ex voto, messaggi scritti a stampatello, in italiano incerto, da persone che commentano il senso del loro risiedere ). 

 

Eugenio Tibaldi (Alba 1977), «Seconda chance», 2017.


Non può mancare il tema dell’immigrazione: è nel concreto campo di battaglia delle periferie, infatti, che vengono alla prova gli stereotipi della correctness, e i non meno stucchevoli cattivismi, dello showbiz politicien. Sulla pelle delle persone reali, cioè (e dunque negli occhi, difficili da dimenticare, della siriana Rasha, microzavattinianamente “pedinata” dal video omonimo di Adrian Paci – albanese del 1969, a Milano dal 2000). Bellissimo il lavoro di Mona Hatoum (palestinese trapiantata a Londra nel ’75): un tappeto dalla struttura ortogonale, composto da un intreccio di fili elettrici che, verso la “periferia” del disegno, si aggrumano in viluppi sempre più caotici, terminando in lampadine la cui luminosità cresce, e decresce, come al ritmo di un respiro vitale. Luccica pure, in rosso, la scritta al neon di Alfredo Jaar. È una frase di Gramsci: «IL VECCHIO MONDO STA MORENDO. QUELLO NUOVO TARDA A COMPARIRE. E IN QUESTO CHIAROSCURO NASCONO I MOSTRI». Questa la sigla decisiva della mostra: che vale negli anni Trenta del secolo scorso, si capisce, quanto nei nostri Dieci di ri-fascismi insorgenti.

 

Mona Hatoum (Beirut 1962), «Undercurrent (Red)», 2008, cavo elettrico rivestito, lampadine, variatore d’intensità.


Non è un caso, forse, che alla stessa Mattirolo (insieme a Gabriele Guercio) si debba una raccolta di saggi (uscita da Electa nel 2010) il cui titolo suonava Il confine evanescente. Il «confine», allora, era quello che «permetteva di posizionare l’identità di “arte italiana 1960-2010” in un luogo indefinito tra affermazione e negazione, tra l’Europa e l’America, l’Italia e il resto del mondo». Un confine appunto evanescenteè quello che pretende di dividere identità artificialmente irrigidite, Centri e Periferie. Che nel concreto storico delle arti, nella modernità e post-, si sono scambiati di posto più spesso di quanto, ideologicamente, si sia voluto ammettere. E se c’è un artista che oggi lavora sulla fluttuazione dei bordi, sull’ambiguità dei dentro e fuori, questo è Flavio Favelli. Grande Galleriaè il titolo ironico, ma anche no, di una luminaria di paese, proveniente dalla Puglia: un’efflorescenza di umili, candidi legni da sagra patronale, culminanti in fioche lampadine che si sovrappongono, non senza fierezza, a quelle obese che gravano sui lampadari opulenti della Sala d’Ercole (il lavoro, poeticissimo, è messo in gioco con le balle di coriandoli, la festa pietrificata di The Man Who Fell to Earth di Lara Favaretto, e con le candide montagne russe di una delle Eterotopie fotografiche di Francesco Jodice). Quasi nascosto, nella più raccolta Sala del Balcone, Panorama di Luca Vitone: l’artista della sua generazione, cioè, che (come si vede anche nella bella personale Io, Luca Vitone, in corso al PAC di Milano sino al 3 dicembre) più si prenda il partito di piegare in direzione “civile” il proprio background concettuale. Tre cannocchiali puntati sulla città, su uno dei suoi panorami più lussuosi, anziché le cupole languide e scipionesche che ti aspetti, rinviano ai terrapieni sconvolti dell’Accattone di Pasolini. Centro e Periferia, davvero, sono solo punti di vista.   

 

Una versione più breve di questo articolo è uscita il 12 novembre su «Alias».

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Capricci di Moda

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Patrizia Cavalli

La moda ha un temperamento incostante, volubile, e averci a che fare vuol dire impelagarsi in una serie di faccende capricciose, le Flighty Matters descritte in versi da Patrizia Cavalli, poetessa alle prese con sei oggetti nel cui nome “c’è il loro destino”.

La moda portata, percepita, incomprensibile, inservibile, trova spazio in sei poesie e un racconto, raccolte in un libro edito per la prima volta nel 2011 su commissione della Deste Foundation for Contemporary Art, ripubblicato in versione economica da Quodlibet nel 2017.

La penna di Patrizia Cavalli incontra, interpreta e circoscrive l’estro degli stilisti Diane de Clerq, Stefan Janson, Nasir Mazhar, Alexander McQueen, Issey Miyake e Victor & Rolf, le cui creazioni sono accomunate da fili conduttori che spaziano dalla dicotomia tra inservibilità e usabilità alla rimediazione del mondo animale.

 

L’opposizione fra inservibile e usabile è rappresentata mediante due paia di scarpe, gli ankle boots Armadillo di McQueen e le stringate di Miyake: le seconde sono così comode ed “estatiche che ballano da ferme”, le prime sembrano chiederci «ma è proprio necessario camminare?», per via dei loro 30cm di tacco, e della tomaia a scaglie dalla forma bombata che esaspera il collo del piede e rimanda agli artigli e alle placche ossee del dorso degli armadilli, nomen omen. Le suggestioni animistiche continuano nella poesia ispirata alla cappa Cerf-volant di Janson, la cui denominazione, in francese, assume il doppio significato di aquilone e cervo volante, la specie più grande di coleottero europeo. La cappa in questione è composta di piume di oca, di fagiano e faraona, le quali compongono un pattern “a righe trasversali” simile a quello impresso sugli aquiloni. In questo caso la poetessa esplicita il desiderio innato dell’essere umano di condividere la forza degli animali, di assorbirne le qualità caratterizzanti, come propugna l’ottica animistica e sciamanica, trasformando gli indumenti a loro immagine e somiglianza, per fare in modo che siano vitali per l'esistenza umana quanto lo sono per uccelli e coleotteri piume e ali, cercando di replicarne anche le funzioni termiche, di protezione e copertura. Cosa accade nell’indossare la cappa di Janson? Cavalli ha la risposta pronta: “scrollo il culo come anatra riemersa: sarò dritta, impermeabile, protetta”.

 

 

Sotto la cappa, la metamorfosi da volatile piumato a robusto coleottero avviene veloce e impercettibile come un battito di ali, o meglio di elitre, che pur se hanno perso la loro ragion d’essere perché indurite, dall’evoluzione della specie o da chissà quale progetto di madre natura, offrono protezione dagli agenti esterni. Le elitre avviluppano il corpo e il capo, come le falde del cappello realizzato da Mazhar con cui si navigano “spazi siderali” tracciando orbite eccentriche come quella di Mercurio, pianeta, ma anche elemento chimico impiegato nella fabbricazione del feltro dai cappellai del Settecento e dell’Ottocento, i quali, a causa del costante contatto con il metallo liquido, spesso finivano per esserne intossicati, sviluppando il disturbo neurologico conosciuto col nome di mad hatter disease, da cui deriva il Cappellaio Matto del romanzo fantastico di Lewis Carroll.

 

Il cappello di Mazhar non copre il capo, fa respirare il cervello, poiché le sue falde avvolgono il capo con volute incostanti, mercuriali (nell’accezione anglosassone del senso), barando sulla sua ragion d’essere, come la giacca di Diane de Clerq che “tra le righe nasconde carte false”. 

Con Victor & Rolf, invece, attraverso un tutù destrutturato, si indossa il distacco che non vuol dire allontanamento spirituale o disinteresse, bensì una scomposizione per pezzi, per tasselli, della realtà, giusto per comprenderne il funzionamento, indagando il suo sostrato emozionale.

Ciò ci porta a riflettere sulle passioni dello shopping, magistralmente narrate da Cavalli riportando un’esperienza sinestetica autobiografica, riguardante l’acquisto delle stringate di Miyake servibili, comode, che obnubilano la mente a prima vista, capaci di far sentire “un brivido aristocratico che dai piedi mi saliva su lungo le gambe, e saliva saliva e raggiungeva le spalle, e poi, trascorrendo sulla nuca, con circonvoluzione della testa, mi scendeva davanti fino a irradiarsi nel cuore. Se delle scarpe riescono a fare un giro simile, non sono certo scarpe qualunque!”. 

 

Cavalli non è una shopaholic soggetta a “incontenibili furori acquisitivi”, bensì una compratrice occasionale, svogliata, che soffre per il distacco provato nel momento dell’imbustamento successivo alla conquista delle cose amate. Già, se si desidera tanto un oggetto di moda – si chiede Cavalli – perché bisogna privarsene subito dopo la congiunzione e aspettare l’occasione giusta per indossarlo? E soprattutto esiste davvero l’occasione perfetta o è soltanto un costrutto mentale? Così facendo si rischia di recludere le cose negli armadi, condannandole a un’esistenza ancor più breve di quella già insita in loro per via dei cicli di vita stabiliti a priori dalla moda, sempre più compressi e volatili. Insomma, le scarpe con cui sembra di galleggiare dovrebbero essere indossate subito, ogni giorno, senza aspettare il momento giusto che potrebbe anche non arrivare. 

 


Flighty Matters non solo è utile a comprendere la passioni della moda, ma anche quelle della scrittura, infatti i testi sono accompagnati da diciotto riproduzioni dei manoscritti originali, ovvero gli appunti della poetessa, in cui sono inglobate le immagini dei capi e delle calzature descritti sinora, che svelano al lettore i passaggi fondamentali della stesura definitiva, in cui sono incisi frammenti di quotidianità frammisti a insight germinali.

 

I manoscritti assurgono a vere e proprie opere, valorizzate, seguendo Schapiro, per “la loro condizione di non finito”, e dunque i fogli con cancellature e sottolineature portano il lettore a ricostruire la genesi del risultato finale in potenza, a partire dall’idea creatrice. Sembra quasi di potersi immedesimare nella circostanze della produzione, in una sorta di simulazione della presa diretta, immaginando Patrizia Cavalli durante la stesura della sua poesia, proiettandosi nel tempo della creazione. Questi appunti, per dirla con Eco, ripercorrono le tappe del processo di produzione e sono da considerare come “discorsi nascosti” a cui generalmente il lettore non dovrebbe mai poter avere libero accesso, perché rientrano nell’ambito di una “intertestualità del profondo” in cui prende forma una focalizzazione interna dell’autore, incentrata sul suo intimo sentire, attraverso cui scaturiscono le associazioni analogiche e le sinestesie per connessione innescate dagli oggetti fonte d’ispirazione.  

 

I manoscritti di Patrizia Cavalli rappresentano il nucleo dell’intenzionalità autoriale, la traccia delle sue ricerche stilistiche e della sua partecipazione emotiva nella redazione dei testi, dove l’opera finale emerge per sottrazione, la colonna portante della creazione dei suoi testi, decisamente più brevi delle versioni embrionali tratteggiate penna su carta. E qui la scrittura a mano contribuisce a sottolineare la presa di coscienza di un processo passionale in fieri, atto a rappresentare il ciclo di vita di un sentire lessicalizzato, di uno stato d’animo che sorge nel soggetto, poi riconosciuto, compreso, nominato e ratificato rispetto alle categorie culturali di riferimento.

Se le poesie di Cavalli colpiscono all’istante per via della loro brevità, il lettore attento dovrà impiegare più tempo e fatica a leggere le parti manoscritte, decifrando la calligrafia tipica degli appunti scritti di getto, grazie a cui l’opacità del senso diviene trasparente, visto che la sua generazione è resa esplicita, sic et simpliciter. 

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When you leave “Take Me (I'm Yours)”

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Con questa mostra collettiva, gli ideatori-curatori Hans Ulrich Obrist (Weinfelden-CH, 1966) e Christian Boltanski (Parigi, 1944), in questa occasione insieme a Chiara Parisi e Roberta Tenconi, portano al Pirelli HangarBicocca di Milano, un progetto presentato per la prima volta alla Serpentine Gallery di Londra nella primavera del 1995 e che – a distanza di vent'anni – è stato ripensato in diversi modi per essere riproposto a Parigi, Copenaghen e New York, passando per Buenos Aires. Con una breve sosta anche a Bologna, il 7 ottobre scorso, proprio nell'ambito di un più grande progetto espositivo e di una mostra retrospettiva dedicati all'artista francese. 

 

Gli artisti italiani e internazionali coinvolti, appartenenti a diverse tendenze e differenti generazioni, sono 58, il design della mostra e lo spazio sono stati concepiti e allestiti da Martino Gamper

Il fruitore – anche se meglio sarebbe considerarlo spettatore partecipe, uno “spettattore”, perché è a un tempo attore e pubblico di un'articolata performance a più livelli, chiamato ad agire nello spazio, a modificarlo fisicamente e persino a svuotarlo. In questo modo, lo spettattore si trova fin da subito nello spazio d'azione, perché la mostra si estende oltre lo spazio espositivo, esce dai suoi confini tradizionali.

Non è un caso che alcuni progetti siano stati concepiti proprio per il web, il catalogo e il programma di eventi performativi previsti solo per la sera dell'inaugurazione e il giorno del finissage.

 

 

“Take Me (I’m Yours)”, veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2017. Courtesy Pirelli HangarBicocca, Milano. Foto: Agostino Osio.


Superando la soglia della Sequenza, opera ambientale di FaustoMelotti– mi appare sempre maestosa, e magnifica con ogni condizione atmosferica e di luce – ed entrando così nell'atrio dell'Hangar, si ha subito accesso al giardino dei desideri di Yoko Ono: due Wish Trees – piante di limone Madernino– attendono di essere incoronate da desideri, sogni, pensieri, goliardìe e disegni dei visitatori. Nell'incertezza, l'artista offre indicazioni e mette a disposizione penne, cartoncini e cordoncini per annodarli alla chioma verde, speranza. Dopo la chiusura dell'esposizione, ogni biglietto sarà raccolto da Mother Superior e prontamente conservato insieme a un milione d'altri (e più), sotterrati insieme sotto l'Imagine Peace Tower creata proprio da Yoko a Reykjavík. 

 

Sempre nel foyer, accanto al bookshop, si trovano alcuni numeri di «point d'ironie» – una pubblicazione più o meno periodica, nata nel 1997 dall'incontro tra la fashion designer francese agnès b. e i due curatori, Boltanski e Obrist – stampata in 100.000 copie, di solito distribuite gratuitamente nei musei e nelle gallerie, in teatri, librerie e scuole di tutto il mondo – e in questi giorni all'Hangar. 

Entrando al Bookshop, invece, viene riproposta e attualizzata un'azione di Gianfranco Baruchello, presentata per la prima volta nel 1968 alla storica galleria La Tartaruga di Roma; l'azione prevede che Finanziaria Artiflex, una società fittizia da lui fondata, proponga l'acquisto di una scatola contenente 50 centesimi, ad 1 euro o viceversa (500 esemplari per tipologia). 

Il ricavato (eventuale e auspicato) sarà poi devoluto ad un'organizzazione benefica scelta dall'artista. 

La mostra è accessibile gratuitamente, ma per interagire attivamente e poter «comporre la propria collezione» è necessario acquistare qui o all'ingresso (per la cifra simbolica di € 10) una shopper di carta firmataBoltanski – dovrebbe essere la prima opera conquistata da portare a casa che permetterà, altresì, di intervenire e modificare alcune altre opere, e in molti casi persino di appropriarsene. Il titolo è programmatico; e in fondo, parla chiaro: «Prendimi (sono tuo, tua)».

 

“Take Me (I’m Yours)”, veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2017. Courtesy Pirelli HangarBicocca, Milano. Foto: Agostino Osio.


Questo discorso non può eludere il fatto che, in questo ripensamento sulle modalità di produzione, esposizione e circolazione dell'arte, il suo statuto venga interrogato: che cos'è un'opera d'arte

Naturalmente una sola risposta non c'è, perché, sostanzialmente, nella parola arte risiede un'ambiguità radicale: significa tanto un oggetto, quanto una capacità di fare. Ogni definizione può cogliere solo una determinata sfaccettatura dell'arte, non la sua verità. Da un punto di vista squisitamente filosofico, l'arte sfida il pensiero, mettendo in dubbio la sua capacità di poter raggiungere la verità che riguarda una specifica zona dell'essere; tentativo fallimentare di fronte agli imprevedibili limiti concettuali. 

A Dino Formaggio resta forse l'ultima parola in un dibattito ormai abbandonato dalla filosofia continentale, vivo però nell'estetica anglo-americana: «arte è tutto ciò che gli uomini chiamano arte».

Il testo per la riedizione 2015 di TMIY, alla Monnaie di Parigi, tratto da una conversazione tra i curatori, sottolinea giustamente «il grado zero dell'oggetto di valore» in questo contesto; Obrist pone anche l'attenzione sull'idea di arte come bene comunee condiviso, e sulla possibilità del dono, ricordando William Morris, Lewis Hyde e Jean Starobinski

 

I curatori dichiarano in modo manifesto e provocatorio – la provocazione è il modo di molte forme ed espressioni concettuali – l'intento di «rompere un tabù» (voir: la sacralità dell'opera) attraverso la conseguente mise en abîme di ogni regola vigente in un'istituzione museale o in un consueto spazio espositivo e, contestualmente, anche delle norme di comportamento di un visitatore: ci si trova molto vicini a una breccia etica, la soglia del lecito e consentito può essere superata, ma solo ad alcune necessarie e ineludibili condizioni. Quelle attraverso cui misuriamo il nostro essere-nel-mondo, un essere radicalmente in relazione con l'Altro, l'altero, l'estraneo – un essere immerso in uno spazio e in un tempo dove, incessantemente, operiamo delle scelte e possiamo rispecchiarci nelle nostre azioni che, in modo inevitabile, ci modellano e definiscono. 

Non sono forse le esperienze che facciamo, come le viviamo, a renderci quello che siamo? 

 

“Take Me (I’m Yours)”, veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2017. Courtesy Pirelli HangarBicocca, Milano. Foto: Agostino Osio.


L'idea, nata nel solco tracciato da Marcel Duchamp (qui in veste di 'convitato di pietra'), vorrebbe essere innovativa: l'elemento di originalità rispetto alle passate esperienze e idee, a detta di Obrist, è determinato dall'avvento di Internet che apre l'«era della globalizzazione», quindi sulla possibilità di estensione, diffusione e condivisione a livello mondiale di nuove regole per inedite esperienze partecipate dell'arte. I visitatori – quelli con la shopper, almeno – non solo sono autorizzati a oltrepassare i limiti solitamente imposti nei musei (per ovvie ragioni di conservazione e sicurezza), ma sono persino invitati a infrangerli, a ridurre o annullare la distanza di interazione con l'opera, entrare in relazionediretta con essa. 

Christian Boltanski parla di questa operazione come di «un esperimento che si inserisce in una tradizione che risale ai cadavres exquis dei surrealisti», ma è anche e soprattutto un divertente gioco dada-futurista, un'invenzione irriverente sempre in fieri; una mostra pensata per circuiti alternativi, dettato dalla frammentazione e dissémination di oggetti, reso vivo da opere che ne nascondono altre: non a caso Obrist l'ha invece descritta paragonandola a una matrioska

È come se tutte le opere fossero lì per essere toccate, modificate, usate, consumate, indossate; per essere possedute e poi, sparire

 

Bellissimo

Possibile? 

Certamente

 

A patto che si tengano a bada istinti e comportamenti predatori, l'attitudine della massa dedita all'arraffo indiscriminato, atteggiamenti tanto prevedibili (o almeno ipotizzabili), quanto difficilmente controllabili dai mediatori culturali. 

La sera dell'inaugurazione sono rimasti solo stracci. Nessuna Venere, ma cumuli di abiti usurati e dismessi, borse di stoffa, asciugapiatti e tessuti campione. Grazie a Dispersion (1991-2017), un ready-made di Boltanski, inevitabile protagonista, lo shopper di carta riciclata che abbiamo in mano, può esprimere al meglio la sua funzione. L'installazione è stata presentata alla prima edizione di TMIY a Londra, dopo il debutto in un garage di Quai de la Gare, a Parigi. Pare che in questi primissimi allestimenti, la borsa fosse stata riempita di stracci e conservata da qualcuno come opera scultorea, complemento d'arredo. Il destino ideale di quest'opera sarebbe quello di modificarsi ed esaurirsi nel tempo. Si è voluto evidenziare così un altro aspetto di questo progetto, la sua natura effimera e immateriale; un concetto su cui ragionare soprattutto per quanto riguarda la sua impostazione e organizzazione: la fornitura delle caramelle è però dichiarata inesauribile. Lo stesso, si può immaginare per gli stracci. Tutto il resto, una volta andato a ruba, viene regolarmente ri-messo in circolazione e a disposizione l'indomani, secondo un razionamento previsto e pre-ordinato, proprio per non correre il rischio di realizzare quell'intento ideale che vorrebbe vedere, alla fine, uno spazio effettivamente vuoto.

 

Forse proprio per questo motivo, il fotografo e videoartista Armin Linke, ha documentato l'interazione del pubblico londinese (Sepentine, 1995) con le opere e offre un'importante testimonianza storica, regalandoci il booklet formato leporello realizzato per il “re-enactement”. 

Nel cuore dello spazio è situata anche una seconda installazione ready-made; a prima vista molto suggestiva: Untitled (Revenge) di Félix González-Torres, opera datata 1991, è un mare blu di caramelle alla menta, il cui peso ideale complessivo dovrebbe essere 147,5 kg., circa. Corrisponde al peso dell'artista sommato a quello del suo compagno, morto di AIDS. La suggestione iniziale si muta in disagio. L'artista intende far entrare lo spettatore simbolicamente in contatto con la malattia che consuma il corpo e, di conseguenza, con il dolore della perdita. 

 

“Take Me (I’m Yours)”, veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2017. Courtesy Pirelli HangarBicocca, Milano. Foto: Agostino Osio.


Tra i gadget distribuiti e le opere da collezionare spiccano i badge: esatto, le spillette alla moda dei mitici anni '80, da indossare con baldanzafonzierelliana su giacche di jeans, converse, invicta, insomma, ovunque

A mio desiderio, la pin di Annette Messager, Mme Boltanski– artista francese che, da sempre, porta avanti la sua ricerca sui temi del femminismo e della percezione del corpo delle donne – rivendica indipendenza e rispetto attraverso l'illustrazione dell'apparato genitale femminile e con l'eloquenza che un dito medio sollevato può esprimere; quella di Luigi Ontani, Ingadgiato (2017), ripropone l'autoritratto dell'artista intrappolato in una rete con cui ha pescato i vari gadget museali delle istituzioni partecipanti alla Giornata del Contemporaneo di Roma nel 2009. 

Alex Israel, giovane artista multimediale, performer e designer (Los Angeles, 1982) che ha iniziato la sua carriera artistica come assistente di John Baldessari regala un colorato Self-portait (lapel-pin) realizzato per TMIY a New York nel 2016, per alludere allo slittamento della spilla da bavero da strumento di rivendicazione di una causa all'auto-promozione, atteggiamento necessario al riconoscimento del proprio status di notorietà. 

 

THE BANNERS (2015) è l'installazione dei soliti scorretti Gilbert & George: realizzata a tutta parete, con 12 fogli di carta per acquerello montati su lino, su cui capeggiano motti di fuckologia comparata in acrilico rosso vivo e vernice spray nera. Per ogni scritta, un badge di metallo in diverse misure. Scegliere un esemplare e indossarlo per diffondere il credo «Art for All» dei due artisti è un dovere morale. S'è detto però: un solo esemplare

Chi confesserebbe di averne presa anche solo una in più? La mia preferita: Burn that Book, che mi ha ricordato la celebre dichiarazione futurista«Il faut brûler le Louvre!» divenuta manifesto programmatico della rivista di estetica L'Esprit nouveau, fondata da Le Corbusier nel 1920.

 

Questo progetto, la storia e gli incontri che – qui e ora – accadono, hanno sempre a che fare con il desiderio: non si tratta dell'appagamento di un bisogno istintivo, ma della vocazione a riconoscere una responsabilità, ciò che caratterizza in modo specifico l'essere uomo, orientando, nel profondo, la nostra esistenza. 

 

Il nostro passaggio determinerà inevitabilmente uno spostamento di equilibro; se fin qui si è tolto, sulla griglia rossa tracciata a pavimento da Alison Knowles, possiamo lasciare un Homage to Each Red Thing (1996) a riproporre Celebration Red, partitura pensata per un evento del movimento Fluxus nel 1962. Un pennarello, un nastro per capelli, un quadernino dalla copertina rossa, vale tutto: anche il foglio rosso che esce dalla fotocopiatrice di Mario García Torres, con l'impressione di una parte del nostro corpo, Because Dreams Are Made of This. Hommage to Alighiero Boetti

In un altro spazio, delimitato da linee colorate, possiamo accedere al Free Store, un luogo temporaneo pensato da Jonathan Horowitz nel 2009, dove lo spettatore è invitato a prendere un oggetto (se ne vedono alcuni davvero impensabili), lasciandone un altro in cambio, proprio come una specie di mercatino dell'usato, dove l'unica moneta accettata è quella dello scambio e del riuso, come critica consapevole al consumismo del sistema sociale.

 

“Take Me (I’m Yours)”, veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2017. Courtesy Pirelli HangarBicocca, Milano. Foto: Agostino Osio.


Questi esempi, manifestano in modo decisivo altre due importanti chiavi di interpretazione del progetto nella sua interezza: accumulo e dispersione, due movimenti opposti, evidenti in tutte le opere di cui possiamo, letteralmente, cibarci. 

In attesa di vincere una cena tête-à-tête con Douglas Gordon, partecipando a una lotteria minimale – già proposta durante la prima edizione londinese – l'invito è quello di assaggiare un Amulette phallique de Pompéi di DanielSpoerri, ideatore della Eat-Art

I dolcetti di marzapane dalle sembianze falliche sono invece andati a ruba; forse perché ci riguardano da vicino, rappresentano il ciclo della vita: nutrimento, amore e morte. 

Esauriti come i tradizionali fortune cookies, o i cioccolatini Zukunft (Future) di Carsten Höller. Delusione superata rapidamente, prima di scoprire che l'hula-hoop colorato di Yona Fiedman, architetto, urbanista e designer ungherese, conosciuto per le sue strutture mobili, sarebbe servito soltanto a costruire uno Street Museum. No, questo non si può portare via: so che è ciò che avreste voluto più di ogni altra cosa. 

Per restare in tema di architettura e urbanistica, ci si può fermare qualche minuto a disegnare una mappa di Milano. Ugo La Pietra, con la collaborazione del figlio Lucio, invita a riappropriarsi della città, tracciando su un foglio lucido sovrapposto alla carta di Milano i propri itinerari: l'opera prende forma insieme a un percorso da condividere, o a una passeggiata che ripercorre i propri luoghi del cuore.

 

Fotografare o scattarsi unselfieè d'obbligo; il nostro volto, le espressioni del viso che più ci caratterizzano o quelle pose che immaginiamo ci rendano più simpatici o desiderabili, possono essere immediatamente postate e condivise da una postazione dedicata sul profilo Instagram@esposizioneintemporeale46, creato ad hoc dall'artista Franco Vaccari: MITO ISTANTANEO N. 2 “ SI, CI SONO ANCH’IO” (2017). 

Un istante di presenza, opaca traccia barthesiana dell'esser(ci)-stato, possibilità di esporsi in una cornice scelta e messa a diposizione dall'artista, percepirsi momentaneamente come dettaglio particolare e unico di un'opera, e ricordare che nello spazio dell'arte si compie sempre anche un rito sociale e comunitario, durante il quale uno spettatore non è mai completamente solo. 

 

Può accadere di riconoscersi nel proprio nome, che viene richiesto e formalmente annunciato all'ingresso – ogni individuo presente è il più importante tra gli ospiti – da un giovane performer in black-tie, con la voce potente, il Name Announcer (2011) di Pierre Huyghe: il suono di un segreto (il segreto del nome) prende forma e consistenza nello spazio – come fosse scritto a caratteri maiuscoli, in stampatello. C'è chi preferisce glissare e differire, scegliendo nome di fantasia o di qualche celebrità: Diana Prince, Lady Gaga, Elisabetta II. Fa parte del gioco, proprio come l'improvvisazione del performer che può decidere di ripetere la prima frase casuale pronunciata dall'avventore colto di sorpresa. In alternativa può essere un valido richiamo per qualche disperso avventurato in questa selva di suggestioni. 

Subito dopo, passando accanto a una ragazza in abito lungo, nero, molto semplice e molto elegante (scopro dopo che è stato disegnato per l'occasione da agnès b.) – ci si accorge del suo impercettibile movimento di risposta verso di noi, a significare un incontro fra presenze estranee, momentaneamente connesse, per sfioramento: ha in tasca un bollino rosa, che cerca e porge lentamente al visitatore, con entrambe le mani, restando sempre in silenzio; sembra carta velina, c'è scritto Be Quiet. Si tratta della performance concepita da James Lee Byars nel 1976 (video della performance alla Peder Lund Gallery, Oslo, 2016), che ha come riferimento l'estetica orientale, in particolare la scarna e quieta essenzialità del movimento degli spettacoli del teatro giapponese lungo il XIV secolo. Non suona come un rimprovero, anzi, ha un certo potere calmante, nella frenesia dell'evento: costringe a fermarsi un momento, incontrare lo sguardo di un'alterità, riconoscere, ancora una volta, la benedizione dell'incontro.

 

“Take Me (I’m Yours)”, veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2017. Courtesy Pirelli HangarBicocca, Milano. Foto: Agostino Osio.

 

Come per contrasto, alle spalle dei due performer giace un cumulo di biglietti da visita completamente neri: è il Monument to the People We’ve Conveniently Forgotten (I Hate You) di Heman Chong, un'installazione del 2008 ad memoriam di tutti quegli incontri fuggevoli con persone sconosciute che la memoria ha invece dimenticato. Ci si potrebbe anche chiedere se in questo oblio dimorano davvero anche le persone che si sono volute o dovutedimenticare, per egoismo o sopravvivenza. Si può raccoglierne uno, conservarlo in tasca, nella borsa, come ennesimo tentativo di scandagliare l'abisso caotico e inaffidabile che è la nostra mente, anzi no – il cuore, perché è lì che abitano, i ricordi. 

Questa lacuna della memoria può essere uno spunto di riflessione sull'anonimato. Dalla fine degli anni Sessanta, Hans-Peter Feldmann lavora su immagini derivate da fonti comuni, non più individuabili, e assemblate secondo la logica ossessiva del collezionista, che prende le mosse dall'idea dell'accumulazione.

 

Nell'opera The Prettiest Woman, qui presentata, lo spazio ben definito di una parete laterale è adibito a bacheca, letteralmente tappezzata con una serie di stampe che raffigurano fotografie vintage (tipiche degli anni '20-'40) di giovani donne dello spettacolo, attrici e cantanti in abiti da sera o pin-up in pose ammiccanti e stereotipate. Sono molte, si assomigliano tutte, tutte sono bellissime; la pulsione desiderativa si indebolisce, perché ormai, una vale l'altra. 

I paper objects sono, tra gli oggetti da collezionare, i più diffusi. Accanto alla “montagna della dimenticanza”, capeggia Body Pressure (1974), un'opera testuale di Bruce Nauman, su un poster di carta rosa sono riportate alcune istruzioni da seguire, che comportano un impegno totale, fisico e mentale, coordinato, nell'eseguirne con libertà i passaggi; in questo modo lo spettatore diviene anche performer dell'opera, incarnata nel movimento. Opera in atto, opera goffa, opera buffa.

 

L'altro poster è la replica (2011) di quello che un dissacrante artista allora trentenne, Maurizio Cattelan, ricevette in dono da Alighiero Boetti. Sul retro, l'artista ricorda quel momento e l'intenzione del suo contributo per TMIY: 

 

«Ho incontrato Alighiero Boetti nel 1990, alla Biennale di Venezia, nel padiglione americano, accanto a una pila di poster di Jenny Holzer. Abbiamo chiacchierato un po’ e prima che lo salutassi, Boetti ha preso un poster, ha aggiunto un nuovo truismo alla lista della Holzer – Non Scrivere Mai Cazzate– l’ha firmato e me l’ha regalato. Ho sempre pensato ci fosse una strana, irrequieta gentilezza in quel gesto. Finalmente posso restituirgli il regalo.»

 

“Take Me (I’m Yours)”, veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2017. Courtesy Pirelli HangarBicocca, Milano. Foto: Agostino Osio.


Un foglio A4 bianco cade dal soffitto e, secondo una traiettoria unica, descrivibile forse solo numericamente, disegna nell'aria il proprio percorso aleatorio e s'adagia a terra. 

Poco dopo, inaspettato, un altro foglio viene irrimediabilmente attratto dalla gravità terrestre, e ancora... Si tratta dell'Opera dedicata a chi guarderà in alto di Alberto Garutti. Uno alla volta, a intervalli regolari, se si è fortunati o pazienti, capita di cogliere con lo sguardo altri fogli in caduta libera. Scrivere un pensiero, lasciare traccia del proprio passaggio, come un'impronta nella neve, dovrebbe essere il gesto da compiere. 

 

Prima di arrivare a una delle opere forse più interessanti, abbiamo la possibilità di scegliere un cartoncino colorato con una scritta o un disegno di Etel Adnan (Beirut, 1925) artista e letterata, attivista politica e sociale, intellettuale libanese vissuta in Francia e negli Stati Uniti. 

La sua arte riflette uno sguardo d'amore nostalgico, che si posa sui paesaggi della sua terra d'origine, cantata dai profeti, esaltata dai salmi, amata dal Signore come una sposa: 

 

«Il suo aspetto è quello del Libano, / magnifico come i cedri».

 

Il lavoro presentato, Divine Comedy (2017), si ispira invece alle tre cantiche del poema dantesco, evocandone i personaggi e gli scenari: la selva e il Paradiso, Virgilio, Galileo, Francesca da Rimini e il profeta Muhammad, tra i “fessi” seminatori di discordie (Inf. XXVIII). 

 

«Comment se fait-il que le prophète Mahomet se retrouve dans les enfers de Dante?»

 

Una pubblicazione della giovane canadese Rosa Aiello cita esplicitamente il design inconfondibile delle copertine dell'editore milanese Adelphi. In questo formato viene distribuito liberamente un testo in inglese, assaggio di lettura del racconto cui sta attualmente lavorando, Calypso's Way, che affronta temi filosofici (come tempo e ripetizione), sociali ed economici, rispetto all'area del Mediterraneo – luogo storicamente privilegiato di libero scambio, contaminazione e circolazione di una cultura ricca perché meticcia. 

Questo mare oggi è un cimitero, racconta una separazione, ondeggia pericolosamente il confine della differenza. Omero racconta che proprio in un'isola mediterranea – forse Gozo, nei pressi di Malta, oppure Gavdos, a sud di Creta, nel Mar Libico – vivesse una bella Nereide innamorata (colei che si nasconde, suggerisce il suo nome). Per sette anni riuscì a trattenere Odisseo, ma insopprimibile è il desideriodi Itaca, il desiderio del ritorno. Mai voltare le spalle al proprio desiderio. 

 

«Sempre devi avere in mente Itaca, / raggiungerla sia il pensiero costante.»

 

Tra queste opere cartacee, un'intera parete è riservata ai Senza titolo (disegno incompiuto) di Cesare Pietroiusti (2017). Da lontano non si capisce di cosa si tratti, ma avvicinandosi si possono mettere progressivamente a fuoco i disegni astratti, realizzati a fuoco su carta old mill 250 gr. (il gioco di parole non è intenzionale). 

Sono 3000 esemplari unici, numerati e firmati dall'artista con una biro blu, con un'avvertenza: il disegno è solo cominciato, così com'è, è incompleto e non può essere considerato a tutti gli effetti un'opera d'arte. Perché l'opera possa dirsi perfetta, ovvero, compiuta, il possessore deve dunque bruciare l'intero foglio. Là, le feu la cendre

 

Soltanto la sera dell'inaugurazione, per un paio d'ore, l'artista ha bruciato di sua mano l'opera scelta, staccata (ça va sans dire, un solo esemplare) dalla parete e consegnata a Pietroiusti, appena all'esterno dell'Hangar, sottolineando la diffusione e disseminazione del progetto che si estende così dall'interno sempre più verso l'esterno. 

Anche Patrizio di Massimoè stato presente solo durante l'inaugurazione, come modello dal vero, nudo (no, coperto solo da un panneggio bianco) in posa su una specie di triclivio, per farsi fare un ritratto dell'artista da giovane che lui considera un vero e proprio autoritratto

Self-Portrait as a Model è un gioco di rispecchiamento che vede il capovolgimento dei ruoli, dove all'artista si sostituisce il pubblico e lo spettatore, grazie a tutti i materiali resi disponibili (cavalletti, tavole, matite, carboncini e un manichino, per i giorni a seguire), diventa 'artista', realizzando la sua opera in uno spazio che ricrea una raccolta aula da disegno di Accademia.

 

Il maestro d'artePaolo Orlandi, illustratore, disegnatore e fumettista di talento e sensibilità, è stato scelto da Francesco Vezzoli come suo alter ego per l'opera performativa Take My Tears (2107). Paolo presta la sua mano a Vezzoli e ritrae – senza fretta, conversando amabilmente – i più ostinati o i più pazienti tra i presenti che desiderassero condividere un momento di estranea intimità che, personalmente, ho vissuto con vulnerabilità. 

Questa mano è abile e sicura, il ritratto che delinea invita a un riconoscimento, triplice: quello dell'artista e del suo soggetto e della rappresentazione che restituisce indizi celati di un dialogo intercorso, l'impronta di un'empatia. C'è una lacrima rossa sul viso, che accomuna tutti i ritratti, come una firma. Racconta forse che, di fronte all'esperienza del dolore, siamo tutti finalmente uguali, nudi, fragili. 

 

L'installazione digitale Prickly Pear (fico d'India) di Mohamed Bourouissa, artista algerino che nel 2017 ha documentato la vita quotidiana nella periferia di Beirut, registrandone immagini sonore, voci e rumori inascoltati perché marginali, potrebbe essere un buon esempio di opera immateriale (digitale e sonora) cui si è fatto cenno. Tutti i suoni catturati lungo strade dimenticate, sono stati “hackerati”, ovvero contaminati con testi poetici, melodie d'oriente e brani musicali scritti in collaborazione con altri artisti del luogo, poi caricati in tre diverse compilation sul sito, rese disponibili per lo streaming o il download, così come i poster tradotti in 23 lingue di Wolfgang Tillmans, Protect the European Union against Nationalism (2017) sulla scia della sua precedente campagna anti-Brexit.

 

Fin qui si è tentato di suggerire, attraverso solo alcune delle proposte più interessanti, quanto questo progetto intenda offrire un'esperienza di condivisione e scambio, occasione per entrare in relazione con l'alterità che persone e oggetti rappresentano. È una mostra rischiosa, molto complessa da metabolizzare, è una proposta manichea; divide in ogni caso: coloro che, probabilmente forti di una consuetudine con i concetti, la storia e gli sviluppi più contemporanei dell'arte, ne usciranno ispirati e divertiti – da coloro che, più scettici e molto lontani da una prossima familiarità con la linea concettuale e performativa, opporranno strenue resistenza. Il pericolo che la si possa considerare autoreferenziale e pretenziosa, un luna-park per bambini viziati e radical chic, o infine, che ci si possa anche un po' sentire (a buona ragione) come Alberto Sordi e Anna Longhi alla Biennale, indubbiamente, c'è. In alternativa, potremmo considerare una sfida questo finale aperto sulle possibilità dell'arte, sulla ricchezza di mondi e dei modi per raccontare l'uomo, la storia, l'arte e le idee.

 

When you leave “Take Me (I'm Yours)”

@ Pirelli HangarBicocca, Milano

1 novembre 2017 - 14 gennaio 2018

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Picasso-Parade: il sipario a Palazzo Barberini

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La mattina del 18 Maggio 1917, al Théâtre du Chatelet a Parigi, a beneficio del Fondo per la Guerra, si apre il sipario con il preludio di una musica solenne. A sorpresa, invece di mostrare la scena, si scopre un secondo sipario: un grande telo ritrae i membri di un circo, animali compresi, in un momento di pausa. Una cavalla, con indosso il suo costume alato, si occupa del suo piccolo, una ballerina, alata anche lei, gioca con una scimmia arrampicata su una scala, un cane dorme mentre gli artisti si riposano, parlano, consumano insieme un pasto a base di frutta e caffè, avvolti nelle stoffe gonfie di velluti cremisi e viola sullo sfondo di un paesaggio arcadico italiano. La scena dura pochi minuti, è il primo atto del nuovo spettacolo dei Balletti Russi. Il libretto è di Jean Cocteau, le coreografie di Léonide Massine, le musiche di Erik Satie, i costumi e le scenografie di Pablo Picasso: il titolo è Parade, ovvero “parata”. 

 

Non sarà un grande successo: i costumi, la danza, la musica sono troppo moderni, la trama è ostica – una sequenza di personaggi si esibisce una domenica pomeriggio all’esterno di un teatro, con lo scopo di attirare spettatori – e il finale è malinconico, con il pubblico che non entra a vedere lo spettacolo poiché gli è stato già offerto gratuitamente. Insomma Parade, nel 1917, con l’ultimo anno di guerra che infuria, non piace, e non arriverà mai a piacere quanto altri balletti della compagnia di Sergej Djagilev, ma il grande sipario che incarna tutta la storia dello spettacolo, dentro e fuori la scena, viene presto riconosciuto come una delle fasi fondamentali della vita e dell’opera di Pablo Picasso, nonché dell’arte del 1917, un momento cruciale per la politica e la cultura europea, di cui quest’anno ricorre il centenario.

Proprio in occasione di questo anniversario è possibile vedere a Roma, fino al 20 gennaio 2018, il sipario di Parade, il quadro più grande di Picasso, dieci per diciassette metri, il vero centro della mostra organizzata alle Scuderie del Quirinale, dopo la tappa napoletana al Museo di Capodimonte.

 

Se Picasso Tra Cubismo e Classicismo 1915-1925 racconta infatti l’origine di Parade, e con garbo e bei prestiti internazionali riporta un decennio di carriera dell’artista spagnolo, a seguito del viaggio italiano intrapreso per lavorare al nuovo spettacolo dei Ballets Russes, il sipario ne è l’apoteosi, specie nella sua esposizione romana, in cui non è allestito con il resto della mostra alle Scuderie del Quirinale, ma, contribuendo non poco alla meraviglia della sua vista, sotto il magnifico soffitto di Pietro Da Cortona a Palazzo Barberini, mescolando in un colpo d’occhio tre geni: Bernini, Pietro da Cortona e, appunto, Picasso. Sì, perché il sipario a Palazzo Barberini si anima e diventa spettacolo, vivificando, insieme all’incontro dell’artista spagnolo con l’Italia, ulteriori suggestivi incroci tra visioni d’avanguardia e secoli diversi che a Roma hanno trovato il terreno per sbocciare.

 

L’antefatto di questa apoteosi di classicità modernissima è una storia che ha inizio all’incirca un secolo fa, nella primavera del 1917, quando Picasso giunge a Roma a seguito di numerosi incontri e scambi epistolari con Djagilev e Jean Cocteau, a proposito di un viaggio in Italia per la realizzazione dei costumi e delle scene del nuovo spettacolo dei Ballets Russes che doveva debuttare a Roma, al Teatro Costanzi, nell’aprile 1917 e sarà invece presentato a Parigi a maggio. L’artista spagnolo, fino a quel momento abbastanza estraneo al mondo della danza, si imbarca in questa nuova impresa in un momento tragico della storia europea e della sua personale. Il viaggio e la collaborazione alla messa in scena del balletto sono l’occasione per lasciare Parigi, vedere l’Italia, e riprendere un discorso sullo spettacolo appena avviato dalla collaborazione alla rivista Cabaret Voltaire di Zurigo, anima del movimento Dada e punto di partenza di un’estetica performativa mista, fatta di non sense, danza, teatro e avanspettacolo. Così Picasso parte, e non è il solo: tra l’autunno 1916 e il febbraio 1917, tutti gli artisti coinvolti nella stagione romana dei Ballets Russes confluiscono a Roma: praticamente metà dell’avanguardia. 

 

Giunto a Roma, Picasso affitta uno studio al 53b di via Margutta, presso gli Studi Patrizi, frequenta il Caffè Aragno in via del Corso e si inserisce immediatamente nell’ambiente vicino ai Ballets Russes. Incontra Giacomo Balla, impegnato nella realizzazione della scenografia di Feu d’Artifice di Stravinsky, e il giovane Fortunato Depero che ha appena firmato un contratto con Djagilev per le scenografie e i costumi dello Chant du rossignol, sempre di Stravinsky, e realizzerà i costumi per Parade dai suoi bozzetti. Il Futurismo è al massimo della sua espressione, specie nel teatro e nella danza, e conferma, anche in questi campi, l’adesione alla dinamica simultanea della vita moderna e la distanza da Parade e dagli altri Ballets Russes: il dogma del futuro non gli permette la fascinazione per l’antichità rivelata dallo spettacolo di Cocteau.

 

 

In poco più di otto settimane di viaggio, le tappe principali sono Roma e Napoli, Picasso entra in contatto con una realtà intessuta di popolaresco e antico, rinascimento e barocco, tradizione e modernità, rimanendo folgorato dalla scoperta di una freschezza del classico a lui sconosciuta. Se in Francia l’esercizio dell’antico era stato accademico, in Italia diventa pienamente moderno, reale, tangibile al di fuori dei musei, nelle strade e nelle piazze. Il sipario di Parade ne è la massima prova: il classico, mediato dal teatro dei burattini, dalla commedia dell’arte, dall’atmosfera delle strade di Roma e Napoli, diventa sinonimo di autenticità, di ironia e rompe ogni canone: quelli dell’accademia e quelli dell’avanguardia cubista. 

 

Tanto nelle fattezze del sipario quanto nella concezione del balletto, ogni aspettativa è elusa dall’accostamento tra moderno e classico: la grazia, la scena intima dipinta da Picasso, con lo sfondo di un paesaggio arcadico, si scontrano, dopo pochi minuti di spettacolo, con l’azione di personaggi vestiti con costumi cubisti, la musica ‘urbana’ di Satie, le coreografie moderne di Massine e le voci e i rumori fuoriscena, proponendo un circolo continuo di modernità e tradizione, proprio secondo la visione di quella che doveva apparire, all’artista spagnolo e ai suoi compagni di viaggio, l’Italia di quegli anni: un’Italia viva ancorché provata dalla guerra, fatta di passato e fermenti avanguardisti.

Oggi, a cento anni di distanza, quel connubio tutto italiano tra arcaico e moderno ritorna nella visione del sipario di Parade restituendo, nell’incontro con l’architettura di Gian Lorenzo Bernini e gli affreschi di Pietro da Cortona, qualcosa in più. L’ambiguità, la prospettiva sbilenca in cui sono inseriti i personaggi, i decori barocchi, il paesaggio rappresentato sullo sfondo del sipario, incontrano il monumentale affresco de Il Trionfo della Divina Provvidenza di Pietro da Cortona e acquistano senso. 

 

Picasso probabilmente non ha mai visitato Palazzo Barberini ma le due opere sembrano aver avuto gestazioni simili: in entrambe il classico corrompe il moderno e il moderno il classico; in entrambe gli artisti giocano la loro partita sul gigantismo dei personaggi, sulla capacità illusoria della prospettiva e su schemi fluidi capaci di rompere ogni staticità compositiva, riuscendo insieme ad accogliere i fermenti culturali della scena artistica europea all'inizio dei due secoli, il Seicento e il Novecento, e a fondare qualcosa di nuovo. D’altra parte anche Bernini, autore dell’architettura del salone Barberini, si era cimentato con il teatro, in particolare con la commedia L’impresario, di cui era autore, una sorta, anche in questo caso, di messinscena di una messinscena, capace di combinare sublime e volgare, immagine e meraviglia. Nel corso della commedia seicentesca, il personaggio del pittore, alter ego di Bernini, afferma: «l’inzegn, el desegn, è arte mazica per mezz del quali s’arriva a ingannar la vista in modo da fere stupier» e difatti Pietro Da Cortona con il soffitto sancisce la nascita della “grande decorazione barocca” proprio in un salon de parade aperto al pubblico invitato allo stupore, alla lettura per immagini della rinascita del potere papale sulla riaffermazione del suo primato culturale e politico, come nei tempi della Roma di Giulio II, di Raffaello e di Michelangelo; e Picasso, fa tesoro del soggiorno italiano, non solo per le soluzioni trovate per il sipario e le scene di Parade, ma per l’intero orientamento della sua pittura negli anni successivi.

 

All’indomani del soggiorno italiano la nuova componente classica acquisita dall’artista spagnolo si fonde infatti con i ricordi della cultura simbolista del periodo blu e rosa, ma anche con le incisioni di Bartolomeo Pinelli, con gli acquarelli del napoletano Achille Vianelli, e più indietro ancora, con le prospettive allucinate della Roma barocca e con quelle lucide dell’antica, ancora vive, insieme, nel panorama metropolitano romano e napoletano. 

Giocando con la commedia dell’arte, l’effimero e l’illusionismo teatrale, Picasso fa aprire il sipario, ieri e oggi, su un’altra soglia capace di dividere ma anche di congiungere lo spazio reale e quello immaginario, rivela il retroscena dello spettacolo, secondo un’ottica condivisa con l’avanguardia del barocco, prima che con quella novecentesca, e mostra, eludendo ogni canone, un’inaspettata dimensione naturalista che riguarda intimamente l’Italia di ieri, quella di ieri l’altro, ma anche quella di oggi, con tutti i suoi abitanti.

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Roma, 22 settembre 2017 - 21 gennaio 2018
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E se vinco?

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Ecco cosa dice Maestro Snoopy all’allievo Woodstock: “Nasci. Cresci. Colpo di fulmine. Colpo d’aria. Colpo di freddo. Colpo di sonno. Ma un colpo di culo, mai?” È questo il pensiero, per niente recondito, di tantissimi italiani: l’idea che solo un colpo di fortuna possa veramente portarti fuori dalle peste del vivere. Con la forza di una formidabile sintesi il nostro bracchetto sa toccare, anche se non proprio con grande raffinatezza, il nervo giusto per capire la radice del comportamento di tantissima gente che si rivolge quotidianamente alla fortuna con intenti serissimi pensando di potere davvero mettere le mani su un tesoro definitivo per una piena realizzazione della propria vita.

Nello spirito di Aleksej Ivanovic, Il giocatore di Dostoevskij: “Contando anche la vincita precedente, avevo ora millesettecento fiorini, e tutto questo in meno di cinque minuti! Sì, in momenti come quelli ti dimentichi di tutti i tuoi precedenti insuccessi. Quel denaro io l’avevo vinto rischiando più che la vita; avevo osato rischiare, e ora ero stato riammesso nel consorzio umano!” (F. Dostoievskij, Il giocatore, trad, G. Pacini, Garzanti 2016, p. 193). 

 

Tutti abbiamo esperienza di tabacchini gremiti ad ogni ora del giorno da persone affaccendate in misteriose attese, lo sguardo fisso su uno schermo. O di luoghi dall’aria equivocissima nascosti da porte d’entrata ricoperte da improbabili vetrofanie di carte da gioco o monete ingigantite: si scorge un gran buio, ma bisogna mettere dentro il naso per vedere le mille lucine e sentire i suonini delle slot machine. Non parliamo del marciapiede che sta di fronte alla sala corse: una microagorà dove si decidono destini umani. È il rutilante mondo del gioco d’azzardo legale che lo spirito italico ha portato a dimensioni tali da smuovere oramai fior di competenze per tentare di capire, spiegare e curare le moltitudini che di quel mondo non sanno più cogliere la sostanziale grande ipocrisia.

 

Secondo l’Agenzia delle dogane e dei Monopoli l’azzardo è aumentato dal 1998 di oltre il 750%, nel 2016 gli italiani hanno giocato circa 96 miliardi di euro, le entrate dello Stato sono state di 10,5 miliardi, la spesa pro-capite nazionale è attualmente di circa 1.600 euro. A Roma nel 2016 si sono spesi 7 miliardi di euro, 3 a Milano. Il “Corriere della Sera-7” del 16 novembre scorso, intervistando alcuni degli odierni 800 mila giocatori patologici, ha ricordato i dati del Ministero dell’Economia: l’azzardo legale è la terza impresa nazionale che fattura il 4% del PIL. L’Italia ha il record europeo di una slot machine ogni 143 abitanti. 

 

Il Vero Giuoco della Barca, xilografia colorata, 410 x 310 mm, Milano, Pietro Agnelli, primo quarto del XIX secolo. Le regole del gioco sono scritte in basso, sotto il cerchio con la raffigurazione della barca e il numero 7. Collezione Alberto Milano.


Certo due bambini che dicono “andiamo a giocare” fanno sempre tenerezza. Il gioco è una delle forme della narrazione del sé, dice Freud, e con la loro fantasia i bambini creano giochi che possono essere un’elaborazione delle proprie angosce. Ma se due adulti dicono “andiamo a giocare”, diciamo che è legittimo preoccuparsi perché sappiamo che quel loro giocare potrebbe anche essere fonte di rovina. La dimensione del gioco è un pilastro strutturale dell’essere umano, ma rimane difficile oggi pensare che un’umanità che pratica il gioco d’azzardo sia sana perché gioca. 

 

La Fondazione Benetton Studi Ricerche di Treviso ha da tempo avviato una vasta ricerca sulla civiltà del gioco e ora indaga nella storia di questa particolare attitudine umana al gioco di fortuna con la mostra Lotterie, lotto, slot machines – L’azzardo del sorteggio: storia dei giochi di fortuna. (Treviso, Palazzo Bomben 18 novembre 2017-14 gennaio 2018. I materiali del convegno di apertura saranno raccolti in un numero dedicato di “Ludica. Annali di storia e civiltà del gioco”). Il curatore della mostra e direttore di “Ludica”, lo storico Gherardo Ortalli, in una cordiale chiacchierata, ha sottolineato a più riprese il fatto che sostanzialmente di grandi novità nella nostra epoca in fondo non ce ne sono: la storia della liaison tra denaro e gioco comincia infatti nell’antichità con il diritto romano che prova a regolamentare le scommesse di denaro (ma nello stesso momento l’imperatore Augusto perdeva in una sola giornata anche 20.000 sesterzi!), e decolla alla ripresa economica dell’Europa dopo l’anno Mille e soprattutto nel Duecento quando gli Stati europei colgono le grandi opportunità di guadagno che l’applicazione del denaro al gioco può generare, è in quel momento che nasce lo “Stato biscazziere”. La pulsione al gioco riceve un ulteriore potente stimolo con l’arrivo dall’Oriente nel Trecento delle carte da gioco che vanno ad unirsi all’antico gioco dei dadi, ma soprattutto con l’esplosione delle lotterie (chiamate a quel tempo “lotti”).

 

Lotto Reale, tavoliere da gioco. Incisione in rame colorata a pennello, applicata su telaio, 4 fogli uniti, 800 x 800 mm. Bologna, secondo quarto del secolo XIX. Collezione Alberto Milano.


Nel Cinquecento il gioco d’azzardo entra nell’età moderna quando da un lato si mettono a punto e si raffinano le norme giuridiche che regolamentano le transazioni di denaro, e, dall’altro, si esplicita la contraddizione tra l’azzardo e la sua dubbia eticità. Il gioco d’azzardo come “peccato” rimane una costante, un tarlo che le società hanno sempre avvertito, ma mai espulso attraverso una elaborazione eticamente convincente. A Venezia il 18 febbraio 1522 si organizza la prima lotteria, tutti pazzi per giocare. Il 25 febbraio il governo interviene in nome dell’ordine a bloccare l’iniziativa. Il 7 marzo lo stesso governo, intuendo molto rapidamente i grandi vantaggi portati dal “lotto”, bandisce una sua lotteria con premi fino alla cifra esorbitante di 50.000 mila ducati.

 

Il lungo travaglio, si fa per dire, etico non impedì il fiorire di ogni gioco d’azzardo nel Settecento (qualcuno ricorderà il Berry Lyndon di Kubrick che per vivere, dopo essere stato espulso dalla Prussia, diventa giocatore d’azzardo e allo stesso tempo riscossore di debiti di gioco). La Chiesa Cattolica stessa nel 1731, a fronte di vantaggi economici immensi e convincenti, lo rese lecito. C’è come una lunga parentesi, una sospensione nell’Ottocento: le nuove istanze sociali orientavano i costumi verso il merito del lavoro piuttosto che sulla fortuna, e contro il gioco di fortuna, “la più immorale fra le tante imposte dello stato”, Francia e Inghilterra si risolsero ad abolire le lotterie pubbliche. Tra i documenti esposti c’è l’editto con cui Giuseppe Garibaldi, divenuto dittatore delle Due Sicilie, l’11 settembre 1860 abolì il lotto, ma il decreto, con l’annessione, fu sospeso dal regno d’Italia prima di diventare esecutivo. Dopo il pudico Ottocento, il Novecento, in una sorta di effetto rebound, esalta il gioco di fortuna grazie al rapidissimo sviluppo delle tecnologie sempre più raffinate, dalla Liberty Bell, la prima slot machine (che porta il nome della campana dell’indipendenza americana) dei primi del secolo, alle attuali novità mensili dei giochi proposti, sino alle giocate continue tramite applicazione su smartphone. Lo ripeto: la terza impresa economica italiana della nostra epoca! È davvero lontana la schedina del Totocalcio giocata il sabato pomeriggio dai nostri genitori.

 

Giuoco del Biribisso. Tavoliere su tavolino in legno con 4 piedini e cassetto, prodotto dalla Tipografia Litografia e Cartoleria di Giuseppe Meucci, Livorno-Pisa, fine XIX-inizio XX secolo, mm 770 x 650. Il tavoliere è corredato dal suo sacchetto in tela con 42 “olive” di legno vuote così da poter contenere i foglietti e un “estrattore” per farli uscire. Collezione Silvio Berardi.


“La partita è sempre aperta – osserva Ortalli –: tra giocatori, pulsioni, industrie, autorità, interessi finanziari, preoccupazioni, necessità di garanzie sociali e quant’altro. Il problema sarà quello di sempre: come garantire il giusto equilibrio tra le incomprimibili pulsioni innate e le necessità di una loro corretta gestione.”

C’è una scena del film The Square (di Ruben Ostlund, Palma d’oro a Cannes nel 2017) in cui il Museo d’Arte Contemporanea di Stoccolma propone, nel contesto di un sontuoso ricevimento promozionale presso l’alta società svedese, la performance di un uomo-scimmia, che in un silenzio religioso si muove tra i tavoli provocando animalescamente i presenti in un crescendo di angoscia che esplode quando, davanti a una vera e propria aggressione ai danni di una signora, i signori uomini si trasformano a loro volta in belve pronte a uccidere il performer. Come a dire che la pulsione della ferocia animale non si ferma anche nel più elevato dei contesti sociali e culturali, tema del film.

 

Che cosa accadrebbe nella nostra società generalmente turbata se per un istante spegnessimo il gioco d’azzardo? Se solo per un attimo la gente si trovasse senza più l’amato gratta-e-vinci, la sala corse, il jackpot settimanale o la roulette? Il giocatore d’azzardo, scrive Massimo Recalcati, offre un ritratto estremo e inquietante del caos ingovernabile in cui viviamo. La sua dipendenza patologica verifica ciò che Freud sosteneva, e cioè che l’uomo non è padrone di se stesso. Perché “siamo agiti da una spinta che non possiamo domare né con la nostra ragione, né con la nostra volontà” (Elogio del caos. La forza della vita contro l’algoritmo, “Repubblica”, 9 novembre 2017). I am what I do dice lo slogan di una campagna pubblicitaria appena avviata da un grande marchio della telefonia che, al di là delle facili ironie, si rivela assai acuto.

 

Igino Lardani, detto Gigi Lardani, Lotteria di Capodanno Canzonissima, locandina pubblicitaria (cartoncino/cromolitografia), cm 34,3 x 20, stampatore Affissi Picchi, Roma 1959. Polo Museale del Veneto - Museo Nazionale Collezione Salce. Canzonissima è stata una popolare trasmissione televisiva di varietà, mandata in onda dalla RAI dal 1956 al 1975. Oltre al consueto spettacolo di comici, soubrette, sketch e balletti, elemento chiave era una gara di canzoni abbinata alla Lotteria di Capodanno, che successivamente verrà ribattezzata Lotteria Italia.


Quando lo Sato biscazziere saprà trovare il giusto equilibrio e diventare il Grande Super-Io che regoli questo bagno di irrefrenabili istintualità individuali ben concimate dalla copiosa ignoranza culturale? Quanto potrà sopportare un moderno proletariato (lumpen e mittel) immerso nelle tristi acque del “gioco di fortuna” e nell’instabilità irrevocabile della nuova organizzazione del lavoro? 

In un quadro di dilatazione della manipolazione sociale, anche il gioco di fortuna probabilmente si configura come una concrezione di quella che il post-foucaultiano Byung-Chul Han chiama l’illusione di essere liberi, "oggi – dice – crediamo di non essere soggetti sottomessi ma liberi, crediamo di essere un progetto che si delinea in maniera sempre nuova, che si reinventa e si ottimizza. Il problema è che questo progetto, nel quale il soggetto sottomesso si libera, si rivela esso stesso una figura della costrizione" (Elogio della distanza, in “Doppiozero” del 28 settembre 2015).

Difficile dire come andranno le cose in futuro per la dimensione collettiva, ma per quella individuale penso sia sempre preferibile il Totò di ‘A schedina ‘A speranza, testo con cui si chiude la mostra:

 

Si avesse già pigliato ‘e meliune

A st’ora ‘e mo starrie già disperato.

Invece io sto cu ‘a capa dinto ‘a luna, 

tengo sempre ‘a speranza d’ ‘e ppiglià.

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Il giocatore
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Arte e fulmini e saette!

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Probabilmente i fulmini più famosi per chi si occupa di arte contemporanea sono quelli di The Lightning Field (1977) di Walter De Maria, l’immensa opera di land art realizzata sfruttando le particolari caratteristiche meteorologiche di un altopiano nel New Messico, in cui l’artista ha installato centinaia di pali acuminati che attiravano appunto i fulmini. Le fotografie che ne sono derivate sono davvero spettacolari.

 

Mater.


In visita alla mostra di Ahmed Mater alla Galleria Continua di San Gimignano cerco di raccogliere quelli che mi vengono in mente. Un altro è quello sulla copertina dell’ultimo numero de “La Révolution Surréaliste” (n. 12, dicembre 1929), organo ufficiale del movimento. Fu un numero alquanto speciale, sia perché consapevolmente conclusivo di un percorso, sia perché per l’occasione ospitava il Secondo Manifesto del Surrealismo con la svolta sintetizzata nella clamorosa frase: “Chiedo l’occultamento profondo, effettivo del Surrealismo” e la foto dei surrealisti ad occhi chiudi intorno al nudo di donna dipinto da Magritte. La foto del fulmine faceva da illustrazione alla domanda “Che tipo di speranza riponete nell’amore?”, scritta ai suoi lati. Dell’amore come nuova molla del movimento e dell’uomo era infatti questione in quella svolta. Che il fulmine desse figura all’amore, come si dice nella frase “colpo di fulmine”, e insieme all’occultamento non era cosa scontata.

 

Sinigaglia, Dominic Arkansas.


Poi mi sono ricordato di un acquarello di Paul Klee intitolato Fulmine fisiognomico (1927), commentato da Victor Stoichita nel suo importante libro sull’ombra (Breve storia dell’ombra). Klee vi raffigura un volto attraversato da una linea a zigzag, un fulmine nero per l’occasione, che ne disegna internamente il profilo. Scrive Stoichita: “La forza dell’immagine di Klee consiste nel fatto che formalizza o cristallizza, in modo estremamente concentrato, tutta una procedura di simbolizzazione di una crepa in seno alla rappresentazione del volto umano”. Questa idea di cristallizzazione, come vedremo, tornerà in Ahmed Mater.

 

Tralasciando una ricerca diligente e storica sull’iconografia del fulmine, l’altro automatico ricordo è caduto sui famosi fulmini che cadono ripetutamente su un personaggio del film Il curioso caso di Benjamin Button, le scene del quale film l’artista David Fincher ha isolato e rimontato facendola diventare una propria opera (stesso titolo, 2008). Ricordo che mi aveva molto colpito (ops!) quando la vidi in una mostra al Palais de Tokyo, durante la prima direzione del quale, a dire la verità, per l’interessamento importante che si aveva per le questioni scientifiche intrecciate a quelle estetiche, si vedevano abbastanza spesso fulmini. I più scenografici sono stati certamente quelli di quel pazzo di Peter Terren, un australiano che si diverte a lanciare scariche elettriche multiformi su oggetti e persone, quasi fossero dei puri addobbi decorativi. Qui energia per comporre, per giocare, là fulmine come destino-fato, caso-coincidenza, nel senso anche di illuminazione.

 

Mater.


Ebbene la copertina dell’opuscolo della mostra di Ahmed Mater presenta appunto una bella immagine rossastra di un fulmine che cade in un piatto paesaggio desertico. Si tratta qui di un fulmine altrettanto se non ancora più speciale di quelli appena ricordati: pare infatti che in determinate circostanze sia climatiche che, in particolare, di composizione della sabbia del deserto, la caduta di fulmini fonda la sabbia in un rametto di silicio che prende la forma contorta del fulmine stesso. Il centro della mostra, nella grande sala che era la platea dell’ex cinema che è la Galleria Continua, è un’installazione di bidoni di sabbia da cui spuntano tali forme, come rami di alberi impossibili, o fossili inquietanti. Fulmini creatori di silicio dunque, l’elemento comune alla vita organica e alla tecnologia avanzata, che ha cambiato le vicissitudini di nazioni e popoli, le geopolitiche, come si usa dire, del pianeta. Uno degli elementi che oggi si studiano nella visione globale delle cose umane che viene messa all’insegna del cosiddetto “antropocene” e che da qualche tempo struttura le ricerche anche di molti artisti e studiosi (vedi per esempio Hearther Davis e Etienne Turpin [a cura di], Art in the Anthropocene: Encounters Aming Aesthetics, Politics, Environments and Epistemologies, Open Humanities Press, London 2015, o, con attenzione particolare data proprio al ruolo delle sostanze, Jussi Parikka, A Slow, Contemporary Violence: Damaged Environments of Technological Culture, Sternberg Press, Berlin 2016).

 

Sinigaglia, Microwave city, 2014.


Il tema centrale dell’esposizione di Mater è infatti il rapporto geopolitico tra risorse naturali, religione, economia, società, potere. Il territorio in causa è principalmente quello saudita, che è quello originario dell’artista, ma non solo. Il modello di struttura di questo rapporto è individuato nel mitocondrio, che dà il titolo all’esposizione: Mithocondria: Powerhouses. I mitocondri, organuli presenti in tutte le celle animali, vengono descritti come “centrali energetiche biologiche, invisibili se non appositamente colorati, che rappresentano il luogo e l’unità di elaborazione: forniscono, convertono e conservano l’energia all’interno del sistema chiuso di ogni cellula”. Allo stesso modo per Mater funzionano le “powerhouses”, le centrali di energia e di potere invisibili che governano il XXI secolo. E il fulmine è dunque la carica energetica scatenante la formazione del “mitocondrio” – e insieme probabilmente e soprattutto la metafora dello scatenamento di quell’altro mitocondrio alternativo che si propone di essere l’arte.

 

Mater.


La mostra di Mater è complessa, strutturata in tre capitoli, con materiali che vanno da quelli più documentari, da fotografie – impressionanti quelle della costruzione della nuova Mecca – a video, a quelli più liberamente artistici – forse per la verità un po’ più forzati, per quanto (o forse proprio perché volutamente) d’effetto: una calamita cubica al centro di limatura che vi si dispone come i fedeli e la stessa struttura della città intorno alla Ka’ba; una rielaborazione grafica in cui la forma di un distributore di benzina si trasforma nella lastra ai raggi X di un uomo che si punta la pistola alla testa… Ma l’insieme è di grande interesse e funziona su più piani, come appunto mira a fare. “Religione > petrolio > denaro > potere > fede > controllo > nuove città > economia redditiera > città economiche” è la formula che guida l’esposizione, la quale dall’Arabia Saudita si amplia per rimandi ad altri luoghi similari, come i campi petroliferi del Dakota del Nord, su cui sono incentrati dei video molto efficaci, dall’impostazione documentaria ma tagliati come delle opere autonome concluse in sé stesse.

 

 

 

 Naturalmente l’argomento è ampio e complesso, così attuale e ricco di spunti che lascia spazio a molteplici analisi e commenti, ma io vorrei approfittarne per sottoporre un altro pensiero che non ho potuto trattenere durante la visita. Lo so che non dovrei scrivere di mostre che ho curato io stesso, ma spero si intenda qui la ragione per cui faccio un’eccezione. Il fatto è dunque che a San Gimignano c’ero per inaugurare una mostra di Alberto Sinigaglia intitolata Microwave City, ai Musei Civici, e il paragone era per me inevitabile. La “città a microonde” è una Las Vegas rivisitata dall’artista a partire da diversi nuclei tematici intrecciati. Quello centrale è niente meno che la bomba atomica, un super-fulmine, se così posso dire. Non tutti sanno in effetti che negli anni Cinquanta a Las Vegas si era creata una sorta di turismo parallelo di persone che vi andavano per assistere ai test nucleari che venivano effettuati nel deserto vicino. La parte più fascinosa dell’esposizione è allora composta delle fotografie di funghi atomici a cui l’artista ha cancellato il fusto trasformandoli in fascinose pittoresche nuvolette dai magnifici colori sospese nel cielo.

 

 

Le “microonde” sono prima di tutto queste della ricerca militare, la stessa da cui deriva anche la tecnologia dei nostri forni a microonde, per dirne una. Intorno a questo nucleo ruotano gli altri, sia quelli direttamente collegati, in particolare un ciclo di oggetti da collezione, tutti allusivi rimandanti alla bomba atomica, ai suoi materiali, ai suoi effetti, ai luoghi; sia altri più indiretti, che si rifanno ad altri caratteri della Las Vegas odierna. Tra questi i più evidenti sono la pornografia e la pubblicità, dentro di esse il rapporto immagine-parola e i rimandi alla forma della città e altro ancora. Qui emerge anche l’aspetto metalinguistico dell’operazione, nel senso della riflessione sul medium: da un lato la città si fa più “immaginaria”, elaborata come un mondo parallelo – così le panoramiche del complesso urbano sono stampate in positivo per dare alle immagini un aspetto tra l’onirico e il fantastico, come “cotte a microonde”, dice l’artista –, dall’altro le scritte estrapolate e rifotografate finiscono con il riferirsi al medium fotografico. La più esplicita è la scritta “Actual photo” al centro di un dettaglio di immagine sgranata: viene da uno dei quei biglietti che vengono distribuiti ad ogni angolo di strada che evidenzia il paradosso della nuova pornografia basato sull’idea che la fotografia è tanto più “actual”, reale, quanto più sfocata e imprecisa, perché questo è segno di presa diretta, còlta al volo, ad insaputa del fotografato.

Ora, non voglio dilungarmi molto, anche la complessità del lavoro di Sinigaglia mi pare sufficientemente dimostrata. Lo spunto del confronto tra le due mostre è in realtà per lanciare una domanda semplice e che il lettore avrà sicuramente già indovinato: perché l’interesse internazionale premia così sproporzionatamente la formula Mater rispetto a quella Sinigaglia?

 

De Maria.


Perché è più diretta e didascalica, meno ermetica e sospesa? Ma non è anche meno “estetica”? O conta appunto l’opposizione all’estetica come chiave antimodernista eccetera? E la “poetica”? Le domande in realtà si moltiplicano. Spero sia perché si tocca un punto nevralgico appunto del dibattito estetico – fulmini e saette, non rivendicazioni di alcun tipo. Questa la scusante per quel che riguarda il mio strappo alla regola. E un ultimo spunto di riflessione: quella di Sinigaglia è una modalità più tipicamente italiana, a differenza di quella di Mater più “international”?

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Doris Salcedo, lacrime di cristallo

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Tomba di Keats, Cimitero Acattolico, Roma.


Come ognun sa, John Keats e Percy Bysshe Shelley sono sepolti a pochi metri di distanza l’uno dall’altro, in una valletta di dolce verdezza al Cimitero Acattolico di Roma: all’ombra della Piramide Cestia, non lontani da Gramsci, Gadda e Amelia Rosselli. Vicini pure morirono, nel tempo più che nello spazio: men che trentenni entrambi, tra il febbraio del 1821 e il luglio del 1822. Il primo a Roma, di tisi; il secondo al largo di Portovenere, in quello poi ribattezzato Golfo dei Poeti, nel naufragio della goletta Ariel. Le rispettive lapidi (riportate, fra l’altro, nel bellissimo Tumbas di Cees Nooteboom, un paio d’anni fa tradotto da Fulvio Ferrari per Iperborea) paiono dialogare fra loro. Quella di Shelley, memore del naviglio fatale, riporta i versi celebri della Tempesta di Shakespeare – «Nothing of him that doth fade, / But doth suffer a sea change, / Into something rich and strange» –, ma sul suo destino pare impossibilmente riflettere, prima di poterlo conoscere, l’epitaffio dettato per sé dall’altro poeta, Keats: «Here lies One Whose Name was writ in Water». La sua lapide è ritta a perpendicolo sull’erba, mentre orizzontale si stende su di essa quella di Shelley.  

 

Madrid, Palacio de Cristal.


A queste parole di dolente eloquenza fa pensare la magnifica installazione di Doris Salcedo, Palimpsesto, al Palacio de Cristal del Museo Reina Sofía, nel Parque del Retiro a Madrid (fino al 1 aprile 2018). Soprattutto perché il nome «scritto sull’acqua» è una metafora, per Keats, per dire che sulla sua lapide, in realtà, non c’è scritto nessun nome. Mentre di nomi, essenzialmente, consiste appunto l’opera dell’artista colombiana: nomi non scritti sull’acqua, e dunque destinati subito a svanire, ma (come pure si potrebbe tradurre la frase dettata dal poeta) con l’acqua. Alla lettera. Quando mi avvicino alla struttura efflorescente di vetro e metallo, incastonata fra i cipressi calvi e gli ippocastani del parco, e il laghetto artificiale antistante colla sua fontana a getto, il Palazzo di Cristallo sembra del tutto vuoto. Ma quando abbasso lo sguardo ai miei piedi mi accorgo che su un tappeto granulare di colore grigio, steso uniformemente sull’intera superficie circoscritta dalle pareti trasparenti, pian piano si vanno addensando macchie di umidità che, dopo qualche minuto, diventano lettere davvero fatte d’acqua; e queste lettere compongono dei nomi di persone. Persone morte in mare, nel Mediterraneo, nel tentativo di salvare la propria vita dalla guerra e dalla fame. Passa qualche altro minuto, l’acqua pare riassorbita dal “terreno”, poi lentamente si formano di nuovo delle lettere. Altri nomi. Gli uni si sovrappongono al ricordo recente di quelli che li hanno preceduti. Un palinsesto appunto. 

 

Ph Maria Teresa Carbone, Doris Salcedo, Palimpsesto.

 

Ph Maria Teresa Carbone, Doris Salcedo, Palimpsesto.


Tutto qui. La potenza di una metafora si misura, spesso, dall’economia di mezzi impiegati per realizzarla. (Economia apparente: ci sono voluti quattro anni, a Salcedo e ai suoi collaboratori, per mettere a punto il complesso sistema d’ingegneria idraulica che rende possibile questo affioramento perfettamente silenzioso, e poi l’inabissamento altrettanto graduale, e altrimenti impercettibile, delle gocce d’acqua che compongono i nomi degli Scomparsi.) Continuo a camminare sulla superficie dell’opera, stando bene attento a non calpestare i nomi visibili, ma anche quelli temporaneamente cancellati (che lasciano, ad aguzzare gli occhi, un’impronta cava sul grigio leggermente più scuro). Ogni tanto alzo gli occhi da terra, ma non c’è altro da vedere. Solo gli altri visitatori, che lentamente perimetrano la superficie ai loro piedi (c’è chi si tiene a debita distanza dalle scritte, altri si azzardano a scavalcarle con passi più lunghi, tracciano percorsi diagonali, disegni variabili nello spazio). E gli alberi fuori dai vetri, e l’acqua del laghetto (l’aspetto site-specificè però soprattutto nella scelta del contenitore: edificato nel 1887 per l’Esposizione delle Isole Filippine, dunque per celebrare il colonialismo spagnolo, come il Crystal Palace di Londra cui s’ispirava il Palacio de Cristal doveva essere un’«architettura a orologeria», per dirla con Marco Biraghi, e invece sopravvisse alla sua occasione; mentre l’originale andò distrutto in un incendio, nel 1936, il d’après madrileno è giunto sino a oggi: in una dialettica fra permanenza e dissoluzione che, come illustra l’opera di Salcedo, non è dissimile dal funzionamento dei meccanismi della memoria e del riconoscimento).

 

Crystal Palace, London, interno.

 

Crystal Palace, London.

 

La fragilità materiale del lavoro è il primo aspetto su cui riflettere. Giustamente Manuel Borja-Villel, il direttore del Reina Sofía (dal quale alla GNAM, nell’ambito di C17 – la Conferenza sul Comunismo dello scorso gennaio–, ho avuto modo di ascoltare di quest’anno un’intelligente riflessione sul ruolo delle istituzioni pubbliche nella discussione politica che l’arte può sollecitare), definisce Palimpsesto un «monumento». Retoricamente opposto alle forme classiche (anche quelle novecentesche) della monumentalità, certo: ma davvero capace di riattivare il cortocircuito attivo-passivo da sempre insito nell’etimo: ricorda e, così facendo, ci ricorda. Come i lavori di altri artisti – da Kiefer a Boltanski ai Kabakov – ricordati, è il caso di dire, dall’Aleida Assmann di Ricordare (il Mulino 2002), l’«arte della memoria» ha tanta più forza quanto più si presenta fragile, intermittente, semicancellata: se il monumento classico s’impone allo spettatore, con l’affermarsi verticale che lo sovrasta, qui la postura orizzontale (come nel caso delle parole che, all’Acattolico, ricordano Shelley) fa piuttosto pensare alla delicatezza, in tutti i sensi, dell’esporsi. In Palimpsesto, come dice il titolo, l’apparire della memoria ha tanto peso quanto il suo sparire.

 

Ci ricorda tanto il silenzio acquiescente con cui assistiamo alle tragedie del nostro tempo quanto le troppe parole sbagliate, retoriche e vacue, con cui ci illudiamo di prenderne atto. Come scrisse nel 1969 (un anno prima di porre fine ai suoi giorni, dunque, procurandosi la morte per acqua nella Senna) Paul Celan: «la poésie ne s’impose plus, elle s’expose». La figura di Celan è un riferimento costante, per Salcedo; e credo si debba proprio alla sottigliezza con cui la tragedia della storia (quella della Shoah, cui s’intreccia la sua biografia personale, famigliare) non viene mai detta, da lui, in modo troppo esplicito; ma incombe immanente, si può dire, su tutto ciò che ha scritto. Argumentum e silentio, s’intitola una poesia dedicata da Celan a René Char in Di soglia in soglia; la maestria retorica, in forma di preterizione, consiste nel nominare appena il silenzio. Quanto basta per interromperlo, e dunque negarlo. È «la parola vinta al silenzio», dice Celan, che «testimonia della notte».  

 

Salcedo non è nuova né alla dialettica fra oblio e memoria, né a quella fra la verticalità metaforica della poesia e l’orizzontalità materiale del suo esporsi. Basti ricordare il suo lavoro più noto, Shibboleth, di giusto dieci anni fa: una fessura irregolare che si stendeva per 167 metri lungo l’intera, vastissima superficie della Turbine Hall, alla Tate Modern di Londra. Uno «spazio negativo», come lo definiva l’artista, che anche in quel caso intendeva ricordare l’illocazione, per usare un termine coniato da Emily Dickinson (e volto nella nostra lingua da Amelia Rosselli), delle persone migranti: di cui già allora si vedeva il destino di non-persone cui nell’indifferenza generale, di lì a qualche anno, sarebbero state condannate. È vero che tante, troppe opere di sedicente arte del nostro tempo si limitano a denunciarlo, il nostro tempo, così condannandosi alla piattezza della retorica, nel senso peggiore della parola (come ha mostrato qui Stefano Chiodi, a proposito per esempio dell’ultima Documenta a Kassel; o come si poteva vedere nella mostra centrale curata da Christine Macel all’ultima Biennale di Venezia). Come amano dire Antonio Rezza e Flavia Mastrella, chi abbia qualcosa da «denunciare» fa meglio a rivolgersi ai Carabinieri. Ma questo non ci deve indurre a una paradossale censura preventiva di chi cerchi le “parole”, in tutti i sensi, per dire certe cose. Altrimenti quelle “cose”, davvero, resteranno scritte solo sull’acqua.    

 

Una versione più breve di questo articolo è uscita su «Alias» il 3 dicembre

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Arte della memoria a Madrid
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Come una falena alla fiamma

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La strada che conduce dal Politecnico alla volta del complesso delle Officine Grandi Riparazioni di Torino è ampia e lascia spaziare lo sguardo tutt’attorno. È una di quelle prospettive novecentesche, di città industriali, e malgrado sia un giorno festivo sembra di sentire l’eco dei passi degli operai che si incamminavano alla volta della fabbrica, quel luogo sacro dove si realizzava la vita dei cittadini e che rappresentava il motore di un progresso luminoso e agognato, un luogo al tempo ancora foriero di grandi speranze.

Oggi i passi dei visitatori che varcano il cancello delle ritrovate Officine incontrano i fantasmi di quegli operai del passato, rievocati dall’installazione di William Kentridge Procession of Reparationists, un omaggio site-specific collocato nella Corte Est dell’enorme complesso industriale, presso il polo destinato alle arti. L’opera è stata voluta da Carolyn Christov-Bakargiev, già Direttrice del Castello di Rivoli – Museo d’Arte Contemporanea e si tratta di una scultura realizzata in fogli di acciaio che unisce la bidimensionalità del disegno, centrale nell’opera dell’artista sudafricano, alla forma scultorea, dando vita a una processione di uomini e macchine che si fondono l’uno nell’altra. La staticità della scultura è animata dalla dinamica interna della composizione e il risultato è una suggestiva introduzione allo spazio espositivo.

 

Thomas Hirschhorn, Ingrowth, 2009 Legno, neon, plexiglass, manichini, pittura, cavi elettrici, stampe, nastro adesivo, tessuto, vestiti, giocattoli 1500 x 100 x 236 cm Collezione Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino.


Come una falena alla fiamma (Like a moth to a flame) è il titolo enigmatico scelto per la mostra che inaugura la stagione espositiva delle Officine, una curatela tripartita di Liam Gillick, artista, Mark Rappolt, firma di Art Review e Tom Eccles, direttore del Center for Curatorial Studies del Bard College di New York. La mostra ambiziosa si snoda attraverso le opere selezionate della collezione della Fondazione per l’arte Moderna e Contemporanea CRT e della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, creando un dialogo ideale tra queste e altre opere scelte provenienti dalle maggiori istituzioni museali cittadine, tra cui il Museo Egizio, Palazzo Madama, la GAM, la Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, il Castello di Rivoli e MAO – Museo d’Arte Orientale. Le opere sono state poi accolte dagli spazi rinnovati delle Officine Grandi Riparazioni e dalla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, dove offrono agli spettatori due proposte espositive significativamente differenti.  

 

Il titolo scelto per la mostra rimanda all’idea del collezionismo, attorno alla quale è stato costruito l’intero progetto: in prima istanza forse può apparire come un volo fantastico ma l’immagine della falena che viene attirata dalla fiamma rappresenta con efficacia quel richiamo irresistibile che l’opera d’arte esercita nei confronti del collezionista. Al contempo, racconta anche della ricerca inesausta, una domanda destinata a rimanere senza risposta, quell’eterno tentativo di interrogare il mistero che si esplica nella relazione elettiva che lega l’artista alla propria opera. Dal punto di vista filologico, il titolo della mostra è tratto dall’opera di Cerith Wyn Evan In girum imus nocte et consumimur igni che, a sua volta, riprende l’ultimo film realizzato da Guy Debord nel 1978: si tratta di un palindromo, una frase attribuita a Virgilio e che significa “cosa gira di notte ed è consumato dalle fiamme”? Il richiamo al collezionismo e alla storia artistica della città si ricollega anche nell’anniversario della nascita dell’Internazionale Situazionista, fondata ad Alba sessant’anni fa proprio dal filosofo francese, autore del testo ormai biblico La società dello spettacolo.

 

Liam Gillick A Game of War Structure, 2011 Alluminio verniciato a polvere (tavolo), alluminio zigrinato, sabbiato, colorato e anodizzato (pedine) Tavolo 255 x 225 x 100 cm, 32 pedine di dimensioni variabili Esther Schipper, Berlino.


Con queste premesse si varca lo spazio delle officine e il colpo d’occhio è sorprendente: gli enormi spazi dove trovavano ricovero i treni in riparazione sono stati restaurati con perizia, restituendo alle vestigia industriali lo splendore originale. La scelta di una mostra complessa, che accosta archeologia, antichità e arte moderna e contemporanea mira a costruire un vero e proprio autoritratto della città, come dichiarato, realizzato attraverso i pezzi delle collezioni pubbliche e private, ma rivela anche un’ambizione tesa a dimostrare la grandeur cittadina, un po’ come quando si apparecchia con l’argenteria in attesa di ospiti di riguardo. Il dato però più interessante è forsa la proposta di una mostra prettamente postmoderna nell’impianto, in un momento storico che è ormai ben oltre il postmoderno. Con intenzioni ed esiti diversi, torna alla mente Artempo When Times become Art, esposizione del 2007 a Palazzo Fortuny di Venezia, progetto seducente in cui l’idea di accostare materiali diversi per creare un racconto coerente ma aperto dava vita a un meccanismo warburghiano, una macchina del tempo in cui era doveroso smarrirsi.

 

Hito Steyerl Factory of the Sun, 2015 Proiezione video HD, installazione ambientale, 21’ Collezione Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino.


Nel caso delle OGR, manufatti egizi e codici miniati sono accostati a opere contemporanee, come nel caso di di Enrico David, autore di Room for Improvement (2001), un ricamo su lino con soggetto un enigmatico yoghini – e Pawel Althamer, che con Selfportrait (1993) crea un impressionante autoritratto di cera, capelli e intestino animale, discendente di quella ceroplastica anatomica a cavallo tra ‘600 e ‘700 e dei boti votivi. I discorsi rintracciabili all’interno dell’esposizione sono molteplici e non necessariamente coerenti: dalla memoria dei luoghi e delle relazioni, temi cari a Tacita Dean presente qui con il film Mario Merz (2002), ritratto intimistico dell’artista durante gli ultimi giorni di vita, ai calchi degli spazi vuoti di Rachel Whiteread (Ledger, 1989 e Untitled Ceiling, 1993), che qui scontano una collocazione piuttosto mortificante; dalla poesia immaginifica di Paola Pivi (Have you seen me before?, 2008) alla critica ai massmedia di Valie Export, di cui è visibile una imponente installazione di monitor (Metanoia, 1968/2000) passando per l’immancabile riflessione sulla condizione della donna e sulle tematiche di genere con le opere di Mona Hatoum, Shirin Neshat e Catherine Opie.

 

Ma c’è spazio anche per l’idea della morte e dell’eternità, con la testa osiriaca di sovrano Tuthmoside (1504-1425 a.C) e la star Damien Hirst, in mostra con le farfalle tassidermizzate di Love is Great (1994), oppure per le ricerche “pure” come nella splendida Lunetta (1982) di Nanni Valentini e per il ciclo segnato dalla gioia pittorica di La Gibigianna. Un racconto in otto dipinti (1960) di Pinot Gallizio; ancora, c’è il tema del lavoro con gli operai fotografati da Lina Bertucci in Fabbriche Gallesi (1992), una delle opere che più colpiscono per la naturale corrispondenza con i luoghi espositivi e le città immaginarie composte di libri pressati di Liu Wei, qui presente con Library II-I (2013). Tra i pezzi per cui vale la pena visitare la mostra spiccano curiosamente gli oggetti di artigianato, ovvero la collezione strepitosa di gioielli fantasia provenienti dalla collezione privata di Patrizia Sandretto Re Rebaudengo e la vetrina con la raccolta di Veilleuses di Palazzo Madama. I cosiddetti “gioielli fantasia” sono monili di bigiotteria creati con materiali non preziosi, che si diffusero negli Stati Uniti dopo la crisi del 1929 e che colpiscono per l’estro della manifattura e l’aspetto regale.

 

La storia racconta che divennero simbolo di emancipazione e di lusso accessibile grazie alle First Ladies tra cui Jaqueline Kennedy, che ne era una entusiasta collezionista. Le veilleuses invece appartengono ad un unico nucleo donato da Valentino Brosio, letterato, produttore cinematografico ed erudito torinese, nucleo acquisito nel 1961 da Palazzo Madama. Si tratta di una collezione unica al mondo che raccoglie figure di fattura pregiata, esemplari di una moda che all’epoca riscosse grande successo commerciale, diffondendosi da Parigi per poi investire anche l’Italia. Le veilleuses presentavano soggetti diversi dalla caratteristica forma a torre (dal mandarino al cavaliere medievale) e le più grandi manifatture italiane ne sfornavano in grande quantità, per soddisfare le richieste di un mercato ghiotto di raffinatezze.

 

Complici gli oggetti e le antichità, l’effetto complessivo della mostra è quello di un’immersione in un gabinetto delle meraviglie, una passeggiata in un salotto dove il gusto del collezionista rende leciti accostamenti talvolta spregiudicati. Le opere antiche offrono un appiglio ai visitatori non riconciliati con l’arte contemporanea ma il rischio che si corre è quello di mistificare il passato attraverso un eccessivo tentativo di avvicinamento al presente, rendere ancora più opaco il contemporaneo, già imputato di cripticità da un pubblico di non cultori sempre meno disposto a visitare le mostre. D’altro canto, la mostra segna un momento importante nel rapporto tra istituzione e cittadinanza ed è un tentativo riuscito di raccontare i rapporti intercorsi nei decenni tra gli enti pubblici e i privati, tra musei, istituzioni, mecenati e collezionisti che hanno perseguito una politica di valorizzazione del patrimonio culturale della città, che qui trova un momento di riflessione condivisa.

 

Hans-Peter Feldmann, 9/12 Frontpage, 2001 Installazione, 151 quotidiani 60 x 40 / 64 x 46,5 cm Collezione Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino.


Più audace la selezione proposta dalla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, che celebra il suo venticinquesimo anno di attività e offre un altro spaccato della dimensione collezionistica e del mecenatismo. La continuità tra passato e presente prende la forma di una mostra che apre al conflitto e dalla spiccata dimensione politica. In mostra si alternano grandi nomi del contemporaneo e tra le opere spicca il guizzo inimitabile di Maurizio Cattelan che apre il percorso con Christmas ‘95, opera contenuta nelle dimensioni ma fulminante: si tratta di una stella cometa realizzata con un tubo di neon rosso che riprende il simbolo della stella a cinque punte delle brigate rosse, demistificandola e riducendola alla stregua di una insegna da bar. Da lì il percorso conduce attraverso un percorso non accomodante, nel quale si incontra Ingrowth (2009) di Thomas Hirshorn, un disturbante compendio della violenza che quotidianamente i media offrono in pasto al pubblico, qui chiamato in causa con una assunzione di responsabilità dello sguardo. Anche Hans-Peter Feldmann affronta il tema della relazione tra reale e media con l’installazione 9/12 Frontpage (2001), formata da centocinquanta prime pagine di quotidiani, costruite come una serie. Sono poi presentati il film di Guy Debord In girum imus nocte et consumimur igni (1978), e le opere di Liam Gillick A Game of War Structure (2001) e A Game of War (Terrain, 2016), ispirate da una tavola progettata sempre da Debord nel 1968, ipotesi per un gioco di strategia militare che avrebbe avuto idealmente lo scopo di addestrare gli ipotetici rivoluzionari a combattere e distruggere la società dello spettacolo.

 

La relazione con le immagini e la crisi dello sguardo sono al centro anche delle opere di Marine Hugonnier e del suo docufilm Adriana (2003), che documenta il viaggio in Afghanistan dell’artista, e dell’opera Factory of the Sun di Hito Steyerl, video installazione che narra le vicende lavoratori di un ipotetico presente futuribile il cui compito è quello di trasformare le proprie fatiche in raggi solari, un’opera che ricorda le distopie di Black Mirror e gli anime giapponesi. Lo spirito di Nietzsche aleggia – fu proprio a Torino che si manifestarono le prime crisi mentali e visse, forse, momenti di sapere folle e abissale – e lo spettatore è chiamato a fare i conti con una selezione di opere più oscure e problematiche. Ecco quindi che la riproposizione delle opere delle collezioni assume improvvisamente una valenza più sinistra, evocando sia l’eterno ritorno, asse centrale del pensiero filosofico del genio tedesco, sia la visione di Debord, che inscrive la società contemporanea in un circolo vizioso di produzione e consumo, di cui le immagini sono l’angosciante fantasmagoria.

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In girum imus nocte et consumimur igni
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Monochrome. In bianco e nero

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La pittura monocroma mette a fuoco un particolare soggetto senza la distrazione del colore: questa la tesi di Lelia Packer e Jennifer Sliwka nell'introduzione al catalogo della mostra in corso alla National Gallery di Londra, Monochrome. Painting in Black and White (Yale University Press; la mostra è aperta fino al 18 febbraio del 2018 e viene riproposta, con qualche modifica, dal 22 marzo al 15 luglio 2018 al Museum Kunstpalast di Düsseldorf).

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James Nachtwey. Memoria

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“Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto”, scriveva J.L. Borges. Cosa si delinea sul volto del fotografo James Nachtwey? Una mappa fatta di dolore, un viaggio senza ritorno nei posti peggiori della Terra. È questa la sua memoria, una linea del tempo infinita su cui si collocano conflitti, guerre e morte: una strada di Kabul invasa dalle macerie, il fantasma di una donna avvolta da un burka, i frantumi dell’11 settembre, il cecchino appostato nella stanza di una casa. E molto altro. C’è qualcosa di crudele nella memoria di Nachtwey. Non vi è traccia di riscatto religioso, politico o storico. Solo disincanto. Essa delinea un percorso dove la storia dell’uomo va disgregandosi anziché costruirsi nel suo cammino. La morte, la violenza e la miseria non smettono di esistere. La storia si fa ancora con le mine antiuomo e i machete. Il fotografo può solo attraversare il mondo facendo esperienza della sua precarietà e di quella della condizione umana: chi muore e chi guarda la morte.

 

James Nachtwey, La torre sud del World Trade Center collassa in seguito allo schianto dell’aereo. USA, New York, 2001, © James Nachtwey/Contrasto.

 

Le sue foto non riguardano solo l’alterità, ovvero ciò che appare nell’immagine, bensì l’identità di chi guarda. O meglio, ciò che ci riguarda. Ognuno di noi può identificarsi nella madre che assiste il figlio morente, o l’empatia dura il tempo di uno sguardo? Che sentimenti ci assalgono: tristezza, ammirazione, rabbia? Quanto ci sentiamo innocenti dinnanzi ad esse? È difficile rispondere. Pare che l’intento del fotografo non sia quello di generare vergogna, rifiuto, senso di colpa, e forse nemmeno un invito alla partecipazione. Ma quello di produrre una riflessione sul potere del nostro sguardo in relazione al suo. La distanza è incolmabile, come la distanza tra noi e le tragedie che vediamo cristallizzate nelle fotografie esposte a Palazzo Reale. Facile vedere, difficile reagire.

La documentazione senza compromessi della sofferenza fisica è difficile da sopportare, bisogna essere come il fotografo per non distogliere lo sguardo dai corpi sfregiati, dalle carestie, dalla violenza. Nessuno vorrebbe vedere le cose mostrate da Nachtwey.

 

James Nachtwey, La battaglia per il controllo di Mostar è avvenuta di casa in casa, di stanza in stanza, tra vicini. Una camera da letto è diventata un campo di battaglia. Bosnia-Erzegovina, Mostar, 1993, © James Nachtwey/Contrasto.

 

Cosa vuole dirci una foto in cui si vede una donna afgana che piange la morte del fratello in un cimitero di Kabul, o quella di un bambino con il volto distorto da un urlo rabbioso, abbandonato sulla rete di un letto in un orfanotrofio rumeno? Se è vero che fare una fotografia significa partecipare della mortalità, della vulnerabilità e della mutabilità di un’altra persona, cosa accade in chi guarda? Da cosa siamo coinvolti? Forse dalla distanza che all’improvviso, come uno squarcio, si materializza fra noi e i volti di coloro che stanno per morire o sono già morti. La consapevolezza della nostra impotenza. Non esiste coincidenza tra il nostro sguardo e quello di Nachtwey, l’esperienza è per noi il vuoto, per lui il senso di ciò che fa. “Io sono un testimone”, afferma il fotografo, “la mia testimonianza sono le mie fotografie. Voglio che siano potenti ed eloquenti, oneste e senza censure”. Ed è vero.

 

James Nachtwey, In una delle prime manifestazioni della seconda Intifada palestinese, i dimostranti lanciano pietre e molotov contro i soldati, che sparano munizioni vere e proiettili di gomma, a volte letali. Cisgiordania, Ramallah, 2000, © James Nachtwey/Contrasto.

 

Chi guarda sperimenta il paradosso di poter essere in luoghi inimmaginabili senza esserci per davvero. E tuttavia non potremo mai coincidere con quello che vediamo per un banalissimo motivo: non lo vogliamo. Empatia e compassione sono per pochi. La fotografia ci mostra la forma di questa inadeguatezza. Noi da una parte, loro dall’altra. E nel mezzo solo qualche immagine, piccole porzioni di reale, pochi istanti. Si potrebbe persino dire che le immagini di Nachtwey sono vuoti che mostrano il nostro vuoto. Specchi senza riflesso. È questo che significa stare davanti al dolore degli altri. È questo il dolore che proviamo davvero. Il dolore per la nostra marginalità, la nostra incapacità, la nostra insignificanza. Anche noi siamo morti perché è morto il nostro coraggio. È questo il vero punto in comune tra noi e le foto di Nachtwey.

 

James Nachtwey, Una madre veglia sul figlio. Sudan, Darfur, 2003, © James Nachtwey/Contrasto.

 

Per il resto possiamo solo guardare. L’atto di conoscere è forse l’ultimo baluardo rimasto contro la morte e l’impotenza, qualcosa che si ignora sino ad un attimo prima e poi viene accolto come proprio. Una luce flebile come la bellezza, che emerge, malgrado tutto, dalle immagini del fotografo americano: la compostezza formale, la perfezione geometrica e grafica, i contrasti di luce che ricordano i quadri di Caravaggio. Una forma di consolazione? No. La semplice constatazione che esiste un profondo divario tra la vita e le sue immagini. Forse si tratta semplicemente di un gesto umano, come un abbraccio, la necessità di qualcosa che ecceda il dolore e la sua brutalità.

Non c’è molto da dire sulla vita di James Nachtwey, se non che è innanzitutto un fotoreporter. Nasce a Syracuse nello stato di New York, nel 1948. Studia storia dell’arte e scienze politiche al Darthmouth College alla fine degli anni Sessanta. La sua decisione di diventare fotografo, ha dichiarato, è stata influenzata dalle foto sui diritti civili e contro la guerra, soprattutto le immagini della guerra in Vietnam. Autodidatta in fotografia, nel 1980 si trasferisce a New York e nel 1981 si reca in Irlanda a documentare gli scioperi della fame dell’I.R.A. Nel 1986 entra alla Magnum e quindici anni dopo fonda, insieme ad altri sei colleghi, una nuova cooperativa di fotografi di nome VII.

Ad oggi non ha smesso di fotografare e di testimoniare.

 

James Nachtwey. Memoria, a cura di James Nachtwey e Roberto Koch, Palazzo Reale a Milano (1/12/2017 - 4/3/2018).

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Palazzo Reale, Milano
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Luca Maria Patella: osare

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Il problema con l’opera di Luca Maria Patella, ma anche il segno della sua originalità, è che non si sa bene da che parte prenderla. I commenti da sempre rivelano un imbarazzo che è sicuro segno dell’impossibilità di situarlo all’interno delle categorie usuali – rispetto alle quali, peraltro, lui giustamente rivendica anticipazioni ad ogni piè sospinto – mentre lui, da parte sua, insiste sulla complessità indispensabile per affrontare le questioni in tempi come i nostri e la sua libertà dai giochi del sistema, sia quello dell’arte che quello di ogni potere. Facendo leva sulla sua duplice e triplice formazione, tutta ad alto livello, sia scientifica che artistica che psicanalitica, Patella rivendica anzi un’unicità da questo punto di vista. Ma a chi scavalca le premesse e guarda i risultati, cioè le opere, in fondo non basta come ragione e continua a chiedersi dove stia il loro significato, artistico da un lato, ma anche storico dall’altro.

 

 

Un dato è certo: l’uso delle tecniche, della grafica prima, della fotografia e del video poi, è stato tempestivo e fuori dagli schemi; le sue Terre animate (1966-67) sono una Land art sui generis, così come sui generis è il suo “concettuale” e la sua multimedialità precoce, e da ultimo l’uso della tecnologia del virtuale. La caparbietà con cui coinvolgeva chiunque in discussioni pubbliche su argomenti impegnativi deve aver messo a disagio molti, così come il suo scrupolo nella presentazione della sua opera in maniera sempre totalizzante – nelle mostre e nei cataloghi che sono libri d’artista – deve dare ancora oggi l’impressione di un’insistenza eccessiva o irrisolta, così come il suo costante gioco con le parole, in ogni intervento e non solo in titoli e lavoro letterario. Infine il suo porre domande che mirano al centro stesso del senso dell’arte e della vita deve probabilmente disturbare molti.

 

Ripartiamo allora da qui. La nuova mostra, che dalla Galleria Il Ponte di Firenze è passata alla Galleria Milano di Milano (aperta fino al 15 gennaio 2018), è intitolata nientemeno che Non oso / Oso non essere, titolo che più impegnativo non si può, chiamando in causa l’essere e l’osare – e la negazione e il suo rovesciamento – soprattutto in tempi come questi, in cui osare è diventato tutt’al più un gioco e l’essere, che sia l’identità o l’esistere, è materia quanto mai scottante. Nel rovesciamento della negazione sta tutto il senso rivendicato dall’artista: coscienza e inconscio devono essere compresenti, e per fare questo occorre mettere in gioco tutte le proprie facoltà e al tempo stesso avere il coraggio anche di assumersi il, o di, “non essere”.

 

 

La mostra – come ogni sua del resto – è dunque concepita come un’iniziazione a tale “mysterium”. L’entrata è segnata dal duplice profilo di Federico di Montefeltro, uno a destra e uno a sinistra, uno arancione e uno verde, i colori psichici junghiani dell’intuizione-sentimento e della sensazione, per cui si entra passando nel vuoto che i due profili disegnano, inoltrandosi verso lo sfondo celeste (il pensiero). Lasciamo stare i rimandi storici, qui evidentemente, come sovente in Patella, a Duchamp, ovvero alla sua porta della galleria Gradiva. Il vuoto nel caso di Patella, si noterà, disegna la forma in negativo di un vaso, rovesciamento dei vasi fisiognomici in cui è il vuoto della silhouette del vaso a disegnare un profilo di persona. Questa dei vasi fisiognomici è una delle reinvenzioni significative di Patella e qui, rovesciato, rivela tutto il suo significato iniziatico: dentro e fuori, vuoto e pieno, non sono l’uno senza l’altro; non solo comprendere, ma tenere sempre presente, nella pratica, questo principio significa accedere al compimento di sé.

 

Di vasi fisiognomici se ne troveranno poi diversi in mostra, a partire dai due che stanno accanto all’entrata, a loro volta uno (arancione) e l’altro (verde), e poi dipinti, su profili di vari personaggi.

Altro elemento nuovo della mostra è costituito da due campane, una più grande per le ore e una più piccola per i minuti, suonate da un campanaro vestito davanti di arancione e dietro di verde. Anche le campane, naturalmente, riprendono la forma del vaso, capovolgendola, e introducono il tempo e il suono. Patella procede in questo modo, aggiungendo ad ogni passo un elemento che completa la costellazione – una delle opere è in effetti un dittico che riporta le costellazioni australe e boreale con al centro il profilo di Luca l’uno e di Rosa, la donna-moglie-musa, l’altro –, completa, dicevamo, la costellazione degli elementi moltiplicando e intrecciando i rimandi. È così che è costruita anche la sua opera nel suo complesso ed è questa “complessità” che Patella vuole tenere sempre viva nel suo modo di fare arte. Dentro di essa l’opera singola non è riducibile al suo “significato”, né può essere liquidata come simbolica o illustrativa di un’idea, benché questi aspetti la caratterizzino diversamente da altri artisti. Patella non ama i paragoni, per cui non indugeremo in confronti e differenze, ma davvero non c’è altro artista che faccia altrettanto. Tutto però non si riduce qui: le opere “lavorano” anche per conto loro e a ben vedere ogni singola opera, come è giusto che sia, in realtà contiene e condensa – è il caso di dirlo – l’intera logica dell’opus.

 

 

Così, mentre con opera nuova Patella introduce il rebus del “non osare / osare non” in quattro tondi – è necessario che lo siano, perché in tal modo la negazione ruota, anzi è rotazione –, la mostra riprende la via della figura femminile con due tempietti che riportano ognuno una metà di Venere e sono uniti dalla frase scritta ad arco sulla parete “Le vol entier de Vénus” (dove “vol” sta per “volo” ma anche per “furto”, e unito a “entier” dà “volentieri”) e si chiude con una giovane Beatrice/Rosa distesa nuda alla fine del percorso, in una cameretta tutta rosa (aurorale), appena coperta da un tulle rossastro (la rubedo alchemica) e a sua volta sormontata da una scritta sulla parete che dice, citando dalla Vita Nova di Dante: “Nuda, salvo che involta in un drappo sanguigno leggeramente”. Ha gli occhi chiusi: dorme o è morta? Probabilmente dorme, dico io, e forse la mostra può essere riletta all’indietro come un suo sogno. Patella infatti da qualche tempo riproduce nei suoi cataloghi-libri d’artista dei disegni e racconti di suoi sogni, come anche in questo caso. Sembra così che le mostre stesse, le opere o i temi nascano prendendo spunto da sogni – “in parallelo”, dice Patella. Certo è per rielaborare e integrare quanto l’inconscio detta, ma diventa anche un riverbero che si stende sulla mostra e sulle opere, che assumono allora un aspetto onirico che, a me pare, aggiunge loro un carattere lirico che si tende altrimenti a non considerare. Sarà l’effetto della quantità di testi poetici che Patella negli ultimi anni ha pubblicato, sarà che lui stesso vuole legare anche questo al resto dei suoi interessi e ambiti di intervento: “tout se tient”, è questo il suo motto, la sua ambizione, la sua poetica, ed è pur vero.

 

La mostra è a cura di Alberto Friz e il catalogo-libro, sfogliabile e scaricabile per intero sul sito della Galleria Il Ponte, riporta un suo testo e una lunga intervista all’artista di Ilaria Bernardi.

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Galleria Milano (MI), fino al 15 gennaio 2018
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Doppio sogno

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Palazzo Madama di Torino è uno scrigno che racchiude meraviglie. Il Museo Civico di Arte Antica, creato nel 1861 per volontà della Città di Torino, risale al lontano XIII secolo d.C., quando le cronache ne registrano la presenza come Castello di Torino, sede della corte d’Acaia. Le fondamenta poggiano però su mura di epoca romana e proprio la sua lunghissima storia ha permesso la stratificazione di elementi architettonici e lo sviluppo delle collezioni permanenti all’interno della residenza sabauda, trasformandola in quello che oggi possiamo ammirare come una delle realtà espositive più preziose della città.

In occasione di Artissima 2017 e Contemporary 2017, Elisa Sighicelli è stata chiamata a realizzare un progetto site specific che mettesse in dialogo elementi del museo con le proprie opere, creando un ponte tra passato e presente. È nato così Doppio Sogno, progetto installativo dalla lunga gestazione che si articola negli spazi fastosi delle sale barocche, al primo piano dell’edificio. 

 

Sighicelli opera su un piano estetico-percettivo e, per inserirsi nel discorso che i singoli elementi del museo intrattengono tra loro, sceglie di concentrarsi sulla veranda juvarriana. Si tratta di un salotto del piano nobile che affaccia su piazza Castello e, internamente, sulla doppia rampa dello Scalone d’onore, splendido esempio di riqualificazione barocca, opera dell’architetto messinese Filippo Juvarra che completa l’avancorpo del palazzo nel 1721, lasciando però incompiuto il progetto originale. L’ambiente costruito da Juvarra, grazie ai finestroni che permettono un trionfo di luce, è fastosamente scenografico e ricorda una maestosa galleria. Si tratta senza ombra di dubbio di uno degli esempi più alti di architettura barocca settecentesca e la perfetta fusione tra l’apparato decorativo, la luce e gli spazi ha sedotto Sighicelli, che per un anno si è dedicata alla concezione e allo sviluppo del progetto espositivo.

 

Riflettente trasparente, 2017 fotografia stampata su raso triptych, each photograph 246 x 135 cm.


Procedendo con meticolosa pazienza, l’artista torinese ha fotografato le finestre interne della veranda, scattando durante le diverse ore del giorno, studiando l’incidenza della luce e le rifrazioni sulle vetrate e sugli specchi. Le foto selezionate sono diventate il soggetto dei due trittici su raso e di due opere singole su cartongesso. L’irregolarità dei vetri antichi, simili a una superficie liquida, e i giochi di luce sono riprodotti nelle stampe su tessuto, e l’esperienza visiva dell’osservazione delle finestre si traspone nell’apparente fissità delle fotografie. Si tratta di una operazione che richiama la specificità del Barocco, in cui era uso modellare materiali tradizionali come il marmo attraverso il virtuosismo tecnico, evocando materie dalle caratteristiche tattili come soffici cuscini, veli, corde, carni, così da indurre uno stato di meraviglia nello spettatore. L’attenzione per i tessuti inoltre accompagna da sempre la ricerca di Sighicelli, già artista di Gagosian, Giò Marconi e Carbone di Torino, influenzata dall’Arte Povera e da un certo minimalismo. Nel ciclo Untitled del 2014, ad esempio, cattura dettagli di stoffe colorate per poi installarli in galleria inserendo veri chiodi nelle stampe, in corrispondenza dei punti in cui il panneggio si piega. Il risultato è un’immagine volutamente ingannevole, che elide la staticità della fotografia giocando con i differenti piani della rappresentazione, creando un continuum tra ciò che è oltre l’immagine, ciò che è nell’immagine stessa e ciò che è al di qua del piano di rappresentazione. La bidimensionalità delle opere viene contraddetta dall’illusione ottica e da elementi che oltrepassano il limite naturale della superficie della foto. 

 

Osservando l’evoluzione dei lavori dell’artista nel corso degli anni si coglie una precisa intenzione estetica e una volontà anti-narrativa: nelle opere di Sighicelli non ci sono storie da raccontare, piuttosto un intenso invito a osservare. Di formazione scultorea, l’artista conserva un interesse spiccato per il “display” e la relazione che l’oggetto instaura con lo spazio. Passando dal linguaggio plastico a quello fotografico, mantiene viva l’attenzione per ciò che comporta l’installazione e le dinamiche generate dalla presenza della foto intesa come oggetto, nella sua realtà fenomenica, e non come strumento di narrazione. Intenzione pienamente espressa anche nel progetto site specific voluto per Palazzo Madama, che condensa in sé una serie di temi cari all’artista.

 

Uno, trentasei e sei, 2017 fotografia stampata su raso trittico, immagine a sinistra 225 x 140 cm immagine al centro 225 x 118 cm immagine a destra 225 x 134 cm.


Il primo trittico che accoglie lo spettatore è Riflettente trasparente (2017), che inquadra la finestra interna della Veranda Sud, ripresa in un arco temporale che evidenzia differenti condizioni luminose. La morbidezza del raso crea un suggestivo effetto di liquidità che richiama proprio le caratteristiche di riflettenza delle cornici e la viscosità dei vetri, evocando una dimensione sensoriale e pittorica. Collocata all’interno della Sala Quattro Stagioni, l’effetto mimetico dell’opera è impressionante: ad una prima occhiata, è difficile accorgersi che si tratti di un’opera contemporanea e l’effetto sullo spettatore è piuttosto straniante. Anche Uno, trentasei e sei (2017), trittico collocato nella Camera Madama Reale, prosegue letteralmente il gioco di specchi, stavolta scegliendo di inquadrare porzioni differenti della stessa finestra, pur mantenendo invariata la dimensione dei tre singoli elementi dell’opera. L’attenzione si sposta qui alla relazione tra le porzioni dell’elemento fotografato ma la malìa evocata dalle tre opere rimane invariata. Osservandole si è presi in una vertigine dello sguardo, l’effetto “trompe l’oeil” fa sì che le opere rimangano sospese tra staticità e movimento, in una perenne condizione di indeterminatezza che l’occhio cerca di combattere, come se per propria natura necessitasse di una certezza della forma in cui acquietarsi. L’artista però non sembra interessata ad affermare uno statuto degli enti definitivo: sebbene la sua ricerca si manifesti attraverso un registro estetico, si avverte una inquietudine delle cose che contagia lo spettatore e lo induce ad indagare, cercando delle coordinate per comprendere l’attestazione dei piani di realtà e finzione. Si tratta di un tentativo destinato a fallire, perché malgrado le immagini create da Sighicelli non siano mendaci, tuttavia sono volutamente ambigue e elusive. Anche in Through the Single Glass (2017), nella Piccola Guardaroba, e Gyproc Habito Forte 5979 (2017), collocata nel Gabinetto Cinese, benché il supporto della tela venga sostituito dal cartongesso e la stampa venga ripresa dall’artista che sovradipinge la foto con vernici opalescenti, il gioco di mascheramento prosegue. 

 

Through the single glass, 2017 fotografia stampata su raso 140 x 140 cm.


John Berger scrive “La maschera non era che un trucco per smascherare”. La maschera che ritorna alla mente passeggiando per i saloni barocchi della mostra è naturalmente quella di Eyes Wide Shut, l’ultimo film allucinato (o il sogno lucido?) di Stanley Kubrick. La maschera è ciò che rimane dell’orgia a cui partecipa Fridolin, protagonista del romanzo di Arthur Schnitzler, che diviene Bill nel film che Kubrick trae dalla novella Doppio Sogno, datata 1926. Oggetto che nasconde, viene evocata per disvelare, proprio come accade nel teatro in cui il travestimento dell’attore e l’esercizio della finzione sono propedeutici al raggiungimento della verità. Siamo in un territorio di sogni, nella Vienna di Freud e delle sue incursioni nell’inconscio, e le opere di Sighicelli sembrano rimandarci lì, a quella zona offuscata tra il sonno e la veglia, tra la realtà e la possibilità, giocando a ingannare per svelare qualcosa che avevamo trascurato. Di fronte a ciò che consideriamo come assodato, il dato reale, cosa ci sfugge? Cosa stiamo smarrendo nel momento in cui posiamo il nostro sguardo distrattamente, accontentandoci della visione ammansita, e cosa invece si insinua nella sguardo che scruta e cerca, facendoci vacillare per un attimo, mettendo in discussione le nostre certezze? Come un’ombra che cattura la nostra attenzione nella coda dell’occhio, o una forma familiare che non riconosciamo e ci destabilizza, il fluttuare di queste forme ci interroga. Allusione, invito, ossessione dello sguardo ma anche ironia e una forma sottile di voyeurismo sono tratti che appartengono alla ricerca dell’artista, percorsa da una energia magnetica.

 

Gyproc Habito Forte 5979, 2017
fotografia stampata su cartongesso, pittura opalescente 143 x 95 x 3.

 

Nella sottrazione del racconto si condensa una forza psichica che diventa reale, e che connette tutte le opere in una rete di cui si avverte la vibrazione. Gyproc Habito Forte 5791 (2017), collocato tra due finestre, sembra riprodurne la forme e mutuarne le ombre, ma è un altro tranello, e anticipa l’ultima opera che da il titolo alla mostra, ovvero Doppio Sogno (2017), collocata proprio nella veranda. Giunti alla fine del percorso, osservando l’incandescenza dell’oro antico e le forme acquose del vetro impresse sul tessuto impalpabile, riemerge quel senso di mistero che accompagna lo spettatore lungo tutta l’esperienza della mostra. Si potrebbe tornare indietro, cedere alla tentazione di cogliere un dettaglio che ci era sfuggito, rimanere in contemplazione ancora di fronte alle opere, in attesa di una risposta. Vero è che nella dittatura dello storytelling, è difficile accettare di lasciarsi andare ad una esperienza visiva fondata sull’incertezza. Sembra che Sighicelli, eliminando l’onere del racconto, intraprenda una strada di condensazione e liberazione delle immagini, alla ricerca di una piena espressione visiva, svincolata dalla zavorra della certezza interpretativa. Una messa in discussione del dato oggettivo e un’operazione che mira a decostruire internamente la cartografia del reale, lavorando con il bisturi dello sguardo. Una lezione importante, per noi spettatori abbagliati da immagini che sbandierano una presunta verità, facendo capolino senza requie da l’infinita messe dei personal device e degli schermi digitali.

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Un intervento di Elisa Sighicelli a Palazzo Madama
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Thomas Ruff – Photographs 1979 - 2017

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Sottotitolo: 

Nella sua sinteticità, il titolo Thomas Ruff - Photographs 1979-2017, è indiscutibilmente esaustivo.

Sin da subito, presenta, infatti, tutte le principali coordinate della mostra allestita alla Whitechapel Gallery, cui si affianca una limitata incursione di quattro ritratti della serie Porträts nella National Portrait Gallery di Londra. 

Una personale, o meglio, una retrospettiva dedicata al fotografo tedesco (classe 1958), in cui sono esposti quasi quarant’anni di attività. Una carriera, il cui esordio risale ai primi anni Settanta, quando, a sedici anni, realizzò delle immagini, con l’apparecchio fotografico di un suo amico. Poiché per il giovane Ruff l’unico luogo dove potersi avvicinare al “bello dell’arte” era l’Accademia, trasferirsi dalla sua città natale (Zell am Harmersbach) nella sola città tedesca che, nel 1977, organizzava un corso di fotografia nella rispettiva Kunstakademie, Düsserldorf, fu una scelta inevitabile. La capitale del Land della Renania Settentrionale-Vestfalia, come la grande maggioranza dei centri abitati della Germania, uscì dal secondo conflitto mondiale completamente rasa al suolo. L’immediata ricostruzione la rese un vivace laboratorio di ricerca (nella città fu eretto il primo grattacielo della Germania, e qui si sperimentarono le teorie costruttive della Bahaus) e un attrattivo polo culturale.

 

Interieur 1A (Interior 1A) 1979 C-print 27.5 × 20.5 cm © Thomas Ruff.


Dagli anni Cinquanta, nella Kunstakademie insegnavano i celebri coniugi Bernd (1931-2007) e Hilla Becher (1934-2015), promotori della famosa Scuola di Düsserldorf. La documentazione delle differenti tipologie di architettura, finalizzata alla creazione di un repertorio, di una catalogazione, è al centro della ricerca dei Becher, influenzata dalla tradizione fotografica tedesca, a partire dallo straordinario lavoro Uomini del Ventesimo secolo, di August Sander. Inoltre, è bene ricordare che, nel 1984, a loro fu assegnato il prestigioso Hasselblad Award perché “per più di 40 anni hanno registrato il patrimonio del passato industriale. Le loro foto dell'architettura funzionalista, sistematiche e spesso organizzate in griglie, hanno portato al loro riconoscimento sia come artisti concettuali sia come fotografi. Come fondatori di quella che è stata denominata scuola dei Becher essi hanno durevolmente influito sia sulla fotografia documentaria sia sugli artisti.

 

Porträt (P Stadtbäumer) 1988 C-print 210 × 165 cm © Thomas Ruff.


Attraverso una puntuale e abile traslitterazione dei canoni artistici dei coniugi, Ruff costruisce un personale, precipuo e peculiare linguaggio. Non più esclusivamente circoscritto alle strutture industriali, il fotografo, però, applica alle sue immagini le stesse regole impiegate dai Becher. Seppure “il bianco e nero è più carico di sensi” (Jean Baudrillard), egli abbandona tale prassi e utilizza il colore, esasperandolo in spinte sovraesposizioni o in sottili procedimenti di colorazione o nella rielaborazione digitale. 

Dall’osservazione complessiva delle diciotto serie esposte, affiora immediatamente un importante elemento: il doppio ruolo della fotografia; non solo mero mezzo espressivo/messaggio, ma anche campo di ricerca e riflessione in quanto medium/supporto, aprendo la rispettiva superficie ad una continua indagine. Analisi attraverso la quale supera in modo definitivo la posizione di Marshall McLuhan (per il quale il medium coincide con il messaggio), corrispondendo a quella di Rosalind Krauss (che non sovrappone i due concetti e sottolinea, anzi, la necessità di re-inventare il medium attraverso l’uso che se ne fa). 

 

Nacht 9 II (Night 9 II) 1992 C-print 20 × 21 cm © Thomas Ruff.


Tuttavia, a interessare Ruff, è anche il modo in cui la fotografia rispecchia il ritmo veloce della società, della politica, della tecnologia, della cultura, o quello lento dei fenomeni cosmici. In sintesi, egli non agisce “con la fotografia” bensì “sulla fotografia”, “non prende immagini, ma lavora con loro”; non più mera meccanica traduzione di un medium strutturato in regole e convenzioni (fotografia ottenuta attraverso lo scatto calcolato dell’apparecchio fotografico), bensì un medium utilizzato in qualità di linguaggio da rinnovare, un supporto per incursioni e travalicamenti, per sperimentarne tutte le potenzialità in esso racchiuse. La storia della fotografia diventa, così, un grande archivio, una banca dati, da cui attingere a piene mani, per ripensare le rappresentazioni e ri-attivare un originale rapporto con lo spettatore, anche attraverso “il fascino del comune” (Andrew M. Goldstein).

 

Maschine 1390 (Machine 1390) 2003 C-print 112 × 147 cm © Thomas Ruff.


Apre il percorso espositivo L'Empereur (1982), rari autoritratti realizzati durante il suo soggiorno a Parigi, quando gli fu assegnata la borsa di studio alla Cité Internationale des Arts. Nel modo di Bruce Nauman, nel suo Walking in an Exaggerated Manner Around the Perimeter of a Square (1967), o in Wall-Floor Positions (1968), anche Ruff, nel suo piccolo studio, costruisce delle eccentriche situazioni con pose strampalate, nel tentativo di impossessarsi dello spazio e di confondersi in esso, adeguandosi agli scarsi oggetti (due poltrone e una lampada) presenti nella stanza. 

A fare la parte del leone è senza alcun dubbio la serie Porträts, sulla quale ha lavorato per cinque anni (1986-1991). È in questi ritratti di amici e studenti, realizzati in studio, che si palesano le nozioni dei Becher. Mettendo in campo il sistema della foto-ritratto dei documenti di identità o le foto segnaletiche della polizia degli anni Novanta, ne sovverte la logica attraverso la scala monumentale (210x165cm): dimensioni rivoluzionarie, che conferiscono alla fotografia l’entità di “oggetto” occupante uno spazio, alla stessa stregua di una scultura o di un dipinto (bisogna infatti ricordare che nel 1995 il Nostro condivise il Padiglione Germania alla Biennale di Venezia, con gli scultori Katharina Fritsch e Martin Honert). Nonostante la scala sia prossima a quella dei cartelloni pubblicitari, egli elimina qualsiasi voluttà, seduzione, persuasione e emozione.

 

phg.07_II 2014 C-print 240 × 185 cm © Thomas Ruff.


La ripresa asettica, oggettiva, distaccata, del realismo documentaristico, della fotografia concettuale dei Becher delle loro “sculture anonime” (non si dimentichi che i coniugi nel 1990 vinsero il premio della scultura alla Biennale di Venezia), è applicata a questi volti: come le strutture industriali, trattate alla stessa stregua di veri e propri ritratti, viste nella totalità della serie, acquisiscono un certo valore estetico e attirano l’attenzione sulle singole diversità formali, altrettanto pregio conquista Porträts. Anche qui, i soggetti sono posti al centro dell’inquadratura ortogonale all’asse della fotocamera, completamente isolati dal contesto circostante, e il fondale neutro (qui il bianco dei pannelli dello studio, lì la tonalità grigia del cielo ripreso in b/n) concorre a restituire una dimensione atemporale e a consegnare maggiore corporeità e spazialità al soggetto ripreso, che altrimenti apparirebbe banale e anonimo, destinato all’oblio, conferendo così quella “specie di immortalità” (McLuhan) che la “selettività” (Abbott) della fotografia riesce ad assegnare. Dalle serie successive, Ruff forza maggiormente il concetto di fotografia. Già nella serie Sterne (1989-1992), ma anche in Nächt (1992-96), andere Porträts (1994-95, con i quali partecipa alla Biennale di Venezia sopra citata), ma.r.s. (2011-13), solo per citarne alcune di quelle esposte, si attesta la sua pratica di reinventare il medium, spaziando in numerosi e differenti campi, dal ritratto, al paesaggio, agli interni, all’architettura.

 

Consapevole che gli apparecchi fotografici in suo possesso non sarebbero mai stati in grado, per quanto sofisticati, di effettuare delle riprese perfette delle stelle, in Sterneè intervenuto sulle lastre fotografiche scattate da un telescopio ad alte prestazioni dell'European Southern Observatory, situato nel deserto di Atacama in Chile: in queste lastre seleziona particolari aree del cielo dove il punto focale dell'oscurità e della luce crea una composizione monocromatica. Molte delle stelle di queste immagini sono in realtà estinte, e ogni fotografia trasforma innumerevoli realtà temporanee in un solo momento.

 

 

Quindi l’utilizzo di immagini realizzate da altri, o riprese dal web, su cui interviene con differenti modalità, riconsegnando loro significati nuovi, creando una realtà altra, con le quali abbandona in maniera definitiva il concetto di autorialità. Come in m.n.o.p. (2013), presentato per la prima volta proprio alla Whitecapel Gallery, che si riallaccia al suo esordio con Interieurs (1979): una serie di fotografie in bianco e nero, acquisite da Ruff alle aste di Parigi e Berlino, delle sale allestite in occasione dell’esposizione inaugurale del Museum of Non-Objective Painting di New York, voluto da Solomon R. Guggenheim nel 1939, che lui ha digitalizzato, aggiungendo colori saturi ad alcuni accessori decorativi, evocando le tinte degli anni Cinquanta, elevando il soffitto, creando così una documentazione astratta e reinventata. Immagini che identificano un nuovo genere individuato dallo stesso Ruff denominata “installation shot”: le immagini degli allestimenti sono un nuovo tipo di immagine storica. Il suo procedere in parallelo con la tecnologia e gli avvenimenti circostanti è pienamente attestato dalla serie Nächte (1992-96): immagini realizzate con la strumentazione utilizzata durante la Prima Guerra del Golfo.

 

Lenti infrarosse montate sulla sua telecamera con le quali ha fissato dettagli della sua città, conferendole una certa atmosfera estraniante e inquietante. Sono altresì esposte le serie che lo hanno reso famoso e riconoscibile, quali nudes (1999-2012) e jpeg (2004-08), entrambe realizzare con le immagini scaricate negli anni in cui il web faceva il suo ingresso nella comunicazione. La prima composta con le immagini pornografiche selezionate in base ai colori e all’illuminazione, delle quali ha mantenuto la scarsa qualità della bassa risoluzione, aggiungendo soltanto una maggiore sfumatura. La seconda con le immagini scattate con i cellulari il giorno dell’attacco alle Torri Gemelle, ingrandendole e enfatizzando i pixel. Chiudono il percorso le serie press++ (2016 -) e negative (2014 -), quest’ultima ulteriore affermazione dell’ampio spettro di indagine di Ruff. Qui egli eleva a oggetto di osservazione e contemplazione, ciò che nell’era analogica era considerato solo strumentale al risultato. Sovvertendo il processo, egli ricava il negativo da stampe: ha scansionato delle fotografie ottocentesche e digitalmente ha invertito i toni, così che la patina “seppia” si trasformasse in bianchi e “blu”, peculiari dei negativi (e nello spazio Studio, è possibile vedere in modo dettagliato il processo da lui attuato). Lavori che nel loro insieme, indirettamente e senza l’intenzionalità dell’artista, mostrano e, soprattutto, raccontano la storia nonché lo sviluppo tecnologico degli ultimi decenni. 

 

Thomas Ruff – Photographs 1979 - 2017

fino al 21 gennaio 2018

Whitechapel e National Portrait Gallery, Londra.

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Van Gogh: il mio Giappone

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Van Gogh: passeggiate giapponesi

Mariella Guzzoni

 

“Sono in Giappone qui”

Vincent, lettera alla sorella Willemien, Arles, 14 settembre 1888

 

Ogni mostra o catalogo sui maestri giapponesi del Mondo Fluttuante accenna a Vincent van Gogh come a uno degli artisti che, più di altri, ha subito il fascino delle prime immagini ukiyo-e giunte nelle mani del mercato dell’arte parigino nella seconda metà dell’Ottocento. Come Van Gogh guardò al ‘suo’ Giappone?

Dalle prime famose tele riprese da Hiroshige, da Père Tanguy alle Scarpe, dagli autoritratti parigini all’autoritratto da giapponese di Arles, le opere che parlano di Giappone sono molte. Una passeggiata dietro alle quinte di questi quadri ci porta nella mostra Van Gogh: il mio Giappone, aperta alla Biblioteca Sormani di Milano (fino al 25 novembre) a scoprire alcune sorprese: le ispirazioni letterarie, il contesto editoriale, le illustrazioni, le copertine magnetiche di Le Japon Illustré, con le opere che Van Gogh appendeva nel suo studio del Sud. Tra le stampe dei maestri giapponesi dell’ukiyo-e amati da Vincent, spiccano i tre album di Hokusai delle Cento vedute del Fuji, con la versione nei toni di grigio della grande onda; gli attori e le cortigiane di Kunisada e di Eisen, i paesaggi di Hiroshige. Il percorso di snoda nei vari periodi della vita del genio olandese, e mostra come Van Gogh assorbì la poetica giapponese restituendola in uno stile sempre più personale, in profonda sintonia con se stesso e con la grandezza della natura.

 

Da Anversa a Parigi

Vincent van Gogh era un collezionista, aveva più di 400 stampe giapponesi. La sua collezione inizia festosamente ad Anversa nel novembre del 1885: “il mio studio non è male, soprattutto perché ho appuntato alle pareti una serie di stampe giapponesi che mi divertono molto. Sai, quelle piccole figure femminili nei giardini o sulla spiaggia, cavalieri, fiori, rami nodosi”. Ha appena lasciato l’Olanda e la tavolozza contadina, ora un mondo nuovo è sotto i suoi occhi: “Bene, questi porti sono un’enorme Japonaiserie, fantastica, singolare, strana”, scrive a Theo a fine novembre. 

Lettore vorace e multilingue, quando raggiunge il fratello a Parigi nel febbraio 1886, ha già letto tutto del romanzo francese moderno e conosce l’atmosfera giapponesizzante di molti di essi, in particolare quelli dei fratelli Edmond e Jules de Goncourt. Nei romanzi dell’epoca in mostra, come Chérie, Manette Salomon, En 18... si scoprono le righe che raccontano i salotti parigini, ‘tutti pazzi’ per il Giappone. Vincent ammirava molto i fratelli Goncourt, come leggiamo nelle sue lettere. 

 

 

Dei due anni che Van Gogh trascorre a Parigi sappiamo ben poco, ma le pagine di alcuni tra i più importanti libri illustrati sul Giappone come Promenades Japonaises di Émile Guimet illustrato da Félix Régamey (presentato all’Exposition Universelle del 1878), e L’art Japonais di Louis Gonse (Parigi, 1883), rivelano le contaminazioni visive e le intersezioni tra gli artisti occidentali e il mondo orientale. Dai magnifici acquerelli e schizzi dal vivo di Régamey, diario etnografico del suo lungo viaggio in Giappone a fianco del collezionista Guimet, alle curiose illustrazioni d’invenzione degli artisti francesi che il Giappone non l’avevano mai visto, alle illustrazioni più fedeli all’originale nell’autorevole volume di Louis Gonse, interessanti d’après che portano doppia firma (oriente-occidente), il panorama editoriale dell’epoca è ricchissimo e tutto da scoprire.  

 

 

Nel Maggio 1886 esce un numero speciale di Paris Illustré curato da Sigfried Bing, con la famosa copertina della cortigiana di Kesai Eisen (ripresa da Van Gogh) e con un lungo testo di Hayashi Tadamasa: per la prima volta è un giapponese a parlare del suo paese.  

Tutto questo affascinò Van Gogh forse ancor più della lezione impressionista. Tra febbraio e marzo 1887 egli organizza una mostra della sua collezione di stampe ukiyo-e, una vera anteprima parigina, a LeTamburin, il ristorante amato dagli artisti, e gestito da Agostina Segatori, sua amica e modella, di cui abbiamo due tele giapponesizzanti. Come anni prima con le copie da Millet, inizia allo stesso modo il suo apprendistato orientale con due famosi d’après da Hiroshige, ma si diverte a sperimentare anche la scrittura giapponese: pennella ideogrammi e firme in guisa di cornice per il suo Susino fiorito e per il Ponte sotto la pioggia

             

L’enigma delle Scarpe

È in questo contesto visivo di confini porosi e desideri sperimentali che si inscrive ‘un enigma’ nascosto in una delle opere più famose di Van Gogh. Si tratta di un piccolo dettaglio (in basso a destra) in una delle cinque versioni delle Scarpe parigine che non è mai stato notato né studiato prima. La frontalità delle Scarpe preferite da Martin Heiddeger cattura lo spettatore, e quel dettaglio sfugge… Cosa succede di tanto enigmatico? Van Gogh trasforma il grosso laccio della scarpa sinistra in qualcosa d’altro: un rametto o radice rotondeggiante. Una scrittura orientale… Sembrerebbe di sì. La metamorfosi è impressionante.  Abbiamo un laccio che non è più un laccio e che non potrà più essere allacciato.

 

Utagawa Hiroshige, Stazione 40, Chiriu; Utagawa Hiroshige, Stazione 30, Hamamatsu (1855)

 

Non si tratta dei rami o delle radici contorte e nodose che Vincent aveva disegnato fin qui, come le Radici in un terreno sabbioso dell’Aia, siamo di fronte a qualcosa di diverso. Una piccola radice che si anima come un albero giapponese… Vincent aveva molte opere di Hiroshige – tra cui molte delle Cinquantatré Stazioni della Tokaido, di cui possedeva la “tate-e Edition”, la cosiddetta Tokaido “verticale”. Tutti paesaggi straordinari, dove uomo e natura si compenetrano in un equilibrio di forze perfetto. Molti sono gli alberi che paiono animarsi, contorcersi, spezzarsi. Radici nude che paiono danzare. 

 

A sinistra, Vincent van Gogh, Scarpe (1886), Amsterdam, Van Gogh Museum.


Accanto alle Scarpe, alla luce della lente d’ingrandimento, c’è una radice rotonda legata a un gesto, un gesto del corpo e della mente. Non appoggia da nessuna parte. È lì sulla tela che le fa da supporto come se la tela, d’improvviso, fosse un foglio da scrivere. Il risultato che ne deriva all’occhio dello spettatore è di un gesto rasserenante, un gesto poetico. Non c’è forza, non c’è dramma in quella forma. Un rapido colpo di pennello, l’essenza di un attimo: qualcosa che ben si accompagna allo sguardo dell’Autoritratto con stampa giapponese che Van Gogh dipinge poco prima di lasciare Parigi. I suoi occhi sono per la prima volta a mandorla, la Provenza è annunciata, un sogno orientale. 

 

Vincent van Gogh, Autoritratto con stampa giapponese (1887), Basilea, Kunstmuseum; Keisai Eisen, Donna in piedi (1820-30)


In Provenza

A fine febbraio 1888 è ad Arles, in cerca di un sole più vivo, di una luce più forte. “Sono in Giappone qui”. Progetta dei piccoli album da 6 o 10 o 12 vedute, “come gli album dei disegni originali giapponesi”. Legge Madame Chrysanthème di Pierre Loti che cattura la sua fantasia anche per le bellissime illustrazioni, “l’hai letto?” scrive al fratello, “mi ha dato da pensare questo, che i veri giapponesi non hanno niente sui muri”. La semplicità dei giapponesi.

Intanto a Parigi Sigfried Bing inaugura nel Maggio 1888 Le Japon Artistique con le sue copertine iconiche; la nuova rivista mensile è ricca di lunghi articoli che raccontano vita costumi e artigianato giapponese. Le illustrazioni a colori di molte stampe e manga sono ora fedeli agli originali, tavole fuori testo realizzate in fotoincisione da Gillot. A Vincent non sfugge nulla: “Tra le riproduzioni di Bing trovo splendidi il disegno del filo d’erba, i garofani, e l’Hokusai”, scrive al fratello da Arles.

 

Anonimo, Studio di erbe; Bumpo, Garofani; Hokusai, Granchi, Personaggi sotto la pioggia, in Le Japon Artistique, Maggio e Giugno 1888.


Hokusai occupa un posto d’onore per Van Gogh. Lo paragona a Delacroix, e alla Barca di Cristo tra le onde che aveva visto con Theo ai Champs Élysées. La forza del colore di quella piccola tela aveva colpito il critico Paul Manz: “non sapevo che si potesse arrivare ad essere così terribili con del blu e del verde”, aveva scritto nel suo articolo.  

Beh, prosegue Van Gogh, “Hokousai ti fa lanciare lo stesso urlo – ma lui con le linee, con il disegno: quelle onde sono degli artigli, la barca è presa là dentro, lo si sente”, scrive a Theo l’8 settembre 1888.   

 

Eugène Delacroix, Cristo addormentato durante la tempesta (ca. 1853), New York, Metropolitan Museum; Katsushika Hokusai, La [grande] onda presso la costa di Taganawa (ca. 1830-32).


Dalla Provenza chiede al fratello di acquistare altri Hokusai da Bing, le “300 vedute della montagna sacra e le scene di genere”. In realtà Hokusai, dopo il successo della prima serie delle 36 vedute a colori, si mise a viaggiare e realizzò le famose Cento vedute del monte Fuji raccolte in tre album, considerate il suo capolavoro, di raffinata invenzione. Nel secondo possiamo ammirare la versione nei toni di grigio del Fuji sul mare con in primo piano una versione avvolgente della grande onda, insieme ad altre immagini di onde e di flutti che furono nelle mani di Vincent e ispirarono il suo pensiero, i suoi sfondi, la sua voglia di arrivare a disegnare  veloce come un lampo. “Il giapponese disegna veloce, molto veloce, come un lampo, e questo perché i suoi nervi sono più fini, il suo sentimento più semplice”. 

 

Katsushika Hokusai, Il Fuji sul mare; Il Fuji del drago ascendente (ca. 1834-1835), da: Le cento vedute del monte Fuji.


E così come Hokusai era per Van Gogh “uno dei più grandi maestri di schizzi dal vivo”, insuperabile per velocità e sintesi, Utagawa Kunisada (anche se nelle lettere non ne cita mai il nome), doveva essere tra i preferiti, per i suoi ritratti così immediati e dirompenti. Attori, cortigiane, guerrieri, nella sua collezione ve ne sono a centinaia, insieme a tanti lavori di altri artisti tra i quali Utagawa Kuniyoshi, Toyohara Kunichika, Keisai Eisen, oltre a molti trittici della vita nelle case, dei mestieri, delle stagioni, e poi fiori, insetti, uccelli e piccoli album. 

 

Utagawa Kunisada, Attore kabuki, Immagini nello specchio (1860); Utagawa Kuniyoshi, La Principessa Izutsu (ca. 1842).


La Provenza, con la sua natura incontaminata, il sole più forte, era per Van Gogh il ‘suo’ Giappone. “Vorrei che tu passassi qui qualche tempo”, scrive a Teo nel giugno 1888, “dopo un poco ti accorgeresti che la vista cambia, si vede con un occhio più giapponese, si sente il colore in un altro modo”. La Casa Gialla di Arles è un sogno orientale, ma anche il suo progetto culturale, un luogo dove i pittori avrebbero potuto vivere come fa l’artista giapponese, immerso nella natura a studiare “un solo filo d’erba”.  Un pezzetto di mondo “senza intrighi” lontano da Parigi, questo voleva Van Gogh, una comunità di pittori, semplice, essenziale: “a quanto pare sembra che anche i giapponesi guadagnino ben poco denaro e vivano come semplici operai”, scrive all’amico Bernard.

 

Operaio dell’arte sin dal 1882, ai tempi dell’Aia, Van Gogh sapeva immergersi nei boschi olandesi al punto di prendere “annotazioni stenografiche” e trascrivere sulla tela quello che la natura gli “aveva detto”. Era dunque naturalmente predisposto, più di altri, all’incontro con la poetica dei maestri del paesaggio, come Hiroshige e Hokusai, dove il mondo della natura, nei suoi diversi elementi, risponde a un’unica forza universale, a una concezione unitaria dell’essere. Uomo e natura, natura e uomo in fondo era questa, anche per Van Gogh, una lotta costante, una ricerca senza sosta: “cerco sempre la stessa cosa, un paesaggio un ritratto, un ritratto e un paesaggio […] l’arte è l’uomo aggiunto alla natura,” scrive da Arles alla sorella Willemien.  È difficile immaginare, oggi, l’impatto delle stampe giapponesi nella Parigi di Van Gogh, in un momento in cui la tradizione occidentale dirigeva lo sguardo dello spettatore verso un punto di fuga, gli assegnava un posto, mentre la pittura giapponese arrivava a rifiutare un punto di vista fisso, lasciando allo spettatore la libertà di muoversi nell’immagine. 

 

Una rivoluzione, dunque, non solo o tanto per i colori piatti, la costruzione dell’immagine, l’inquadratura, i pesi, ma una nuova finestra sul mondo, che Van Gogh accoglie in pieno e trasforma nel suo linguaggio. Lo scrive al fratello con la sua solita semplicità, ecco “quei due disegni della Crau e della riva del Rodano che non hanno l’aria giapponese e forse in realtà lo sono più di tanti altri”. All’amico Bernard racconta di più delle colline di Montmajour, dove torna in continuazione per respirare le sensazioni di quel paesaggio piatto sotto di lui. “Ho fatto due disegni di questo – questo paesaggio piatto dove non c’era nient’altro che .   .   .   .   .   .   .   .   .   .  l’infinito .   .   .  l’eternità”. 

Sospende il tempo all’amico che legge lasciando grandi spazi tra i puntini sulla lettera, tutta una riga di soli puntini e lì, in mezzo, l’infinito. Questo è il senso profondo del suo Giappone, e forse l’aspetto più autentico della civiltà giapponese: entrare nei ritmi del cosmo, e della sua forza spirituale.

 

Vincent van Gogh, La Crau vista da Montmajour (1888); Il Rodano visto da Montmajour (1888), Amsterdam, Van Gogh Museum.


Le vedute quasi aeree, gli orizzonti alti e senza cielo, i disegni a inchiostro, le onde, gli sfondi o i cieli eseguiti a cannuccia con la velocità dei giapponesi, e in uno stile sempre più personale, sono ormai una vera ‘scrittura’, la sua, sicura e inconfondibile. 

La trasformazione è anche sul suo volto: nel settembre 1888 Van Gogh dipinge il ritratto di sé più stupefacente della sua vita, da monaco giapponese, “semplice adoratore del Buddha eterno”. È così che compie la sua rivoluzione nel ritratto moderno.

“Il tempo qui è ancora bello, e se fosse sempre così sarebbe meglio del paradiso dei pittori, sarebbe Giappone in pieno”. È il 29 settembre 1888.

 

 

Il Giappone di Van Gogh

Rocco Ronchi

 

Per il filosofo è quasi inevitabile confrontarsi con le Scarpe di Van Gogh. Almeno da quando il “filosofo” per eccellenza del Novecento, Martin Heidegger, le ha elette a esemplificazione dell’essenza dell'arte, dando origine ad un dibattitto che dura ancora oggi. Nella versione delle scarpe prediletta da Heidegger, Mariella Guzzoni ha rilevato però la presenza di un dettaglio finora mai notato e studiato, probabilmente perché, come scrive, “la frontalità delle Scarpe cattura lo spettatore, e quel dettaglio sfugge...”. In forma apparente di laccio, in basso a destra, c'è una specie di radicella tondeggiante: è un laccio che non potrà allacciare nessuna scarpa, forse, aggiunge Guzzoni, non rappresenta nemmeno qualcosa, ma è l'importazione sulla tela di una scrittura giapponese...

 

La scoperta di Mariella Guzzoni non è priva di conseguenze. Infatti, scombina le carte non solo della lettura heideggeriana, ma, più in generale, della lettura che la “linea maggiore” del pensiero novecentesco ha fatto dell'opera d'arte. Che siano d'accordo o meno sull'interpretazione heideggeriana delle Scarpe, i filosofi nel Novecento hanno condiviso un paradigma, dividendosi poi sulla sua applicazione: l'opera è una autentica opera d'arte se ciò che mette in opera è la Verità. Anche il post-modernismo, con la sua apologia dei simulacri, non fa eccezione: la “potenza del falso” non è altro che il rovescio speculare della Verità che ogni autentica opera mette in opera. Il patto stretto tra arte e Verità è indissolubile anche quando l'arte professa ironicamente la menzogna o la parodia del vero.

 

Vincent van Gogh, Scarpe (1886), Amsterdam, Van Gogh Museum

 

Scrivo Verità con la maiuscola a capolettera, perché la Verità in questione non è il semplice essere vero di una proposizione o di una immagine (la proposizione funziona infatti come immagine di qualcosa) che si misura dalla sua adeguazione o meno all'oggetto raffigurato. La filosofia novecentesca ha mostrato una sorta di aristocratica ripulsa per questa “volgare” concezione del vero come “corrispondenza”. Da almeno due secoli, niente è meno accetto nei salotti buoni dell’estetica e della teoria dell'arte quanto l'ingenuo naturalismo mimetico. La Verità messa in opera dall'opera d'arte è piuttosto la condizione di possibilità di ogni derivato essere-vero nel senso della corrispondenza. Heidegger è chiarissimo in proposito: le Scarpe di Van Gogh non sono un paio di scarpe. Non sono né un paio di scarpe (un particolare) né il paio di scarpe, vale a dire l'idea o l'essenza delle scarpe (un universale). Quelle scarpe sono piuttosto il “che c'è” delle scarpe e del contadino che le ha portate, come lo sono del mondo fatto di sudore e di fatale rassegnazione alla fatica che il contadino ha abitato e di cui la loro usura è testimonianza. Le scarpe sono l'evento (singolare) di un mondo, il suo “storicizzarsi”, il suo “accadere”. Le scarpe di Van Gogh sono il presentarsi del Senso nel quale ogni esistenza storica è “gettata”.

 

I filosofi hanno la fortuna di disporre di una stenografia concettuale che permette loro di sintetizzare efficacemente questioni straordinariamente complesse. Possono infatti scrivere che le scarpe di Van Gogh non sono un “ente” o la raffigurazione di un “ente” (particolare) o l'idea di un “ente” (universale); le scarpe di Van Gogh sono piuttosto l’“essere” dell’“ente” (singolare). Dell'ente determinato, le scarpe, appunto, mostrano il suo “che c'è”, il suo “darsi”, il suo “apparire”. Nell'opera d'arte è, dunque, messa in opera una Verità, che non è nient'altro che l'essere dell'ente. Questo è da intendersi nel suo senso più immediato: sulla tela di Van Gogh “ci sono” delle scarpe. Ora, tutta l'intelligenza del filosofo consiste nello spostare l'attenzione dalle scarpe raffigurate al loro “esserci” singolare. Ecco la Verità con la maiuscola a capolettera che, secondo il paradigma heideggeriano, è messa in opera dall'opera d'arte!

 

Ma sulla tela di Van Gogh, nota Guzzoni, c'è anche quel “rametto tondeggiante”, che scombina tutto... Esso funziona come dettaglio. I dettagli non sono particolari. Ingrandito da una lente, il “particolare” si rivela omogeneo al tutto che lo contiene, mirabile esempio dell’unità di intenti che governa un'opera riuscita (o un uomo ben vestito, il quale resta elegante perfino nei particolari impercettibili). Il dettaglio, invece, rivela qualcosa di eterogeneo che, per quanto sia parte empirica del tutto, è in eccesso rispetto all'insieme che lo contiene. Esso mina dall'interno la rappresentazione, come lo farebbe una piccolissima macchia d'unto nei pantaloni dell'uomo elegante. La radicella nelle scarpe di Van Gogh è un siffatto dettaglio. Essa porta fuori. Ma dove porta? Geograficamente e culturalmente porta in Giappone, speculativamente porta fuori dall'essere dell'ente, fuori dalla Verità come Evento e come Storia.

 

Vincent van Gogh, Scarpe (1886), e dettaglio, Amsterdam, Van Gogh Museum

 

In realtà le due direzioni sono la stessa direzione: il Giappone di Van Gogh è la messa in questione dell'ontologia dell'opera d'arte. Quella radicella restituisce la tela di Van Gogh alla bidimensionalità della superficie sottraendola alle profondità ontologiche della storia alla quale era invece ricondotta dall'interpretazione filosofica. La radicella è un segno dalla natura sfuggente. È una scrittura giapponese, suggerisce Mariella Guzzoni. Ora, in una cultura alfabetizzata scrivere e dipingere sono attività differenti: la lettera scritta è la riproduzione della voce che parla e la pittura è raffigurazione del mondo muto là fuori. Ma che ne è di questa differenza di natura, dove, come in Giappone, la raffigurazione è parte integrante della scrittura? La differenza di natura diventa differenza di grado e implica il riferimento a un genere comune che comprende entrambe non essendo né ciò che noi chiamiamo scrittura né ciò che noi chiamiamo pittura, disegno ecc. Scrivere e dipingere sfumano l'uno nell'altro, come ben sanno i traduttori dei poeti orientali, che fanno sempre precedere alle loro traduzioni una raccomandazione. Bisogna tener presente, avvertono, che la scrittura in oriente non si cancella davanti al significato che veicola o alla musicalità che esprime. La scrittura nella sua qualità figurativa è parte integrante del testo. La stessa cosa è ripetuta poi in qualsiasi presentazione dell'opera “pittorica” di un maestro giapponese, la quale, come è noto, lascia largo spazio alla scrittura. Non c'è qui un testo di commento alla raffigurazione, come saremmo portati a credere, ma vi è continuità senza soluzione tra quanto noi, alfabetizzati, chiameremmo testo e quanto chiameremmo figura o disegno. Dove insomma il nostro occhio alfabetizzato scorge una combinazione di elementi eterogenei, c'è la semplicità di un terzo che li contiene entrambi (fatto che spiega il primato in Giappone della calligrafia tra le arti).

           

E qual è questo elemento che li tiene insieme? Il genere comune è ciò che lo psicoanalista Jacques Lacan, di ritorno nel 1971 da un viaggio in Giappone, ha chiamato la “lettera”. La lettera non è evidentemente ciò che si intende comunemente, il carattere alfabetico. La lettera è piuttosto il tratto del pennello che scivola su di una superficie con maggiore o minore intensità. È l'atto generatore della figura: figura che non è né l'espressione di un voler dire né la raffigurazione di un mondo esteriore, ma, per quanto la cosa possa apparirci strana, è un essere vivente. Questo tratto non è nulla e, al tempo stesso, è il tutto, o, meglio, è ciò che dà vita al tutto. Hokusai nel suo “Testamento” del 1834 doveva avere di mira la potenza generatrice della lettera quando scriveva beffardo: “A settantatré anni ho un po' intuito l'essenza della struttura di animali e uccelli, insetti e pesci, della vita di erbe e piante e perciò a ottantasei progredirò oltre; a novanta ne avrò approfondito ancora più il senso recondito e a cent'anni avrò forse veramente raggiunto la dimensione del divino e del meraviglioso. Quando ne avrò centodieci, anche solo un punto o una linea saranno dotati di vita propria”.

 

Le Scarpe di Van Gogh sono per Heidegger il luogo dell'incidenza della Verità. Di quale verità poi si trattasse (verità questa volta con la minuscola a capolettera), se fossero cioè le scarpe del contadino radicato nella Terra o l'autoritratto dell'artista deraciné che vaga in un mondo divenuto estraneo (l'ipotesi di Meyer Schapiro), di questo si poteva poi discutere infinitamente e, di fatto, si è discusso. Restava incrollabile la fiducia che l'opera d'arte dovesse mettere comunque in comunicazione con una Verità che è l'archistruttura di tutte le verità particolari. È la Verità che si presenta alla prima persona, nella sua singolarità, e che dice: io sono la Verità più vera di ogni verità semplicemente proposizionale (la verità homoiosis, la verità adaeguatio), perché della verità sono il fondamento di possibilità. Del significato, di ogni significato storicamente determinato, io sono l'Origine. Ma se ha ragione Mariella Guzzoni, non è più la Verità a “storicizzarsi” nell'opera. A nessun grande pittore giapponese sarebbe del resto mai venuta in mente un'idea del genere. Ed è, forse, venuto il tempo che anche le Scarpe di Van Gogh siano liberate dall'obbligo di funzionare come significanti del Vero, della Storia, del Mondo (e, in ultima analisi, dell'Uomo e dei suoi drammi) e siano restituite alla loro dimensione “letterale”. Si sarebbe così più fedeli a Van Gogh che nel Giappone sognava la natura e soltanto la natura.

 

Per saperne di più

 

La collezione delle stampe giapponesi del Van Gogh Museum (che comprende anche quella di Vincent e Theo) è consultabile online. Si veda inoltre Japanese prints. Catalogue of the Van Gogh’s Musuem Collection, a cura di Keiko van Bremen, Willem van Gulik, Tsukasa Kodera e Charlotte van Rappard-Boon (Van Gogh Museum, Waanders, 2006); Louis Van Tilborg Van Gogh and Japan (Van Gogh Museum, 2006); Hokusai, il vecchio pazzo per la pittura, a cura di Gian Carlo Calza (Electa, 2010); Ukiyoe. Il mondo fluttuante, a cura di Gian Carlo Calza (Electa, 2004). Il volume Le scarpe di Van Gogh, a cura di Elio Grazioli e Riccardo Panattoni (Riga 34, Marcos y Marcos, 2013) ripercorre e ricostruisce il dibattito filosofico inaugurato da Martin Heidegger intorno al dipinto Le scarpe (sopra illustrato). Si veda anche Massimo Recalcati, Melanconia e creazione in Vincent van Gogh (Bollati Boringheri, 2014). Si segnala inoltre che al Metropolitan Art Museum di Tokyo è in corso la mostra Van Gogh & Japan (24 ottobre 2017 - 8 gennaio 2018) che si sposterà a Kyoto, al National Museum of Modern Art per riaprire i battenti ad Amsterdam al Van Gogh Museum, dove è in programma a partire dal dal 23 marzo fino al 24 giugno 2018.

 

Van Gogh: il mio Giappone, Biblioteca Sormani, Milano, dal 7 al 25 novembre 2017.

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Thomas Ruff. Photographs 1979 - 2017

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Nella sua sinteticità, il titolo Thomas Ruff - Photographs 1979-2017, è indiscutibilmente esaustivo.

Sin da subito, presenta, infatti, tutte le principali coordinate della mostra allestita alla Whitechapel Gallery, cui si affianca una limitata incursione di quattro ritratti della serie Porträts nella National Portrait Gallery di Londra. 

Una personale, o meglio, una retrospettiva dedicata al fotografo tedesco (classe 1958), in cui sono esposti quasi quarant’anni di attività. Una carriera, il cui esordio risale ai primi anni Settanta, quando, a sedici anni, realizzò delle immagini, con l’apparecchio fotografico di un suo amico. Poiché per il giovane Ruff l’unico luogo dove potersi avvicinare al “bello dell’arte” era l’Accademia, trasferirsi dalla sua città natale (Zell am Harmersbach) nella sola città tedesca che, nel 1977, organizzava un corso di fotografia nella rispettiva Kunstakademie, Düsserldorf, fu una scelta inevitabile. La capitale del Land della Renania Settentrionale-Vestfalia, come la grande maggioranza dei centri abitati della Germania, uscì dal secondo conflitto mondiale completamente rasa al suolo. L’immediata ricostruzione la rese un vivace laboratorio di ricerca (nella città fu eretto il primo grattacielo della Germania, e qui si sperimentarono le teorie costruttive della Bahaus) e un attrattivo polo culturale.

 

Interieur 1A (Interior 1A) 1979 C-print 27.5 × 20.5 cm © Thomas Ruff.


Dagli anni Cinquanta, nella Kunstakademie insegnavano i celebri coniugi Bernd (1931-2007) e Hilla Becher (1934-2015), promotori della famosa Scuola di Düsserldorf. La documentazione delle differenti tipologie di architettura, finalizzata alla creazione di un repertorio, di una catalogazione, è al centro della ricerca dei Becher, influenzata dalla tradizione fotografica tedesca, a partire dallo straordinario lavoro Uomini del Ventesimo secolo, di August Sander. Inoltre, è bene ricordare che, nel 1984, a loro fu assegnato il prestigioso Hasselblad Award perché “per più di 40 anni hanno registrato il patrimonio del passato industriale. Le loro foto dell'architettura funzionalista, sistematiche e spesso organizzate in griglie, hanno portato al loro riconoscimento sia come artisti concettuali sia come fotografi. Come fondatori di quella che è stata denominata scuola dei Becher essi hanno durevolmente influito sia sulla fotografia documentaria sia sugli artisti.

 

Porträt (P Stadtbäumer) 1988 C-print 210 × 165 cm © Thomas Ruff.


Attraverso una puntuale e abile traslitterazione dei canoni artistici dei coniugi, Ruff costruisce un personale, precipuo e peculiare linguaggio. Non più esclusivamente circoscritto alle strutture industriali, il fotografo, però, applica alle sue immagini le stesse regole impiegate dai Becher. Seppure “il bianco e nero è più carico di sensi” (Jean Baudrillard), egli abbandona tale prassi e utilizza il colore, esasperandolo in spinte sovraesposizioni o in sottili procedimenti di colorazione o nella rielaborazione digitale. 

Dall’osservazione complessiva delle diciotto serie esposte, affiora immediatamente un importante elemento: il doppio ruolo della fotografia; non solo mero mezzo espressivo/messaggio, ma anche campo di ricerca e riflessione in quanto medium/supporto, aprendo la rispettiva superficie ad una continua indagine. Analisi attraverso la quale supera in modo definitivo la posizione di Marshall McLuhan (per il quale il medium coincide con il messaggio), corrispondendo a quella di Rosalind Krauss (che non sovrappone i due concetti e sottolinea, anzi, la necessità di re-inventare il medium attraverso l’uso che se ne fa). 

 

Nacht 9 II (Night 9 II) 1992 C-print 20 × 21 cm © Thomas Ruff.


Tuttavia, a interessare Ruff, è anche il modo in cui la fotografia rispecchia il ritmo veloce della società, della politica, della tecnologia, della cultura, o quello lento dei fenomeni cosmici. In sintesi, egli non agisce “con la fotografia” bensì “sulla fotografia”, “non prende immagini, ma lavora con loro”; non più mera meccanica traduzione di un medium strutturato in regole e convenzioni (fotografia ottenuta attraverso lo scatto calcolato dell’apparecchio fotografico), bensì un medium utilizzato in qualità di linguaggio da rinnovare, un supporto per incursioni e travalicamenti, per sperimentarne tutte le potenzialità in esso racchiuse. La storia della fotografia diventa, così, un grande archivio, una banca dati, da cui attingere a piene mani, per ripensare le rappresentazioni e ri-attivare un originale rapporto con lo spettatore, anche attraverso “il fascino del comune” (Andrew M. Goldstein).

 

Maschine 1390 (Machine 1390) 2003 C-print 112 × 147 cm © Thomas Ruff.


Apre il percorso espositivo L'Empereur (1982), rari autoritratti realizzati durante il suo soggiorno a Parigi, quando gli fu assegnata la borsa di studio alla Cité Internationale des Arts. Nel modo di Bruce Nauman, nel suo Walking in an Exaggerated Manner Around the Perimeter of a Square (1967), o in Wall-Floor Positions (1968), anche Ruff, nel suo piccolo studio, costruisce delle eccentriche situazioni con pose strampalate, nel tentativo di impossessarsi dello spazio e di confondersi in esso, adeguandosi agli scarsi oggetti (due poltrone e una lampada) presenti nella stanza. 

A fare la parte del leone è senza alcun dubbio la serie Porträts, sulla quale ha lavorato per cinque anni (1986-1991). È in questi ritratti di amici e studenti, realizzati in studio, che si palesano le nozioni dei Becher. Mettendo in campo il sistema della foto-ritratto dei documenti di identità o le foto segnaletiche della polizia degli anni Novanta, ne sovverte la logica attraverso la scala monumentale (210x165cm): dimensioni rivoluzionarie, che conferiscono alla fotografia l’entità di “oggetto” occupante uno spazio, alla stessa stregua di una scultura o di un dipinto (bisogna infatti ricordare che nel 1995 il Nostro condivise il Padiglione Germania alla Biennale di Venezia, con gli scultori Katharina Fritsch e Martin Honert). Nonostante la scala sia prossima a quella dei cartelloni pubblicitari, egli elimina qualsiasi voluttà, seduzione, persuasione e emozione.

 

phg.07_II 2014 C-print 240 × 185 cm © Thomas Ruff.


La ripresa asettica, oggettiva, distaccata, del realismo documentaristico, della fotografia concettuale dei Becher delle loro “sculture anonime” (non si dimentichi che i coniugi nel 1990 vinsero il premio della scultura alla Biennale di Venezia), è applicata a questi volti: come le strutture industriali, trattate alla stessa stregua di veri e propri ritratti, viste nella totalità della serie, acquisiscono un certo valore estetico e attirano l’attenzione sulle singole diversità formali, altrettanto pregio conquista Porträts. Anche qui, i soggetti sono posti al centro dell’inquadratura ortogonale all’asse della fotocamera, completamente isolati dal contesto circostante, e il fondale neutro (qui il bianco dei pannelli dello studio, lì la tonalità grigia del cielo ripreso in b/n) concorre a restituire una dimensione atemporale e a consegnare maggiore corporeità e spazialità al soggetto ripreso, che altrimenti apparirebbe banale e anonimo, destinato all’oblio, conferendo così quella “specie di immortalità” (McLuhan) che la “selettività” (Abbott) della fotografia riesce ad assegnare. Dalle serie successive, Ruff forza maggiormente il concetto di fotografia. Già nella serie Sterne (1989-1992), ma anche in Nächt (1992-96), andere Porträts (1994-95, con i quali partecipa alla Biennale di Venezia sopra citata), ma.r.s. (2011-13), solo per citarne alcune di quelle esposte, si attesta la sua pratica di reinventare il medium, spaziando in numerosi e differenti campi, dal ritratto, al paesaggio, agli interni, all’architettura.

 

Consapevole che gli apparecchi fotografici in suo possesso non sarebbero mai stati in grado, per quanto sofisticati, di effettuare delle riprese perfette delle stelle, in Sterneè intervenuto sulle lastre fotografiche scattate da un telescopio ad alte prestazioni dell'European Southern Observatory, situato nel deserto di Atacama in Chile: in queste lastre seleziona particolari aree del cielo dove il punto focale dell'oscurità e della luce crea una composizione monocromatica. Molte delle stelle di queste immagini sono in realtà estinte, e ogni fotografia trasforma innumerevoli realtà temporanee in un solo momento.

 

 

Quindi l’utilizzo di immagini realizzate da altri, o riprese dal web, su cui interviene con differenti modalità, riconsegnando loro significati nuovi, creando una realtà altra, con le quali abbandona in maniera definitiva il concetto di autorialità. Come in m.n.o.p. (2013), presentato per la prima volta proprio alla Whitecapel Gallery, che si riallaccia al suo esordio con Interieurs (1979): una serie di fotografie in bianco e nero, acquisite da Ruff alle aste di Parigi e Berlino, delle sale allestite in occasione dell’esposizione inaugurale del Museum of Non-Objective Painting di New York, voluto da Solomon R. Guggenheim nel 1939, che lui ha digitalizzato, aggiungendo colori saturi ad alcuni accessori decorativi, evocando le tinte degli anni Cinquanta, elevando il soffitto, creando così una documentazione astratta e reinventata. Immagini che identificano un nuovo genere individuato dallo stesso Ruff denominata “installation shot”: le immagini degli allestimenti sono un nuovo tipo di immagine storica. Il suo procedere in parallelo con la tecnologia e gli avvenimenti circostanti è pienamente attestato dalla serie Nächte (1992-96): immagini realizzate con la strumentazione utilizzata durante la Prima Guerra del Golfo.

 

Lenti infrarosse montate sulla sua telecamera con le quali ha fissato dettagli della sua città, conferendole una certa atmosfera estraniante e inquietante. Sono altresì esposte le serie che lo hanno reso famoso e riconoscibile, quali nudes (1999-2012) e jpeg (2004-08), entrambe realizzare con le immagini scaricate negli anni in cui il web faceva il suo ingresso nella comunicazione. La prima composta con le immagini pornografiche selezionate in base ai colori e all’illuminazione, delle quali ha mantenuto la scarsa qualità della bassa risoluzione, aggiungendo soltanto una maggiore sfumatura. La seconda con le immagini scattate con i cellulari il giorno dell’attacco alle Torri Gemelle, ingrandendole e enfatizzando i pixel. Chiudono il percorso le serie press++ (2016 -) e negative (2014 -), quest’ultima ulteriore affermazione dell’ampio spettro di indagine di Ruff. Qui egli eleva a oggetto di osservazione e contemplazione, ciò che nell’era analogica era considerato solo strumentale al risultato. Sovvertendo il processo, egli ricava il negativo da stampe: ha scansionato delle fotografie ottocentesche e digitalmente ha invertito i toni, così che la patina “seppia” si trasformasse in bianchi e “blu”, peculiari dei negativi (e nello spazio Studio, è possibile vedere in modo dettagliato il processo da lui attuato). Lavori che nel loro insieme, indirettamente e senza l’intenzionalità dell’artista, mostrano e, soprattutto, raccontano la storia nonché lo sviluppo tecnologico degli ultimi decenni. 

 

Thomas Ruff – Photographs 1979 - 2017, fino al 21 gennaio 2018 (Whitechapel e National Portrait Gallery, Londra).

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Emilio Isgrò cerca un impiego

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Chi ha modo di frequentare Emilio Isgrò ne conosce il carattere. Irriverente, è il primo connotato che viene da associargli: parte non esigua del successo crescente che negli ultimi anni hanno i suoi lavori – in particolare le cancellature cui deve una fama internazionale appunto un po’ sulfurea – si deve al frisson con cui sempre ci fa riflettere sul senso di quel gesto concettuale sovranamente ambiguo che è in sé la cancellatura, e su quello che nello specifico ha “cancellare”, di volta in volta, l’Enciclopedia Treccani, I Promessi Sposi, la Costituzione Italiana o il Debito Pubblico (sfortunatamente, in questo caso, solo in effigie). Così che, confesso, mi ha preso in contropiede la notizia che lo scorso 6 ottobre Isgrò – da sempre un trickster, uno spiritello dispettoso – ha compiuto ottant’anni. L’evento è stato doverosamente celebrato, ma nel suo stile: senza sussiego e senza retorica (o meglio, con retorica ironicamente rovesciata, a sua volta “cancellata”).

 

La Triennale della sua Milano (nato a Barcellona Pozzo di Gotto, in Sicilia, Isgrò è milanese ormai da più di cinquant’anni) ha ospitato la mostra I multipli secondo Isgrò (promossa da Editalia e curata dal complice più assiduo, Marco Bazzini), fra i quali spiccava una serie di coloratissimi semi d’arancia realizzati in ceramica. Il tema del Seme si è affiancato negli ultimi tempi a quello della Cancellatura: e infatti un gigantesco esemplare, il Seme dell’Altissimo in marmo bianco alto circa sette metri (che ingrandisce l’oggetto reale, come recita la scritta alla sua base, un miliardo e mezzo di volte), commissionato due anni fa dall’Expo e dall’artista donato alla città, è stato per l’occasione collocato in via definitiva nei giardini antistanti la sede della Triennale: come «fondamenta di un’arte civile».

 

Ma soprattutto è uscito da Sellerio Autocurriculum (pp. 222, € 14), sorprendente autobiografia di uno che, avendo fatto il giornalista culturale per tanti anni, si può dire abbia conosciuto tutti; e in anni in cui valeva la pena, decisamente, conoscere tanta gente. L’irriverenza di Isgrò dà sapore, un sapore certe volte piccantino, alle tante icone nazionali, e non, che ha avuto modo d’incontrare; e del cui carattere – a loro volta –riporta pieghe inedite e sempre curiose. Dall’infelicità di Piero Manzoni, «concettuale dal volto umano», al «sempiterno Umberto Eco in ascesa perenne», dal «trotterellante Palazzeschi» a Paolo Volponi cantante «più intonato» di Montale, dallo «spocchioso» Calvino a de Chirico «attore non inferiore al pittore», da Ezra Pound a John Kennedy. Un Pantheon tutto rivisitato a testa in giù: con una scrittura sempre pungente, che corre a rompicollo da un decennio all’altro. Del resto Isgrò nasce poeta, e all’attività artistica (nella quale non a caso gioca sempre un ruolo decisivo la parola) ha sempre affiancato quella letteraria, narrativa e anche drammaturgica (con l’epocale Orestea negli anni Ottanta messa in scena, per volontà del sindaco Ludovico Corrao, sulle rovine di Gibellina distrutta dal terremoto del Belice nel ’68). 

 

In genere, in libri così fitti di nomi e aneddoti, manca dalla scena il personaggio più importante: quello col nome in copertina. Non è questo il caso. Anzitutto perché Isgrò non manca di parlare del suo lavoro d’artista, di commentare le varie interpretazioni – altrui e proprie – che, nell’ormai mezzo secolo da quando sono apparse, hanno ricevuto le Cancellature. Ma, per evitare di mettersi su un piedistallo, adotta uno stratagemma retorico geniale: presentando questo suo testo come un curriculum, allestito al fine di trovare finalmente un «impiego a tempo indeterminato». In ogni migrante, ancorché di successo come lui, resta sempre un certo senso di precarietà; e Isgrò, irriverente con se stesso per primo, in questo suo testo si presenta proprio come un postulante. Per esempio quando si affaccia dal lunatico Gian Giacomo Feltrinelli, che allora pubblicava gli autori della neoavanguardia e gli aveva fatto sapere di essere interessato alle sue poesie visive (si è venuto a sapere di recente, dal volume dedicato l’anno scorso da Federico Milone alle carte preparatorie dell’antologia del ’61 I Novissimi, riscoperte a Pavia nell’archivio di Alfredo Giuliani, che il nome dell’allora ventitreenne Isgrò figurava nell’elenco dei papabili). Quella mattina, però, trova «l’Editore» con la luna storta. «Tre giorni fa mi hai detto che trovavi bellissime le mie cose e volevi pubblicarle». «Sì, è vero, ma non so se fra tre giorni mi piaceranno ancora come tre giorni fa». Allora il postulante prende la porta con uno scatto d’orgoglio: «Le mie opere sono fatte perché piacciano anche fra tre secoli». C’è tutta l’ambivalenza di Isgrò, in questo scambio di battute. Fra tre secoli non lo so (e non lo sa neppure lui), ma sta di fatto che oggi, a cinquant’anni da quell’episodio, le sue opere sono esposte in tutto il mondo.

 

Cortellessa: Presenti il sofista siciliano Gorgia da Lentini come tuo spirito guida, Emilio, e non c’è dubbio che tua sia l’attitudine a guardare le cose sempre «di lato e di scorcio». Però c’è anche, in te, una fierezza quasi leonina, e che si deve al tuo carattere «febbrile» (un aggettivo che torna più volte nel testo). Basta guardarti negli occhi per rendersene conto. Ricordi la grande mostra del 2008 al Centro Pecci di Prato, curata da Marco Bazzini e Achille Bonito Oliva, che è stata fra l’altro l’occasione in cui ci siamo conosciuti, e che s’intitolava Dichiaro di essere Emilio Isgrò (capovolgendo e “cancellando” il tuo precedente lavoro intitolato Dichiaro di non essere Emilio Isgrò). In fondo, direbbe Philippe Lejeune, ogni autobiografia si fonda su una dichiarazione di coincidenza fra l’anagrafe e la soggettività. Si afferma la volontà di esserci stati, e di esserci per il futuro.

Isgrò: L’autobiografia si fa alla fine di una carriera, il curriculum all’inizio... Sì, il libro enuncia la volontà di esserci. Non tanto in quanto Isgrò, ma in quanto titolare di un mestiere che rischia di sparire in un assetto, come quello attuale, in cui la vecchia figura dell’artista come intellettuale non può più avere neppure il vizio del narcisismo!

 

AC: La dichiarazione di esserci è anche uno stratagemma per superare il “complesso del cancellatore”. «Come Penelope», scrivi, «cancellavo di giorno ciò che scrivevo di notte». Una frase che può spiegare pure l’ambivalenza fra scrittura e immagine, fra letteratura e arte, come tentativo di sabotare sempre se stessi, e al tempo stesso ricostruirsi dopo essersi distrutti.

EI: Mi sono sempre riconosciuto in quella novella di Pirandello, Il corvo di Mizzarò, in cui l’uccello si mette a covare le uova al posto della compagna fuggita dal nido. Anch’io mi sono trovato a svolgere ruoli che non avrei mai pensato mi sarebbero toccati…. La cancellatura comunque, ormai lo si è capito, non è quella distruzione che veniva paventata, o esaltata, all’inizio del mio percorso. Sono nato con una musica nelle orecchie che mi ha sempre accompagnato; come avrei potuto distruggere, in nome di una scelta di poetica, ciò che mi dava così grande piacere? Come avrei potuto negare Bellini? È come chi in nome della nouvelle cuisine rinneghi l’ossobuco con risotto. A questo tipo di rinunce non sono mai stato disposto. La cancellatura mi era servita come gesto, come punto di non ritorno, come dire, «ragazzi, più avanti di così non si va; ora torniamo a Giuseppe Verdi!».

 

AC: O a Garibaldi…

EI: Ecco, sì, viva Garibaldi! Io stesso ho capito col tempo che se si cancella è solo per costruire, per creare. Quello che fa davvero la cancellatura è riproporre una dialettica del linguaggio, nel tempo in cui in apparenza, dopo il crollo dell’idealismo e del marxismo, la dialettica non serve più a nulla. Ma ogni artista, se non di una dialettica in senso classico, ha bisogno di una pendolarità; di essere questo ma anche altro. La possibilità di essere figlio di Dio e figlio, o almeno nipote, di Satana.

 

AC: Scrivi: «Credo in Dio al mattino, al pomeriggio non più».

EI: Di solito al mattino sono credente, al pomeriggio comincio a vacillare, al tramonto…

 

AC: … sei un nichilista…

EI: … assoluto!

 

AC: Alle cancellature si era molto appassionato, ricordi, anche Andrea Zanzotto. Del resto anche lui scriveva qualche volta delle parole con sopra un tratto orizzontale, sulle orme di Lacan… 

EI: Era l’aspetto del mio lavoro che più lo interessava, certo. Come Pasolini aveva apprezzato le mie poesie giovanili, ma la cancellatura gli aveva fatto venire una febbre addosso (anche Stefano Agosti, sempre in chiave lacaniana, se ne interessò; anche se lui la ricollegava al bianco di Mallarmé mentre la cancellatura non è questo, non postula il vuoto, interroga la possibilità della parola umana di sopravvivere). Tutta l’opera di Zanzotto, del resto, si può leggere come cancellatoria… l’accumularsi verbale, per strati successivi, è come la stratificazione di colore in una tela informale, che cancella quello che sta sotto ed emerge a tratti. 

 

AC: Magari anche questo è un effetto del codice autobiografico, ma certo per essere una persona che ha conosciuto tutti, alla fine ti presenti come uno che resta sempre “non allineato”, che non si può associare a niente e a nessuno.

EI: Questo isolamento non mi fu tanto imposto dagli altri, ero io a non avere tanta facilità nei rapporti sociali. Ci sono sempre stati affetti, amicizie, questo sì.

 

AC: Ti descrivi come un timido. Con le donne e non solo. Pur essendo, come dimostri anche in questa occasione, un gran chiacchierone! Molto divertente il racconto della cena con Leonardo Sciascia, in cui rimanete in silenzio tutto il tempo…

EI: Non si direbbe, è vero, ma in effetti sono sempre stato un timido. Perdo la mia timidezza solo quando sono sul palcoscenico, come capita del resto a tanti comici... Comunque è così. Polemico sempre, militante spesso, organico a nulla. Avrei potuto passare la mia esistenza molto quietamente in biblioteca a leggere, a scrivere, e naturalmente a cancellare. Tutto quello che mi è successo è stato preterintenzionale, ha sorpreso me per primo. La cancellatura l’avevo presa subito molto sul serio, per esempio, ma la sua reale portata si è manifestata solo nel corso degli anni.

 

 

AC: In ogni stagione la cancellatura acquista un senso diverso. Per esempio a distanza di poco tempo tu cancelli la Costituzione ma, spieghi, solo per mettere in guardia da coloro che vogliono cancellarla; e poi però cancelli il debito pubblico!

EI: La cancellatura non è uno stile…

 

AC: … infatti… è quello che i filosofi definiscono un dispositivo. Ogni volta può essere usata in contesti diversi con fini diversi…

EI: Solo adesso i critici d’arte cominciano a intenderla in questo modo. È anche frutto della mia sicilianità. La nostra è una cultura che cerca sempre di tenere insieme gli opposti. In Sicilia c’era stato il futurismo, ma con una coloritura bucolica… C’era un futurista piuttosto noto, Giacomo Giardina, che era un pecoraio. Solo in Sicilia sarebbe potuta succedere una cosa del genere. Il barone futurista Jannelli voleva trasformare il teatro di Siracusa in un pascolo. Mio nonno poi, che si chiamava Emilio Isgrò come me, era contemporaneamente anarchico e monarchico… Del resto c’erano anche certi futuristi russi, come Chlebnikov, che andavano in cerca degli etimi slavi più arcaici. Non sono mai stato troskista, anche se mi accusava di esserlo Francesco Leonetti (ma solo perché lavoravo con Arturo Schwarz, che troskista lo era davvero), però mi affascinava, di Trockij, il suo motto secondo il quale «la rivoluzione salta sulle spalle del passato». Perché altrimenti avrei scritto in dialetto l’Orestea di Gibellina? Questa cosa sconvolgeva gli avanguardisti più “allineati”! 

 

AC: L’Autocurriculum potrebbe essere la versione scritta “davvero” dell’Avventurosa vita di Emilio Isgrò, lo pseudo-romanzo concettuale che nel ’74 ebbe in sorte, per un equivoco, di finire candidato al Premio Strega. Mi ricorda le vite degli avventurieri veneziani che aveva antologizzato Giovanni Comisso, uno degli illustri collaboratori cui toccava subire, non sempre di buon grado, il tuo editing quando eri redattore al Gazzettino di Venezia.

EI: Silvano Nigro lo legge come un testo picaresco, e forse non ha tutti i torti. È il mio spirito di bastian contrario…

 

AC: A proposito di artisti “non allineati”, racconti che ti attraeva la Jugoslavia di Tito. Un regime non certo democratico, e neppure convinto davvero dall’arte moderna, ma che la promuoveva, strumentalmente, in alternativa al conservatorismo del blocco sovietico.

EI: Quelli del Gruppo 63 mi hanno sempre guardato con curiosità. Mi sentivo più vicino a loro che alle avanguardie artistiche di quel tempo. Potevo non condividere certe cose che scriveva Edoardo Sanguineti, gli preferivo Le ceneri di Gramsci di Pasolini, ma capivo bene cosa voleva fare. Quando si ricorda di essere un poeta, certe sue cose sono memorabili [a questo punto Isgrò dice a memoria i versi di Erotopaegnia, «In te dormiva come un fibroma asciutto»…]. Alfredo Giuliani, che era di gran lunga il meno normativo del Gruppo, ma anche Nanni Balestrini, mi hanno sempre avuto in simpatia; fu Balestrini a venirmi a chiedere le prime poesie per il verri. Qualcun altro, certe volte, mi ha guardato invece con una certa impazienza. Come Elio Pagliarani, che prima mi chiamò a collaborare all’Avanti!, ma in seguito mi trattò con una certa freddezza… sicché mi è piaciuto omaggiarlo, a tanti anni di distanza, con una mia cancellatura, Rosso Pagliarani, che è stata appena consegnata, come premio Pagliarani, al poeta Carlo Bordini. Elio era arrivato all’avanguardia quando aveva già scritto cose diverse e in sospetto di neorealismo, e forse voleva mostrarsi sin troppo zelante, ma ricordo bene quando uscì La ragazza Carla. Con tutto il suo cattivo carattere, era il più poeta dei suoi compagni.

 

AC: Racconti di quando hai esposto in una mostra di Fluxus, ma aggiungi di non aver mai fatto parte di Fluxus, di essere stato vicino ai poeti visivi del Gruppo 70, a Firenze, ma di non essere mai stato dei loro… È come se tu fossi il Groucho Marx dell’avanguardia italiana: non vorresti mai far parte di un gruppo che ammettesse fra i suoi soci uno come te!

EI: Hai toccato il punto… prendiamo il Gruppo 70. Condividevo il loro spirito d’avventura, ma mi sono allontanato da loro quando li ho visti irrigidirsi in un’ideologia. Il côté diciamo sanguinetiano dell’avanguardia, quello organico appunto, non mi è mai appartenuto. Lamberto Pignotti aveva un’idea protonovecentesca di avanguardia, dai principi non si deroga. Io invece derogavo solo da quelli!

 

AC: Da cosa si può derogare se non dai principi? La forza e al tempo stesso la debolezza dell’avanguardia diciamo “classica” è la radicalità delle sue negazioni. Si fonda sull’esclusione di tutto quanto ecceda la propria poetica. Invece tu cerchi sempre il punto di compatibilità, quello che hai chiamato il momento dialettico, di ogni posizione. A partire dalla tua. 

EI: Il mio miglior amico di gioventù era un poeta triestino, Guido Costantini, imparentato alla lontana con Scipio Slataper e forse anche con Svevo, di madre anglicana e padre ebreo, era stato campione di nuoto e aveva fatto la Resistenza, era iscritto al PCI…

 

AC: … tu non sei mai stato iscritto a un partito?

EI: Mai. Ma ho sempre votato da quella parte. Una volta però ho votato per il manifesto, al tempo della campagna per far uscire Valpreda dal carcere. Ero redattore di Tempo illustrato, che era pieno di comunisti duri e puri per i quali questa cosa fu uno scandalo… pare che avessi fatto qualcosa di politicamente scorretto. Non era stata la prima volta, non fu neppure l’ultima.

 

AC: Mai stato tentato dall’astensione?

EI: Ora un po’ tentato lo sono, ti confesso. Non so che pesci pigliare. Questa sinistra che divora i suoi figli… Ti parlavo di Guido Costantini, mi colpì molto – avevo vent’anni – quando fu cacciato dal PCI durante la polemica sui medici ebrei accusati di aver complottato per uccidere Stalin. Lui, che era mezzo ebreo, a quel punto si ribellò. A quel tempo ero un militante anch’io, ero cresciuto con un padre e una madre mai “allineati” al conservatorismo democristiano che imperava allora in Sicilia… insomma ero un pecoraio futurista e comunista anch’io. E Guido in quell’occasione mi disse una cosa che ho sempre ricordato: «non bisogna mai partire dal presupposto che il tuo avversario abbia torto; devi ascoltarlo, e se ha ragione devi avere il coraggio di riconoscerglielo». 

 

AC: Parliamo del Seme dell’Altissimo. A proposito della tua «arte civile» dici che il tuo ispiratore è Manzoni – non Piero ma Alessandro – per l’idea dell’arte come educazione. Educazione spirituale ma, soprattutto, civile. 

EI: Non ho mai voluto fare un’arte “impegnata”, ma invece mi riconosco in un’«arte civile». Cioè un’arte che sia sempre non impegnata ma impregnata: del sociale che sta tutto intorno. Persino la cancellatura è così: una spugna che ogni volta prende senso dal tempo e dal contesto in cui viene operata.

 

AC: Nel poemetto I funerali di Corrao, dove celebri la figura del sindaco-demiurgo di Gibellina, ricordi la figura di Saiful, il ragazzo del Bangladesh che lui accolse nella sua casa e alla fine gli tagliò la gola con un coltello. È una tragedia non solo siciliana, non solo italiana. Forse oggi la cosa più giusta da cancellare sono le frontiere di questo mondo sempre più impaurito e aggressivo. 

EI: È quello che ho fatto con le mie cartine geografiche cancellate. Ma le frontiere fisiche che si possono cancellare riemergono come frontiere culturali. Oggi lo «scontro di civiltà» di cui parlava Samuel Huntington non è quello fra il Nord e il Sud del pianeta, o quello fra gli scintoisti e gli atei confuciani della Cina e il resto del mondo, ma quello fra la vecchia Europa e quello che non si può non tornare a definire, come una volta, l’imperialismo americano. La posta in gioco è la libertà del mondo. Gli americani non sono più i garanti delle libertà umane. E non dipende da Donald Trump. Lui è l’effetto, non la causa. È un figlio degli anni Sessanta, della Pop Art; Trump è un nipotino di Andy Warhol. La grande arte americana finisce quando tutti credono che cominci, con Pollock e Rothko. Spero che la loro schiacciante egemonia culturale non prosegua come egemonia militare globale, sino a trascinarci tutti nella catastrofe. E spero che sia la migliore cultura americana a impedirlo. D’altra parte Obama è venuto a chiedere lumi alla Merkel… non certo una rivoluzionaria ma una che, seppur convinta che i Berliner Philharmoniker siano un covo di sovversivi, non ha mai fatto loro mancare il supporto che gli si deve.

 

AC: Vuoi dire che l’Europa riserva nei confronti alla cultura, malgrado tutto, un ruolo che in America è tramontato da tempo?

EI: Per loro conta solo la forza economica, oltre a quella militare. E questo modello sta stravincendo anche da noi, purtroppo. C’è da sperare che questa struttura a fisarmonica che ha l’Europa la faccia sopravvivere. Proprio perché poco coesa, forse, si dimostrerà più elastica di quanto si potesse pensare. Sono suonate tante campane a morto per l’Europa ma non si è ancora sfasciata, no? Magari si sfascia prima l’America. Lo ripeto, Trump è un nipotino di Warhol. Warhol aveva lavorato sull’anonimato (il famoso quarto d’ora di celebrità per tutti) come su un pericolo, o almeno così spero che si possa leggere la sua opera. Ma oggi Trump non esprime altro che l’anonimato assiderante della provincia americana. E il mondo dei social network realizza la profezia irridente di Warhol.

 

AC: Ti sei trovato in sintonia con Gino Di Maggio, racconti, forse perché lui è nato a Novara di Sicilia e tu a Barcellona di Sicilia. E commenti: «i siciliani non sono mai anonimi, ma omonimi». 

EI: Uno, nessuno e centomila. 

 

AC: Quando parli della mafia scrivi «tutto ciò che scrivevo e facevo come artista in qualche modo veniva da lì. Da quello sconquasso, da quella paura». Dall’Italia in frantumi di cui ti parlava Ottiero Ottieri. 

EI: Di questo parla L’Orestea di Gibellina. Lo capirono magistrati come il povero Ciaccio Montalto, che di lì a poco dalla mafia verrà ammazzato, e che era venuto a vedere lo spettacolo.

 

AC: Forse è un moto “manzoniano”, il tuo di darti coraggio. Per Don Abbondio una cosa sola non si può fare, cioè appunto darsi coraggio da sé. Che è invece proprio quello che fa, sempre, il tuo personaggio. Pur non essendo il tuo un temperamento particolarmente ardimentoso, tutto quello che hai fatto si può riassumere all’insegna di questa tempra artificiale. Hai fatto un po’ come il Barone di Münchhausen che, in quella poesia di Zanzotto nella Beltà, si solleva dalla palude tirando sé stesso per il codino.

EI: Sempre preterintenzionalmente, ma sono uno che va fino in fondo. Se una cosa «s’ha da fare», per dirla appunto con Manzoni, si fa. Il Dio in cui credo la mattina, forse, non mi guarderà come un pusillanime. Quando ha cancellato I Promessi Sposi, la riflessione che ho fatto (l’ho scritto nel catalogo della grande antologica che mi ha curato Bazzini, a Palazzo Reale l’anno scorso) è stata sulla sua scelta trasgressiva, lui rampollo dell’aristocrazia illuminista ingessata nei versi neoclassici, di un italiano “popolare” (anche se quella lingua non veniva parlata, in effetti, da così tante persone). Era quella la sua scelta di progresso, anche in senso “illuminista”. È comunque una scelta simile a quella che farà Pasolini quando, rispetto alle Ceneri di Gramsci, adotterà la lingua del cinema. Mi piaceva il grande Lucio Piccolo, barone di Capo d’Orlando e poeta straordinario, che si professava saragattiano (e per lui questa era una grossa trasgressione, lo diceva a bassa voce) e per discrezione non parlava mai del suo più celebre cugino. Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Salvo una volta in cui raccontò un episodio in cui Tomasi, con lo sprezzo tipico degli aristocratici siciliani, a un contadino che a Palermo gli aveva chiesto la strada per andare al Teatro Massimo, indicò la strada opposta. La nobiltà che rivendicava Piccolo era una nobiltà politica, non di sangue.

 

AC: Sei avverso all’elitarismo, al sussiego appunto aristocratico che ostentano tanti di coloro che seguono l’arte contemporanea.

EI: L’arte purtroppo non è per tutti, lo so io per primo. Ma non ho mai fatto nulla per escludere qualcosa o qualcuno. Non ho mai inseguito il successo immediato, ma ho sempre pensato che quello che andavo facendo, col tempo, sarebbe stato capito, si sarebbe affermato. Ho sempre cercato un’arte inclusiva. Oggi la parrucchiera e il fruttivendolo mi chiedono notizie delle mie cancellature, i bambini corrono dietro alle mie formiche. È meglio, mi dico, aver avuto successo con un certo ritardo. Altrimenti magari mi sarei adagiato…

 

AC… avresti trovato subito lavoro! Invece lo devi cercare fino alla fine dei tuoi giorni… Il Seme è di per sé un simbolo di speranza, di futuro. D’altra parte, a sottrargli ogni retorica è la sua misura gigantesca. È come un futuro che fosse già presente, e che con la sua incombenza ci schiaccia. Anche in questo caso ci metti di fronte a una dialettica…

EI: … l’ottimismo e il pessimismo… in questi casi si cita sempre Gramsci. Come tutti i siciliani, io sono d’indole pessimista. Non credo in nulla, forse nemmeno in me stesso. Il Seme si chiama «dell’Altissimo» perché si possa pensare a chissà quale trascendenza; ma in realtà questo titolo si deve solo alla cava da cui è stato tratto il marmo, che è quella del Monte Altissimo appunto. Sono un pessimista, ma un pessimista di buon carattere. Mi sono sempre fatto trascinare dagli amori, dagli entusiasmi. Solo uno con un buon carattere può finire per vedere nella cancellatura un campo arato in cui piantare un seme! E mi piace che stia a Milano, l’unica città europea da dove penso possa rinascere l’Italia. Ormai, dopo tanti anni, mi sento un po’ milanese anch’io. E neppure Milano vuole escludere, la sua natura è inclusiva. Anche Milano, insomma, ha un buon carattere!

 

AC: Mi ha divertito molto l’episodio della tua performance su Garibaldi, Disobbedisco, cui assiste il ministro Alfano che poi ti parla dell’importanza del dissenso ma, ça va sans dire, «al fine di costruire il consenso». Ecco, usando le categorie dell’avanguardia degli anni Sessanta, tu ti senti più un Apocalittico o un Integrato?

EI: Questa è la domanda più perfida che tu potessi fare. Se uno è alla ricerca perenne di un lavoro vuol dire che ha gran voglia d’integrarsi, certo; ma vuol dire pure che integrato non è. Diciamo che sono un apocalittico con un buon carattere.

 

Una versione molto più breve di questa intervista è uscita il 18 dicembre su «La Stampa»

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Gravity. L’Universo dopo Einstein

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“La teoria più bella”

Né con te né senza di te si intitolava un intervento di Paolo Garbolino tenuto al MAXXI nel lontano 2013, in cui lo studioso raccontava al pubblico della svolta degli anni Sessanta del XX secolo, quando la visione scientifica incrociava l’affermarsi di nuove pratiche artistiche, evidenziando, tanto nell’arte quanto nella scienza, un’attenzione critica oramai spostata dalle cose alle pratiche che le producono. Oggi il MAXXI torna a parlarci di arte e di scienza con una mostra nata dalla collaborazione tra il museo, l’Agenzia Spaziale Italiana e l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare in cui lo spettatore diventa (anche) artefice, scoprendo ‘praticamente’ fino a che punto lo riguardi la teoria generale della relatività, la “più bella delle teorie”, come l'ha definita il fisico russo Lev Landau, e lo scopre attraverso l’esperienza di oggetti che sono opere, strumenti tecnologici, modelli scientifici, in un’ambiguità affascinante tra scienza, tecnica ed estetica. D’altronde l’attuale orizzonte culturale spesso riafferma l’assenza di una vera dicotomia tra sapere umanistico e sapere scientifico confermando la loro vicinanza di ottiche diverse ma parallele e complementari e la mostra Gravity. Immaginare l’Universo dopo Einstein (a cura di Luigia Lonardelli, Vincenzo Napolano e Andrea Zanini, al MAXXI fino al 29 aprile 2018) sposa appieno quest’idea. 

 

 

Albert Einstein ha trentasette anni quando presenta all’Accademia Prussiana l'equazione di campo, ossia l’equazione fondamentale della teoria generale della relatività. È il 1915 e con la sua scoperta lo scienziato smentisce il principio base della fisica classica per cui lo spazio e il tempo erano considerate grandezze assolute e costanti e descrive la gravità come una curvatura dello spazio-tempo; un’entità rappresentabile come una specie di tessuto flessibile, influenzato dalle masse che lo circondano e lo attraversano. La concezione di Einstein trasforma il modello di universo sino ad allora immaginato, portando conseguenze importantissime per lo studio di fenomeni astrofisici e cosmologici, ma, soprattutto, rivela un fatto abbastanza straordinario per l’uomo comune, che ha ammaliato, e continua ad ammaliare, la scienza e l’arte e di cui il MAXXI ha fatto il centro concettuale dell’intera esposizione: noi muoviamo l’universo, influenziamo la struttura ‘morbida’ dello spazio-tempo e siamo circondati dalla polvere cosmica. 

 

A poco più di cento anni dall’elaborazione della teoria generale della relatività, Gravity fa sperimentare al pubblico l’essenza delle teorie einsteiniane, svelando le profondità sottese all’Universo conosciuto, ma anche i meccanismi che legano arte e scienza nella ricerca della conoscenza. Accanto ai lavori di Tomás Saraceno, Allora & Calzadilla, Peter Fischli e David Weiss, Marcel Duchamp, Laurent Grasso, diversi e bellissimi sono gli strumenti e i modelli scientifici’ messi in mostra, destinati a captare (e parzialmente a tradurre) i movimenti dell’universo. L’insieme delle opere, d’arte e di scienza, la confusione tra le due realtà, in rapporto naturalmente osmotico negli spazi del museo, accompagnano lo spettatore alla scoperta di nuove prospettive possibili, aiutandolo a cogliere il senso della rivoluzione einsteiniana e, più di tutto, dimostrando – poiché ogni oggetto in mostra, messo in relazione con gli altri, ci fa afferrare la sostanziale unità del nostro rapporto con l’Universo – quanto la complessità del mondo, per essere avvicinata, abbia spesso bisogno contemporaneamente dell’arte e della scienza.

 

 

Entrando nello spazio buio delle sale espositive si è subito immersi in Spaziotempo, dove Echoes of the Arachnid Orchestra with Cosmic Dust (2017) di Tomás Saraceno fa la sua suggestiva comparsa. Un ragno Nephilasenegalensis tesse la sua tela disegnando delle trame, straordinariamente simili, ci dice la scienza, a quelle che potrebbero descrivere la trama spazio temporale; poco distante, 163,000 Light Years (2016), una sorta di paesaggio extraterrestre, realizzato da Saraceno nel Salar de Uyuni, crea una triangolazione tra noi e la ragnatela. Ancora Aeroke (2017) – progettata per catturare, mediante uno speciale microfono, gli impercettibili suoni provocati da fenomeni e movimenti terrestri, e poi trasmetterli, amplificandone la frequenza – e il prototipo di una camera a nebbia – uno strumento di rivelazione di particelle elementari –, ci svelano l’urgenza di ascoltare e osservare il mondo da punti di vista nuovi, per comprendere più profondamente i meccanismi che lo animano. L’insieme evidenzia il nostro essere immersi in un flusso di segnali cosmici, la nostra natura duplice di spettatori e creatori. L’arte e la scienza ci riferiscono insieme una grande verità: il ragno, il paesaggio, la polvere, il suono, noi, siamo tutti parte dello stesso concerto cosmico poiché il nostro corpo, il nostro respiro, il nostro calore, la nostra voce, il nostro passo, interagiscono con l’Universo, essendone al contempo influenzati. 

Continuando per lo spazio buio della galleria del museo, portando con sé il senso di una nuova scoperta, si giunge alla sezione Confini, una sorta di riflessione sulla relatività incarnata dall’opera The Horn Perspective di Laurent Grasso, in cui lo spettatore sembra non riuscire a cogliere mai pienamente il senso di ciò che vede. «L’opera di Grasso» – avvertono i curatori – «pone l’accento su un’aspirazione di conoscenza, che si avvera solo in modo illusorio, facendoci riflettere su come il procedere della conoscenza sia molto più problematico di quanto siamo abituati a pensare». Ed ecco giungere, inevitabile, la Crisi, la sezione che descrive lo smarrimento di fronte a un modello di Universo che impone di riflettere sulla validità di regole e categorie, ma, soprattutto, di ripensare il nostro ruolo di ‘osservatori’ in un panorama insieme disorientante e incantevole.

 

Una grande installazione interattiva (Curvare lo spazio) invita il pubblico a interagire un ambiente virtuale, le cui pareti sono caratterizzate da griglie geometriche. Avvicinandosi si scopre l’arcano: la nostra presenza, i nostri movimenti, il nostro tocco, deformano la geometria delle linee descrivendo esattamente, e facendoci nel contempo vivere, la relazione tra le masse e lo spazio raccontata nella Teoria della Relatività Generale.

Gravity ci porta dunque al centro della Teoria e al centro del fare arte e del fare scienza oggi, ci fa sperimentare il loro continuo rincorrersi né con te né senza di te, facendoci provare – “afferrare concettualmente” avrebbe detto Einstein – una delle conquiste intellettuali più importanti e suggestive della storia del pensiero e il suo straordinario portato scientifico, filosofico ed estetico, senza forzare la mano, nella maniera essenziale più adatta allo stato provvisorio delle nostre conoscenze, quello stato che accompagna l’uomo fin da quando, migliaia di anni fa, ha osservato il mondo intorno e il cielo sopra la sua testa, alla ricerca di qualcosa, e poi di qualcos’altro, di qualcos’altro, e così via. Queste esperienze che il MAXXI offre con questa mostra sono tutte scientifiche e tutte estetiche, tutte ostentano il confine labile tra arte e scienza permettendoci di godere della teoria della relatività generale come di un’opera d’arte. 

 

 

Pino Pascali nel 1968 raccontava a Carla Lonzi che a interessarlo era quell’ «ardore che presiede alla creazione d’una civiltà», quando l’uomo primitivo aveva bisogno di bere e perciò creava con le sue mani una forma, e ricercava nel suo lavoro «l’intensità di chi non ha niente altro», definendo l’arte «un sistema per cambiare … vincere una fatalità, un condizionamento, una paura». Più recentemente il fisico Carlo Rovelli ha scritto: «ci sono capolavori assoluti che ci emozionano intensamente: il Requiem di Mozart, L'Odissea, La Cappella Sistina, Re Lear. Coglierne lo splendore può richiedere un percorso di apprendistato. Ma il premio è la pura bellezza. E non solo: anche l'aprirsi ai nostri occhi di uno sguardo nuovo sul mondo. La Relatività Generale, il gioiello dì Albert Einstein, è uno di questi». 

Buona visione.

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