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Mostrare l’arte

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Anime. Di luogo in luogo, l’importante mostra antologica sugli ultimi trent’anni di lavoro di Christian Boltanski che è stata di recente curata da Danilo Eccher al MAMbo di Bologna, riusciva a emozionare in profondità i suoi visitatori. Boltanski da sempre si è posto l’obiettivo di portarci a riflettere sulla fragilità della condizione umana, costretta a confrontarsi con la potenza della sua memoria ed esposta all’inesorabile incedere del tempo. E nella mostra del MAMbo, strutturata secondo l’affascinante modello architettonico delle cattedrali, il visitatore era spinto a diventare un soggetto attivo, che vaga in un tempo sospeso, immerso uno spazio di non vita e di non morte. Uno spazio che si concludeva con la magia dell’assordante installazione Amimitas (blanc), incentrata su un lungo video di 11 ore, secondo episodio del ciclo Amimitas dedicato da Boltanski alle quattro stagioni in quattro diversi luoghi del Pianeta. Un’installazione dove le anime sembravano quasi prendere vita e apparivano come se volessero interpellarci direttamente. Non è probabilmente a mostre come questa che pensavano Tomaso Montanari e Vincenzo Trione quando hanno scritto a quattro mani il loro polemico libro Contro le mostre (Einaudi). La tesi che i due autori hanno voluto sostenere è espressa molto chiaramente attraverso numerosi esempi: oggi in Italia, nel campo dell’arte, si produce un’eccessiva quantità di mostre. E tali mostre, soprattutto, sono solitamente costruite, più che per fornire stimoli culturali ai loro visitatori, per colpire l’attenzione dei media e attirare di conseguenza notevoli masse di persone. Sono cioè mostre “usa e getta”, progettate per essere rapidamente consumate. 

 

Gli strali di Montanari e Trione sono rivolti principalmente contro la natura superficiale delle mostre che vengono di solito organizzate nel nostro Paese, ma il fenomeno purtroppo è esteso a tutto l’Occidente. I due autori sembrano contrapporre la natura effimera della mostra alla lunga durata del museo. Laddove questo accumula per tutelare e conoscere, il primo si presenta come un puro evento. D’altronde, il museo è nato a partire dal Rinascimento grazie allo sviluppo della consapevolezza che era necessario cercare di proteggere quello che lo sviluppo industriale e sociale tendeva inevitabilmente a distruggere. Prima dell’Ottocento però i musei erano solamente un fatto privato, singole collezioni frutto di una scelta individuale di appartenenti a importanti famiglie aristocratiche, mentre dalla seconda metà del Settecento l’intera società ha sentito la necessità di creare dei luoghi accessibili a tutti dove potessero essere conservate la storia e la cultura umana per evitare che venissero disperse. Questo modello si è progressivamente sfaldato via via che ha preso forza al suo interno la cultura del consumo e ciò è avvenuto in tutto l’Occidente. Jean Baudrillard ha chiamato tale fenomeno «effetto Beaubourg», dal nome del museo che, alla fine degli anni Settanta, per la prima volta ha messo in luce che l’arte, come la società, stava inevitabilmente sottomettendosi al dominio dei flussi circolatori delle merci.

 

 

Lo statunitense George MacDonald è andato oltre il concetto di «effetto Beaubourg», sostenendo qualche anno fa che i musei contemporanei praticano il modello di Disney World, cioè il modello Disney del parco a tema. Parlare di “disneyficazione” per i musei forse è eccessivo, ma è certo comunque che negli ultimi decenni questi luoghi sono profondamente cambiati per effetto soprattutto della necessità di fare fronte alla progressiva riduzione dei fondi statali, in conseguenza del diffondersi delle politiche neoliberiste. È cominciato così l’inseguimento a sponsor e mecenati, ma anche il ricorso a tutto ciò che potesse ottenere una qualche visibilità nei media, come mostra efficacemente il recente film The Square del regista svedese Ruben Östlund. 

I musei hanno sempre più cominciato perciò a praticare delle vere e proprie strategie comunicative e a farsi contaminare dalla cultura del consumo. Non a caso il Louvre, il più grande museo al mondo e anche il più visitato (con oltre 7 milioni di visitatori annuali), è stato anche il primo a dotarsi di un centro commerciale interno. D’altronde, oggi tutti i musei cercano di prendere a modello la struttura di luoghi che godono di un grande successo popolare come i centri commerciali. 

 

Nessuna meraviglia allora se i musei adottano la stessa strategia che caratterizza il comportamento delle marche aziendali. Una strategia basata sulla ricerca di visibilità e necessariamente globale. Guggenheim già da tempo ha aperto vari musei nel mondo, a cominciare da quello realizzato a Bilbao su progetto di Frank Gehry, una gigantesca e spettacolare scultura di titanio color argento che trasmette la sensazione di un ammasso di forme esplose e “collassate”. E un altro ne aprirà presto ad Abu Dhabi, a fianco del nuovo e sorprendente museo Louvre firmato da Jean Nouvel. E la stessa strategia propria delle marche aziendali è stata adottata anche da parte di Tate, che ha costruito negli ultimi anni in Inghilterra quattro sedi museali: Tate Britain e Tate Modern a Londra, Tate Liverpool e Tate St Ives. 

 

Ciò che colpisce è però soprattutto che oggi anche la logica seguita nei musei di tutto il mondo per organizzare le collezioni permanenti e per progettare e allestire le mostre è profondamente influenzata dalla cultura del consumo, dove tutto viene mescolato senza distinzioni di sorta. Dove cioè non esistono criteri distintivi, né di ordine temporale né di altro tipo. Così, le opere d’arte vengono organizzate non più secondo una logica cronologica che consenta al visitatore non esperto di conoscere l’evoluzione storica, ma secondo grandi temi considerati equivalenti tra loro, come avviene d’altronde nell’eterno presente del consumo. E dove spiccano unicamente i pochi “artisti-star” o le poche “opere-star”, cioè quello che è in grado di attirare l’attenzione, esattamente come i testimonial famosi della pubblicità delle marche. 

Si comprende così perché, come mettono bene in luce Montanari e Trione, anche all’esterno dei musei oggi le mostre che vengono realizzate in Italia, comprese quelle prestigiose della Biennale di Venezia, non siano frutto di un progetto culturale innovativo, ma concepite per essere di facile accesso, come avviene negli odierni spazi commerciali. D’altronde, si è creato un vero e proprio mercato, al cui interno si sono abilmente inserite delle aziende private che perseguono finalità di profitto e non certamente di tipo culturale. Quello che conta per loro è avere sempre maggiori quantità di visitatori, cioè fare del fatturato. Sorprende però che anche gli amministratori pubblici, che dovrebbero avere delle finalità di altro tipo, abbiano sposato questo modello. Un modello dove, come hanno scritto Montanari e Trione, «Le mostre non devono far riflettere, educare, insegnare qualcosa. Devono essere spettacolo».

 

Montanari e Trione hanno proposto delle regole da seguire per modificare e migliorare la situazione esistente. Ma il processo di degenerazione che hanno minuziosamente descritto è probabilmente troppo avanzato oggi per poter pensare di correggerlo. Forse è tardi cioè per far sì che l’arte, invece di essere rassicurante e facilmente consumabile, possa ridiventare un oggetto disorientante e che ci costringe a interrogarci sul senso della nostra vita. O forse qualche speranza possiamo ancora nutrirla, se è vero che si organizzano mostre come quella di Eccher su Christian Boltanski. 

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Montanari e Trione: Contro le mostre
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Luigi Ghirri: memoria e infanzia

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Il primo Atlanteè un poema visivo concepito da Claudio Parmiggiani insieme a Emilio Villa e Nanni Balestrini nel 1970. Si tratta di un mappamondo di plastica sgonfiato, accartocciato e stirato, che Luigi Ghirri fotografa in una sequenza d’immagini incluse nel volume di Ennery Tamarelli Memoria come un’infanzia. Il pensiero narrante di Luigi Ghirri (Diabasis, 2017). In quel periodo il fotografo abita a Modena dove lavora come geometra. Ha un vicino di casa, Franco Guerzoni, un artista che l’ha introdotto nel giro dei poeti e degli operatori visivi che ruotano intorno alla neoavanguardia e alle piccole riviste stampate tra Modena e Reggio Emilia come “Malebolge”, che annovera tra i suoi animatori Adriano Spatola e Corrado Costa. Poco lontano, a Bologna, c’è poi Luciano Anceschi con il suo “il Verri”, deus ex machina del rinnovamento letterario e poetico. Tra gli artisti modenesi Ghirri conosce ben presto Giuliano Della Casa, inventivo autore di performance visive legate al libro. Luigi realizza per lui una serie di scatti; saranno parte importante di un volume intitolato Della casa (1971), che ritrae in successione l’androne e le scale dell’abitazione di Della Casa, fotografie che ricordano, anche per l’architettura del luogo, immagini degli anni Venti e Trenta del Novecento. Viste oggi quelle fotografie di scale e porte fanno pensare al lavoro di Georges Perec, al suo Specie di spazi, libro del 1974 nato da una commissione di Paul Virilio. 

 

Il secondo Atlanteè invece del 1973, più volte riprodotto e che si può vedere nella sua interezza, o quasi, al Maxxi nella mostra (esposte 41 fotografie) a cura di Margherita Guccione, Bartolomeo Pietromarchi, Laura Gasparini. Due delle immagini più famose di questa serie hanno al centro dello scatto le parole “Oceano” e “Desert”. Sono l’esplorazione dell’“universo interiore” su cui si sofferma Ennery Tamarelli nel suo volume. Sono il viaggio intorno alla propria stanza, come poi Identikit del 1979, dedicato invece ai dorsi dei suoi libri, alla biblioteca di casa: i libri letti, compulsati e amati.  

 

 

Il volume di Tamarelli ha il merito di ripartire dal circolo di artisti modenesi che sono stati per Ghirri un momento fondamentale della sua formazione, da cui ha appreso alcuni stilemi della neoavanguardia di quegli anni, ma volgendoli verso un aspetto più sentimentale ed empatico di quanto lo stile ideologico e artistico dell’epoca sembra suggerire, se non proprio imporre. In Parmiggiani e Della Casa, artisti assai diversi tra loro, c’è un atteggiamento concettuale simile, che tuttavia li ha portati a esiti differenti: l’ironia mozartiana tutta leggerezza in Della Casa e la ricerca di un sacro laicizzato, isola dell’Assoluto, in Parmiggiani. L’impronta è però comune, e questa, anche attraverso l’ironico Guerzoni, si è trasmessa al fotografo emiliano. 

 

Ph Luigi Ghirri.


L’elemento dell’infanzia, quello che Taramelli definisce come “memoria”, è rimasto operante sino agli ultimi momenti della sua attività di fotografo, quando l’obiettivo si è rivolto non più verso l’universo del libro – oggetto infantile per eccellenza, feticcio degli inizi –, ma piuttosto verso lo spazio aperto intorno a lui, il paesaggio nebbioso o nevoso, che circondava la sua casa di Roncocesi, nei pressi di Reggio Emilia. Dopo averla acquistata, ha raccontato una volta Gianni Celati, Luigi Ghirri accendeva tutte le luci di casa e usciva a guardarla da fuori, a contemplarla. Un edificio dalla forma squadrata, con tante finestre, solido e insieme misterioso, una di quelle case dove un tempo vivevano mezzadri o fattori, con un ingresso ampio al centro e scale di mattonelle di cotto per salire ai piani superiori. Deve averla fotografata più volte con lo stesso sguardo e incanto con cui aveva ritratto il dentro delle sue stanze, gli atlanti, oggetti del suo viaggio fantastico, e i libri, altre macchine per spostarsi nel tempo e nello spazio. 

 

“Incanto” è una delle parole chiave dell’opera di Ghirri che appartiene anche al gruppo di artisti di Modena di cui diventa l’occhio fotografico. A ben guardare quell’incanto è già presente nel quadro dallo zio pittore, Walter Iotti, che raffigura il borgo di Fellegara, frazione vicino a Scandiano, da cui proveniva la famiglia di Luigi Ghirri. Si tratta di un ampio stradone di ghiaia che si piega leggermente, su cui c’è un carretto fermo, mentre un uomo anziano con il bastone procede a lato nella direzione dell’osservatore. Forse non a caso la strada è un altro motivo della “memoria” che fa sì che tutto quello che Ghirri fotografa sia un “già-visto” nel senso del “già-immaginato” o “già-pensato”; o meglio ancora: “già-sognato”. Il fantastico è una delle chiavi che ci permettono di cogliere la malia che promana dalle sue fotografie, quell’incanto che è una magia o, come dice l’etimo del verbo “incantare”: recitare formule magiche. Cantano le immagini di Ghirri, e a guardarle bene e a lungo, fanno restare trasognati come presi dal suono che le anima. Ci si domanda: ma dove ho già visto tutto questo? L’infanzia è il luogo magico da cui provengono tutte le immagini che ci colpiscono senza ferirci, che ci raggiungono senza mai stravolgerci.

 

In uno dei testi raccolti dopo la sua scomparsa nel volume Niente di antico sotto il sole (SEI 1997) – titolo emblematico per la sua stessa poetica – Ghirri scrive che la sua idea di fantastico si adatta perfettamente all’idea di paesaggio: “è proprio all’interno di questa mutazione, passaggio dal mondo del fiabesco a quello del fantastico, che si può spiegare l’aria di inquietante tranquillità che abitano i luoghi e paesaggi, che sembrano abitati di nuovo dal mistero” (“Gran Bazar”, 1988). Il libro cui Ghirri fa riferimento è di Roger Caillois; s’intitola: Al cuore del fantastico, ed è apparso in quegli anni presso Feltrinelli (1984). Il medesimo sguardo fantastico, infantile (“infanzia” come infans, colui che non può ancora parlare), che scorgiamo nelle fotografie-quadro di Atlante esposte al Maxxi. Sarà la chiave della sua immersione nel paesaggio. La lezione concettuale degli inizi – un concettuale emiliano, pieno di malia, ironia e tanta fantasia – la ritroviamo negli scatti più noti e riprodotti del fotografo: nella casa immersa nell’acqua, nella chiesa fissata frontalmente, nei giocatori di calcio colti nel buio della notte sotto i lampioni, nelle rose che crescono contro il muro. 

 

 

Il volume di Ennery Taramelli mostra questa continuità nella sua fotografia, dagli anni Settanta all’inizio dei Novanta, quando improvvisamente scompare lasciando dietro di sé un’opera ampia e variegata, ma sempre coerente. Cercando la radice comune, che lo apparenta a Bachelard, Benjamin, Calvino, Hillman e ad altre figure che cita, Taramelli finisce per riconoscere questo binomio di memoria/infanzia. Si tratta della medesima peculiarità che lo unisce ai suoi amici modenesi degli inizi (Guerzoni, Parmiggiani, Della Casa), qualcosa che ha che fare con la fiaba, inteso come racconto d’immagini e fantasie. L’opera di Ghirri si situa in un terreno che sta a metà strada tra la letteratura e le arti visive, che spiega anche la ragione della sua convergenza con Gianni Celati negli anni Ottanta. Chi ha letto il suo libro, Niente di antico sotto il sole, si sarà accorto di come il fotografo modenese sia anche uno scrittore; cerca di spiegare prima di tutto a se stesso cosa sta facendo attraverso un racconto, che è per lui anche un pensare ad alta voce, sulla pagina, usando le parole. 

 

Il passaggio dalle foto dell’interno verso l’esterno, il mondo intorno, e che si compendia nell’impresa di Viaggio in Italia, la mostra da lui voluta nel 1984, deriva proprio da questa forma primigenia del suo sguardo. Come il bambino della fiaba di Andersen, I vestiti nuovi dell’imperatore, per vedere la realtà così come era davvero, Ghirri doveva usare la propria risorsa migliore: l’ingenuità, quella che, come nella fiaba, i cortigiani avvolti dallo sguardo del potere non potevano possedere. Guardando i distributori di benzina al tramonto, i casali diroccati, le insegne sospese in alto, le palme di un viale marittimo, il cielo per 365 giorni, Ghirri ha spiazzato lo sguardo consueto. 

 

Una delle sue frasi preferite nell’ultimo periodo della sua vita è stata: “Basta con l’estetica!”. Sembra quasi un paradosso, perché le sue immagini sono sempre “belle”, possiedono un’armonia davvero straordinaria. L’estetica, come ci fa capire Ghirri, è proprio il contrario del “bello”. Il “bello”, come lo pensa il fotografo emiliano, non si può trasformare in un oggetto estetico, se non depauperandosi della malia che possiede, del suo incanto. Anche oggi che guardo da oltre trent’anni le sue fotografie, quelle che ho in casa, mi sembra sempre di vederle per la prima volta. Sono “nuove” proprio per l’incanto che contengono. 

 

Una delle frasi contenute nei suoi scritti più citate è di Giordano Bruno. Suona così: “le immagini sono enigmi che si risolvono col cuore”. Enigma è un’altra parola-baule del lessico visivo di Ghirri. Significa in origine “racconto, favola”. Nelle fotografie di Ghirri l’aspetto narrativo è sempre presente. In che modo? Attraverso la temporalità. Ogni sua immagine contiene sempre un prima e un poi. Non solo la temporalità del “ciò-che-è-stato”, di cui Roland Barthes ci ha parlato, per indicare il rapporto che la fotografia intrattiene necessariamente con la morte, ma con “ciò-che-ancora-sarà”. Ovvero con quella forza che l’enigma muove verso il futuro: un racconto rivolto al futuro, che continua. Per dirla con le parole di Celati, che per primo ha intravisto il senso enigmatico degli scatti di Ghirri, la sua fotografia “risponde che è anche possibile pensare che il tempo rinnovi, che ogni scatto accidentale rinnovi la percezione, invece d’essere soltanto la pietra tombale dei momenti di vita”. 

 

Le sue immagini rimandano a qualcosa di già visto, alla catena delle cose che vediamo nel corso della nostra vita; e al tempo stesso anche qualcosa che vedremo in seguito, nel futuro, e che le sue foto già contengono in potenza. Il cuore cui allude la frase di Bruno non indica solo l’aspetto sentimentale, emotivo o amoroso – c’è anche quello naturalmente –, ma il cuore così come lo pensavano gli antichi: l’organo del corpo umano che è la sede della Memoria. Il titolo del libro di Ennery Taramelli ce lo ricorda: memoria e infanzia. 

 

Ho conosciuto Luigi alla metà degli anni Ottanta per caso. Non sapevo neppure che facesse il fotografo. Eravamo seduti vicini a una conferenza di un comune amico. Una volta usciti con lui, per la strada lo sentii fare all’amico conferenziere delle domande. Erano le più ingenue che si potessero formulare, ma anche quelle decisive. Niente d’intellettuale: pura curiosità. Come solo un bambino sa fare. La sua fotografia è così. 

 

Luigi Ghirri, Atlante, fino al 21 gennaio 2018 (MAXXI, Roma).

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Il suo Atlante al MAXXI
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Utopie radicali a Firenze

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Effetto onda

 

Poco dopo la mezzanotte di venerdì 4 novembre 1966, il fiume Arno cominciò a straripare colpendo Firenze, i comuni limitrofi e molte zone della Toscana, tra cui Pisa e Grosseto. Con la sua esondazione, un magma di acqua, fango e nafta si spanse per il centro città, senza tante distinzioni tra biblioteche e carceri, abitazioni private e palazzi comunali, negozi di orafi e chiese storiche, anziane suore da convento e prigionieri, macchine e mandrie di campagna, i depositi degli Uffizi e i manoscritti della Biblioteca Nazionale. Il livello dell’acqua salì fino a sei metri, l’elettricità, l’acqua corrente e il gas saltarono. I detenuti delle carceri furono messi in salvo per evitare la fine del topo, ospitati nelle case dei fiorentini. 

Con 250 milioni di litri d’acqua limacciosa e 600.000 metri cubi di fango, la culla del Rinascimento si ritrovò nella mota, in una pozzanghera di liquami. Il Crocifisso di Cimabue nella Basilica di Santa Croce ne è, ancora oggi, il testimone muto.

Nota è la solidarietà internazionale dei cosiddetti “angeli del fango”, giovani di tutta Europa che accorsero a Firenze per salvare libri e opere d’arte. Noti i provvedimenti pubblici: dall’alzamento delle spallette dell’Arno a una approfondita ricognizione idraulica, dallo studio di tecniche per la difesa dalle alluvioni allo sviluppo della tutela del patrimonio artistico danneggiato. Firenze diventò così un cantiere sperimentale di tecniche di restauro e di conservazione. Dalla catastrofe risorge la civiltà.

 

Alluvione di Firenze, 1966.


Ora, c’è un altro evento capitale, a volte tralasciato dalle cronache, che seguì l’alluvione: Superarchitettura, la mostra alla Galleria Jolly 2 di Pistoia dal 4 al 17 dicembre 1966, organizzata da Adolfo Natalini con la collaborazione di Archizoom Associati e Superstudio. Si trattava in realtà di due stanze sotterranee o, come ricorda Gilberto Corretti, “una specie di scantinato umido […] proprietà di Fernando Nerozzi che trattava pesce: ma tanto avevamo a disposizione” (cit. da Maria Cristina Didero in Utopie Radicali. Oltre l’architettura, Firenze 1966-1976, a cura di Pino Brugellis, Gianni Pettena, Alberto Salvadori, Quodlibet Habitat, 2017, p. 66; le citazioni provengono da qui, ove non specificamente indicato).

Nel poster-manifesto tutto diventa super: superproduzione, superconsumo, supermarket, ma anche benzina super e superman. In mostra si ricordano la lampada petalosa in plastica colorata Passiflora di Superstudio e il divano ondulato in poliuretano espanso Superonda di Archizoom, oltre a Supersonik, Per Aspera, La mucca, Superonda, esposti al ritmo della musica di Beatles, Rolling Stones e Jimi Hendrix. 

Come la tredicesima Triennale di Milano (1964) dedicata al tempo libero, questi oggetti architettonici e di design costituivano un’evasione divertente e divertita dalla funzionalità. Attraverso un linguaggio pop, tendevano a una dimensione non alienata dalla logica del lavoro e dalla società di massa, a un’alternativa alla fabbrica, al parcheggio e al supermarket. Sono questi i grandi spazi della città neocapitalista messa a nudo nell’architettura senza qualità di Archizoom, su cui ha insistito Pier Vittorio Aureli in un libro militante, Il progetto dell’autonomia. Politica e architettura dentro e contro il capitalismo (Quodlibet 2016, ma uscito in inglese nel 2008), dove il conflitto diventa “anima della città moderna e del suo progetto”.

Chiusa la mostra di Pistoia, l’imbuto colorato posto all’ingresso fu adibito a pollaio, la galleria d’arte a pub e bisognerà aspettare il 2007 prima che il Centro Studi Poltronova ricostruisca pazientemente la mostra basandosi sugli esigui documenti rimastici. 

 

Dieci giorni erano stati tuttavia sufficienti a immaginare una nuova visione del mondo. Quello di Pistoia non era infatti un divertissement da architetti freschi di laurea per esorcizzare i capricci dell’Arno: “Gli oggetti dovevano entrare nelle case addormentate della borghesia fiorentina e italiana come dei cavalli di Troia per stimolare lo stesso shock che in noi aveva provocato la visione dell’acqua all’interno dei monumenti fiorentini” (Cristiano Toraldo di Francia in Superstudio. La vita segreta del Monumento Continuo. Conversazioni con Gabriele Mastrigli, Quodlibet 2015, p. 97). 

Non era altro che il primo passo di quel processo di “liquefazione […] sia delle tipologie degli interni domestici sia degli interni urbani”. L’alluvione “voleva anche dire ‘fine della razionalità’: l’irrazionale era entrato all’interno di questa città rigorosa, geometrica, perfetta, e l’aveva completamente sconvolta, sostituendo ai marmi e alle pietre un pavimento liquido, in cui i monumenti galleggiavano isolati” (Toraldo di Francia, p. 95).

 

Superarchitettura, Galleria Jolly 2 di Pistoia, dicembre 1966.


A liquefarsi era l’idea della casa come macchina per abitare di Le Corbusier, come aveva già intuito Ettore Sottsass, che al Primo congresso mondiale degli artisti liberi del 1956 ribadì come “l’uomo non è né un minerale né un prodotto chimico”. Il passo successivo è un condensato di antropologia sottsassiana: “l’uomo è un affare strano che affolla i campi sportivi e si scalmana, gli ospedali e urla, le chiese e si commisera, affolla i teatri e si commuove, affolla le spiagge e si lava; l’uomo è un affare strano con tumori e sesso, con pazzia e lacrime, e così via” (cit. da Elisabetta Trincherini in “Cronistoria”, p. 310). 

Per la generazione degli architetti radicali Sottsass, con la sua attenzione alla partecipazione emotiva e alla sensualità degli oggetti, costituisce un “esempio sia operativo che comportamentale” (Gianni Pettena, p. 28). Lo dimostra, da ultimo, la bellissima mostra che, per una felice congiuntura, si tiene alla Triennale di Milano (Ettore Sottsass. There is a Planet, fino all’11 marzo) in occasione del centenario della nascita e dal decennale della scomparsa.

 

Progetto e utopia

 

L’esondazione dell’Arno coincide insomma col de profundis del Movimento Moderno, intonato, con festiva esultanza, dagli architetti radicali. Una vicenda che si può leggere come un debordante straripamento. È questo perlomeno quello che rimugino visitando Utopie Radicali. Oltre l’architettura, Firenze 1966-1976 con Archizoom, Remo Buti, 9999, Gianni Pettena, Superstudio, UFO, Zziggurat, la mostra curata da Pino Brugellis, Gianni Pettena e Alberto Salvadori, con la collaborazione di Elisabetta Trincherini a Palazzo Strozzi, con due propaggini nel cortile e al Mercato Centrale (fino al 21 gennaio e in seguito, ho sentito dire, al Canadian Centre for Architecture di Montréal).

Il gorilla con l’aureola che si batte il petto – copertina di “Casabella” del luglio 1972 dedicata alla mostra del MoMA di New York Italy. The New Domestic Landscape, a cura di Emilio Ambasz – più che accogliere lo spettatore, lo getta in media res o, se si preferisce, nel fango creativo, nel blob irriverente. Una guerrilla anti-establishment che si consumò nel giro di pochissimi anni.

Trecentoventi opere costituiscono un mosaico colorato di progetti e opere di quella che è stata giustamente considerata come l’ultima avanguardia italiana. Non manca nessuno all’appello. C’è Archizoom Associati col divano Superonda e Safari, i letti Dream Beds, la poltrona Mies, la No-Stop City, i gazebo ideati per “Pianeta Fresco”, rivista di Sottsass e Fernanda Pivano, con Allen Ginsberg nelle vesti di “direttore irresponsabile”.

 

Affiche della mostra Utopie Radicali. Oltre l’architettura, Firenze 1966-1976, rielaborazione della copertina di "Casabella", luglio 1972.


Ci sono gli Istogrammi d’architettura e il Monumento Continuo di Superstudio del 1969, “modello architettonico di urbanizzazione totale”, dove la Terra è attraversata da una griglia urbanistica che la ricopre senza discriminazione, anticipando quello che oggi chiamiamo antropocene. C’è Gianni Pettena con il Rumble Sofa, la trilogia politica Carabinieri, Milite Ignoto, Grazia & Giustizia, le Wearable Chairs: “diminutivo della casa, la sedia ricostituisce un modo nomade di abitare senza architettura” (Marie-Ange Brayer, pp. 53-54). C’è 9999 con l’happening di video-proiezioni su Ponte Vecchio nel 1968, l’environment audiovisivo del locale notturno fiorentino Space Electronic, la casa-orto. Ci sono gli UFO con gli Urboeffimeri, tubolari gonfiabili come Colgate con Vietcong, Potele agli Studenti, le versioni gonfiabili delle Case cantoniere ANAS, il progetto “fantaurbanistico” del Giro d’Italia. Ci sono i piatti di architettura, i gioielli in ceramica e la lampada Star’s dell’“archigiano” Remo Buti. C’è Zzigurat, dalle piazze fiorentine immerse nel verde al progetto Archeologia del futuro presentato alla Biennale di Venezia nel 1978.

 

Utopie radicali insiste sulle sinergie e le congiunture storiche ed estetiche piuttosto che sugli apporti specifici dei singoli gruppi, con le rivendicazioni autoriali e le inevitabili – e, col tempo, poco interessanti – litigiosità. Il decennio 1966-1976 è restituito nella sua irriducibile eterogeneità, un tessuto polifonico dove le idee circolavano come il vento o l’aria condizionata – “la qualità dell’aria condizionata è più importante della qualità dell’edificio” ricordava Cedric Price di Archigram –, e ognuno le traduceva, secondo le sue inclinazioni, in parole, testi, progetti e opere. “Nelle loro ricerche talvolta oggetto e città, natura e città, architettura e città coincidono, talaltra la città esiste senza l’architettura, l’architettura esiste senza la città, esistono oggetti senza architettura e senza città o esiste solo l’oggetto natura che si contrappone all’oggetto città” (Pino Brugellis, Manuel Orazi, p. 34). Solo in questo modo, mi sembra, l’architettura radicale è in grado di parlare al nostro presente e dispiegare il suo potenziale utopico.

 

Superarchitettura, Galleria Jolly 2, Pistoia, dicembre 1966.

 

Travolgente come un fiume in piena era l’incunabolo dell’architettura radicale, la Facoltà di Architettura di Firenze, “una piattaforma per la sperimentazione e per la critica delle ideologie impostesi nel periodo postbellico” (Mirko Zardini, p. 14). Gli argini disciplinari dell’architettura straripano nella filosofia, nella sociologia, nella politica, in quelle che poi si chiameranno scienze della comunicazione. In cattedra si alternano i tre Leonardo – Savioli, Ricci, Benevolo –, Ludovico Quaroni, Adalberto Libera, Giovanni Klaus Koenig, Gillo Dorfles. Nei laboratori politici vicini all’Operaismo intervengono, sin dal 1962, Massimo Cacciari, Mario Tronti, Alberto Asor Rosa. 

Decisivo è il magistero di Umberto Eco, che insegna semiologia delle comunicazioni visive. Parte delle sue lezioni confluiranno ne La struttura assente (1968), un titolo che, a conferma della corrispondenza tra architettura e strutturalismo, doveva stuzzicare la fantasia dei suoi studenti. Penso a No-Stop City di Archizoom: se “la gente ha usato la casa per mangiare e dormire. In essa tutto era già individuato da un’architettura consolatoria: restava solo da attaccare i quadretti alle pareti”, al modello borghese si contrappone l’idea di una architettura come “struttura aperta”, libera da modelli socio-culturali precostituiti, volta a “liberare l’uomo dall’architettura, come struttura formale” (“Domus”, marzo 1971). 

E lo stesso Eco è simpaticamente preso a forchettate e coltellate dagli UFO nel 1968: lo vediamo sul tavolo di un ristorante, a braccia conserte, le maniche di camicia arrotolate, la testa sulla tovaglia, tra un pezzo di pane e un bicchiere di vino. Consumata l’ultima cena, si mangerà il Professore a bocconi, come in un rito pagano ed antropofago secondo cui il sapere ha un suo sapore.

Centrale del resto è il ruolo del corpo: il vestito si fa architettura portatile, da indossare come in Vestirsi è facile, titolo di un progetto di Lucia e Dario Bartolini pubblicato su “Casabella” nel dicembre 1973, o nel Dressing Design di Archizoom (1973). 

 

Superarchitettura, Galleria Jolly 2, Pistoia, dicembre 1966.


A straripare sono anche i confini tra architettura e arti visive, da cui “la consapevole trasformazione dell’architettura in immagini e la volontaria demistificazione del progetto come strumento” (Gianni Pettena, p. 24). Un cambio di prospettiva decisivo, in cui i giovani architetti non guardano alla storia della propria disciplina ma all’attualità delle altre discipline. Uno spostamento dall’asse diacronico a quello sincronico, dallo storicismo a uno sperimentalismo attento alla contemporaneità, che genera una dinamica inedita nella cultura visuale italiana.

“Ormai il progetto architettonico può essere anche un semplice documento, un testo, un manifesto, un enunciato concettuale” (Marie-Ange Brayer, p. 47). Progetto e utopia non sono mai stati così vicini anzi, secondo Gianni Pettena, “Il ‘radicale’ è stato utopia”, un rifiuto costruttivo.

 

Humus creativo

 

Torniamo all’Arno. Sbarcato in compagnia di Cy Twombly a Palermo prima di stabilirsi a Roma nel 1952, l’artista americano Robert Rauschenberg lavora alle Scatole, ai Feticci personali e ad assemblage di oggetti raccolti in Marocco. Citazioni della storia dell’arte che affogano in una congerie di materiali e rielaborano l’esperienza dei box di Joseph Cornell quanto dei collage di Kurt Schwitters. Dopo esser stati esposti a Roma nella sua prima personale europea (Galleria dell’Obelisco, 3-10 marzo 1953), fanno tappa a Firenze. Un aneddoto leggendario vuole che, davanti allo scarso interesse suscitato dal pubblico e dalla critica, in una città impegnata a digerire i resti di Lacerba, e su suggerimento iperbolico di un poco benevolo giornalista, Rauschenberg gettò i suoi oggetti nell’Arno. Anche Richard Serra – che viveva a Piazzale Donatello a Firenze e vedeva Masaccio a colazione, Donatello a pranzo e Fra Angelico a cena – farà lo stesso con le sue prime opere. Come se nell’Arno affondasse il dialogo, pur fecondo, tra artisti italiani e americani.

 

Superarchitettura, Galleria Jolly 2, Pistoia, dicembre 1966.


Custodite nell’alveo nel fiume, smosse dall’esondazione del 1966, le opere di Rauschenberg e Serra – in quanto simbolo dell’arte americana del dopoguerra – sono recuperate simbolicamente dai giovani architetti fiorentini. I loro riferimenti oscillano dalle sculture-monumento fuori scala di Claes Oldenburg (riprese e sviluppate da Zziggurat) alle griglie di Sol LeWitt, dagli happening di Allan Kaprow alle performance di Vito Acconci, dalla funk architecture alla Land art, fino alla carica visionaria di Buckminster Fuller.

 

Umberto Eco in pasto agli UFO, 1968.


Nessuna subalternità tuttavia: le opere dell’architettura radicale influenzeranno a sua volta, Delirious New York di Rem Koolhaas che cita gli Istogrammi d’architettura di Superstudio, i disegni di Parc de la Villette di Bernard Tschumi vicini alla No-Stop City di Archizoom Associati, le pareti vegetali di Herzog de Meuron a Madrid e Bosco Verticale a Milano che evocano il Tumbleweeds Catcher di Pettena a Salt Lake City del 1972. Proprio l’Anarchitetto Pettena trascorrerà molto tempo negli Stati Uniti, insegnando alla University of Utah, dove il preside gli prega di ridurre le citazioni marxiste (lo ricorda Manfredo di Robilant, p. 96). Negli States Pettena ammira il paesaggio americano dal finestrino dell’automobile, dai villaggi hippie di Sausalito alle abitazioni dei Nativi Americani Acoma e Navajos in New Mexico; da Las Vegas all’antropizzazione del deserto, come già Reyner Banham in Deserti americani (tradotto da Einaudi nel 2006). Fino al viaggio a Salt Lake City con Robert Smithson nel 1972, documentato dall’intervista pubblicata su “Domus” nel novembre 1972. Un viaggio ricostruito ora in The Curious Mr. Pettena. Rambling Around the USA 1971-73 di Luca Cerizza, Elisabetta Trincherini e James Wines (Humboldt Books 2017).

 

Superarchitettura, Galleria Jolly 2, Pistoia, dicembre 1966.


“Non ci sono catastrofi sufficienti per i vostri meriti”, disse il padre di Dario Bartolini al figlio (cit. da Maria Cristina Didero, p. 78). Tuttavia, secondo una protagonista dell’epoca come la critica Lara-Vinca Masini, “Firenze comunque rimase inerte; e in seguito fallirono anche i futuri progetti (richiesti comunque dalle Istituzioni) di Isozaki, di Nouvel, ad esempio” (p. 45). Per non citare l’occasione mancata del museo di arte contemporanea promosso da Carlo Ludovico Ragghianti.

Eppure quel magma mefitico dell’Arno seminò un humus creativo, coltivato e fiorito grazie all’architettura radicale e ad altre esperienze artistiche successive (cfr. Arte a Firenze 1970-2015. Una città in prospettiva, a cura di Alessandra Acocella e Caterina Toschi, Quodlibet Studio 2016). L’Italia resta il paese europeo a più alto tasso di catastrofi meteorologiche, geofisiche e tecnologiche. Se non vogliamo che altra arte contemporanea finisca nel letto dell’Arno, ripartire dalle utopie radicali mi sembra il miglior augurio che si possa fare.

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Paolo Icaro: finito non finito

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Ridiscutere il canone dell’arte italiana dell’ultimo mezzo secolo è impresa che potrebbe apparire superflua, tanto sembrano consolidati, indiscutibili quasi, i “valori”, le correnti, le personalità che ne occupano stabilmente, da sempre si direbbe, il proscenio. Ma fare storia non è mai un’impresa neutrale, un gesto puramente ricettivo, una mera asseverazione. Osservare in filigrana i passaggi difficili, far risaltare le lacune, le rimozioni più o meno intenzionali della vicenda artistica ­– come va facendo da almeno tre lustri una nuova generazione di studiosi, tanto italiani che internazionali –, significa interrogare non tanto la tenuta del canone, quanto la sua stessa legittimità, sfidandone la narrazione istituzionale e le concrezioni ideologiche in nome di una nuova leggibilità, di una percezione più sottile e produttiva, un atteggiamento oggi più che mai indispensabile ad esempio nei confronti di fenomeni artistici complessi e controversi come l’Arte povera, la cui apparente, invidiabile compattezza si è potuta mantenere nel tempo solo a prezzo di una progressiva sclerosi della sua ricezione critica, dove l’eccessiva dipendenza dalla parola dei protagonisti ha inevitabilmente condotto a una semplificazione, a un offuscamento della sua vicenda storica.

 

Il caso di Paolo Icaro (Torino, 1936) è per molti versi esemplare di un mancato rinnovamento interpretativo che ha finito per emarginare la sua opera così come quella di altre personalità del suo tempo, e che forse solo oggi, anche grazie a una recente monografia di Lara Conte, Paolo Icarofaredisfarerifarevedere (Mousse Publishing 2016), abbiamo per la prima volta modo di rileggere non più dalla prospettiva di una presunta eclisse ma da quella una presenza ricca, complessa, originale, attiva lungo un arco temporale eccezionalmente esteso. Il problema di Icaro, che avvia la sua attività negli anni Sessanta tra Italia e Stati Uniti, dove poi risederà per tutto il decennio seguente, è stato in effetti quello di un’intera generazione: superare una concezione della scultura in quanto oggetto, trasformarla in processo, in evento fenomenologico, in esperienza. Le Forme di spazio e le Gabbie (1967) segnano in questo senso il suo primo approdo a una dimensione insieme energetica e mentale, tanto da valergli l’inclusione da parte di Germano Celant in una mostra chiave di quegli anni come Arte Povera – Im-Spazio, tenutasi alla Galleria La Bertesca di Genova nel ’67.

 

C’era una volta, 2017 - Ph. Michele Sereni

 

Da questo momento in avanti la traiettoria di Icaro si allarga via via alle qualità intrinseche dei materiali, colti nella loro contingenza fenomenologica, nella instabilità di configurazioni dipendenti dalla posizione e dall’ambiente circostante, come pure alla relazione con il piano biografico e a un’autoriflessività di tono più poetico che concettuale. La sua pratica ruota intorno a una nozione fondamentale: la misura-distanza, che può essere letta, come scrive Lara Conte, come “una via alla consapevolezza”, come modo di stabilire una nuova relazione tra sé e mondo, “di tracciare una traiettoria tra la Storia e la propria storia personale”.

 

Questo accento esperienziale e temporale permea già le opere che Icaro realizza fra 1968 e ’69, anni in cui partecipa ad alcune delle più importanti manifestazioni del momento, come Teatro delle mostre, alla galleria La Tartaruga di Roma e Arte povera + azioni povere, agli Arsenali di Amalfi (1968), e a fondamentali rassegne internazionali come Op Losse Schroeven. Situaties en cryptostructuren allo Stedelijk Museum di Amsterdam e When Attitudes Become Form, curata da Harald Szeemann alla Kunsthalle di Berna (1969). Sono gesti spesso effimeri, leggeri, immateriali, tutti, a ben vedere, emotivamente sovraccarichi: risarcire con malta e cazzuola l’angolo sbrecciato di un antico palazzo ad Amalfi, incidere frasi sulle finestre nere di grafite di una sala del museo di Amsterdam, leggere (ma l’azione all’ultimo momento non venne realizzata) una breve frase, I was born for love, durante l’inaugurazione a Berna.

 

Per il volo di una farfalla, 2011 e Racconto, 1969 - Ph. Michele Sereni

 

Un’opera di quegli stessi anni, pure se atipica per materiali e forma, Per il volo di una farfalla (1969) – una campana di vetro dall’interno affumicato in cui il battito d’ali dell’insetto ha segnato, sgraffito in effetti, tenui tracce lucenti –, sembra riepilogare una concezione del lavoro artistico come testimonianza corporea ed esistenziale, come flebile traccia indicale di un contatto tra vita, tempo, materia: un richiamo al dato primario, come ha scritto Hannah Arendt ne La vita della mente, che “noi siamo del mondo e non semplicemente in esso”. L’archetipica opposizione tra luce e oscurità, la metafora della vita come tragica ironia, adombrata dalla farfalla e dalla campana di vetro (un dispositivo usato tradizionalmente per proteggere e presentare immagini sacre od oggetti d’affezione), mettono tuttavia in luce un’altra caratteristica che diventerà essenziale nel percorso successivo di Icaro, differenziandolo dalle poetiche poveriste basate sulla captazione e l’uso dell’energia materiale, sulla liquidazione dell’autorialità, sul caso e la serie. Vi sarà sempre infatti nella sua scultura un’accentuazione della risonanza metaforica di materie e forme, il ricorso a un’emblematicità certo riluttante ma inequivocabile. In altre parole, Icaro è sì pienamente partecipe della temperie che intorno al ’68 espande il campo della scultura, ma la sua traiettoria diverge già all’inizio, e sempre più nei suoi futuri sviluppi, dalla radicalità fenomenologica di molti suoi compagni di strada.

 

Per il volo di una farfalla– in una versione del 2011 – è incluso in una recente esposizione personale di Paolo Icaro, Unending incipit (a cura di Davide Ferri e Saverio Verini, Pinacoteca Comunale di Città di Castello, catalogo Magonza Editore, fino al 28 gennaio) che accosta lavori storici e recenti nel quadro suggestivo del Palazzo Vitelli alla Cannoniera. Poggiati sul pavimento degli ambienti di esposizione, i Racconti (1969-2011), piccoli parallelepipedi di materiali diversi (acciaio, granito, cristallo, ecc.), su cui è appunto inscritta a mano la parola “racconto”, posati a pavimento su fogli di piombo ripiegati (originariamente di carta grigiastra, carta “da oscuramento” usata nell’ultimo conflitto mondiale, un materiale inevitabilmente carico di una specifica valenza storica e biografica), rivelano immediatamente il tentativo di Icaro di comporre una “geografia affettiva” dei materiali della scultura, sospesa tra pura potenzialità plastica e vissuto reale.

 

C’era una volta, 1968 - Ph. Michele Sereni

 

In C’era una volta (1968), una tavola grezza di ciliegio dal profilo irregolare, presentata in orizzontale su un cavalletto da pittore, questa indicazione è ancora più esplicita: la consistenza organica della pianta viene “trasfigurata”, per riprendere l’osservazione di Saverio Verini, e l’iscrizione del titolo sul legno stabilisce l’implicita equiparazione tra la superficie di legno e una “pagina” sempre già scritta dall’esistenza dell’albero e ora come liberata dall’operazione dell’artista. In una installazione dallo stesso titolo realizzata appositamente per la mostra, dieci grandi tavole di quercia erette nel giardino all’italiana del palazzo Vitelli, Icaro traduce in legno il motivo della stele, praticato sin dagli anni Ottanta, ma privato del travaglio manuale, della instabilità e della fragilità caratteristiche delle opere in gesso. Qui una verticalità “ieratica, assertiva, misteriosa”, come scrive Davide Ferri in catalogo, incontra la dimensione più riposta e sfuggente della fiaba naturale che affiora nello spessore del legno.

 

Il lavoro più affascinante della mostra è però Nido (2017), un grumo di gesso bianco in forma di nido di rondine issato su un’asta di ferro nel loggiato rinascimentale affacciato sul giardino e la città. In questo intervento in situ, appartato e discreto, Icaro rinnova un altro suo tema prediletto, l’indicazione, plastica e metaforica, di una possibile, rinnovata relazione organica tra scultura e mondo, tra biologia e immaginazione, che più che alle esperienze coeve dell’Arte povera e in genere del postminimalismo, può essere accostato alla sensibilità del movimento giapponese Mono-ha, ovvero “scuola delle cose”, e all’opera di artisti come Kishio Suga, Lee Ufan, Nobuo Sekine. Questi e altri protagonisti a partire dagli anni Sessanta sperimentano forme di sottrazione e sospensione della “datità” scultorea in cui le qualità dei materiali, le loro configurazioni spesso effimere, visualizzano processi di rigenerazione psichica e nuove equivalenze plastiche. La fragilità, la frugale discrezione della produzione più recente di Icaro, penso in particolare ai lavori in gesso realizzati nell’ultimo trentennio, appare in questo senso non il segno di un impossibile “ritorno” alla scultura quanto un’ulteriore momento di approfondimento di una ricerca non figurativa intorno ai processi di accrescimento, gemmazione, proliferazione, ora ricondotti alla nozione di unfinishing, un “non finire”, uno stato di perpetua diversificazione, di provvisorietà che l’artista estende dal piano tattile, concreto, alla dimensione biografica e mentale.

 

Uno dei tratti che più concorrono a formare il fascino inattuale dell’opera di Paolo Icaro appare così proprio la sua lunga fedeltà al materiale e al potenziale metaforico di trasformazione che esso racchiude. Non è il mondo delle “cose”, degli oggetti anonimi e dei processi sociali a interessarlo, e neppure la dimensione puramente astratta del pensiero. Piuttosto, è lo spazio intermedio, il piano compreso tra l’inframondo molecolare e la tecnica, lo spazio che l’arte, in una sua incarnazione tardomoderna ma non ancora postumana, può abitare solo a patto di trascinare al suo interno l’oscurità e la vibrazione del corpo vivo, il suo perpetuo oscillare tra volontà e abbandono, tra il rischio e la possibilità della trasformazione. Senza nostalgia o idealismo, l’attitudine di Icaro allude alla possibilità di ritrovare un “punto nevralgico”, un punto reso specialmente sensibile e ricettivo, in cui l’incontro dello spazio, del tempo e dell’azione umana si materializza in concrezioni fragili e multiformi, in un inizio senza fine, o se si preferisce, in una fine che annuncia la possibilità di nuovi e sorprendenti inizi.

 

 

Una versione più breve di questo articolo è stata pubblicata su “il manifesto – Alias” del 7 gennaio.

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Ad una certa ora del mattino

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Come i lettori di doppiozero sanno Imm’è una collana editoriale che si occupa dell’immagine in tutte le sue accezioni e ambiti (arti, cinema, fotografia, filosofia...), partendo dal presupposto che occuparsi di immagine non vuol dire soltanto prenderla ad oggetto del proprio studio e operare, ma che questo comporta anche di adattare ad essa i propri strumenti e argomenti, il proprio pensiero. Ogni volume è composto da contributi di diversi autori di diverse discipline, ordinati, ovvero “montati”, dalla regia dei curatori Elio Grazioli e Riccardo Panattoni. La singolarità della collana consiste in particolare nel progetto di legare ogni volume al seguente in un percorso che non si interrompe e cresce su se stesso, intrecciando di mano in mano questioni teoriche a motivi di attualità. Così dal “not straight” del primo volume, che indagava il rapporto tra “documento, piega e inganno”, secondo l’ottica del “non diretto”, come indica il titolo, della non presunta oggettività della registrazione, si è passati nel secondo volume alla “sovrapposizione”, modalità complessa e pur peculiare dell’immagine del rapporto non solo tra due o più immagini ma anche dell’immagine in se stessa, dunque per “memoria, trasparenze e accostamenti”. Il terzo volume, in uscita nel prossimo febbraio, riguarderà quella modalità di prendere appunti resa celebre dai “carnet” – e questo sarà il titolo – di famosi scrittori e artisti, che diamo forse un po’ per scontata come una pratica di annotazione in diretta, che ha spesso ambizioni di spontaneità o di presa diretta sulla realtà, ma che in realtà è a sua volta un groviglio di intenzioni e tempi. Il quarto volume sarà poi dedicato all’idea di “insorgenza” proprio per cercare ancor meglio di mettere a fuoco una concezione precipua dell’istante di emergenza e di registrazione di un’immagine.

 

La disponibilità della galleria d’arte Isolo 17 di Verona ha convinto i curatori e collaboratori di Imm’ a dare all’iniziativa editoriale anche un prolungamento, Imm’ expo appunto, che non è soltanto l’esito espositivo che ogni progetto che si occupa di immagine auspica, ma la proposta di mettere in rapporto studio e esposizione come si mettono in rapporto immagine e parola, scrittura e creazione visiva, pensiero e prassi, all’interno dei volumi. Le mostre allora cercano di mettere in gioco anche espositivamente, con materiali e soluzioni di volta in volta diverse, tali rapporti, differenziandosi bene dalle mostre tradizionali o di mercato per invitare a una lettura complessiva. Legate ai volumi, ne riprendono i materiali, a volte sviluppandoli, altre volte anticipandoli.
La prima esposizione (novembre 2016) ha visto un percorso che faceva riferimento ai primi due volumi di Imm’ e che si è costruita intorno alle opere di autori presenti in essi. Si andava dallo storico film Entr’acte di René Clair e Francis Picabia, all’altrettanto storico ma di altro ambito sull’autismo – ma non c’è un certo “autismo” anche delle avanguardie storiche? – film di Fernand Deligny e Renaud Victor, Ce gamin, là. Erano esposte opere fotografiche di autori diversi come Luca Pancrazzi (una serie inedita intitolata Foto dal parabrezza), Christelle Lheureux (Non ricordo il titolo (Il mattino dello stesso giorno), in cui sono riprese, o “rifatte”, alcune inquadrature di Stromboli di Rossellini), Pierluigi Fresia (una serie creata ad hoc e intitolata significativamente L’atlante imperfetto, in cui alla fotografia si sovrappongono scritte e disegni), Ange Leccia (il video Nymphéa, con la bellissima Letitia Casta che trattiene il respiro sott’acqua).

 

La seconda esposizione (giugno 2017) ha disegnato un percorso che riprendeva dei momenti e degli spunti dei volumi precedenti di Imm’, in particolare con l’opera di Luca Pancrazzi Foto dal parabrezza, che della “sovrapposizione” restituisce la dialettica centrale tra visione e accecamento, e un’altra opera di Ange Leccia che della visione mette al centro l’incanto dell’“immagine pura”, tema al centro di una serie di testi del terzo volume. Si procedeva poi con le novità di quest’ultimo, che erano i “creaturi” di Simone Schiesari, sguardi inquietanti di volti presi da dipinti antichi ripuliti elettronicamente insieme a teschi rovesciati privati di sguardo, e i “dubbi di un alieno sotto lo stesso cielo” di Giovanni Oberti che invece esponeva oggetti doppi e chiedevano così di essere guardate con sguardo doppio. Altri video di cui si parla nel volume completavano l’esposizione, tra cui lo spettacolare Sea Turtle Finds Lost Camera di Paul Schultz, film, come dice il titolo, “realizzato” da una tartaruga marina che ha ritrovato la videocamera smarrita in mare dal suo proprietario. Infine, anticipazione del prossimo volume era la presenza di opere fotografiche di Alessandro Laita e Chiaralice Rizzi. In entrambe le esposizioni tra le opere, a rilanciare il rapporto tra immagine e testo, tra esposizione e libro, erano “esposte” a loro volta le fotocopie di alcune pagine tratte dai volumi di Imm’, selezionate ad hoc con parole e frasi evidenziate come ulteriori punti di partenza per la riflessione dei visitatori.

 

La terza esposizione, prevista per il 17 febbraio, sarà incentrata sull’opera Live in the house and it will not fall down di Chiaralice Rizzi e Alessandro Laita. La mostra tenterà questa volta di creare un’inedita costellazione visiva attorno al libro omonimo che i due artisti hanno recentemente pubblicato per l’editore Mack e che sarà oggetto di un saggio in uscita nel prossimo volume di Imm’. In quel lavoro i due artisti si sono confrontati con la collezione di immagini rinvenute nello studio dell’artista veneziano Bruno Rizzi alcuni anni dopo la sua morte. Materiali direttamente provenienti dal libro si intrecceranno a fotografie, disegni, testi e video, nel tentativo di ricostruire, e insieme portare avanti, il retroterra immaginario e fantasmatico che aveva condotto alla pubblicazione del libro nel dicembre del 2016.

La singolare mostra dei due artisti, un percorso a ritroso che allo stesso tempo proietta lo sguardo verso un futuro ancora incerto la cui testimonianza è affidata alle immagini stesse, merita una introduzione che il curatore della mostra Nicola Turrini ha scritto per doppiozero.

Elio Grazioli

 

Ad una certa ora del mattino

Nicola Turrini

 

Ricordo che il giorno che conobbi Chiaralice Rizzi e Alessandro Laita, Chiaralice mi mostrò alcune immagini di A perfect commotion, un lavoro che aveva da poco terminato. In quelle cinque fotoincisioni in bianco e nero, Chiaralice aveva sovrapposto alcune sue fotografie con delle fotografie fatte molti anni prima dal padre, Bruno Rizzi. Attraverso un contrappunto delicato e silenzioso l’artista dispiegava una sorta di “dialogo ad una voce” tra le proprie immagini e quelle del padre recentemente scomparso, tra la propria storia e quella del padre. I paesaggi che emergevano da queste sovrapposizioni avevano un’intensità fantasmatica unica. Istintivamente mi chiesi dove fosse quel paesaggio, se lo avessi già visto: una domanda che portava con sé anche il dubbio di trovarsi di fronte ad un luogo integralmente immaginario.

 

Chiaralice Rizzi, A perfect commotion 2012.

 

Il tema dell’assenza (del padre) è anche la trama segreta di un libro da poco è uscito per MACK, realizzato a quattro mani con Alessandro Laita, dal titolo Live in the house and it will not fall down, un progetto a cui i due artisti hanno lavorato da anni e che nel 2015 ha vinto il Lewis Baltz Research Fund. Il libro è di una disarmante semplicità: una collezione di immagini – tutte fotografie e immagini raccolte da Bruno Rizzi durante la sua vita – che i due artisti hanno selezionato e montato secondo un ritmo ondulatorio e rigoroso, senza cedere a stucchevoli autobiografismi, un pericolo sempre in agguato quando un artista guarda retrospettivamente alla storia della propria vita. Non c’è molto da dire su queste immagini, perché a loro modo, sono indiscutibili. Indiscutibili forse come ogni vero lavoro artistico, dove la costellazione dischiusa dall’opera – reale e fantasmatica allo stesso tempo – non richiede alcun commento. Lewis Baltz, nell’unico (breve) testo presente nel libro, evidenzia questa esigenza con la prosa asciutta ed essenziale che lo ha sempre contraddistinto:

 

Bruno Rizzi was born in Venice in 1933. 

Since adolescence he trained himself as a painter, sculptor, printer and engraver. 

In the 1950s he did military service as a parachutist. 

Afterward he travelled through Italy and lived in Switzerland. 

Upon his return to Venice in the 1960s he worked in Murano and began establishing himself as an artist. 

In 1982, following an unsuccessful marriage, he remarried and had two daughters. 

From the 1960s until his death in 2004, he worked in the same Venice studio at Castello 6381.

After his death his family maintained the studio intact for six years. 

In 2010, his family was obliged to vacate the studio and to find a new home for the images and objects that he collected or made over the previous four decades. 

This book is the photography collection from his studio. 

 

La chiusura del testo rivela la natura esatta di questo raccolta di immagini: “the photography collection from his studio”. Se è vero che le immagini appaiono, all’orizzonte, “quando il linguaggio, qualsiasi linguaggio, si allontana” è possibile tentare almeno una nota a margine. Non si tratta di rendere intelligibile qualcosa di oscuro – di rendere le immagini più accessibili – né di analizzare o giudicare la qualità ineccepibile di questo lavoro. Si tratta – come ha mostrato Gilles Deleuze cercando di definire la “situazione puramente ottica e sonora” – di risvegliare “una funzione di veggenza, contemporaneamente fantasma e constatazione, critica e compassione”: forse una delle più belle, per quanto involontarie, definizioni di critica.  È il sottile interstizio tra quel “delicato empirismo” così caro a Goethe e “the cruel radiance of what is” di cui scriveva James Agee in Let Us Now Praise Famous Men, celebre libro pubblicato con Walker Evans.

 

Dopo la morte di Bruno Rizzi, il suo studio era rimasto chiuso per sei anni, intatto così come lo aveva lasciato, fino al momento in cui la famiglia si trovò costretta a liberarlo per motivi di forza maggiore. È in quel momento che Chiaralice incontrò le foto realizzate dal padre: un incontro forzato dagli eventi che costrinse a ricreare una “nuova casa” attorno a tutti quegli oggetti, a quei libri, a quei quadri e a quelle fotografie. C’è evidentemente un forte elemento biografico in questo libro: “Ho passato i primi anni della mia vita” – dice l’artista in un’intervista con Maria Giovanna Virga – “nello studio veneziano dove mio padre disegnava, dipingeva, lavorava il vetro, preparava incisioni. Era un posto davvero piccolo, dove ad una certa ora del mattino l’acqua del canale riusciva ad illuminare con il suo riflesso tutto il soffitto; così, in mezzo a strumenti e colori, giocavo con mia madre e mia sorella disegnando moltissimo, copiando le immagini dalle pile di libri, per lo più d’arte, che avevamo. Non so come sarebbero andate le cose se avessi avuto un’altra madre e un altro padre o solo una casa più grande, ma sono state queste circostanze a stimolare la mia sensibilità, senza soluzione di continuità fino ad ora”. Un’immagine dell’infanzia impressa nel corpo e nella memoria in modo involontario, ma pervasa da un’architettura precisa e puntuale, da quel riflesso d’acqua del canale che può illuminare completamente il soffitto solo ad “una certa ora del mattino”. Un “momento preciso” che non va confuso con una mistica (bressoniana) del momento decisivo, pensiero dell’immagine che maschera sempre una mistica della scelta (questo momento invece di un altro). La precisione del momento è indipendente da noi anche se senza di noi non può accadere: è il luogo dove si misura la nostra perdita di controllo, quello che Herman Melville chiamava “l’inafferrabile fantasma della vita”, “la chiave di tutto”. È forse alla contingenza che fa riferimento l’artista quando parla di una “bellezza come misura dell’emergere preciso del tempo”, un tema fondamentale che percorre anche altri lavori dell’artista veneziana, come, ad esempio, le immagini della cascata di Nell’attimo che non si aggiusta ma sopravvive lucente mentre scappa. Il paesaggio – “l’interrogazione della sintassi racchiusa nel paesaggio” – è infatti l’altra polarità fondamentale delle opere di Chiaralice Rizzi, che insieme al già citato “dialogo ad una voce” con il padre rappresenta l’humus dei suoi lavori. Due sfere che trovano il loro comune punto di intensificazione nell’emersione precisa di un tempo che non siamo noi a scandire ma che piuttosto ci scandisce, l’“esperienza di noi scanditi in esso”. Un incontro segnato da un’indifferenza imprevedibile e meravigliosa che concorre a definirci, tutti indistintamente.

 

Chiaralice Rizzi, Nell’attimo che non si aggiusta ma sopravvive lucente mentre scappa 2009.

 

Scoprire la geologia di immagini nello studio di Bruno Rizzi ha mostrato prima di tutto un legame, “la necessità di lavorare con quel materiale”. Allo stesso tempo ha dispiegato un’assenza– “la morte di mio padre” – che assume qui un ruolo paradigmatico non perché ci fornisce una “chiave interpretativa”, ma piuttosto perché diviene parte del lavoro in quanto “è una storia, la mia”. Davanti a questo enorme archivio – pile di carte sedimentate negli anni, strati di polvere adagiati delicatamente sulle cose – “non si tratta di selezionare”, di rendere conto dei ricordi personali, di trattenere il tempo con le sue tracce ma piuttosto di percepire un’agopuntura, di “fare i conti con qualcosa che richiama la mia attenzione”, mostrando le proprie potenzialità.

 

È indispensabile tenere assieme A perfect commotion e Live in the house and it will not fall down, senza per questo compromettere l’autonomia di queste opere. Un lavoro costituisce l’entrata per l’altro, e viceversa. Se essi restituiscono un tracciato autobiografico è perché, in qualche modo, assolvono un’esigenza del tempo, quel punto di intensificazione impersonale che richiama l’“attenzione”. Cinque immagini che “ricalcavano però incredibilmente altrettante mie fotografie, nonostante mostrassero un paesaggio in cui io non ero stata e di cui non conoscevo il nome”: silenziose e per niente spettacolari, “senza anelli di congiunzione, combaciavano in un legame immediato. Ferma davanti a quelle immagini, nella riflessione del fenomeno osservato, ho deciso di esaudire il loro compito”.

Lontano da qualsiasi estetica dell’objet trouvé, Live in the house and it will not fall down non intende salvare le immagini dall’oblio e dalla dispersione, o affidare loro il peso consolatorio della memoria. L’operazione di Rizzi e Laita sovverte piuttosto il tempo stesso, lo fa uscire dai propri cardini: un anacronismo fondamentale che ancora una volta lo avvicina alle cinque fotoincisioni di A perfect commotion. Sapremmo veramente capire quale immagine viene prima e quale dopo? Cosa è originario e cosa derivato? Quale sarà la vera casa delle immagini di Bruno Rizzi? Così come dovremo anche domandarci a chi appartengano veramente questi lavori: il solo dialogo tra un padre e una figlia o un lavoro sostanzialmente disseminato tra loro, il contributo fondamentale di Alessandro Laita e la segnatura del tempo?

Delicata archeologia dell’immagine, Live in the house and it will not fall downè insieme un’archeologia intima e segreta della soggettività: ad una certa ora del mattino, l’immagine è una brezza che giunge in favore di silenzio.

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Imm’ Expo. Studio ed esposizione
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Dalì&Duchamp

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Mercredi soir / Chère Gala, Cher Dalì / je voudrais vérifier quelques / dates dans la boîte-valise / que vous avez. / À tout hasard je/passerai à Port Lligat / vers midi demain Jeudi. / J’espère vous voire pour / une minute. / Affectueusement / Marcel Duchamp – Vergato con lettere svolazzanti, questo breve messaggio racchiude un intero universo. Poche parole esplicative e illuminanti del processo di realizzazione e di approccio alle proprie opere da parte del padre del ready-made, illustrative della quotidianità e delle personali relazioni amicali del grande scacchista.

Inviato a Salvator Dalì (1904–1989) e a Gala (1894-1982; soprannome di Elena Dmitrievna D’jakonova, musa e moglie prima dello scrittore surrealista Paul Éluard e poi di Dalì), il messaggio ci informa che Marcel Duchamp (1887–1968) sta lavorando a uno dei suoi capisaldi, Boîte-en valise (Scatola in valigia). Lo sottopone alla visione del suo amico, durante i mesi di vacanza a Cadaqués. E vuole discutere con lui di alcuni dettagli. Siamo negli anni Sessanta, dunque Duchamp si sta dedicando alla seconda edizione della Boîte-en valise. La prima edizione della Boîte risale agli anni 1935-1941 e fu ideata per raggranellare soldi al fine di pubblicare il catalogo in miniatura completo della sua produzione. Un’opera che sottolineava la volontà dell’artista di portare con sé i suoi lavori (non dimentichiamo che l’Europa è in guerra: Duchamp si fece rilasciare un pass come commerciante di formaggi per poter transitare nelle parti occupate e raggiungere il porto di Marsiglia e spedire l’opera a New York).

 

 

Interpretata, infatti, come un piccolo “museo portatile”, oppure “album da viaggio”, per evidenziare i concetti di peregrinazione, spostamento, ben presenti in Duchamp; allo stesso tempo tendeva a indicare la questione della circolazione crescente delle opere dei musei attraverso le loro riproduzioni (siamo negli anni di L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica di Walter Benjamin). Egli metteva, perciò, in discussione l’importanza dell’opera “originale”, rendendo frammentaria l’idea stessa di opera d’arte, in quello spirito di “estraneità”, “indifferenza”, “neutralità” dell’autore. L’edizione deluxe, susseguente a Boîte Verte (1934; inizialmente realizzata in trecento esemplari e contenente novantaquattro note di appunti sul Grande Vetro), consiste in ventiquattro valigette in cuoio da viaggio, progettate con Louis Vuitton per Peggy Guggenheim (sostenitrice economica del progetto), contenenti ciascuna sessantanove riproduzioni in miniatura delle sue opere e un “originale” diverso per ogni valigetta, tutte differenti tra di loro per piccoli dettagli e varianti nel contenuto. 

 

 

La seconda edizione, quella degli anni Cinquanta e Sessanta, invece, è composta da sei serie nelle quali sono state eliminate le valigie, utilizzati tessuti di diversi colori per la copertina, e alterato il numero di articoli all'interno. Ulteriore variante può essere considerata anche Couple of Laundress's Aprons' from Mimi Parent, della serie Boîte alerte (1959), realizzata come catalogo deluxe dell’Esposizione Internazionale del Surrealismo, comunemente conosciuta come Eros, organizzata da André Breton e Marcel Duchamp nella Galerie Daniel Cordier di Parigi nel 1959.

Ma, riprendendo il messaggio, nondimeno esso fa intendere una frequentazione alquanto assidua e costante tra i due artisti. È questa, infatti, l’idea centrale intorno alla quale è stata costruita tutta la mostra dal conciso titolo Dalì | Duchamp, allestita nelle sale del primo piano della Royal Academy of Arts di Londra. La sfida di affiancare i due grandi artisti, da taluni designati come i due grandi provocatori del Novecento, apparentemente distanti, è stata resa possibile grazie alla stretta collaborazione di importanti istituzioni, tra cui il Museo Dalí e la Royal Academy. Esse hanno voluto dimostrare la vicinanza di questi due mostri sacri dell’arte del Novecento attraverso una documentazione sapientemente costruita che permette di osservare, sotto una luce diversa, alcuni lavori e relativi rimandi.

 


Alle ottanta opere esposte, suddivise per quattro tematiche in cinque sale della Royal Academy è stato, dunque, affidato il compito di evidenziare e avvalorare diversi aspetti: Duchamp e Dalì furono legati da un lungo rapporto di amicizia; condivisero diversi interessi, nonché le tematiche più profonde della loro produzione e visione artistica; nessuno dei due influenzò l’altro in maniera decisiva; concordavano pienamente sull’idea del ruolo che l’arte assurge nella vita; avvertivano entrambi la crisi dei valori del modernismo: per Duchamp l’arte non deve più essere “retinica” (come lo era stata dall’avvento dell’Impressionismo, preoccupata solamente delle reazioni fisiche del colore, invece di guardare alle nuove scoperte scientifiche come i raggi X) e abbraccia il Dadaismo, per Dalì la costruzione visiva/figurativa è, invece, la base dell’intera produzione artistica, fatta eccezione di quella iniziale Surrealista; Duchamp arriva a far coincidere arte/vita (sancito dai suoi ready-made, che significa già pronto, già fatto, che non viene manufatto dall’artista, conferendo quindi uno scopo estetico, sottraendolo da quello pratico), Dalì arte/psicoanalisi, abbracciando le teorie di Freud e Lacan, nel puro tentativo di dare realtà al mondo irreale della mente; al contrario di Dalì, Duchamp dal 1919, dopo aver realizzato Tu m’, abbandona pubblicamente ogni attività artistica, dedicandosi al gioco degli scacchi da professionista. 

Puntuali dettagli, presenti in alcuni lavori, attestano sì una velata reciprocità, ma anche sostanziali differenze.

 

 

Da scritti, cartoline, fotografie, tele, emerge, dunque, questa familiarità, dal loro incontro a Parigi agli inizi degli anni Trenta, alle vacanze trascorse insieme ogni estate, in Spagna, fino alla morte di Duchamp. Partendo da una comune base filosofica, nel 1938 crearono una sala per l’Esposizione Internazionale Surrealista, allestita presso la Galerie des Beaux-Arts di Georges Wildenstein a Parigi, riproposta nell’esposizione londinese nella sala THE BODY AND THE OBJECT. Senza dimenticare, però, che i due avevano già esposto congiuntamente nel 1930 in La Peinture au défi, alla Galleria Goemans di Parigi. Duchamp era presente con due versioni di L.H.O.O.Q., Pharmacy, Eau de Voilette e Monte Carlo Bond, mentre Dalí con I primi giorni di primavera.

Tale intervento a quattro mani diede altresì l’avvio a una stretta cooperazione artistica, che si protrasse fino alla realizzazione di Étant Donnés (conclusa nel 1966). Alcuni disegni d’après Courbet e d’aprèsIngres su carta giapponese, nonché quelli preparatori e lo stesso studio Étant donnés: 1. La chute d’eau, 2. Le gaz d’éclairage (1948-49), realizzato con pigmenti su velluto verde conservato a Stoccolma, affiancati a quelli con Scene erotiche di Dalì del ’32 e del ’43, evidenziano non soltanto una certa vicinanza stilistica, ma anche il comune interesse per l’erotismo.

 

Così, sin dalla sala IDENTITY, si mira, per l’appunto, a delineare l’identità dei due artisti. Quella identità addirittura messa in discussione dal francese con la creazione di Rrose Sélavy, il suo alter ego femminile nato nel 1920 a New York. Una serie di fotografie di piccolissimo formato (che riprendono i Nostri, con l’onnipresente Gala, a Cadaqués nel 1933 e nel 1958), unitamente a delle cartoline indirizzate a Dalì da Duchamp e da Man Ray, e all’articolo apparso su “Art News” del 1959 a firma dello spagnolo (che esalta Il re e la regina circondati da nudi veloci e lo inserisce nel naturale sviluppo del nudo nella storia dell’arte), attestano questa consolidata frequentazione. Rimarcata dal Ritratto di mio padre (1925) di Dalì e dal Ritratto del padre dell’artista (1910) di Duchamp ancora pittore e figurativo. A questi si accostano altri lavori di importanza cruciale, a partire dal piccolissimo ritratto fotografico, probabilmente realizzato da Man Ray, Tonsure (del 1919 o del 1921). Un ritratto carico di rimandi e implicazioni, tra cui “il non fare”: posare come l’equivalente dell’atteggiamento del vivere più elementare, che “suggella il ‘geloso silenziodell’artista sulla propria attività” (Michele Dantini, Macchina e stella, Joahn & Levi, 2014). Cui si accosta Ritratto di Dalì (1943) di Horst P. Horst, dove l’artista è ripreso con gli occhi chiusi e con un’aria sognante, in una dimensione a metà tra la vita e la morte, in una posa, quindi, e di nuovo, del “non fare”. A essi si uniscono anche L.H.O.O.Q. (1919), accompagnato dall’articolo di Francis Picabia del 1920; Pharmacy (1917 – uno tra i ready-made pittorici), Multiple (1914-45; di nuovo una riflessione sul concetto di identità). 

 

 

Come detto, pur partendo entrambi dal Surrealismo, ben presto se ne allontanano. Per Dalì, la rottura avvenne con la presentazione al Salon des Indépendants del 1934 de The Enigma of William Tell, in cui William Tell ha le sembianze di Lenin, visto come l’emblema autoritario del Comunismo. Ciò suscitò l’ira di Breton che lo accusò di favorire il nazifascismo, mentre in realtà, per Dalì, rappresentava il rifiuto dell’impegno politico abbracciato dal movimento artistico. Lo stesso rifiuto più volte sottolineato anche da Duchamp con i suoi lavori “non aneddotici”, attraverso i quali era impegnato a difendere la libertà dell’artista, rimarcando la sua “filosofia di indifferenza”.

Quanto già accennato, nella seconda sala, oltre alla sezione dedicata all’Erotismo, in una grande teca sono riproposte le opere esposte nella mostra Surrealista del ’38, tra cui i primissimi ready-made realizzati da Duchamp, i celebri Ruota di Bicicletta (1913) e Scolabottiglie (1914), cui seguirono Anticipo per un braccio rotto (1915), With Hidden Noise (À bruit secret) (1916), Traveller’s Folding Item (Underwood Cover) (1916), Hat Rack (1917), Fountain (1917), Paris Air (1919), Why Not Sneeze, Rrose Sélavy? (1921), per citarne alcuni; a essi si uniscono Lobster Telephone (1938) di Salvador Dalí e Edward James, Scatalogical Object Functioning Symbolically Gala’s Shoe (1930) di Dalì. 

 

È la sala EXPERIMENT WITH REALITY che maggiormente evidenzia la vicinanza tra i due autori, per la comune riflessione e ricerca sui concetti di energia, tempo, spazio, sono esposte altrettante opere importanti. La riproduzione del Grande Vetro (1965-66) di Richard Hamilton, Trois stoppages étalons (1913-14) di Duchamp; Coppia con le teste piene di nuvole (1937; ispirato alla Porta di Gradiva che Duchamp ha realizzato nel 1937 nella galleria di Breton.), Due pezzi di pane esprimono il sentimento dell’amore (1940 – dove il pezzo degli scacchi, rappresentante il pedone, è un diretto riferimento a Duchamp), Cristo di San Giovanni della Croce (1951), Still life (1956), Madonna di Dalì (1958; nel 1960 Duchamp e Breton curano l’International Exhibition of Surrealism nella D’Arcy Galleries di New York e Duchamp inserisce questa tela nell’esposizione, il cui pattern anticipa la Pop Art); ma anche la proiezione di Spellbound di Hitchcock, a riprova della prolifica attività artistica di Dalì anche per il cinema. Non si dimentichi la sua collaborazione con Luis Buñuel nel cortometraggio Un chien andalou (1929 – la pellicola più significativa del cinema surrealista) e nel film L’âge d’or (1930).

Non poteva di certo mancare la sezione PLAYING GAMES, con le celebri scacchiere, tra cui anche quella appositamente realizzata da Dalì per Duchamp, dove ogni pezzo è completamente rivisitato dal catalano secondo la sua inconfondibile sigla stilistica.

Chiude il percorso l’installazione immersiva realizzata in occasione del ballo di fantasia Una notte surrealista in una foresta incantata (1941), all'Hotel Del Monte, Monterey, California, nella quale Dalí trasforma una stanza in una grotta dal cui soffitto pendono cinquemila sacchi, insieme a manichini, con l'intenzione di deprimere gli ospiti.

L’oculata scelta da parte dei curatori ha fatto in modo che in questa mostra si sia raccolto un grande numero di opere che, al contempo, sono le fondamenta dell’arte del XXI secolo, altresì tracciando in filigrana, il profilo di un’epoca con i suoi stravolgimenti artistici, scientifici e sociali. 

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Escape Artists. Intervista a Guy Ben-Ner

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Abbiamo intervistato Guy Ben-Ner, artista israeliano nato a Ramat Gan nel 1969, in occasione della rassegna di videoarte CAMPI presso BACO_BaseArteContemporaneaOdierna di Bergamo. Gli abbiamo posto alcune domande relative al suo ultimo lavoro video, Escape Artists, girato con richiedenti asilo Sudanesi ed Eritrei presso il centro di detenzione di Holot. 

 

Sei nato in Israele e ti sei formato in Nord America. Sei diventato padre quando eri ancora uno studente, un’esperienza che ha condizionato la tua vita e il tuo lavoro. Quali ragioni ti hanno spinto a far ritorno nel tuo Paese d’origine? È stato un ritorno definitivo o vivi ancora negli Stati Uniti?

 

Ho studiato arte in Israele. Ho proseguito gli studi negli Stati Uniti perché mia moglie voleva lasciare Israele, e registrarsi come studente era il solo modo all’epoca per avere il visto. Questa è stata l’unica ragione per cui ho scelto di studiare all’estero, in qualche modo è una ragione molto pratica. Io e la mia famiglia abbiamo vissuto a New York per cinque anni, poi ci siamo trasferiti a Berlino per altri due, per una borsa di studio DAAD. Siamo tornati in Israele a causa del divorzio: mia moglie, che è diventata la mia ex-moglie, voleva tornare a casa. Abbiamo due bambini, per questo sono tornato con loro, per star loro vicino. Altrimenti avrei preferito non tornare. Ero piuttosto contento di essere lontano, sentire di non appartenere a nessun luogo. Era una idea liberatoria per me.

 

Campo profughi di Al Zaatari in Giordania noto come “The Dust Tent City”.


Escape Artists è girato nel centro di detenzione per richiedenti asilo Sudanesi e Eritrei a Holot, nel deserto del Negev. Holot è un limbo legale per persone illegali che “non possono essere mandate a casa” perché Israele è un firmatario della Convenzione delle Nazioni Unite sullo Stato dei Rifugiati. Allo stesso tempo, Israele non riconosce queste persone come rifugiati politici. Non possono lavorare né hanno diritto a un’assistenza sanitaria. Perché un corso di cinema?

 

Campo profughi di Al-Shati' a Gaza.


È un limbo. Il governo non può detenere queste persone perché si rifiuta di determinare i loro casi (se sono rifugiati o immigrati per lavoro), così ha istituito una struttura aperta. Ma poiché Holot si trova nel deserto, le persone non possono davvero andarsene: per questo, nonostante sia una prigione aperta, i muri ci sono. Muri invisibili, come quelli creati dai mimi facendo gesti con le mani. In ogni caso la domanda può essere rovesciata. Non più perché insegnare loro il cinema, ma perché farne un film. In realtà, tutto è iniziato come un corso pratico. Per un anno ho insegnato solamente a utilizzare i mezzi del cinema e dell’editing, l’intento era quello di dar loro gli strumenti per poter raccontare la propria storia. Sentivo di non avere nessun modo e nessun diritto di raccontarla da me. Per questo, durante il primo anno, non ho girato nulla da solo. Ero solo un istruttore. Più avanti ho capito che avrei potuto raccontare la storia delle lezioni, e lasciare che la situazione dei rifugiati scivolasse nella narrazione, quasi involontariamente. Questo è ciò che è successo nei due anni successivi.

 

Campo profughi di Balata in Nablus – Cisgiordania.


Escape Artists analizza il film Nanook of the North (1922). Robert J. Flaherty, finanziato dalla compagnia produttrice di pellicce Revillon Frères di Parigi, aveva organizzato un progetto che lo vedeva a fianco degli Inuit per diversi mesi, sviluppando un processo di fiducia e collaborazione. Chi ha finanziato il tuo lavoro?

 

Campo profughi di Dheisheh fotografato nel 1948.


Nessuno lo ha fatto. I soldi sono stati spesi in benzina e in cibo per i pranzi collettivi che organizzavamo dopo ogni lezione. Abbiamo girato tutto con i cellulari perché non era permesso portare macchine fotografiche o telecamere all’interno di Holot. Quella era l’unica attrezzatura di cui avevamo bisogno: telefoni cellulari. Tutti i miei film sono molto economici comunque. È una decisione ideologica.

 

Campo profughi di Jabalia a Gaza.


Nanook of the North è il primo film a fornire documentazioni di una popolazione “esotica” girate sul posto. Il girato di Flaherty, anche se riprende la realtà, utilizza numerosi “trucchetti”. Invece di prove scientifiche, le sue immagini sono la sua interpretazione della realtà. Il documentario indica cose e persone in situazioni reali a cui il regista aggiunge la propria personale interpretazione. Cosa ha spinto la tua ricerca a muoversi da Wild Boy ai rifugiati? Qual è la differenza tra primitivo ed esotico?

 

Campo profughi di Jericho nel 1974.


Per me, questa è una scelta fondamentale. O evito qualsiasi abuso o utilizzo sbagliato del mezzo e scatto solo autoritratti, o giro la camera verso l’esterno e rischio tutto questo. Nel momento in cui ti rivolgi all’esterno ti ritrovi aggrovigliato in questioni morali. Non c’è nessun passaggio rigido da Wild Boy a Escape Artists. In entrambi i casi mi sono trovato in una situazione specifica. È solo successo, come accade normalmente nella vita. Niente di tutto quello era una ricerca pianificata. L’approccio standard dei miei primi film, incluso Wild Boy, era quello di creare una recita dentro una recita, dove talvolta la verità si travestisse da bugia, dove ciò che era vero dovesse essere messo in scena per potersi rivelare. Credo che in questo stia un approccio simile, seppur rovesciato, a quello di Flaherty.

 

Centro di Detenzione Migranti Israeliano di Holot.


La disciplina di Antropologia Culturale nella figura di Lewis Henry Morgan ha creato una forma di Razzismo Universale, non molto studiato ed estremamente insidioso. L’Idea Razzista prevede che le società evolvano attraverso graduali miglioramenti, trasmessi lentamente da un individuo all’altro. Di conseguenza, predice una graduale evoluzione sociale. Tra i punti degli studi di Morgan: 2) non tutte le società si sviluppano alla stessa velocità; 4) è sbagliato cambiare o cercare di migliorare le razze inferiori, perché non sono mentalmente preparate a questo passo; 5) è compito delle razze più evolute assicurarsi che le altre non perdano i propri costumi e le proprie abitudini. Lavorando in un centro/prigione per richiedenti asilo, quale idea ti sei fatto riguardo al concetto di razza?

 

Guy Ben-Ner, Escape Artists (Courtesy Pinksummer Gallery).


Non lavoravo esattamente nella prigione. Non mi era permesso entrare. Li incontravo fuori e cercavamo un posto libero nel deserto dove fare lezione. Dovevamo essere silenziosi così da non finire nei guai con le autorità. 

Sento che i richiedenti asilo Africani siano trattati più duramente rispetto ad altri in quanto Africani. È una questione di razza. Il mio disagio con la mia posizione si è materializzato nell’immagine del commerciante bianco che insegna a Nanook la tecnologia. Era come uno spiacevole riflesso delle mie lezioni di video, e l’abbiamo analizzato insieme durante le lezioni.

 

Guy Ben-Ner, Escape Artists (Courtesy Pinksummer Gallery).


In Escape Artists, invece che occuparti del viaggio dei richiedenti asilo, analizzi le loro condizioni di vita all’interno di un centro di detenzione. Come arrivano a Holot?

 

La storia comune è scappare dal Sudan o dall’Eritrea, essere rapiti o torturati dai Beduini, raggiungere l’Egitto. Scappare dall’Egitto e raggiungere Israele. Qui il governo sta facendo il possibile perché Israele non sia la loro ultima destinazione, forzandoli a continuare la loro migrazione. L’obiettivo di Holot è rendere le loro vite infelici, così che decidano di lasciare il Paese volontariamente.

 

Guy Ben-Ner, Escape Artists (Courtesy Pinksummer Gallery).


Holot si trova nel deserto del Negev, a pochi chilometri da Gaza. Con i bus si può raggiungere la vicina Ashkelon. Trasgredire alle tre chiamate giornaliere significa essere riportati in prigione. È possibile per richiedenti asilo Eritrei e Sudanesi essere deportati in un terzo Paese dell’Africa, come il Rwanda o il Ghana?

 

Non è possibile, per questo il governo israeliano cerca di farli partire volontariamente. Due settimane fa è iniziato un nuovo conflitto tra corte suprema e governo per permettere a quest’ultimo di deportare i rifugiati in Rwanda, Uganda e Ghana, contro la Convenzione delle Nazioni Unite sullo Stato dei Rifugiati. Non sappiamo come andranno le cose in futuro, possiamo solo sperare nel meglio.

 

Perché hai scelto di lavorare in un campo per rifugiati Africani e non in uno dei tanti che il governo Israeliano ha costruito per i Palestinesi?

 

Nanook of the north – manifesto.


Da Israeliano non mi permetterei mai di raccontare la storia di rifugiati Palestinesi. Inutile dire che non vorrebbero nemmeno la mia prospettiva, giustamente. Raccontano la loro storia meglio di quanto lo potrei fare io.

 

Pensi che il lavoro d’artista ti abbia fornito un diverso punto di vista sull’attivismo, e viceversa?

 

Ho un solo punto di vista quindi non ho modo di comparare.

 

Questo pezzo è anteprima di un'intervista che verrà pubblicata integralmente in una edizione di Moretti&Vitali in uscita a breve, in cui saranno raccolte anche le interviste a Maria Iorio e Raphael Cuomo, Regina Jose Galindo, Adrian Paci, Gabriella Ciancimino e Invernomuto.

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A Continuous Becoming

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Molteplici riferimenti a diversi ambiti del sapere trovano espressione organica nella poesia visiva del vocabolario pittorico e nei testi scritti di Giorgio Griffa (Torino, 1936). Dopo aver conseguito la laurea in legge nel 1958, Griffa decide di dedicarsi completamente all’arte e intorno al 1968 giunge alla formulazione del suo linguaggio specifico che si sofferma sugli elementi essenziali della pittura, eliminando qualsiasi figurazione. “Io non rappresento nulla, io dipingo”, afferma per la prima volta in occasione della mostra tenutasi presso la galleria Godei di Roma nel 1972. E in continuità con quest’affermazione, lo scorso 25 gennaio 2018, in conversazione con Martin Clark, direttore del Camden Arts Centre, spiega: “Se la pittura rappresenta se stessa, allora il pittore può rappresentare la musica e la poesia.”

 

Giorgio Griffa. A Continuous Becoming, Veduta della mostra, Camden Arts Centre, Londra. Foto: Mark Blower.


A Continuous Becoming, è il titolo della mostra a lui dedicata, visibile fino all’8 aprile 2018 nelle gallerie espositive dell’istituzione londinese, che presenta opere dagli anni Sessanta fino ad oggi. Tuttavia A Continuous Becoming non vuole essere intesa come una retrospettiva, spiega Sophie Williamson, curatrice al Camden Arts Centre, ma come una mostra viva, così come i dipinti stessi di Giorgio Griffa sono entità vive che continuamente evolvono. Il percorso dunque non segue un ordine cronologico per fare emergere il dialogo continuo che sussiste tra opere realizzate in diversi periodi. “I lavori di Griffa sono invece, come il pensiero scientifico, espressione di un continuo, inarrestabile fluire dinamico, che – come la struttura autosimile di un frattale – si ritrova entro ogni singola opera, ma anche nell’insieme delle opere, nel modo in cui esse sono articolate e correlate temporalmente”, scrive Mario Rasetti, Professore di Fisica Teorica presso il Politecnico di Torino, nel suo contributo al catalogo Giorgio Griffa. Uno e due della GAM di Torino nel 2002. 

 

Nella prima sala espositiva, attraverso una selezione di opere degli anni Sessanta e Settanta, si coglie la fisicità del suo procedimento pittorico: le tele, volutamente senza telaio né cornice, sono appese a sottili chiodi e fluttuano nello spazio. Scegliendo di volta in volta pennelli o spugne diversi, le tinte, ottenute diluendo acrilici, acquerelli e tempere, sono applicate alle tele grezze stese a terra. Le righe della piegatura, con cui le opere sono riposte quando non esposte, costituiscono una griglia materica che s’interseca organicamente con i segni di colore: nelle pieghe del tessuto si ritrova la consuetudine del gesto dell’artista, la costanza della sua pratica quotidiana ripetuta nel tempo. 

Giorgio Griffa riflette sui concetti di moltiplicazione e di ripetizione di segni. Le linee si muovono da sinistra a destra, come nella scrittura occidentale, ma anche da destra a sinistra; ora occupano uno spazio in alto della tela, ora in basso; “la linea segue la crescita di un fiore, il passo dell’uomo, lo scorrere del tempo, il percorso del sole”, scrive l’artista in Drugstore parnassus (Martano Editore - Ottenhausen Verlag, 1981). 

Giorgio Griffa, Linee oblique, 1969, acrilico su tela, 102 x 154 cm. Foto: Jean Vong, Courtesy dell’artista e Casey Kaplan, New York.


La pittura si presenta nelle sue infinite possibilità e inesauribili combinazioni: ora più brillante, ora più opaca, ora più densa e spessa, ora più trasparente e liquida. L’unicità di ogni opera è data dalla scelta dei pigmenti, dalla loro diluizione, dallo spessore del pennello, così come dalla scelta del supporto, dalla consistenza materiale, più rigida o più morbida della tela, e dalle variazioni di tonalità del cotone, della canapa, del lino o della juta. Dal macro al micro, questa unicità caratterizza il singolo segno di ciascun dipinto, sempre connotato da una sua identità e mai identico a un altro. Ogni tratto è diverso perché il gesto che lo produce è unico e inscindibile da un tempo determinato: “(…) l’apparente ripetizione dell’ordine prestabilito delle pennellate si rivela in realtà una perenne novità di ogni atto della vita. (…) così come ogni atto della vita è sempre nuovo e irrepetibile per sua natura e non esiste la possibilità di atti totalmente identici in tutta la storia dell’umanità, ogni segno è esemplare per sé stesso.”, afferma l’artista in Cani sciolti e antichisti (Martano e Samanedizioni, 1980 pp. 55-57). 

 

Giorgio Griffa. A Continuous Becoming, Veduta della mostra, Camden Arts Centre, Londra. Foto: Mark Blower.


Il colore entra nelle fibre della tela e si fonde con essa in un unico oggetto che conserva migliaia di anni di memoria. La pittura si confronta con la storia dell’umanità e della poesia, simbolo della creazione artistica, il cui fondamento mitologico avviene quando Apollo consegna la lira a Orfeo. 

Come in Tre linee con arabesco n.91 (1991), negli anni Novanta l’artista inizia a numerare le sue tele enfatizzando il ritmo costante, persistente e progressivo del suo lavoro, che riunisce armonicamente rigore e invenzione. La linea arabesca è eco dell’attività creativa dell’uomo attraverso i secoli: allude alla potenzialità espressiva dei segni nella loro forma essenziale che soggiace nelle incisioni primitive così come nelle grandi opere artistiche e architettoniche. Come la poesia, che trova nella metrica la scansione dell’ordine delle parole e dei versi, per Giorgio Griffa anche la pittura persegue i principi di costruzione ritmica. La pittura è parte integrante della realtà e per questo motivo le linee e i segni non giungono mai alla fine della tela: le opere sono sempre non finite per esprimere il fluire costante della vita, il principio che Eraclito enunciava in Panta Rei, nel continuo divenire di tutte le cose. 

 

L’arte è per Griffa uno strumento di conoscenza. Intorno agli anni ’80 scrive: “Sto in questo tempo ponendo mano a un lavoro, che s’intitola “frammenti”, il quale vuole essere una metafora del metodo conoscitivo, del fatto che la percezione avviene per frammenti mentre la conoscenza si raggiunge usando la memoria per collegare questi frammenti e metterli in relazione (Cani sciolti antichisti, p. 7). Ritagli di tele, dai formati e dal tessuto diversi ondeggiano sulla parete mentre tracce diverse sono accostate in una composizione variabile e transitoria. 

Negli stessi anni avvia la serie di lavori Alter Ego, dedicati esplicitamente ad artisti con i quali condivide temi e aspetti della sua ricerca, non solo a livello formale. Tra questi in mostra sono presenti Lavagna Beuys (1982), dedicato a Joseph Beuys e Paolo e Piero (1982) rivolto al pittore rinascimentale Paolo Uccello e all’amico Piero Dorazio. Le linee oblique sulla tela richiamano alla mente le aste tese in ogni direzione nella Battaglia di San Romano (1438 circa) così come i movimenti dei tratti di colore che contraddistinguono l’astrazione di Dorazio. 

(IN)VISIBILE (2007), prende il titolo da un’opera dell’amico Giovanni Anselmo che si riferisce alla possibilità di esprimere attraverso l’arte forze ed energie fisiche intrinseche alla realtà. 

 

Giorgio Griffa. A Continuous Becoming, Veduta della mostra, Camden Arts Centre, Londra. Foto: Mark Blower.


Giorgio Griffa è interessato all’intelligenza della materia, della pittura in sé, e considera i colori e le tele nella loro consistenza molecolare. La soglia della realtà esterna, della dinamica dei segni sulla tela, si coniuga con la soglia dell’emozione, della continuità e della persistenza di un gesto cosicché l’intelligenza della pittura si fonde con l’intelligenza spirituale della memoria dell’uomo. In accordo con il metodo scientifico, le sue opere esprimono una tensione conoscitiva verso la realtà, e verso ciò che è invisibile, tentando di mostrare il confine della ragione umana. Giorgio Griffa osserva la sezione aurea, i procedimenti matematici e geometrici, le regole della proporzione, e spiega come, in seguito alle teorie di Einstein, difficilmente siano attuabili le regole prospettiche del mondo tolemaico: una parte della realtà resta inafferrabile dalla ragione umana, come sostiene il principio d’indeterminazione di Heisemberg. 

Nella serie Canone aureo, degli anni 2000, il numero aureo 1,618033988744820458… compare accanto a linee e segni spiraliformi dai colori accesi, che si spingono verso una sospensione infinita, verso lo spazio indefinito e ignoto dell’esistenza. 

 

“E se vi è contraddizione nel dire, ciò accade anche per il fare. Cioè la pittura, chiede di essere viva. Contraddittoria è la vita. Nella fisica quantistica uno stesso fenomeno presenta aspetti differenti e contemporanei, infinite storie parallele.” (Giorgio Griffa, Post Scriptum, Hopefulmonster, Torino, 2005, p. 37). 

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“Unexpected landscapes". Decontestualizzare e disorientare

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La storica Galleria de’ Foscherari apre la mostra di Vedovamazzei con un bancale in vetrina, un pallet diviso nella versione funzionale, di legno, e nel suo doppio, fuso in bronzo (Two Half Pallets, 2011). Si tratta di un’opera che dà ai visitatori una prima indicazione sulla mostra, intitolata Unexpected Landscapes, dove il mondo e le cose che lo abitano appaiono rovesciate, messe a soqquadro e riorganizzate con intento sovversivo, problematizzando il reale.

 

La mostra raccoglie opere eterogenee selezionate in un arco di tempo che va dal 2015 al 2018, un lasso temporale relativamente breve ma che dà un’idea efficace della poetica dei due artisti. Simeone Crispino e Stella Scala formano un sodalizio dal 1991, con una produzione che si potrebbe definire ipertrofica, se non si rischiasse così di attribuirgli un’accezione negativa. Affacciarsi all’universo di Vedovamazzei significa abdicare ai pregiudizi e abbandonarsi a un viaggio sorprendente che ha spesso il ritmo di un film slapstick, con gag e trovate che ricordano il migliore cinema comico delle origini. Dietro il guizzo, il gesto irriverente di matrice postmoderna, si delinea però il desiderio di mettere in luce le contraddizioni di una realtà spesso impietosa, feroce o semplicemente contraddittoria. La pratica di Vedovamazzei, nella sua evidente complessità, sfugge a un atteggiamento moralistico e anche la componente di ironia che la percorre non mira mai a ristabilire la presunta equità di un mondo ideale attraverso la messa alla berlina dell’elemento maligno, il fattore di danno. 

 

Floating human shit searching for the perfect storm in the mediterranean sea, 2017 – Installazione.


In questo senso l’opera, che campeggia sulla parete principale della galleria e che apre la mostra, intitolata Floating human shit (2017), è esemplare: un grande testo incornicia delle piccole tele a olio che rappresentano delle feci umane galleggianti nel mare. Non c’è ambiguità nel soggetto, la pittura è limpidamente figurativa e a tratti naif, nella sua semplicità e leggerezza di esecuzione. Lo scarto avviene attraverso la scelta di un medium nobile, come la pittura a olio e l’apparente levità della figurazione. Potrebbe trattarsi di semplici vedute marine dipinte da un amatore, quel particolare tipo di pittura fatta principalmente per appagare il piacere di chi la esegue, ma la scelta del soggetto scatologico, che di primo acchito può apparire come una classica provocazione épater le bourgeois, racconta invece una storia bene diversa. Nel Mediterraneo, infatti, sono rintracciabili quantità significative di feci umane, un fenomeno legato ai disperati viaggi dei migranti. Le deiezioni appartengono alle vittime dei naufragi, e sono la conseguenza del terrore e dello shock della morte. Una testimonianza terribile di ciò che è l’infinita tragedia dei cosiddetti “viaggi della speranza”, e che evoca con brutale evidenza lo stato di scarto, di rifiuto sgradito che gli stessi migranti rappresentano agli occhi di chi li riduce in schiavitù e di chi, negandone la dignità umanità, li riduce a uno stato primario di cosa, un fastidioso problema di ordine pubblico. Lo scandalo dell’opera non è quindi nella scelta delle feci come soggetto di un’opera – soggetto che peraltro ha ormai una consolidata tradizione nelle provocazioni novecentesche – ma nello sguardo dell’artista che non si distoglie, anzi racconta attraverso una pittura borghese l’indescrivibile.

 

Si lega idealmente alla prima opera UNunited nothing (2015-2016), installata insieme ad Apliance#3 (2000/2017), la celebre sedia con lampadina. La scritta nera, riprodotta sulla parete piastrellata, è una sorta di prelievo risalente alla guerra nei Balcani, come un proiettile che si trasforma in souvenir e viaggia nel tempo. In origine si trattava di una scritta fatta poco prima di morire da un giovane militare olandese della Nato, in un bagno pubblico di Sarajevo. Il meccanismo ludolinguistico, utilizzato anche in Go-Do (2017),  e l’installazione al neon confondono lo spettatore, evocando, da un lato, la memoria del fallimento delle Nazioni Unite coinvolte nel teatro tragico della guerra in Bosnia, e, dall’altro, alleggerendo l’impatto critico del messaggio attraverso la deliberata costruzione di una scenografia. Si tratta, infatti, di una parete fittizia, non di un reperto di archeologia di guerra, e la fiction intrinseca all’oggetto lo rende ambiguo, lo sottrae alla dimensione imperativa della denuncia, dal vestire i panni stretti dell’arte sociale. In una certa misura, UN united nothing rappresenta bene l’approccio di Vedovamazzei: Scala e Crispino hanno sempre dichiarato di non voler realizzare opere politiche, ma i cui lavori presentano un evidente, indiscutibile carattere politico. Una dicotomia che è solo in apparenza una contraddizione, ma che si chiarisce se si coglie la prospettiva di sottrazione che i due artisti rivendicano rispetto a ogni tipo di categorizzazione limitante. Vedovamazzei sfugge a ogni tipo di gabbia concettuale e da questa libertà nascono opere che hanno sovente una dimensione politica, che germina però spontaneamente all’interno della ricerca e si dispiega senza precludersi alcun tipo di risultato. Per questo nessun lavoro può essere letto come un’opera-a-tesi, un manifesto o proclama: se la politica c’è, è più consequenziale che intenzionale.

 

UN united nothing.


L’ironia, che in questo senso agisce sia da antidoto a quella programmaticità di cui sopra, sia come meccanismo che attua la dinamica interna dell’opera, discende in parte dai cartoon classici e dal cinema comico – pensiamo ad esempio a Buster Keaton, che ispira anche l’opera After Love (2017), in cui i due artisti ricostruiscono la casa storta al centro delle esilaranti e sfortunate vicende del lungometraggio One Week (1920) – in parte dalla storia dell’arte contemporanea, a partire dalla matrice duchampiana, per risalire fino alle incursioni spiazzanti di Maurizio Cattelan. Ecco allora After Mick Jagger (2018), piccola scultura in cera di una lingua rosea, che si riferisce come una divertente sineddoche al leader dei Rolling Stones, ma anche al Goya del celeberrimo Perro semihundido (1820-23). Anche qui, accanto alla dimensione più apertamente comica e citazionista, si inserisce un elemento di disturbo, dato dal materiale; la cera, utilizzata in scultura, evoca sempre un immaginario funereo, sia per le caratteristiche proprie di organicità che rendono il materiale poroso, caduco, soggetto a documentare il trascorrere del tempo, sia per la sua storia, essendo legato in maniera ineludibile alla ceroplastica anatomica e alle antiche maschere dei defunti.

 

After Mick Jagger.


Un’ironia priva di cinismo percorre anche Bin Laden Latest House (2016/2017), per l’occasione installata insieme a A Natural History About Us (2016), dove la casa del cattivo per eccellenza, Osama Bin Laden, viene decontestualizzata e inserita in un paesaggio in technicolor, in calce al quale è visibile la riproduzione di una celebre pubblicità delle sigarette, datata anni ‘70, con un ammiccante Burt Reynolds seminudo. Un vero e proprio “unexpected landscape”, o, se vogliamo, una specie di Colorama, dove il tema della vita e della morte – costantemente presente nel lavoro del duo – emerge in maniera evidente nel contrasto tra la vivacità pittorica del paesaggio idilliaco e la presenza dell’edificio che ha ospitato la figura simbolo di Al Qaeda, casa leggendaria che ha tenuto in scacco i servizi segreti di tutto il mondo e ha alimentato infinite teorie complottistiche. La contaminazione tra fatti reali e immaginari dà vita a dei paesaggi impossibili e rivela l’interesse degli artisti per temi quali la casa intesa come oggetto, il gioco, il fraintendimento, la morte. Nello specifico, l’abitazione diviene qui anche la rappresentazione del potere pervasivo dei media che creano mitologie contemporanee, tanto che il bunker del capo di Al Qaeda diviene meta turistica dopo la morte del terrorista, trasformando il sito in un prodotto culturale equiparabile a qualunque altro.

Nel caso degli “unexpected landscapes” di cui Bin Laden Latest House fa parte, gli artisti mettono in scena non la propria visione soggettiva ma quella della collettività, una percezione sociale che ha trasformato quel bunker e le case di altre figure controverse della cronaca in luoghi comuni e in una certa misura, familiari. Un’operazione che sottrae l’oggetto a una disamina critica, lo svuota di significato lo trasforma in altro, in un’entità che appartiene alla società, all’apparenza innocua. Una specie di meme, si potrebbe azzardare.

 

Bin Laden Latest House.

 

Se Crispino e Scala si fanno trasparenti come individui – non a caso si fondono in un’unica entità artistica – è anche per lasciare voce alle opere, rinunciando alla soggettività per dare spazio alle infinite possibilità dell’accadere al di fuori della volontà di determinazione del sé. Vedovamazzei non fa narrazione, né sceglie un punto di vista univoco: i frammenti del quotidiano vengono ricomposti seguendo ipotesi alternative, in un gioco continuo di visioni. Opera proteiforme, il loro lavoro non può scendere a patti con una forma unica, un segno identificativo; la sottrazione della soggettività dei due artisti, che scelgono di agire con una identità terza, riflette un bisogno di resistere al tentativo di organizzare in una ipotesi conclusiva le possibilità dell’esistente. Ne discende che la tecnica non è più lo strumento di riconoscimento, né lo stile, ma entrambi sono funzionali al progetto che viene messo in campo.

 

La stessa pratica artistica si spalanca e ingloba la pittura della tradizione e le avanguardie, il kitsch e il concettuale, la tv e il design, il cinema e la scultura, la pubblicità e le news, la storia dell’arte e la burla, il tutto incanalato in un flusso di immagini poderoso, che investe lo spettatore e lo lascia talvolta tramortito. Non si tratta però di un lavoro asfittico di assemblaggio del contemporaneo, o un compendio di idee feticizzate e ricomposte con la grossolana sutura di un Frankenstein; si percepisce piuttosto una dialettica continua tra il caos e l’elaborazione, tra un principio organizzato e l’image trouvée, che scaturisce da uno sguardo saldamente ancorato alla realtà, alla cultura e alla storia. Uno sguardo che, come nel cinema e i cartoon, in ultima istanza rivendica la nota poetica, il dettaglio d’incanto, e confessa un amore per la bellezza che è l’altra faccia di quel discorso sulla morte e sui grumi dell’esistenza – sorto da un’atavica radice mediterranea e partenopea – che segna una pratica artistica imprevedibile come quella di Vedovamazzei.

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Un marziano al MART

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«Disperato amico mio», suonano le ultime parole di Emilio Villa su Francesco Lo Savio, negli Attributi dell’arte odierna. Parole profetiche: pensando al suicidio commesso a Marsiglia due anni dopo, nel settembre del ’63, dall’amico ventottenne. Lo aveva presentato su «Appia antica» nel ’59, Villa, e l’anno seguente lo aveva invitato, a una collettiva alla galleria bolognese Il Cancello, insieme a Franco Angeli, Tano Festa (fratello di Lo Savio – che aveva preso il cognome del marito della madre – di lui minore di tre anni), Mario Schifano e Giuseppe Uncini.

 

Tano Festa, Francesco Lo Savio e Mario
Schifano alla Galleria La Salita nel 1960.


Ma, fra le tante intuizioni rabdomantiche di Villa, i registri da lui impiegati per dar conto della ricerca di quel suo amico disperato, sino ad oggi per una volta parevano del tutto fuori fuoco. Lemmi di un repertorio standard, cui il suo pirotecnico strumentario linguistico avesse fatto ricorso, come talora gli capitava, col “pilota automatico”. Nulla a che vedere insomma, con le «larve biologiche», i «centri-erotemi», le «falde cellulari» evocate da Villa: in quella figurazione invece così fredda, rarefatta, severamente geometrica.

 

Non è un caso che quando, il 30 novembre del ’62, Lo Savio porterà alla Salita di Gian Tomaso Liverani le sue Articolazioni totali– tre voluminosi cubi di cemento bianco, aperti da un lato a mostrare un interno nero suddiviso da piani ricurvi: laconici ed enigmatici, sul pavimento buio, come tre monoliti sulla superficie lunare – quell’occasione tanto attesa si rivelerà un fiasco solenne. Niente di più distante si poteva in effetti immaginare, allora, dalla joie de vivre spumeggiante di colori della scuola di Piazza del Popolo sugli scudi; e infatti quei suoi concittadini e coetanei (legati alla galleria rivale, La Tartaruga di Plinio de Martiis), alla vernice di Lo Savio, brillano per la loro assenza: tutti, compreso suo fratello Tano, rintanati a due passi da lì, al solito Caffè Rosati. Le foto prese quel giorno alla Salita ci mostrano, forse, non più di sette visitatori (alcuni dei quali di nome: Argan e Palma Bucarelli, forse Pierre Restany).

 

 

Foto di Dario Lasagni.


E davvero, visto retrospettivamente come ci consente di fare la bellissima mostra di Francesco Lo Savio al MART di Rovereto (a cura di Silvia Lucchesi, Alberto Salvadori e Riccardo Venturi, sino al 18 marzo; la prima organica retrospettiva che sia stata allestita dopo quella, curata dalla stessa Lucchesi con Bruno Corà, al Pecci di Prato nel 2004; in questa occasione è stata ricostruito nei minimi dettagli l’ambiente delle Articolazioni), quel giovane così serio e di poche parole (salvo le rare volte che interrompe il suo mutismo, perché a quel punto non lo ferma più nessuno) appare un alieno. Un Alloghenes (in questo senso si lasciano leggere, forse, i riferimenti alla gnosi del Villa che parla, per lui, di «eone» e «pleroma») che gira coi grossi e intimidatori tomi dell’Uomo senza qualità sotto braccio; un cittadino europeo che si sottrae, in tutti i sensi, al colore locale (unico vero intellettuale del gruppo, lo ricorda Paola Pitagora nelle pagine rapinose del suo Fiato d’artista). Un marziano a Roma, insomma. In quanto tale prima guardato con curiosità, poi sempre più con sufficienza, infine – come quella volta alla Salita – scansato senza troppi riguardi. Lo Savio non fa una piega, ma per lui è una mazzata. Lo racconta Riccardo Venturi in una biografia di scintillante scrittura e straordinaria penetrazione critica, che verrà pubblicata a breve da Humboldt Books. 

 

Foto di Dario Lasagni. 


Lui, da sempre straniero, decide di levare le tende da quella città che non lo ama. La sua dimensione è l’Europa (non a caso l’ultima occasione espositiva, al Bibo’s Place di Andrea Bizzarro e Matteo Boetti a Todi un paio d’anni fa, fu nell’ambito di un progetto dal titolo In che senso italiano?): lui ha già esposto con quelli del gruppo Zero, nel giugno del ’61 (Mack + Klein + Piene + Uecker + Lo Savio = 0 era il titolo allusivo di quella volta alla Salita), continua a farlo ad Amsterdam, a Leverkusen (dove Udo Kultermann lo aveva incluso, unico italiano, fra i suoi Monochrome Malerei). A Roma pubblica un libro, in quello stesso ’62, della consueta, visionaria severità (s’intitola Spazio-luce; lo riproporrà nel ’75, nella bellissima collana einaudiana «Letteratura» diretta da Paolo Fossati, Germano Celant), ma lui ha capito che quello non è più il suo posto. L’estate del ’61, mentre la jeunesse dorée dei suoi connazionali impazza al Centenario dell’Unità, conosce una ragazza di Marsiglia e l’anno dopo la sposa. Nella sua città vede la Cité Radieuse di Le Corbusier e ne resta non meno folgorato. Si è sempre interessato di architettura (per un anno l’ha pure studiata, alla «Sapienza»), ma ora proietta le sue idee sullo spazio e la luce su proporzioni più ambiziose.

 

Studio per Maison au Soleil, 1962.

 

Le Corbusier, La Cité
Radieuse, Marsiglia.


Progetta, lui così poco mediterraneo, una Maison au soleil che finirà per essere, al declinare dell’estate ’63, lo scenario ideale: per un addio che pare quasi un rituale, un sacrificio marziale à la Mishima, sull’altare del modernismo.

 

Richard Serra, Tilted Spheres, 2007, al Pearson
International Airport di Toronto.


Era semplicemente arrivato troppo presto, Lo Savio (come pure Klein, morto 34enne nel giugno del ’62, e Piero Manzoni, 29enne nel febbraio del ’63): di lì a poco, oltre Atlantico, si comincerà a parlare di minimal art e alcuni di quegli artisti (come Richard Serra, che gli dedicherà un suo lavoro) riconosceranno in lui un precursore. Mentre i suoi ipnotici Filtri monocromi, sempre addensati al centro, sembrano parenti stretti delle superfici abissali, minacciosamente attraenti, di quell’altra figura sacrificale che è Mark Rothko. 

 

Filtro dinamico (1960, Lugano, MASI).


Eppure l’antimateria di Lo Savio, questa specie di buco nero dell’immagine (evidenti sono, nei suoi scritti, gli interessi scientifici), è anche in stretto dialogo con la tradizione italiana, almeno quella più recente. Se l’“ambiente” della Salita appare debitore nei confronti di quelli così intitolati di Lucio Fontana, è senz’altro Burri il riferimento più palese dei suoi Metalli:

 

Alberto Burri, Ferro D (1958).


ben più asettici e smaltati di quelle lamiere convulse, certo, ma che recepiscono pure la lezione dei Gobbi (nonché dell’«effetto di lembo» – per dirla col Georges Didi-Huberman della Pittura incarnata– degli stessi Ferri): il Metallo parasferico, che Lo Savio con rimarchevole creatività lessicale definisce «leggermente afrontale», pare voler cogliere il punto di parallasse della superficie bidimensionale, l’istante esatto in cui questa s’increspa nella terza dimensione. 

 

Foto di Dario Lasagni.


Ma soprattutto la mostra di Rovereto ci mostra un risvolto, della ricerca di Lo Savio, sino a questo momento restato del tutto sconosciuto. E non poco sorprendente. A Kultermann l’artista aveva consegnato i materiali per un secondo libro, che poi non si poté realizzare. Ma l’amico tedesco quei materiali li conservò sino alla morte, nel 2013: sicché ora quegli appunti scritti, disegni preparatori e altro, figurano esposti al MART. Fra questi stupiscono delle tavole anatomiche: flessioni vertebrali, degli arti, del collo, delle spalle: articolazioni a loro volta, insomma, che rivelano una matrice fisiologica, o addirittura fisiognomica, delle forme apparentemente così depurate da lui realizzate. Un po’ come il topico albero di Mondrian, da Lo Savio infatti ammiratissimo, alle naturalistiche radici del suo proverbiale rigore ortogonale. In uno degli schizzi si vede una figura umana in piedi con le braccia aperte, iscritta in una sfera come l’uomo vitruviano di Leonardo (due anni dopo la sua morte, in effetti, Mario Schifano ritrarrà Lo Savio sovrapponendo all’icona barbuta di Leonardo, proprio, un intrico di linee geometriche…); e in uno degli appunti si legge: «UOMO | Unico esempio di perfezione strutturale e massima libertà STATICA con EQUILIBRIO STRUTTURALE».

 

Mondrian 1908, 1911, 1913, 1927.


Troppo tardi avevano capito, i fratelli coltelli di Piazza del Popolo, la natura umana, troppo umana, di quell’amico da loro così diverso. Ma soprattutto non aveva sbagliato Villa, che lo conosceva bene, a divinare in quella sua ostinata, esorcistica geometria «il suo calvario»: a indicare, in quella luce così fredda «lo spazio che è la morte, […] la radice convulsa di morte». Da quella ricerca disperata lui, Lo Savio, non si era salvato.  

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Contro il principio di produzione

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La stagione 2018 delle OGR inaugura con un progetto internazionale di grande richiamo realizzato da Tino Sehgal, autore anglo-tedesco tra i più interessanti della scena internazionale. Forte del grande successo critico e di pubblico raccolto negli ultimi anni, già Leone d’Oro alla Biennale di Venezia nel 2013, Sehgal sbarca alle OGR di Torino con un progetto a cura di Luca Cerizza. L’intervento, coerente con la poetica riduzionista dell’artista, non ha titolo e prosegue la ricerca di un’arte relazionale, una pratica aperta che ponga al centro della propria esperienza l’incontro umano tra lo spettatore e il performer.

Chi ha assistito a una performance ideata da Sehgal sa che l’artista sviluppa delle “constructed situations” in cui coinvolge danzatori e spettatori. Si tratta di situazioni che prendono vita in spazi museali e sono sempre pensate specificamente in relazione al luogo che le ospita. Sehgal elabora le sue performance attraverso un lungo lavoro di preparazione che coinvolge i performer e spesso si compone anche attraverso la consultazione del pubblico.

 

Nella sua arte immateriale, la relazione con lo spazio appare come uno dei fulcri della sua riflessione: si prenda ad esempio il progetto These Associations, realizzato per la Tate Modern di Londra, nel quale ha riempito la Turbine Hall con settanta performer. Per la prima volta, la scenografica sala del museo londinese ha ospitato un progetto basato sull’incontro fisico di spettatori e performer, che Sehgal ha sviluppato ragionando sul tema del rapporto tra singolo individuo e collettività, confutando la regola non scritta per cui lo spazio museale si attesta come luogo che impone un comportamento controllato ai visitatori. In un certo senso, l’artista è intervenuto liberando lo spazio attraverso la dismissione di una funzione. Come nella maggior parte dei suoi lavori, Sehgal è partito da alcune semplici domande poste ai collaboratori per sviluppare le coreografie e i movimenti dell’azione, come “in quale occasione hai avvertito un senso di appartenenza?”, invitandoli a elaborare momenti di vita personale e memorie private.

 

La riproposizione di azioni già realizzate in contesti diversi è un processo che potremmo accostare alla variazione sul tema in ambito musicale. La struttura di These Associations è stata adattata agli spazi OGR e ricomposta insieme ad altre azioni viste in precedenti mostre, come Kiss e Instead of allowing some thing to raise up to your face dancing bruce and dan and other things; la prima consta in un movimento ispirato alla storia dell’arte, che parte da Canova e passa per le opere di Rodin, Brancusi e altri celebri baci, mettendo in atto una riflessione sui capolavori scultorei, la cui essenza immateriale e spaziale si traduce in un’azione che ne sposta l’asse da verticale all’orizzontale del pavimento ed elimina il concetto di piedistallo, cancellando l’idea del monumento per restituire alla vita un’azione eternata nella pietra. È interessante rilevare inoltre, proprio in relazione alla storia dell’arte, come il termine tableaux vivant venga sovente utilizzato per descrivere le sue azioni; si tratta di una definizione a mio avviso impropria, impiegata quasi fosse un’àncora interpretativa, forse per il bisogno dello spettatore di mantenere un legame con l’oggetto pittorico, quel quadro definitivamente assente dall’orizzonte artistico di Sehgal, una specie di stella fissa che soccorre i marinai che si sono spinti in mare aperto. 

 

Per quanto concerne Instead of allowing some thing to raise up to your face dancing bruce and dan and other things, l’idea è stata invece quella di tradurre una serie di azioni presenti nei video di Bruce Nauman e Dan Graham, mettendole in scena attraverso un ralenty estremo. Sehgal rivolge spesso la propria attenzione all’arte, mettendosi a dialogare con opere e artisti del passato o a lui contemporanei, come nel caso dell’intervento sul lavoro di Felix Gonzales-Torres per la mostra Specific Objects without Specific Form, al Museum für Moderne Kunst (Frankfurt am Main) a cura di Elena Filipovic, o in Ann Lee; si tratta in questo caso di un’azione nata dal lavoro di Pierre Huyghe e Philippe Parreno No ghost just a shell (1999-2002), nel quale i due artisti acquistarono i diritti per l’utilizzo di un personaggio manga, mettendolo poi a disposizione della creatività di altri artisti. Sehgal ha quindi raccolto la proposta e fatto incarnare il personaggio finzionale nel corpo di un performer, dandogli vita, veicolando l’idea che la tecnologia sia solo uno strumento e che il centro della nostra esperienza esistenziale risieda nell’incontro con l’altro, nella dimensione fisica ed emotiva che condensa il senso del nostro stare al mondo.

 

Illustrazione di Philippe Parreno.

 

Illustrazione di Philippe Parreno.


Il rifiuto di esaltare qualsiasi forma tecnologica passa anche dalla negazione della possibilità di documentare il proprio lavoro; Sehgal non permette agli spettatori di fotografare o riprendere le performance, né concede tale opportunità ai media o agli uffici stampa. Non esiste quindi un archivio materiale della sua produzione e ciò che è visibile su web sono immagini rubate dagli utenti. Questo ostinato rifiuto ha una duplice chiave di lettura, che si lega al tema della testimonianza e alla problematica della produzione. In numerose interviste, Sehgal ha ribadito la sua volontà di realizzare opere la cui memoria venga trasmessa esclusivamente attraverso un passaggio verbale tra le persone. Nessun supporto tecnologico deve intervenire o sopperire a questa fase di scambio, complementare e necessaria all’opera stessa, e soprattutto la fotografia e il video non devono mai sostituirsi alla situazione, che non può essere cristallizzata attraverso un media che ne tenti la riproduzione.

 

Questa volontà di costruire un archivio orale del proprio lavoro riporta al centro della pratica dell’arte l’individuo, non solo nella figura egotica dell’artista, ma anche dello spettatore come elemento essenziale al manifestarsi dell’opera, alla sua transitorietà e alla trasmissione del sapere. L’oggetto, che per secoli è stato posto al centro della produzione artistica – prima in qualità di manufatto, scultura o dipinto, poi anche nelle forme del ready-made – è negato e rimosso dalla scena; non più testimonianza del nostro mondo fisico né del talento dell’artista, lascia spazio a un vuoto materiale occupato dai corpi, dal tempo e dalle azioni dei performer. L’azione del ricordare si pone in antitesi al tempo frammentato e antimnemonico che costituisce la postmodernità, un tempo costituito da isole di accadimenti, slegati l’uno dall’altro, così come slegate sono le soggettività che lo percorrono.

 

Opera di Diego Perrone.


C’è una certa poesia nell’idea di produrre alcunchè, cercando di muoversi con delicatezza nel dominio della realtà. Possiamo definire la pratica di Sehgal come una sorta di ecologia della presenza, attraverso la quale ogni gesto si carica di un valore che lo rende necessario e si libera di automatismi e coazioni a ripetere dettate dalla necessità consumistica. L’entità oscura che aleggia attorno alle situazioni di Sehgal, fuori da quelle “zone temporaneamente autonome”, per citare l’esperienza Situazionista, è infatti il capitalismo, nella sua forma più tarda e, in qualche modo, mostruosa. È la sua fame di inglobare e digerire ogni possibile alternativa a un modello unico a cui sembra opporsi il lavoro di Sehgal – che si forma a Essen studiando danza e a Berlino economia – la cui dimensione politica forse non è stata ancora pienamente indagata; il desiderio di eliminare ogni elemento che sia frutto di una produzione, dagli oggetti alle fotografie, è una sfida al mondo contemporaneo, in cui tutto esiste in forma mercificata. Qui lo scambio in corso non è più commerciale, ma ritorna a esistere esclusivamente nella forma primigenia di incontro umano.

 

In Realismo Capitalista (ed. Nero, 2017), a proposito dell’azione fagocitante del capitalismo e del binomio cultura/intrattenimento, Mark Fisher osserva: «Il potere del realismo capitalista deriva in parte dal modo in cui il capitalismo sussume e consuma tutta la storia pregressa: è un effetto di quella «equivalenza» che riesce ad assegnare un valore monetario a qualsiasi oggetto culturale, si tratti di icone religiose, pornografia, o Il Capitale di Marx. Provate a passeggiare per il British Museum: vedrete oggetti privati di ogni vitalità riassemblati come sul ponte di qualche astronave alla Predator, e potrete così godervi una potente rappresentazione di questo processo. Nella conversione di pratiche e rituali in puri oggetti estetici, gli ideali delle culture precedenti diventano strumento di una ironia oggettiva e si ritrovano trasformati in artefatti». 

 

Wolfang Tillmans.


Questo processo di desacralizzazione che Fisher attribuisce peculiarmente al realismo capitalista (o postmodernismo, sebbene l’autore abbia delle riserve sull’interscambiabilità delle definizioni) centra il punto dolente della riduzione dell’opera d’arte e di qualunque altro oggetto culturale a elemento d’intrattenimento, neutralizzandolo. Sembra non esserci via di scampo a questa tendenza, se non attraverso delle forme di resistenza: anche l’antagonismo o la ribellione diventano a loro volta cibo per alimentare il sistema capitalistico, e vengono assimilati all’interno di esso. L’opera di Sehgal, sebbene viva anch’essa all’interno di questo meccanismo ineluttabile, tenta di confutarlo o quantomeno aggirarlo sottraendo tutto ciò che può essere trasformato in un artefatto con la presenza del corpo umano.

 

La riduzione degli elementi in gioco, l’azzeramento della parte produttiva, l’assenza di un apparato documentario compongono un quadro di evidente rifiuto di un preciso modello economico, politico e sociale. Ecco quindi che la commercializzazione delle sue opere contribuisce a mettere in crisi l’idea del collezionismo e della proprietà dell’oggetto d’arte: nessuno può possedere le opere di Sehgal, neppure acquistandole, se non lo spettatore che partecipa all’evento nel proprio ricordo dell’esperienza vissuta. Il ruolo del collezionista si avvicina a quello del mecenate, perché il suo intervento economico non prevede il possesso materiale dell’opera ma ne rende possibile la diffusione, così che possa essere riproposta in luoghi e tempi differenti, di fronte a un pubblico sempre più ampio. I gesti che compongono le partiture visive delle performance, senza inizio né fine, ma sempre in media res, divengono la metafora di una non-separazione, di un tentativo di riconnettere le persone alle esperienze, sgretolando la concezione solipsistica dell’opera e della prassi artistica. Un’utopia che rende Tino Sehgal uno degli artisti la cui critica coglie con più efficacia i punti nevralgici della narrazione contemporanea, ma anche uno dei pochi davvero in grado di arrivare al cuore degli spettatori ricordandoci, come dice il fisico Carlo Rovelli, che “le cose non sono, accadono”.

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Tino Seghal alle OGR di Torino
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Alda Merini a Stoccolma con il pulcinoelefante

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L’ultima volta che ci siamo visti mi ha offerto un Ginger, una bibita a base di zenzero in voga negli anni Sessanta. “Guarda, guarda come büscia [frizza]mi dice in dialetto brianzolo e io guardo meravigliato nel bicchiere la festa delle bollicine. L’arte di Alberto Casiraghi è trarre gioia e meraviglia dalla banalità del quotidiano per valorizzare le cose semplici, come quella volta in cui, durante una delle sue innumerevoli telefonate ad Alberto, la poetessa Alda Merini in un momento di sconforto minacciò di buttarsi dalla finestra e farla finita una volta per tutte. Vista l’ora, Alberto le disse, rasserenandola: “ma no, hai appena pranzato!”.

 

Alda Merini, La Poesia. Osnago, Marzo 2004. Edizione di 33 copie.


A partire dalle ore 07:30 di ogni giorno della settimana Alda Merini telefonava diverse volte nell’arco della giornata ad Alberto, talvolta dettando poesie per Pulcinoelefante: una serie sterminata di libretti da lui stampati a caratteri mobili nella sua fantastica casa popolata da ragni, maschere africane, viole e violini, pupazzi di Disney, stampi per i dolci, specchi, fotografie, sparititi musicali, fregi, merletti, libri in gran quantità e lucertole (solo d’estate). Nel giardino di questa casa una volta vivevano anche due capre che mangiavano la carta vegetale pregiata con la quale si stampano i libretti. Al piano superiore, un asino riprodotto in scala 1:1 domina la stanza da letto dove si trova l’archivio con tutti i libretti stampati ad oggi, oltre diecimila. 

 

Macchina tipografica Audax Nebiolo nella casa-laboratorio di Alberto Casiraghi a Osnago. Foto di Matteo Imbriani. Casiraghi con una delle capre nel giardino di casa. Foto di Daniele Ferroni.


Ogni libretto stampato a tiratura limitata con la preistorica macchina Audax Nebiolo, un vero dinosauro dell’industria tipografica, è composto da due fogli di carta cotone Hahnemühle color avorio, piegati e cuciti a mano, sui quali è stampato in caratteri mobili Bodoni un aforisma o una breve poesia. Al testo si accompagna un disegno, una grafica, una fotografia o un oggetto che talvolta è in corrispondenza con le parole, altre volte non lo è affatto, anzi è loro ostile e le sfida. Sono questi i libretti più belli, quelli in cui il testo duella con l’immagine assumendo nuove e imprevedibili posizioni per schivare un colpo o assestarne un altro. Arbitro di questi scontri spesso è Roberto Bernasconi, amico e assistente di Alberto. 

Sono duelli da osservare a distanza di sicurezza. Lo scontro tra parola e immagine ha infatti necessità di uno sguardo a distanza. I Greci dei tempi di Omero lo chiamavano “teicoscopia – osservare dall’alto delle mura”. Nel terzo canto dell’Iliade Priamo chiama Elena a sedersi accanto a lui presso una torre della città assediata affinché essa riconosca da alcuni indizi visivi i guerrieri Achei e li nomini: “vieni a dirmi il nome” (Libro Terzo, 165). Lo scontro non avrà luogo prima che Elena riconosca e nomini. Vedere e nominare si trovano così associati nell’osservare a distanza uno scontro che dà origine al poema. La questione è intricata e lunga da sbrogliare, perciò per il momento meglio abbandonare le mura della città assediata e scendere in basso, al piano del compositoio tipografico di Alberto. Su questo piano si compongono materialmente i caratteri mobili, i filetti, le bacchette, i decori, le xilografie, molte di queste incise su legno di bosso dal grande Arturo Porazzi, che ricordo con ammirazione e affetto (è scomparso nel 2006). 

 

Stampe xilografiche da incisioni di Adriano Porazzi. Adriano con Alberto Casiraghi in una foto scattata da Antonello Bertolucci.


Nella composizione tipografica le immagini si mescolano con le parole, mentre queste si scompongono in sillabe e lettere singole per poi ricomporsi formando nuove parole, entrando e uscendo dalla cassa tipografica dove si trovano riposte in bell’ordine. Tutto ciò rende mobili nell’atto del comporre non solo i caratteri ma anche i significati, naturalmente solo quando la tipografia è una gioia. “Pulcinoelefanteè la gioia della tipografia” disse Enrico Tallone, titolare della famosa casa editrice Tallone che ancora oggi stampa con caratteri di piombo fusi dalle matrici originali, tra questi il Garamond della Deberny & Peignot e il carattere Tallone, disegnato dal padre Alberto nel 1949. 

 

Alberto Casiraghy, dü sciamp. Osnago, Febbraio 2010. Poesia in dialetto dedicata alle galline che scappano con le loro “due zampe” dal destino di finire in brodo. Disegno di Luciano Ragozzino inciso da Adriano Porazzi. Due dettagli del libretto.


Un libretto Pulcinoelefante che comunica bene questa dinamica del senso e al tempo stesso anche lo spirito giocoso di Alberto è un libretto stampato in 25 esemplari nel 2010. Per assonanza fonetica, con un passaggio dalla lingua francese al dialetto brianzolo, il nome dell’artista dadaista “Duchamp” diventa “dü sciamp”  che significa “due zampe”. È il titolo di un breve componimento dialettale con il quale Alberto celebra lo scampato pericolo delle galline dalla minaccia di far buon brodo: “finirö maj de vurèc ben aj gaên che scapen del bröt – non finirò mai di voler bene alle galline che scappano dal brodo”. Il testo è accompagnato da un disegno di Luciano Ragozzino, inciso da Adriano Porazzi: due zampe dell’animale raccolte in una posa devota che potrebbe significare “grazie a Dio sono salva!”. Le zampe sono infatti sezionate come i particolari anatomici ex voto esposti nelle chiese. C’è qualcosa di aristocratico oltre che di devozionale in questa immagine. Le grinfie e la texture grafica di un drago stampato in copertina conferiscono infatti per associazione visiva alle zampe della gallina un che di araldico. Immagini araldiche e figurative si combinano tra loro e con altri simboli grafici e segni fonetici generando tensione tra ciò che è linguistico e ciò che non lo è. Sul piano della composizione tipografica ha luogo una contesa diversa da quella tra Achei e Troiani ma non per questo meno carica di tensione.

Tra i libretti nei quali la tensione non cade molti sono quelli con testi di Alda Merini. Il sodalizio della poetessa con Alberto è di lunga data, tanto che, quando si ventilò l’ipotesi di una sua candidatura al Nobel per la letteratura, visto che a Stoccolma fa piuttosto freddo, questa propose ad Alberto di accompagnarla lassù con il Pinguinoelefante anziché con il Pulcinoelefante.

Numerosi sono i poeti e gli artisti che hanno partecipato all’avventura umana prima ancora che artistica e letteraria di Pulcinoelefante. La stampa di un libretto è il pretesto per passare una giornata insieme: si compongono i caratteri e le xilografie, si stampa, si rilegano le pagine, si applica l’immagine o l’oggetto in giornata. 

 

Giorgio Manganelli, La letteratura. Osnago, Ottobre 2012. Edizione di 23 copie. Disegno di Alberto Casiraghy.


Guido Ceronetti, Aforisma. Galligrafia d’orio. Osnago, Giugno 2011. Edizione di 33 copie. Fondazione Gruppo Credito Valtellinese di Milano – Refettorio delle Stelline. Immagini della mostra.


A questa vasta produzione è dedicata la mostra I pulcini di Casiraghy. Tipografia e poesia, allestita presso la Fondazione Gruppo Credito Valtellinese di Milano – Refettorio delle Stelline (fino al 31 marzo 2018). All’ingresso si è accolti da una cascata di libretti che interrompe la sequenza ordinata dei tavoli sui quali sono esposti i materiali. Il percorso espositivo è articolato in tre sezioni: la Filosofia della vita (Saggezza, Amore, Natura); gli Amici (Scrittori, Artisti, Alda Merini); le Arti (Poesia, Musica, Arte, Gastronomia, Tipografia, Libri). La mostra è corredata da strumenti del lavoro tipografico, fotografie, disegni, lettere, manifesti e oggetti vari. Appena sarà disponibile il DVD, anche dalla proiezione del film diretto da Silvio Soldini Il fiume ha sempre ragione. Il film ha come protagonisti Alberto Casiraghi (in arte Casiraghy) e il tipografo, editore e grafico svizzero Josef Weiss.

 

Fondazione Gruppo Credito Valtellinese di Milano – Refettorio delle Stelline. Immagini della mostra.


Alberto non è solo un maestro della stampaè anche un poeta e un artista che ha creato un universo unico e singolarissimo di cui i libretti sono materiale di risulta. Il mondo magico nel quale vive è semplice e innocente. Entrando in questo modo si scopre lo straordinario nell’ordinario, la meraviglia del Ginger che büscia in un bicchiere. 

 

Fino al 31 marzo alla Galleria Gruppo Credito Valtellinese (Milano, Corso Magenta 59).

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I ‘pulcini’ di Casiraghy
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Il senso di una vita: il Che in mostra a Milano

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A cinquant’anni dall’assassinio di Ernesto “Che” Guevara in Bolivia (9 ottobre 1967), la mostra Che Guevara tú y Todos (Milano, Fabbrica del Vapore, fino al 1° aprile 2018, catalogo Skira) propone, con l’ausilio di un ricco apparato visuale, un nuovo sguardo prospettico su colui che, dopo la morte, è stato irrigidito nell’immagine devozionale del “guerrigliero eroico”. Sul Che – che nel 1960 Jean Paul Sartre aveva definito “l’essere umano più completo del suo tempo” – si è subito addensata la coltre della leggenda. Si è letto il suo Diario in Bolivia come testimonianza di un sacrificio tanto vano quanto necessario. Al Guevara in carne e ossa si sono sovrapposti l’impressionante somiglianza con Gesù – gli occhi aperti e il corpo morto adagiato nel lavatoio dell’ospedale del villaggio di Vallegrande, lo sguardo che perdona i suoi carnefici – e l’accostamento con il Cristo morto di Andrea Mantegna. Dopo la fortuna planetaria del poster del rivoluzionario dal volto corrucciato, il basco e lo sguardo rivolto al futuro, oggettistica, abbigliamento, orologi Swatch hanno reso il Che un marchio globalizzato. La sua effigie ha oltrepassato le ideologie, facendone un volto sganciato dalla dimensione reale. Oggi è un Che light a interpellarci: “A casa mia ho un poster di ciascuno di voi”. In un asimmetrico gioco di sguardi quello di Guevara raccoglieva l’anelito dei giovani a partecipare al riscatto dei “dannati della terra”; oggi ammonisce chi ha smarrito il senso della sua utopia. 

 

Che Guevara tú y Todos vuole riportare il Che nel suo tempo e decostruire la retorica del mito. È una mostra transmediale che ci esorta a vedere, leggere, ascoltare, sfogliare album con foto di famiglia, e stimola l’interattività dell’esperienza del visitatore. Simmetrico Cultura e il Centro de Estudios Che Guevara dell’Avana hanno voluto presentare, nella scena storico-politica degli anni Cinquanta-Sessanta, una dimensione realistica, problematica, umana molto più sfaccettata dello stereotipo del Guevara rivoluzionario tutto d’un pezzo. Viaggiatore, ribelle, anticonformista, nel suo cercare l’esperienza attrverso la letteratura Guevara può a buon titolo essere emblema della rivolta culturale della beat generation che sta al centro della mostra Revolution. Musica e ribelli 1966-1970 il bianco e nero e i colori in corso in uno spazio adiacente nella Fabbrica del Vapore. 

 

 

Supporti audiovisivi e materiali autografi (lettere, poesie, discorsi, brani dei suoi diari) costituiscono la parte più originale e inedita di un percorso espositivo che si snoda lungo il filo rosso che contrassegna l’intera esistenza del Che: l’erranza e un senso personale del viaggio come esperienza interiore più ancora che politica. Con ciò la mostra rovescia la prospettiva con cui si è guardato a Guevara a partire dalla sua morte prematura e violenta. Per umanizzare la figura politica bisogna ricostruire il senso di una biografia. Largo spazio è perciò dedicato alla sua vita prima che diventasse il “Che”. Le foto di famiglia raccontano che Ernesto Guevara de la Serna nasce in una famiglia borghese di altalenante agiatezza che simpatizza per la causa repubblicana spagnola, è affetto da un’asma che non gli impedisce di giocare a rugby, da bambino-adolescente divora tutti i libri che sono in casa, gioca a scacchi e legge Freud, è dominato da un’inquietudine che lo spinge a trascurare gli studi universitari e a percorrere con una bici a motore 4000 km nel nord dell’Argentina. Alla fine del 1951 parte con l’amico Alberto Granado per il viaggio in motocicletta che verrà annotato nel diario pubblicato postumo a Cuba (1992) con il titolo Notas de viaje. Legge, studia, viaggia, ama le ragazze con passione, trascrive le sue esperienze in forma di diario. Di ritorno a casa riordina ciò che ha scritto, legge la propria vita come fosse quella di un altro nella consapevolezza che l’aver percorso grandi distanze innesca un cambiamento irreversibile: “io, non sono io; perlomeno, non si tratta dello stesso io interiore”. 

 

Nella scrittura intima, nel rapporto tra libri e vita, nel registro personale dell’esperienza troviamo il Guevara che legge, scrive e viaggia alla ricerca di un suo privato luogo dell’autenticità. Molti anni dopo, dal cuore di tenebra del Congo, scriverà alla moglie Aleida March: “sono un misto tra un avventuriero e un borghese, combattuto fra una voglia lancinante di ‘casa’ e l’ansia di realizzare i miei sogni”. Nel 1953 intraprende l’ultimo viaggio per l’America latina e nel 1954 lascia il Guatemala per il Messico dove incontrerà Fidel Castro. Due anni dopo parte per Cuba con il gruppo di guerriglieri che il 1° gennaio del 1959 rovesciano il regime di Batista. Il resto è la arcinota biografia politica del “Che”, così soprannominato dai cubani per la tipica interiezione usata dagli argentini. La mostra documenta con abbondanza di materiali i passaggi fondamentali del suo percorso politico: da giovane comandante sulla Sierra Maestra fino all’operazione militare di Santa Clara, dalle prime missioni in giro per il mondo fino alla guida del Ministero dell’Industria e della Banca centrale, dai viaggi con la delegazione cubana in URSS, all’ONU, in Africa e in Cina fino alla partenza per la missione segreta in Congo nel 1965 e la partenza per la Bolivia.

 

Immagini in mostra e materiale audiovisivo contestualizzano vita pubblica e privata. Discorsi a Cuba e all’estero, missioni in Asia e in Africa come ambasciatore della rivoluzione cubana, fotografie inedite, cartoline spedite alla moglie e ai figli, il testo-interrogazione scritto alla notizia della morte della madre, la pagina dell’agenda del 2 giugno del 1959 in cui campeggia la parola “Nozze!!”, la poesia-commiato che il “viaggiatore insaziabile” scrive ad Aleida nel 1966 e che contiene il senso della tragica tensione, della polarità tra i “todos” che esigono l’estremo sacrificio e il “tu” oggetto di un amore necessario “come il nostro pane di tutti i giorni”. Un Che intimo fa da contrappunto all’iconografia ufficiale, svela l’altra faccia della foto di Korda Il Che durante i funerali delle vittime dello scoppio de “La Coubre”. Il celebre sguardo dell’epoca delle Guerra fredda è ricompreso all’interno di una storia di vita più sfaccettata. I suoi ritratti esortano allo sguardo reciproco, a una relazione intersoggettiva tra l’immagine e i suoi fruitori.

 

Avvertiamo che a distanza di anni è sempre la sua immagine a riguardarci, forse anche a interpellarci. Il Che vive, viaggia, combatte sulla Sierra Maestra, in Africa, in Bolivia restando se stesso e chiede di fare della sua vita una storia confrontabile con la nostra, forse anche di renderla interpretabile in immagini nostre. Spicca, tra le tante, la foto del Che in Bolivia che legge arrampicato su un albero. È una smentita dello sterotipo dell’uomo d’azione, è l’affermazione dell’idea della lettura come rifugio, come ricerca di uno spazio privato, avulso dal contesto, opposta all’immagine del guerrigliero che fa del movimento un fattore di vantaggio rispetto all’avversario. La scena della scrittura e della lettura è la costante di lunga durata della sua vita. 

 

La narrazione transmediale ci ricorda che il senso della vita del Che e delle immagini che lo ritraggono non è dato una volta per tutte. Il Che possiede l’enorme potere seduttivo di restituirci lo sguardo articolando la sua immagine come desiderio. È questo il segno distintivo della mostra: il senso della vita di Ernesto Guevara non sta nella fine di un racconto ma attraversa il percorso per voci, testi, immagini che noi facciamo per raggiungere quel senso. La decostruzione del mito Guevara (e del suo sacrificio) non si chiude perciò con la foto della salma esposta nel lavatoio dell’ospedale di Vallegrande, ma con la veglia solenne del 18 ottobre 1967 nella Plaza de la Revolución conclusa dalla solenne e vibrante commemorazione di Castro (di cui è offerta parziale documentazione audio). 

Un’ultima considerazione meritano i ritratti di grande formato del piano superiore, dove le immagini del Che sono prive di didascalie che orientino la visione. Il visitatore è accompagnato da una piacevol melodia (al piano terra si ascoltano documenti sonori ufficiali) mentre osserva i primi piani in bianco e nero. Il Che continua a spiegarsi da solo, la sua potenza iconica resta immutata. Se nelle foto che lo ritraggono nei suoi incarichi ufficiali o nella sua vita clandestina è un soggetto situato in precisi valori ideologici, se quella ritrattistica ha una specifica funzione documentale, il suo volto in un bianco e nero molto contrastato ha la capacità di svincolare il soggetto dalla storia. Ribadisce che il Che è stato un eroe fuori tempo, una figura che era oltre il suo presente. Davanti alle immagini di grande formato che resistono a una definizione univoca, siamo chiamati a dargli un significato, consapevoli del loro potere illusorio. Perché – come osserva Roland Barthes – stiamo sempre vedendo qualcosa di non più esistente. Così come l’immagine fotografica si libera dei mezzi che l’hanno resa possibile, il Che chiede ancora una volta di essere smitizzato e persiste nel nostro immaginario con le sue zone di luce e di ombra. 

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POST ZANG TUMB TUUUM: arte, politica, potere e remake

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Con Post Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics: Italia 1918 1943 Germano Celant firma una mostra-evento per raccontare il rapporto tra arte e politica in Italia tra le due guerre mondiali. In un momento di stasi post-elezioni e in un clima di tifoseria calcistica nazionalpopolare applicato alla tenzone politica, si tratta di un’occasione importante per assistere a una mostra di alto profilo che offre l’opportunità di riflettere sul presente della pratica curatoriale e della società. Con Post Zang Tumb Tuuum ci troviamo di fronte a una operazione destinata a far discutere, una mostra sul fare-mostre sontuosa e affascinante nella sua esibita freddezza.

 

Dinanzi all’imponente allestimento, la domanda legittima è perché la Fondazione Prada abbia deciso di spingersi su un territorio così problematico, proponendo un’esposizione che per metodologia e struttura – consta di oltre seicento lavori – sarebbe idealmente destinata un museo. Le ragioni sono molteplici, in primis il desiderio di consolidare il proprio ruolo di polo d’eccellenza milanese, realizzando una operazione fuori scala, che non sfigurerebbe in una grande istituzione internazionale, scegliendo come firma il curatore italiano più noto al mondo, una figura che con arte e politica intrattiene una relazione di lungo corso. Sembra lecito ipotizzare che anche il clima odierno di confusione politica e i venti revanscisti che soffiano sul paese possano aver giocato un ruolo non accidentale nella volontà di costruire un’esposizione dall’indiscutibile appeal mediatico. Infine, la mostra aggiunge un capitolo importante alla pratica del reenactment che Prada ha già sperimentato con successo nel caso di When Attitudes Become Form: Bern 1969/Venice 2013, a cura dello stesso Celant, remake della mostra seminale di Harald Szeemann tenutasi alla Kunsthalle di Berna nel 1963.

 

 

Celant propone un allestimento che rinuncia all’estetica del white cube, modello che per decenni ha dominato le scelte dei curatori offrendo una matrice formalista fertile e plasmabile, optando per un metodo di ricostruzione scientifico-storiografico, che privilegia la messa in luce dei punti di contatto tra le figure artistiche, la società civile e la politica, concentrandosi sul contesto in cui le opere sono maturate. Il focus della mostra è quindi il display, inteso come sistema in cui lo spazio, l’artefatto, il contesto concorrono a creare un ganglio di senso. 

Non è la prima volta che la Fondazione Prada ospita un’operazione di reenactment: la riproposizione differente – e differita – di una mostra storica è ormai un fenomeno conclamato e costituisce una pratica espositiva orientata a una riflessione “raffreddata” sull’arte. Il remake ha spesso come oggetto la rimessa in scena di performance, proprio per la natura transitoria dei fenomeni, come Ebrea, lavoro di Fabio Mauri del 1971 riproposto dalla galleria Hauser & Wirth di New York per la mostra With Out, o Seven Easy Pieces di Marina Abramovich vista al Guggenheim di New York nel 2007. Celant, già autore al Madre di Napoli di Arte povera più azioni povere nel 2011, la celebre rassegna tenutasi ad Amalfi nel ’68, porta avanti l’analisi sul dispositivo-mostra moltiplicando i reenacts, creando una specie di bolla museale, un organismo espositivo all’interno del quale vengono ricollocati eventi e oggetti appartenenti a un preciso arco temporale: non più una ma numerose le ricostruzioni dei contesti d’epoca, a partire dalla sala dedicata a Felice Casorati nella Biennale del 1924 o l’appartamento di Léonce Rosemberg, con La scuola dei gladiatori, Il combattimento (1928) e Gladiateurs au repos (1928-30) di Giorgio De Chirico, o ancora la meravigliosa sala di Arturo Martini alla Biennale del ‘31, con le terrecotte La veglia (1931), L’aviatore (1931).

 

In una certa misura, con questa operazione ingegneristica le opere esposte passano in secondo piano rispetto all’articolato sistema di forze che compone l’insieme-mostra, e Celant fa in modo che nessun singolo pezzo funzioni in maniera autonoma, ridimensionandone la possibilità di significazione in sé. Ponendo enfasi sul sistema, in opposizione al frammento, nel tentativo ambizioso di avvicinarsi filologicamente alla realtà in cui le opere presero vita attraverso una minuziosa ricostruzione degli ambienti, degli studi, delle case e dei luoghi pubblici è un’ambizione stimolante ma il cui risultato pone lo spettatore di fronte a delle domande, e non sembra offrire una filosofia espositiva in grado di esaurire la problematicità della materia. Cambiando prospettiva, si può leggere però questa non-risoluzione come un punto a favore del lavoro del curatore, capace di edificare una imponente architettura espositiva e concettuale, impossibile da liquidare con letture pacificanti. La stessa mole della mostra respinge ogni possibilità di fruizione istantanea o di lettura schematica, pop-up, ponendo lo spettatore in una condizione immersiva e a tratti ammaliante, a cui difficilmente riuscirà a sottrarsi.

 

 

Celant, lavorando come uno storico dell’arte che ha incenerito l’Accademia, procede in un vertigine di accumulazione di opere, nel tentativo cosmogonico di ricostruire un mondo, quel mondo percorso da energie telluriche e lampi di guerra che fu l’Italia tra il ‘18 e il ‘43. Per farlo predilige l’utilizzo della fotografia rispetto alla parola scritta, identificandola come strumento capace di maggiore efficacia nel testimoniare il reale, nello specifico i rapporti esistenti tra l’oggetto d’arte e il contesto, e soprattutto per riportare alla luce con evidente immediatezza le modalità con cui l’oggetto d’arte è transitato nei luoghi e nel tempo d’appartenenza. 

Eppure, qualcosa scricchiola. L’inseguimento del reale attraverso l’operazione del remake si traduce nella sensazione di assistere a un intervento finzionale. Per la stessa logica per cui, osservando una mostra realizzata in un preciso momento storico noi guardiamo a un mondo intero e non solo a un evento conchiuso nel tempo, formalmente autonomo, così osservando la lussuosa e ipercontrollata mostra alla Fondazione Prada di dipana dinanzi a noi, prima di tutto, un modo di fare curatela nel 2018, un mostra che parla dell’immediata sensibilità contemporanea e non aggiunge necessariamente qualcosa alla comprensione storica del periodo analizzato. Possiamo anche affermare che Post Zang Tumb Tuuum si attesterà come una case history nell’ambito degli studi curatoriali, ma probabilmente, voltando lo sguardo a ritroso, ciò che leggeremo sarà un testo che ci parlerà più della realtà a noi prossima che del mondo tra le due guerre, una specie di elegia dell’archivio e una straniante forma di augmented reality analogica.

 

Dal punto di vista delle opere, sembra quasi pleonastico precisare che in mostra siano raccolti pezzi straordinari, frutto di oltre due anni di lavoro, prestiti prestigiosi e di un lavoro raffinato di cernita: partendo dai futuristi, è visibile La città che sale (1910-11) di Boccioni, uno dei suoi capolavori, il Marinetti temporale patriottico (1924) di Depero, il poemetto che dà il nome alla mostra Post Zang Tumb Tuuum di Marinetti e poi riviste, materiali,carteggi, documenti. La prima parte dell’esposizione si apre con la figura iconica di Filippo Tommaso Marinetti: colto, dandy, appassionato di Zola, Mallarmé, Baudelaire, Wagner, il suo Manifesto del Futurismo del 1909 segna la sua agnizione e l’inizio della prima, vera avanguardia italiana di inizio secolo. La temperie culturale di quei vorticosi anni vede come protagonista assoluto – e non potrebbe essere altrimenti vista la prepotenza del loro portato e la loro attitudine vitalistica – il movimento dei futuristi. A nove anni di distanza dalle mostre ospitate da Palazzo Reale e dal Centre Pompidou di Parigi per celebrare i cento anni del movimento, ancora oggi stupisce cogliere la ricchezza di quell’esperienza e la profondità delle intuizioni di Marinetti, che si fece portavoce di una rinascita dell’arte italiana riuscendo a fondere il Simbolismo europeo e in particolare francese, il superamento dell’Impressionismo attraverso una riflessione originale sulla forma, alimentata dalle scoperte scientifiche rilette in chiave poetica, e la capacità di utilizzare il futuro come territorio di possibili per costruire il presente. Malgrado la mostra si apra in medias res, osservando le opere si rivelano i portati dell’esperienza divisionista e impressionista, con Medardo Rosso e Gaetano Previati come presenze in absentia. I futuristi raccolgono su di sé le correnti energetiche che percorrono la società intera. Nauseati dal passatismo, rifiutano con determinazione la componente nostalgica ottocentesca e alcuni portati del Modernismo, per fare spazio all’azionismo. Proprio l’idea avanguardistica di superare il perimetro dell’arte per intervenire sulla vita stessa e il desiderio di fare tabula rasa della tradizione, collocano il futurismo in una posizione di divergenza rispetto al movimento modernista e pongono le basi di tanta sperimentazione contemporanea, dalla performance art alle installazioni multimediali.

 

Nella sua vocazione turbolenta, irriverente, iconoclasta, qui perfettamente rappresentata, il futurismo apre le porte a uno scenario di innovazioni creative che giungono fino ad oggi, rappresentando uno dei momenti più fertili del Novecento italiano. Ecco allora Guerra-festa (1925) e Rissa (1926) di Fortunato Depero, emblematici di un azionismo di stampo ardito tradotto in pittura, la riproposizione dell’esposizione dei futuristi alla Terza Biennale di Roma del 1926, con la tela Fascisti/Antifascisti di Balla, che sembra anticipare tanta street art odierna, e il pattern ironico di Canaringatti Gatti futuristi (1923-1924) precursore di un gusto per il design che avrebbe trovato piena espressione solo molti anni dopo.

Ma se il futurismo rappresenta uno dei cardini della sperimentazione culturale della parentesi tra le due guerre, la mostra offre uno spaccato ben più ampio e ha il merito di cercare di restituire tutto il fermento creativo che anima il paese, percorso da inquietudini profonde e diviso tra la memoria della peggior guerra di sempre, quella del ‘15-18, che ha annientato una generazione, e le ombre incombenti dei totalitarismi nascenti. E soprattutto è l’occasione per accostarsi ad artisti straordinari e parzialmente dimenticati, come Felice Casorati, di cui si può ammirare una parete splendida che è la ricostruzione della Moderne Italienische Kunst alla Kunsthalle di Berna del 1938, o l’opera dello straordinario Adolfo Wildt: di quest’ultimo, scultore linee cosmiche e virtuosismi insuperati, campione del simbolismo lombardo di ascendenza mitteleuropa, sono raccolti così tanti pezzi da comporre quasi un’antologica, compresa la sala della Biennale del 1922 e il Pio XI proveniente dai Musei Vaticani.

 

 

Accanto ai Futuristi è ben rappresentata l’altra grande matrice concettuale rappresentata dal ritorno all’ordine di Valori Plastici, il cui primo numero esce nel 1918, e da Novecento, il gruppo la cui mentore fu Margherita Sarfatti. Anselmo Bucci, Leonardo Dudreville, Achille Funi, Gian Emilio Malerba, Piero Marussig, Mario Sironi e Ubaldo Oppi, sono gli alfieri di una pittura che ritorna ai valori di chiarezza, sintesi e concretezza delle forme. L’antitesi all’avanguardia di Novecento passa dalla ricerca di un’idea di modernità che si fonda su una precisa identità storica e nazionale, rivolta verso la tradizione della grande pittura e scultura italiane e di nuovo interessata a temi quali il paesaggio e la figura umana, allontanandosi sia dai dinamismi sperimentali cari ai futuristi, sia dalla frammentazione tipica dell’impressionismo. Di tutti i primi associati, Sironi è l’astro più oscuramente rilucente: già futurista, lascia poi spazio alle inquietudini metafisiche con la sua pittura colta, dal solido impianto plastico, influenzata dal Quattrocento, dal cubismo e dall’espressionismo e intrisa di una classicità declinata attraverso il filtro una sensibilità tragica. La sua parete alla 18esima Biennale del 1932 è una delle cose per cui vale la pena pagare il biglietto. Sironi è anche l’unico artista del gruppo apertamente fascista, che arriverà a teorizzare un’arte del popolo, “sociale per eccellenza”, antica e contemporanea allo stesso tempo e mai propagandistica, nel Manifesto della Pittura Murale del 1933. Più di tutti, sarà colui che pagherà lo scotto della sua identità politica, tanto che la sua opera per decenni verrà ostracizzata. 

 

Da Sironi si passa a Carlo Carrà, di cui è visibile la sala 22 della XVI Biennale del 1928, che lo consacra come uno dei punti di riferimento della sua generazione, e poi Fausto Pirandello, Romolo Romani, Corrente e la Scuola Romana con Mario Mafai e Scipione, di cui è visibile l’allestimento del 1941 di Franco Albini per la mostra a Brera, Carlo Levi, Fausto Melotti, la serie satirica dei Dux di Mino Maccari; ancora, Marino Marini, Giorgio Morandi, Alberto Savinio, le sperimentazioni fotodinamiche di Anton Giulio Bragaglia, i ritratti fotografici di Elio Luxardo, dall’allure divistica, e quelli di Ghitta Carell, la ritrattista più celebre dell’epoca, i cui scatti contribuirono a edificare l’immagine patinata dell’aristocrazia dell’epoca, il design di Bruno Munari e Giò Ponti, le arti decorative e soprattutto la pubblicità, che in quegli anni visse un momento di pieno splendore. Infine, un capitolo a parte meriterebbe l’architettura, per il ruolo centrale che assunse nella relazione con il potere e per il grado di innovazione cui giunsero i progetti architettonici di Giuseppe Terragni, Giovanni Muzio e Antonio Sant’Elia. Da vedere anche le carte delle impressionanti bonifiche che cambiarono il volto dell’Agro Pontino e le nuove città Littoria (poi Latina), Sabaudia e Pontinia. Così tanti sono i percorsi che si potrebbero tracciare e i profili artistici, che lo spettatore è travolto da una vertigine di possibilità, tra percorsi storici già definiti e incontri imprevisti, accostamenti, punti di contatto tra sensibilità distanti e opere germinali, in anticipo sui tempi.

 

 

Accanto alle opere e ai materiali d’archivio, viene proposta anche una selezione di ventinove cinegiornali d’epoca che documentano le inaugurazioni di alcuni tra gli eventi fondanti della vita culturale di quella stagione, come la Mostra della Rivoluzione Fascista di Roma del 1932 o la Biennale del giugno del 1938. Vedere le immagini dei cinegiornali, a cui si aggiunge la navata impressionante dove vengono proiettate le fotografie dell’Archivio Centrale dello Stato, fa correre un brivido lungo la schiena. L’atmosfera lugubre del regime fa oscillare lo spettatore tra un motivato senso di angoscia e la percezione della straordinaria abilità persuasiva dell’apparato propagandistico del Fascio. Visitando le sale si viene colti da una sensazione di inquietudine ma anche da un entusiasmo per il genio italico che tende a tratti a far passare in secondo piano il contesto tragico in cui le straordinarie sperimentazioni degli artisti presero forma, e fa riaffiorare l’ambiguità che segnò le scelte della maggioranza degli artisti, oscillanti tra l’aperto sostegno al regime o una muta accondiscendenza, in nome di una autonomia creativa che li rendesse liberi di poter esercitare la propria arte senza rischi: d’altronde, l’alibi di molti fu ad impossibilia nemo tenetur. Ma anche laddove l’arte si fa più lontana da posizioni dichiarate e si richiude su se stessa, coltivando uno spazio privato in cui i venti di guerra non soffino, la mano longa del curatore giunge per reinserirla nell’arena politica e storica da cui non può prescindere.

 

Osservare la dialettica tra avanguardia e modernismo, tra potere e arte, tra sostenitori di regime, oppositori, “agnostici”, rimanda inevitabilmente a una dinamica di spaccature sociali che sembra riprendere corpo a seguito di anni di ottundimento politico. La rilevanza che l’arte ha avuto nella costruzione dell’identità di un paese è una dimensione che sembra ormai smarrita, senza possibilità di appello, dopo l’esperienza delle neoavanguardie e con la linea di confine del ‘68. Sebbene l’arte non abbia mai smesso di essere politica, il suo ruolo appare determinato dal capitale, che ha innescato un processo di assorbimento e neutralizzazione delle sue componenti problematiche, riducendola per lo più a intrattenimento o a bene di lusso. Anche per questo motivo, l’arte italiana tra le due guerre merita di essere guardata con un occhio analitico e appassionato, senza temere, da spettatori, di rivendicare un punto di vista e di sporcarsi le mani. Proprio oggi che lo sfondo politico è completamente mutato e lo spazio in cui le forme contemporanee si configurano, modellato dalle tecnologie digitali, è giustapposto, privo di punti cardinali, in continuo divenire e atemporale, forzatamente post ideologico. 

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Medardo Rosso. Addio Milano

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Nel maggio 1889 lo scultore trentunenne Medardo Rosso (1858-1928) dice addio a Milano e all’Italia. Dice addio alla ristrettezza di vedute dei circoli milanesi, a un’arte ufficiale che celebra battaglie ed eroi gagliardi, scene di genere retoriche e accademiche, stili nazionali quanto provinciali; a un paese in cui è riuscito a esporre una sola volta (a Venezia nel 1887). Dice addio all’immobilismo politico, alla borghesia conservatrice che non ha mantenuto le promesse del Risorgimento, e che gli ha persino rifiutato l’iscrizione alla Massoneria nel 1889. Dice addio all’Accademia di Belle Arti di Brera, in cui ha frequentato da uditore corsi di disegno ma non di scultura, e da cui è stato espulso nel 1883. Dice addio a una critica poco entusiasta quando non apertamente ostile: il suo monumento funebre al Cimitero Monumentale di Milano (La Riconoscenza, 1883, perduto) è rimosso nove giorni dopo l’installazione; di quello per Filippo Filippi (1888) si scrive invece che la sprezzatura è “spinta fino alla scombiccheratura” (Ferdinando Fontana), insomma uno sgorbio. Del resto in Italia il realismo di Courbet è considerato pretenzioso e i paesaggi impressionisti di Pissarro, come L’approssimarsi della bufera (1877), “un accozzo tremendo”, una “frittata coi broccoli” (Ossian, in “Firenze artistica”, 1879).

 

Medardo Rosso, Impression d'omnibus, 1884-1887.


Con un matrimonio fallito alle spalle e un cumulo di debiti, forte del francese imparato a scuola, con cinque bronzi in valigia da esporre all’Exposition universelle, Medardo Rosso si trasferisce a Parigi: città europea e cosmopolita, capitale indiscussa della modernità artistica, malgrado le tensioni che scuotono la Terza Repubblica (guerra franco-prussiana, affaire Dreyfus, crisi boulangista, scandalo del canale di Panama…).

 

Prima che migrante, Rosso è un “cosmopolita straniero” che disdegna gli Stati nazione, un autarchico se non un “anarchico europeo”, come si considera secondo l’amico e poeta simbolista Jehan Rictus. Non adotterà mai la visione stereotipata che hanno i francesi degli artisti italiani, quelle italienneries apprezzate dai mercanti, ma neanche gli stilemi francesi allora in voga. In definitiva Rosso “non era abbastanza italiano per essere classificato come straniero, ma nemmeno abbastanza francese per essere percepito come tale” (p. 179). Così scrive Sharon Hecker in Un monumento al momento. Medardo Rosso e le origini della scultura contemporanea (tradotto da Nicoletta Poo, Johan & Levi 2017), risultato di un lavoro approfondito su documenti primari e fonti inedite che restituiscono un ritratto preciso e sfaccettato dell’opera dello scultore italiano, correggendo altresì inesattezze e imprecisioni della letteratura critica. L’autrice, che per la prima volta visita l’omonimo museo a Barzio nel 1992 con Luciano Fabro, ha acquisito una spiccata sensibilità per le opere di Rosso, evidente nelle analisi come nella scelta delle illustrazioni delle sculture, in gran parte scattate dall’artista stesso.

 

Medardo Rosso, Aetas aurea, fine 1885-1886.


Rosso ha un’anima ribelle poco incline al compromesso, come nel caso di altri artisti italiani trasferiti in Francia (Giovanni Boldini, Giuseppe De Nittis, Federico Zandomeneghi). E di adottare un nome francese – il termine utilizzato ancora oggi, “naturalisation”, restituisce bene l’idea – non gli passa mai per la testa, come quel Richard Barabandy (il pittore milanese Riccardo Barabandi), quel Lucius (il pittore Lucio Rossi), quell’Henri Cernuschi (il banchiere Enrico Cernuschi), per limitarsi a figure con cui entra in contatto.

 

Nella corrispondenza di Rosso non c’è spazio per le meraviglie della Parigi fin de siècle, per le mostre di Monet o Rodin che non possono lasciarlo indifferente. Niente sulla nostalgia per il Bel Paese. Una capa tosta, questo Rosso. A preoccuparlo, è la ricerca di un atelier, stanco di girovagare per hotel vicino Strasbourg Saint-Denis (rue Enghien). Si sposta più a nord, verso Pigalle (rue Fontaine) e prende un atelier sotto Montmartre, a boulevard de Clichy. Oddio, atelier è una parolona, descritto da chi ci mette piede come “una capanna fatta di travi, accanto a bizzarre baracche che sembrano un accampamento di ambulanti da fiera”, “tra pareti traballanti davanti agli enormi forni che si è costruito da solo”, come appunta un giornalista anonimo (su “Gil Blas”, ottobre 1895).

 

Medardo Rosso, Enfant malade, 1893-1895.


Tracce visibili del suo sradicamento emergono nelle opere, come la madre acefala (Enfant au sein, 1889-1890, un terzo delle sculture parigine rappresentano teste di bambini), in cui Hecker legge la spaccatura tra Rosso e la madrepatria. Nella stessa direzione vanno le sue figure predilette: malati, alienati, poveri, sofferenti, reietti – la prima scultura che espone in pubblico si chiama L’allucinato (1881, perduta). Persino le cantanti di cabaret di Montmartre sono rese senza orpelli, senza accenni alle sinuosità erotiche del corpo: i loro sguardi sono anonimi e vacui, i loro volti, più che scolpiti, cancellati, a volte senza occhi. È la scarna struttura della realtà che Rosso percepisce dietro la lucentezza delle apparenze.

 

Tra slanci e difficoltà

 

Ora, per quanto Rosso sia spigoloso e inflessibile, defilato e spavaldo, poco avvezzo alle convenzioni e ai convenevoli, ha bisogno come il pane di riconoscimenti. Cerca l’appoggio di mercanti d’arte, galleristi, scrittori-critici (Emile Zola, Edmond de Goncourt), artisti tra i quali l’amico-nemico Auguste Rodin, conosciuto quando Rosso espone nel foyer del teatro La Bodinière nel novembre 1893.

Per quanto la Francia sia all’avanguardia, si crede ancora che la scultura non sia compatibile con la modernità, come sosteneva Baudelaire nel Salon del 1846 (Perché la scultura è tanto noiosa?). Lo dimostra l’accoglienza del Balzac di Rodin, simile alle figure sbilanciate di Rosso (Bookmaker, 1893-95 e Uomo che legge, 1894-95): “fantasma di gesso” (Félix Duquesnel), “pupazzo di neve” (Jean Villemer), “aberrazione mentale” (Jean Rameau), “dolmen sbilanciato” (Philippe Gille), fino all’“orso polare in piedi sulle zampe posteriori” di Bernard Berenson. Gli scultori italiani, poi, sono considerati semplici praticien, “ciarlatani della forma” (p. 183) secondo lo scultore romantico David d’Angers, indifferenti allo sguardo analitico dell’anatomia.

 

Medardo Rosso, Rieuse petite rieuse, primi anni novanta del XIX secolo.


Sì, Rosso parlava di impressioni, ma era lontano dagli impressionisti francesi, attratti da “un atteggiamento distaccato, un interesse per l’ottica, per la suddivisione del colore e per il pubblico spettacolo della vie moderne” (pp. 139-140). Attento a cogliere la fugacità del momento e gli stati psicologici, Rosso risolve la sua scultura in una visione lontana dalla tattilità, in una scultura frontale senza un retro scolpito oltre che senza piedistallo. “Rosso non scolpisce la materia; la lustra, la scortica, la sfuma, la rende patinata e, come per magia, la anima” (in “Gil Blas”, ottobre 1895, cit. p. 181).

Per quanto la Francia sia cosmopolita, le committenze pubbliche e i monumenti nazionali sono inaccessibili a un émigré. Rosso lavora così a formati più piccoli, maneggevoli, leggeri, trasportabili, “collezionabili”. Commercializza la sua opera realizzando riproduzioni in cera, gesso e bronzo, fuse da lui stesso senza passare per le fonderie, facendo tesoro delle competenze acquisite in Italia. Si riappropria così del processo d’industrializzazione della scultura.

 

Medardo Rosso, Impression de boulevard, femme à la voilette, 1892-1897.


L’atelier diventa un luogo d’esposizione e un punto vendita in cui, per mostrare la sua parabola artistica, dispone opere di periodi diversi, le fotografa, ne cambia i titoli. Nell’ottobre 1902, in occasione della visita del critico tedesco Julius Meier-Graefe, espone riproduzioni di opere antiche, come il Vitellio del Vaticano, una copia in cera di Madonna con bambino di Michelangelo, un Giovanni Battista di Rodin e una sua opera – una vera e propria installazione. Controllando ogni fase creativa, produttiva ed espositiva, lo studio diventa un teatro collettivo e intimo. Qui il pubblico – leggasi potenziali collezionisti – assiste al processo di realizzazione delle sue sculture col metodo della cera persa, poco conosciuto in Francia. Rispetto a Degas, Rosso “non modellava mai naturalmente la cerca morbida su un’armatura interna ma preferiva gettare cera liquida in stampi flessibili in gelatina” (p. 177).

 

Medardo Rosso, Impression de boulevard,Paris la nuit, 1896-1899.


La cera permette a Rosso di smaterializzare la scultura monumentale, sbozzando appena le forme, accentuando la sua inclinazione per il frammento scultoreo, dissolvendo la materialità – “far dimenticare la materia”, come dice riprendendo Morice. Su questo materiale viscoso e malleabile Rosso lascia l’impronta delle dita, consapevole del paradosso: “accentuando la materialità dell’opera crea l’illusione della sua dematerializzazione” (p. 156).

Come ricostruisce lo straordinario libro di Julius von Schlosser, Storia del ritratto in cera (a cura di Pietro Conte, tradotto da Quodlibet, 2011), le figure di cera sono state spesso trascurate dalle arti visive. La somiglianza eccessiva della ceroplastica sfugge alla logica della rappresentazione e reclama un ruolo nel mondo reale. Giunta a un grado estremo di perfezione, la mimesi artistica genera un doppio insostenibile e demoniaco: manichini e automi, effigi funebri e calchi – di uomini illustri o di creature mostruose –, ex voto e specimen per gabinetti di anatomia. Eppure oggi la cera, ricorda Hecker, è al cuore di molte pratiche artistiche, da Bruce Nauman a Maurizio Cattelan, da Joseph Beuys a Wolfgang Laib, da Anish Kapoor a Urs Fischer.

 

Il successo arriva

 

Nel marzo 1896 lo scrittore simbolista Camille de Saint-Croix pubblica un articolo di tredici pagine su Rosso sul “Mercure de France” e, nel 1902, l’influente De l’impressionisme en sculpture, con un’intervista e quindici foto di Rosso rispetto alle cinque di Rodin. Rosso partecipa inoltre all’Exposition universelle del 1900. La visita Etha Fles, scrittrice, artista, critica olandese, presto amante di Rosso e promotrice della sua fortuna nel mondo anglo-sassone. Nella carriera dello scultore italiano si apre un nuovo fronte: Olanda, Germania, Austria, Belgio, Gran Bretagna. Momento forte è la mostra a Vienna nel 1903 sull’impressionismo in pittura e scultura, in cui Rosso è l’unico scultore italiano. Col saggio di Meier-Graefe l’impressionismo subisce una virata decisiva: da movimento nazionalista francese diventa un fenomeno europeo, cuore pulsante del modernismo europeo.

Ciononostante, Rosso resta un globe-trotter refrattario. Nel 1901, da Berlino, Lipsia o Vienna scrive lettere su carta intestata di un albergo di Dresda (e che, apprendiamo da Hecker, restano da studiare), indirizzate a Georg Treu, direttore dell’Albertinum di Dresda. “Rosso parla di lunghe ore confinato in stanze d’albergo, isolato e a disagio per il fatto di essere straniero”, e in finale “Niente in Germania gli fu da stimolo per la creazione di nuove sculture” (p. 225).

 

Medardo Rosso, Bookmaker, 1893-1895 circa.


Rientra a Parigi nel 1902, diventa cittadino francese rinunciando alla cittadinanza italiana, restando tuttavia estraneo a ogni senso di appartenenza. Rosso “non amava dire in che città era nato”, ricordava l’amico italiano Mario Vianello Chiodo (p. 211), e “preferiva rispondere che era nato in treno, dato che suo padre era funzionario delle ferrovie”. 

Nel 1903 è tra i fondatori del Salon d’automne, dove l’anno successivo espone una dozzina di sculture, di cui una nella stanza dedicata a Cézanne in doveroso omaggio. Le ammira tra gli altri un giovane Constantin Brancusi appena sbarcato a Parigi. 

 

Nel 1910 va a Firenze, dove Ardengo Soffici organizza la sua prima mostra italiana dopo ventuno anni di assenza dal suo paese. Qui resterà fino alla morte nel 1928, esponendo raramente all’estero. È presto dimenticato da tutti, italiani e francesi inclusi, malgrado l’influenza esercitata su Boccioni, Balla, Brancusi (la sua Testa di bambino addormentato è giustamente paragonata da Hecker a Enfant malade di Rosso), Giacometti, Henry Moore, George Segal, Luciano Fabro, Giovanni Anselmo – secondo cui quella di Rosso è “una scultura che nega e cancella se stessa” (p. 247) – Tony Cragg, Marisa Merz, Diana Al-Hadid, Erin Shirreff. 

La tendenza s’inverte solo nel 1963, con la pubblicazione di uno studio critico sul suo lavoro e l’apertura di un’ampia retrospettiva. In Italia? Acqua. In Francia? Acqua. L’autrice è Margaret Scolari Barr, la mostra al MoMA di New York.

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La pelle delle immagini

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Il Perugia Social Photo Fest si intitola “The Skin I Live”. In città, al Museo Civico Palazzo della Penna, si possono vedere le immagini di diciotto fotografi, mentre presso lo Spazio Off si tiene una collettiva dedicata a un gruppo di fotografe emergenti, tra le quali segnalo il lavoro di Dana de Luca e Lisa Ci. 

Cos’è la pelle in cui vivo? Una superficie circoscritta, definita, eppure estesa a tal punto che non siamo in grado di affermare se ogni suo poro è stato sfiorato, toccato o se coscientemente sappiamo che esiste. La pelle, l’organo di senso più vasto e diffuso del nostro corpo, costituisce il confine tra noi e il mondo, ciò che avvolge l’io ed esclude il “fuori”. Ma allo stesso tempo diviene relazione e comunicazione, medium del contatto e della separazione. Riflette ciò che siamo, quello che è nascosto e che talvolta spinge per uscire, per apparire, per mostrarsi. La pelle è l’involucro ingombrante che Apollo strappa dal corpo di Marsia, è il dispositivo che lo condanna alla morte ma anche all’immortalità, la materia stessa della sua pena, ciò che ne genera la discorsività. E per paradosso la sua visibilità. Marsia è davvero visibile mentre perde se stesso. Qual è la forma di un essere umano colto in questo preciso istante? Le due migliori fotografe presenti in mostra a Perugia cercano di suggerirlo. Con un elemento in più: la rimozione della loro pelle, che si autodistrugge o viene distrutta da un’altra pelle, costringe a guardarsi. Un rovesciamento distruttivo produce una rinascita creativa. La pelle è diventata immagine. 

 

La prima fotografa si chiama Sina Niemeyer e racconta una violenza subita. Un abuso sessuale. Combina diverse strategie artistiche come la fotografia, la scrittura, il design grafico e vecchie foto di famiglia, immagini distrutte, autoritratti. Le sue opere hanno un titolo ambivalente: “Für mich”. Significa “Per me”. Per me c’è stata la violenza e per me ora è giunto il momento della catarsi. “This is where you darted your tongue in and out me”, scrive accanto a un’immagine. Riquadri rossi e neri, privi di immagini e parole, evocano emozioni come macchie, punte di dolore. Brevi frasi si alternano alle immagini, ricordano, rielaborano, si contrappongono. Il percorso non è lineare. Affiorano strappi, stralci, salti. “La spinta iniziale per fare questo lavoro è stata la rabbia repressa” afferma la fotografa. Il dolore viene mostrato. La pelle si stacca anche dalle immagini, che vengono distrutte e fatte a pezzi, come accade anche all’aggressore. Un pennarello nero lo cancella, gli leva la pelle dal volto. 

 

Sina Niemeyer, Für mich.


E così facendo Sina Niemeyer lentamente reinventa il proprio corpo: due labbra che emergono da uno sfondo nero, le gambe nude e semiaperte che lei stessa si fotografa dall’alto, mentre è seduta, i capelli che coprono tutta la superficie dell’immagine, lunghi, biondi, luminosi. Il suo sguardo prova a riconoscersi, a desiderare se stessa, senza essere soltanto l’oggetto del desiderio di un altro. Lo sguardo coincide con il corpo. Non lo rifiuta. Essere se stessi “vuol dire in primo luogo avere una pelle per sé e in secondo luogo servirsene come di uno spazio in cui collocare le proprie sensazioni”, scriveva Didier Anzieu. 

 

Sina Niemeyer, Für mich.

 

Sina Niemeyer, Für mich.


La fotografia ne è la forma: le immagini mostrano ciò che Sina ha subìto e nello stesso tempo il rifiuto di un potere che ha stabilito il significato dell’essere e del sembrare, della realtà e dell’apparenza. Riprendersi la pelle significa riprendere la propria bellezza intesa come armonia tra corpo e anima, tra interno ed esterno. La bellezza è anch’essa come la violenza e la catarsi: “Für mich”. Soltanto per me. E se la pelle è una superficie da toccare, riprenderne possesso significa entrare in contatto con una parte di sé. Le fotografie semplicemente lo raccontano. Scattare una foto è poter toccare nuovamente il proprio corpo. 

Poi c’è la storia di Katharina Bauer. Il suo nemico non viene dall’esterno. Non c’è nessun aggressore, o una forza che la opprime. Per lei il problema è più oscuro. È vicino e invisibile, un nodo nero, che non si può toccare e si cela nella sua psiche. Si direbbe che è perturbante: conosciuto e sconosciuto, imprendibile, qualcosa che non si può strappare via, perché impalpabile e tuttavia presente e vivo dentro di lei. 

 

Il suo lavoro si chiama “+Youme". È un “progetto a lungo termine su Dag e me stessa, entrambi familiari con la fame emotiva, (…) un meccanismo di difesa, un modo per risolvere i problemi e affrontare il mondo, presagio del disturbo da alimentazione incontrollata”, racconta la fotografa. L’occhio di Katharina è come una mano: cerca di tirare fuori all’esterno questo male, gli dà una forma, come se si sdoppiasse e tenesse la propria pelle sollevata dinnanzi a sé. Le fotografie lo testimoniano. Katharina è nello stesso tempo Apollo e Marsia, vittima e carnefice. Ma non subisce il tormento, lo espone senza timori. Le fotografie sono la pelle che ella stessa tiene nelle sue mani e il suo corpo è la materia aggrovigliata di questo nodo, un ammasso di carne, una superficie che porta i segni di ciò che è invisibile: smagliature, pieghe, ferite. Tutto affiora, come il volto della fotografa che emerge dall’acqua, come se galleggiasse, se volesse alleggerirsi dal peso del proprio corpo e dai suoi incubi. Dall’acqua si nasce, si fuoriesce, si compare. E la fotografa scioglie la propria immagine, la apre: infrange una reclusione, mostra la bellezza della propria vulnerabilità. Cosa accomuna un albero spoglio, con un groviglio di rami scuri, al suo corpo nudo, in piedi nel bosco? Una sorta di doppio. Le ramificazioni emotive della sua psiche sono nude come un albero senza foglie. 

Il potere della fotografia è racchiuso nella fiducia che entrambe le fotografe vi attribuiscono. Esse coincidono con quello che fanno. Le immagini riescono a vedere anche ciò che è invisibile, l’occhio del fotografo è come quello di uno sciamano: prende su di sé il male, lo assorbe e lo mostra nel fotogramma. Le immagini possono davvero avere il potere di cambiare il mondo, anche se il mondo è circoscritto a un solo corpo. “La fotografia può essere uno strumento per dare un senso a ciò che sta accadendo nel mondo, ma anche dentro di noi”, afferma Katharina Bauer. Sarebbe bello avere questo coraggio. 

 

Le mostre in programma, tra cui i progetti vincitori della Call for Entry, “Life force“ di Constanza Portnoy e “Für mich” di Sina Niemeyer sono “Sick Sad Blue” di Federica Sasso, “Echolilia” di Timothy Archibald, “+Youme” di Katharina Bauer, “A singular vision” di Noah Brombart, “Fragile” di Ilaria Di Biagio, “Life unfiltered” di Donato Di Camillo, “Dare alla luce” di Amy Friend, “Riflessi” di Simona Frillici, “Odd Days – I giorni dispari” di Simona Ghizzoni, “Only because they are women” di Farzana Hossen, “Homeless” di Lee Jeffries, “Ri-Genero” di Giovanna Magri, “Human Pups” di Erik Messori, “The right place” di Fabio Moscatelli, “A girl called Melancholy” di Janelia Mould e “Where the children sleep” di Magnus Wennman. 

La direzione artistica del Perugia Social Photo Fest è di Antonello Turchetti. Il festival si chiude in data 8/4/2017.

 

Presso lo “SPAZIOFF” si può vedere una mostra collettiva dedicata a un gruppo di fotografe italiane emergenti. Le autrici in mostra sono Cinzia Aze, Elisa Biagi, Lisa Ci, Dana de Luca, Iara Di Stefano, Benedetta Falugi, Sophie-Anne Herin, Laura Lomuscio, Irene Maiellaro, Tiziana Nanni, Paola Rossi. La curatela del progetto è affidata a Efrem Raimondi.

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L’Italia vista dalla moda 1971-2001

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Rendere evidente un universo di senso, cristallizzare e interpretare lo spirito del tempo: ecco ciò che costituisce il fine ultimo di una mostra.

Generalmente una mostra viene discussa in fieri, vale a dire prima dell’inaugurazione, oppure per annunciarne il catalogo, ma, come mi ha suggerito Maria Luisa Frisa, curatrice di Italiana. L’Italia vista dalla moda 1971-2001 insieme a Stefano Tonchi, è necessario riflettere sulla sua specificità di dispositivo testuale, in quanto si tratta di una narrazione tridimensionale che richiede di andare oltre i singoli pezzi esposti e valutare le impressioni, le esperienze generate al suo interno. 

Mi piace pensare a Italiana come un organismo vivente, una donna, un essere di e alla moda che osserva la sua immagine riflessa nello specchio Ultrafragola (Ettore Sottsass per Poltronova, 1970), strategicamente posizionato in una delle nove stanze della mostra, quella delle meraviglie, un diorama mediante il quale sono state ricostruite e realizzate le suggestioni abitative di «Domus» e «Domus moda».

 

Da questa camera incantata Italiana, l’incarnazione della moda, osserva l'Italia da una prospettiva peculiare e privilegiata, anche se, per ricalcare la citazione pasoliniana del sottotitolo scelto dai curatori, per quanto ne possa avere una visione d'insieme, si rivela comunque parziale, poiché mossa da spirito di parte a causa del suo essere immersa, imbevuta della sua cultura, similmente a come accade alla terra vista dalla luna, il cui aspetto cambia a seconda dell’angolazione dei raggi del sole. 

Anche Italiana è cangiante, tanto che su Vogue di aprile del 1971 la moda di quell’anno viene espressa attraverso le 4V di viva, violenta, vistosa e variabile, aggettivi che ben si accordano con il sostantivo Italiana poiché i suoi tratti caratterizzanti sono ancora visibili, viventi, nelle collezioni contemporanee, nonostante le ovvie fluttuazioni dovute al passare del tempo.

In quegli anni prende forma un fenomeno di costume che ancora oggi viene presentato come innovazione e sovvertimento del processo di nascita delle mode, cioè lo street style, lo stile che gemma spontaneamente dal basso, quello del senso comune. Le 4V elencate da Vogue abitano la strada, non la passerella, perché ormai il buon gusto è per tutti grazie a Walter Albini e al prêt-à-porter, la prima forma di democratizzazione della moda, giunta a noi molto prima di Zara e compagnia. 

 

 

In quegli anni ci si rende conto che sono gli spazi a influenzare la moda poiché il loro investimento semantico equivale al ruolo tematico assunto tramite l’abbigliamento: yuppies, valchirie aziendali, paninari, e via discorrendo, ovvero la dimostrazione che non ci si veste per coprirsi, ma per significare, per trasmettere un messaggio, poiché all'epoca, come ora, l'appartenenza a un gruppo andava esplicitata ed era di fondamentale importanza per la rappresentazione identitaria. La narrazione tridimensionale di Italiana illustra la costituzione di un sistema di valori a partire da una manipolazione ragionata dei tratti e dei motivi dominanti di una cultura. Non si tratta di un semplice processo di stereotipizzazione, ma di concrete pratiche di manipolazione dell’immagine finalizzate al dover-essere di un corpo in una cultura, in cui le varie silhouette assunte da Italiana sono il risultato visibile e percorribile della summa di prescrizioni di forme e dimensioni, di modificazioni del corpo, di un codice universale con cui comunicarsi.

 

Il racconto di Italiana continua nel catalogo della mostra (Marsilio 2018), molto complesso e all’insegna della contaminazione tra generi testuali, che restituisce in maniera impeccabile le tappe del viaggio di ricerca compiuto dai curatori, accompagnati da giornalisti, ricercatori, scrittori, in cui emerge la chiave di lettura polifonica e multidisciplinare volta a chiarire il processo di referenzializzazione dei vari modelli interpretativi, da considerare paradigmatici per qualsiasi tipo di indagine. Dunque non solo un volume a commento dell’esposizione, ma un vero proprio manuale delle pratiche curatoriali e di ricerca, utile per imparare un metodo, o meglio ancora un atteggiamento scientifico che Frisa definisce come postura attivista, improntata al fare e ispirata alla figura del critico militante. 

La prima parte del catalogo è organizzata in forma di atlante iconografico dove, insieme agli scritti che approfondiscono i temi portanti del percorso espositivo e alcuni marchi, sono state selezionate e raccolte le doppie pagine dei periodici di quei trent’anni, latrici di un “racconto visuale della moda, in quanto dispositivi che simultaneamente fotografano e determinano gli stili, attraverso un mix di moda, attualità, cinema, televisione, arte e attingendo a più registri”, come ben descrive Gabriele Monti.

 

 

Le immagini selezionate ed esposte, non solo omaggiano i fotografi italiani di quei decenni – Gian Paolo Barbieri, Alfa Castaldi, Aldo Fallai, Giovanni Gastel, Paolo Roversi, Oliviero Toscani – ma rappresentano il corpo come una unità espressiva compiuta attraverso la gestualità, un veicolo di significati che guidano il percorso di lettura del destinatario del testo, accordandosi allo stile e all'intentio operis.

La riproduzione ostensiva e manualistica del corpo e delle sue forme, da osservare e in cui osservarsi, genera effetti di rispecchiamento, raddoppiamento per omologazione, e di uniformazione delle diversità individuali, puntualmente immortalate negli scatti pubblicati sulle doppie pagine.

Dalle doppie pagine alla Moda scritta, quella barthesiana, il passo è breve, e l’atlante iconografico fa spazio all’antologia della pubblicistica sulla moda italiana, dove troviamo contributi di addetti ai lavori e di esponenti della cultura, tra cui Umberto Eco con “L’abito parla il monaco” (1976-77) e l’appena scomparso Gillo Dorfles che titola il suo articolo con un’affermazione forte e utilissima: “Ma la moda è una cosa seria” (1981). Entrambi scrivono di significati, monaci e grassi commendatori perché hanno compreso che l’abbigliamento, gli accessori, l’arredamento, il portamento, non solo parlano una lingua, ma esprimono anche ideologie, influendo sugli scambi, sulle relazioni, sulla percezione che gli altri hanno di noi. 

 

Eco e Dorfles, proprio a partire dal vecchio adagio, giungono alla stessa conclusione: chi non ha intenzione di appropriarsi o di comprendere tale linguaggio compromette la sua partecipazione alla Cosa Pubblica, rimanendone fuori, impossibilitato a modificarla.

A proposito di res publica – il lettore mi perdonerà l’azzardo di questo flusso di coscienza – ho trovato uno spunto di riflessione interessante nella sezione del catalogo L’Italia degli oggetti, illustrata da Riccardo Miotto, dove viene proposta una lista delle icone del 1971-2001, tra cui troviamo anche il Goggle jacket C.P Company che mi ha riportato alla memoria la versione piumino indossata nel 2013 da Beppe Grillo, durante una sessione di jogging a Marina di Bibbona, usata per schermarsi completamente dall’assalto dei giornalisti, tramutandosi in uomo-mosca. Il goggle jacket ha la particolarità di avere delle lenti scure incastonate nel prolungamento del cappuccio, a coprire completamente il volto, e il suo ideatore Massimo Osti ha tratto ispirazione dall’abbigliamento militare e sportivo per progettare un capospalla adatto alla sopravvivenza nella giungla urbana, in grado di assicurare completa protezione dagli agenti atmosferici e dai paparazzi. Elda Danese, nella scheda dedicata al giubbotto, definisce il suo design steampunk, e se, grazie a Eco e Dorfles, ormai abbiamo accettato di buon grado che l’abbigliamento identifica posizioni ideologiche, l’abbinamento tra Grillo e il goggle jacket acquisisce ancora più senso, dato che parliamo del fondatore di un partito con velleità innovative regolate da un organo d’antan come il direttorio. 

 

Politica a parte, tra gli oggetti di Italiana ce ne sono alcuni tornati in auge proprio negli ultimi tempi, come la felpa Best Company, tanto amata dai paninari, probabilmente all’oscuro della presenza dei preziosi ricami in seta e cachemire pensati da Olmes Carretti, che dopo 35 anni torna sul mercato con una filosofia immutata dei filati, lasciando inalterati anche i prezzi, con relativa conversione lire-euro al centesimo.

 

 

Continuando la rassegna, mi ha colpito, per riallacciarmi al discorso sullo street style di cui sopra, la fascia da tennis marcata Fila, gruppo italiano diventato di proprietà sudcoreana, vista prima a Björn Borg e poi a Richie Tenenbaum, germe della risemantizzazione dello stile preppy operata dallo dai rapper americani che, come scrive Silvia Schirinzi, ne hanno consolidato la coolness. Cosa altro indossano oggi i rapper? Su tutti Gucci, che ritroviamo negli oggetti di Italiana con i mocassini, analizzati da Alessandra Vaccari, caratterizzati dalla tomaia impunturata a U e la miniatura metallica del morsetto da cavallo, inventati da Aldo Gucci, recuperati dagli yuppie, rilanciati da Tom Ford, e riscritti completamente da Alessandro Michele che è riuscito a farli indossare a chi non aveva conosciuto altra scarpa al di fuori delle sneakers. 

Tutti gli elementi della mostra servono a creare un’atmosfera attraverso una serie di oggetti, di immagini, di opere o di outfit tematizzati, ispirati a un paese, a una persona, a una corrente culturale, da non intendere come un contenitore vuoto la cui forma significa solo in unione con la sostanza corporea, bensì da mettere a sistema con i rimandi intertestuali forniti dal dispositivo curatoriale. In questo modo un capo o un total look esposto assume una natura triadica che può essere interpretata solo condividendo una cultura di riferimento, un’enciclopedia. 

 

La mostra è un punto di partenza – afferma Frisa – per restituire la mitologia alla moda italiana che corre il rischio di non preservare la sua memoria, donandole un aspetto programmatico volto a rafforzarne lo stato dell’arte e l’immaginario.

Il dinamismo della moda e la sua efficacia dipende anche dal sistema di traduzioni/citazioni di motivi appartenenti alla storia del costume, e al loro conseguente adeguamento allo spirito dell'epoca contemporanea. Perciò voglio considerare Italiana, nel suo essere dispositivo mostra e dispositivo catalogo, come un peculiare esercizio di memoria collettiva, orientata alla riscrittura e alla “creolizzazione” delle tradizioni del trentennio di riferimento. La riformulazione dei sistemi semiotici del passato serve a appropriarsi di esso e a semplificarlo dando luogo a nuove strutture ed effetti di senso prima sconosciuti, in questo caso ravvisabili nelle nove stanze tematiche. Il visitatore entra in contatto con la memoria del passato che ha plasmato la moda presente asservendosi a essa come strumento di rinnovamento, prendendo spunto da distinti ambiti e molteplici ispirazioni culturali. 

 

Italiana è un archivio di citazioni non nostalgico, la cui linea curatoriale ha privilegiato la costruzione di un dialogo tra gli oggetti, preservandone l’identità e l’autorialità, in modo da dare vita a un percorso di visita durante il quale a ogni passo si aggiunge un tassello alla visione d’insieme della moda 1971-2001. Pertanto i curatori, come ha giustamente sottolineato Maria Luisa Frisa, hanno fortemente voluto un allestimento semplice – solo in apparenza – per privilegiare i concetti e i contenuti, ossia i vertici del reticolo di temi, alla cui spalle c’è una complessa riflessione sul design dell’illuminazione, per preservare gli oggetti esposti e offrirli ai visitatori valorizzando la loro “bellezza naturale”, per non alterare cromie e testure, e soprattutto evitando quell’effetto di abbagliamento, spesso provocati da faretti troppo forti. 

Italiana affascina senza ammaliare, rifuggendo da quelle spettacolarizzazioni asservite al fattore di instagrammabilità, sempre più frequenti nel panorama delle mostre mondiali. 

 

Ed è proprio Instagram a far parlare l’istanza collettiva dei visitatori, aggregata tramite l’hashtag #italianaexhibition, grazie a cui possiamo risalire agli oggetti in mostra più impattanti: oltre al diorama citato in apertura, troviamo un outfit di Versace caratterizzato dalla stampa barocco riportata in auge nella recentissima collezione tributo, il completo crop top e short di Dolce&Gabbana con la macrostampa “Made in Italy”, e l’opera “Tutto” (1992-94) di Alighiero Boetti, uno zibaldone coloratissimo dove impera la diversità che acquisisce senso nel montaggio di vari elementi, uniti da una comunicazione dinamica. 

L’interazione del tutto con le sue parti presentifica simultaneamente in un solo oggetto i vari tasselli dell’affresco corale della moda 1971-2001 chiamato Italiana.

 

 

Italiana. L’Italia vista dalla moda 1971-2001, a cura di Maria Luisa Frisa e Stefano Tonchi (Palazzo Reale, Milano, fino al 06 maggio 2018).

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Dürer e le signore rifatte

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Albrecht Dürer, caricatura di una donna in una lettera indirizzata a Willibald Pirckheimer, 8 Settembre 1506. Penna e inchiostro. Norimberga, Stadtbibliothek.


Brutto? No, sgraziato! Nella caricatura disegnata da Albrecht Dürer in una lettera indirizzata all’umanista Willibald Pirckheimer, il sorriso idiota e sgangherato di una donna si fa largo tra le parole con lo stesso tratto sciolto e sicuro usato per scrivere. In molti altri disegni, xilografie, incisioni a puntasecca e ad acquaforte esposte nella mostra milanese Dürer e il Rinascimento tra Germania e Italia in corso a Palazzo Reale (fino al 24 giugno), lo stesso tratto svolge elegantemente le grazie delle lettere oppure delinea figure e ornamenti prolungando e aggrovigliando lo svolazzo, sdoppiando il viticcio (Henri Focillon, Albrecht Dürer, Milano, 2004, p.16). 

 

Albrecht Dürer, Grande Passione, 1496-1511. Xilografia in 11 fogli, dettaglio del foglio Seppellimento. Schweinfurt, Collezione Schӓfer.


Lo fa con una pendolarità tra grazia e disgrazia, per comprendere la singolarità della quale può essere utile assistere alla proiezione del film Phantom thread– nella versione italiana Il filo nascosto– scritto e diretto da Paul Thomas Anderson. Il film è dedicato al sarto britannico degli anni Cinquanta Reynolds Woodcock, personaggio d’invenzione ispirato alla vita dello stilista spagnolo Cristobal Balenciaga Eizaguirre. Visito la mostra dopo aver visto il film nel primo pomeriggio, in un cinema del centro affollato da signore avvizzite e rifatte dalla chirurgia plastica nel modo peggiore: visi grotteschi e sgraziati come quello disegnato da Dürer nella lettera indirizzata a Pirckheimer.

 

Albrecht Dürer, Adorazione dei magi, 1504. Olio su tavola. Firenze Galleria delle Statue e delle Pitture.


La mostra è dedicata all’influenza esercitata dallo stile all’antica dell’arte rinascimentale sulla cultura visiva della Germania del sud, verso la fine del Quattrocento. Nello scambio culturale e artistico tra il sud della Germania e il nord dell’Italia Dürer ebbe un ruolo di primo piano. L’artista soggiornò a Venezia dove studiò alcune opere che lo ispirarono, tra queste Il Trionfo della Fede di Tiziano Vecellio stampato nel 1517, modello compositivo al quale Dürer s’ispirò per la realizzazione dei fogli a stampa xilografica della serie Il grande carro trionfale dell’imperatore Massimiliano I. In queste xilografie le grazie delle lettere si separano dai segni alfabetici per volteggiare nel cielo come le nuvole vaganti disegnate da Vecellio nel suo Trionfo. A dispetto del primato della parola sull’immagine rivendicato da Martin Lutero, questi decori alfabetici si prendono la libertà di andare a spasso da soli rivendicando il diritto di costituirsi come immagini indipendenti dalla parola, penso tra me e me ammirando le bellissime xilografie. Ciò che colpisce in queste opere è la scioltezza del gesto che con grazia e quindi con naturalezza e apparente noncuranza lascia una traccia.

 

Tiziano Vecellio, Il Trionfo della Fede, 1517 (edizione francese post 1543). Xilografia in 5 fogli. Staatliche Museen, Berlino - Albrecht Dürer Il grande carro trionfale dell’imperatore Massimiliano I, 1522. Xilografia in 8 fogli. Schweinfurt, Collezione Schӓfer – Paolo Poce, fotografia dell’allestimento della sala 2 – Geometria, misura, architettura con i fogli a stampa xilografica della serie Il grande carro trionfale dell’imperatore Massimiliano I. 


Giorgio Vasari sviluppò il concetto di grazia nelle arti visive applicando a queste quello elaborato da Baldesar Castiglione in Il libro del Cortegiano, un manuale sul galateo di corte pubblicato nel 1524. In questo testo che istruisce sulle buone maniere, la grazia è il fare bene con disinvoltura, senza apparente sforzo e affanno. Il tema è trattato in modo esauriente da Anthony Blunt nel saggio Le teorie artistiche in Italia dal Rinascimento al Manierismo (Torino, 2001). Considerando che il termine “grazia” può essere riferito anche al filetto che termina di testa e di piede i singoli caratteri della scrittura alfabetica, per omonimia torno con la mente al film di Anderson.

Nel titolo del film le grazie dei caratteri si sviluppano sinuosamente sulla superficie dello schermo in volteggi simili a quelli incisi da Dürer. A causa delle grazie nel titolo e della parentela semantica oltre che fonetica tra il termine “grazie”, riferito ai decori dei caratteri alfabetici, e al termine “grazia”, riferito alla benevolenza di Dio, ora, qui, davanti al volteggiare e vagare xilografico della linea, nella mia mente si saldano tra loro immagini, parole e concetti in un modo che non sarebbe stato possibile altrimenti. 

 

Albrecht Dürer, frontespizio del ciclo composto da 15 xilografie Die heimlich offenbarung iohannis, 1498. Xilografia. Monaco, Staatliche Graphische Sammlung - Titolo del film Phantom thread scritto e diretto da Paul Thomas Anderson, 2017.


Il film di Anderson racconta della grazia e dell’eleganza con la quale spesso viene confusa, anche dallo stesso Castiglione: “quelli [uomini], che hanno in sé grazia ed eleganzia nella pronunzia e son tenuti communemente per boni e significativi”. Grazia ed eleganza sono sinonimi? “Elegans, non magnificus; splendidus, non sumptuosus”. Con queste parole Cornelio Nepote elogia in Attico l’oculatezza nell’amministrare la sua ricchezza (Vita Attici, 13, 5), suggerendo che l’eleganza non sia un dono del Cielo ma un abito, un costume da adottare, una scelta, come indica anche l’etimologia del termine: dal lat. elĕgans -antis, der. di eligĕre “scegliere”. Nell’ossessivo esigere da sé e dagli altri di Woodcock, impegnato in un rapporto difficile e complicato con la sua graziosa (in quanto dotata di grazia) musa ispiratrice, affiora l’etica del lavoro calvinista studiata da Max Weber (L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Milano, 1991), intrecciata in modo complicato con il concetto di grazia. Se nella dottrina di Lutero la salvezza non può essere guadagnata con le opere e quindi il fedele non è certo della sua sorte se pur predestinato, in quella di Calvino la grazia si rivela attraverso le opere buone, il successo e la ricchezza prodotta dal lavoro. Interpretandole attraverso lo studio di Weber, le figure disgraziate caratterizzate da espressioni grottesche, fuori dalla grazia di Dio inserite nelle composizioni degli artisti del nord Europa, potrebbero benissimo rappresentare coloro che non hanno avuto successo, perciò privati della benevolenza di Dio: i mendicanti e i ladri che minacciano la sicurezza dei borghesi predestinati, gli stessi che gremiscono la sala cinematografica del centro dove si proietta il film di Anderson. Le signore rifatte che assistono alla proiezione del film, accompagnate da mariti facoltosi e quindi sicuramente predestinate, dovrebbero essere toccate dalla grazia e trasmettere la completa fiducia nella propria salvezza, eppure il loro volto è sgraziato, il loro sguardo incerto e smarrito gira intorno con un sorriso idiota e folle (forse a causa del silicone nelle labbra e della pelle tirata agli angoli della bocca), prefigurato da Dürer nella sua caricatura.

 

Non avrei mai pensato di ritrovarmi qui, a Palazzo Reale, tra i personaggi del film, invischiato in una complicazione dottrinale con risvolti sociologici a causa dei filetti che terminano le lettere nel titolo del film. Ad ogni modo la compagnia non mi disturba, anzi mi aiuta a riconoscere nell’opera di Dürer la relazione tra grazia e disgrazia messa in ombra da quella tra bello e brutto. Il fatto che Dürer sviluppi le sue idee sul concetto di bellezza dichiarando di non sapere come definirla (Hans Rupprich, Albrecht Dürer, Schriftlicher Nachlass, Berlino, 1956-1969, vol. II, p. 100 – 48-49, citato da Bernard Aikema nel saggio introduttivo) induce il sospetto che questa non sia solo misura e proporzione, anche se è proprio in questi termini che si esprime nei suoi trattati ispirati alle teorie di Leon Battista Alberti. D’altro canto il concetto di grazia svolto da Giorgio Vasari, sulla traccia del libro di Baldesar Castiglione, si forma appunto per reazione a una concezione della bellezza determinata da canoni formali e razionali, come quelli teorizzati dall’Alberti, inadeguati per esprimere quella “concordanza di grazia nel tutto” di cui Vasari scriveva nelle Vite

 

Martin Schongauer, Pilato che si lava le mani, ottavo decennio del 1400. Dettaglio.


Forse sono questi pensieri sui limiti della misura e della proporzione nell’arte Rinascimentale ad attirare la mia attenzione sui visi espressivi e sgraziati di alcuni personaggi nell’incisione Pilato che si lava le mani di Martin Schongauer, una delle dodici che compongono una serie alla quale Dürer s’ispirò per il ciclo della PiccolaPassione esposto nella sala 5 – Dürer: l’Apocalisse e i cicli cristologici. Secondo il curatore, il crescente interesse per un classicismo di ascendenza italiana nelle città tedesche del sud non soppianta la contrapposta tendenza a-classica e anticlassica, intesa come mutazione del classico (a questo proposito si parla di Rinascimento alternativo), che si manifesta in forme critiche e satiriche. Le trentasei xilografie della Piccola Passione costituiscono un esempio di rinegoziazione nel rapporto tra opera e fruitore in una chiave anticlassica, che inaugura un nuovo approccio iconografico all’immagine sacra: il pathos delle espressioni stimola la curiosità del fruitore delle opere. 

 

Albrecht Dürer, Melencolia I, 1514. Bulino. Schweinfurt, Collezione Schӓfer.


Di pensiero in pensiero raggiungo la sala 6 – Il Classicismo e le sue alternative dove classico, anticlassico e a-classico sono messi a confronto tra loro. In questa sala è esposta anche la famosa incisione Melencolia I del 1514. Nel saggio La vita e l’opera di Albrecht Dürer, Erwin Panofsky interpreta l’opera come un’allegoria dell’immaginazione che negli artisti “è più forte della mente o della ragione” (p.219). Citando Cornelius Agrippa di Nettesheim, che distingueva tre generi di furor melancholicus, Panofsky interpreta Melencolia I come il primo dei tre, quello degli artisti che non possono estendere il loro pensiero oltre i limiti dello spazio (qui Panofsky si riferisce al pensiero del filosofo scolastico Enrico di Gand) in quanto la sfera dell’immaginazione “è per definizione la sfera delle quantità spaziali” (p.220). Secondo l’interpretazione di Maurizio Calvesi (Arte e alchimia, Firenze, 1986, p.10), l’opera è invece un’allegoria della prima fase dell’opera alchemica chiamata nigredo, la fase in cui la luce è offuscata dall’ombra. Nell’incisione il sole è infatti annerito quasi come se fosse in eclissi.

In eclissi? 

Affiora un ricordo lontano.

 

Avevo cinque anni quando il 15 febbraio 1961 ho assistito a un’eclissi solare totale, l’unica visibile alla nostra latitudine nel XX secolo. È stata un’esperienza formidabile che ha segnato il mio modo di percepire. Assistendo alla polarizzazione della luce della corona solare e a un sovrannaturale spegnersi dei colori mai visto prima, qualcosa in me è cambiato. L’eclissi mi ha iniziato al mistero della luce oscurata che porta a incandescenza le spaccature delle nubi, che rimbalza sulla superfice del mare in tempesta, che poco prima dell’alba scavalca la notte rifratta dall’atmosfera, la stessa luce che si mescola all’ombra nelle incisioni di Dürer e in questi stessi appunti che sto prendendo su fogli volanti in un angolo della sesta e ultima sala della mostra a Palazzo Reale. Anche la scrittura è infatti una forma della luce oscurata, del suo conflitto mai risolto con l’ombra che lascia una traccia: incisione, solco, scavo dal quale emerge lo scuro, il nero del segno tracciato dallo strumento. Sulle tavole xilografiche e sulle lastre incise da Dürer ad acquaforte e a puntasecca il nero dell’inchiostro tipografico invade i solchi allo stesso modo, prima di essere trasferito a stampa su foglio. Nel breve saggio Estetica dei visionari (Milano, 2006) Henri Focillon sostiene che le arti grafiche del bianco e nero, esaltando il contrasto di luce e ombra, stimolano fenomeni di risonanza psichica caratterizzati da “evocazione e incastro di immagini” (p.17)

Nel saggio citato in precedenza (Albrecht Dürer, Milano, 2004), Focillon osserva che nell’opera grafica dell’artista le forme “si incastrano le une nelle altre, si sovrappongono, non si susseguono in profondità” (p.30) giustapponendo il vicino al lontano (p.41). Non per conseguenza dunque ma per giustapposizione e incastro come nel mio modo di collegare immagini, parole e concetti aggirandomi tra le sale di Palazzo Reale.

 

Dobbiamo credere che Dürer sia uno dei fautori del Rinascimento alternativo o piuttosto che sia da annoverare tra gli artisti che “siano l’opposto del genio figurativo di mediterraneo e dell’umanesimo” come scrive Focillon in Estetica deo visionari (p.13) riferendosi a una vasta gamma di artisti che lavorano con le arti del bianco e del nero? Di certo è un artista complesso e sfaccettato, dall’opera grafica del quale possiamo imparare molto sul rapporto tra immagine e scrittura avvolto nel mistero della luce oscurata, quella che riluce nel bianco degli occhi della sua Melencolia, in contrasto con l’ombra che le offusca il volto, forse la stessa luce oscurata che muove in modo sghembo i miei pensieri intorno a queste opere scatenando l’immaginazione, che negli artisti “è più forte della mente o della ragione”.

Dall’opera pittorica che affianca quella grafica possiamo apprendere molto altro ancora, ma per me è troppo e abbandono la mostra con il ricordo di un piccolo olio su tavola dipinto nel 1494 che rappresenta San Girolamo penitente (National Gallery, Londra), a mio parere l’opera pittorica più bella – forse dovrei dire più graziosa – in mostra a Palazzo Reale.

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A Palazzo Reale fino al 24 giugno
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Visages, Villages, Agnès Varda & JR

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Una premessa è necessaria: adoro in modo smisurato e incondizionato Agnès Varda. Tutto quello che scriverò sarà qualcosa di molto vicino a una dichiarazione d'amore.

Agnès Varda non ha bisogno di presentazioni: ha scritto, diretto e accompagnato– a partire dal 1954, con la sua prima personale nel cortile di casa – la storia dell'arte e del cinema francese d'avant-garde, della cinécriture, insieme a Chris Marker e Alain Resnais: la macchina da presa si fa strumento di scrittura e traccia una cartografiasentimentale. Sguardi che sono 'un passo a lato' dalla Nouvelle Vague di François Truffaut, Éric Rohmer e Claude Chabrol, ispirati e sostenuti da André Bazin. Tutto, con Agnès, prende una piega intima, anche e soprattutto i suoi documentari; e non sembra avere intenzione di interrompere il suo lungo racconto proprio ora: a quasi novant'anni, il suo spirito è giovane più che mai – ha il profumo intenso dei gelsomini nelle notti di maggio e una freschezza che ricorda la brezza atlantica dell'isola di Noirmoutier, dove si era trasferita con l'amore di una vita, il regista Jacques Demy, l'indimenticato regista di Les parapluies de Cherbourg (1964) e Les demoiselles de Rochefort (1967), il suo Jacquot de Nantes.


Jean René – dit JR, è invece un giovane (1983) fotografo aux lunettes noires e street-artist affichisteen plein air, esponente dell'arte pubblica, socialmente impegnato, di cui sono noti i monumentali collages urbani. Durante la loro realizzazione sono sempre coinvolte le comunità locali che prendono attivamente parte al processo artistico. Ne sono esempi il bambino messicano che si affaccia sorridente oltre il recinto sul confine tra gli USA e il Mexico, a sud di San Diego e il collage fotografico che guardato in prospettiva, fa sparire la Pyramide di Pei davanti al Muséedu Louvre.


In questi giorni lo abbiamo visto al fianco dello chef Massimo Bottura durante l'apertura del RefettorioParis nella cripta della Madeleine, un nuovo luogo di condivisione dell'iniziativa Food for Soul. Si tratta di un 'ristorante solidale', contro lo spreco alimentare: come già a Milano, Rio e Londra, si servono gratuitamente pasti cucinati a partire da cibo invenduto a poveri, migranti e senzatetto. 

Forse per questo motivo, all'anteprima italiana del documentario crowdsourcedVisages Villages, alla Fondazione Prada di Milano, JR non c'era. Agnès invece fa il suo ingresso nella bella sala, dopo la proiezione, elegantemente vestita di un completo viola (il colore degli spiriti poetici e indomiti, degli artisti: le si addice), con un motivo floreale ricamato sulla casacca; il volto – raccolto in un'espressione riservata, composta e dolce ad un tempo – è incorniciato dall'inconfondibile caschetto bicolor, sbarazzino e irriverente. È arrivata a Milano in treno, accompagnata dalla figlia Rosalie, portando sottobraccio una sagoma cartonata a figura intera di JR, che, pochi giorni prima aveva fatto lo stesso con la silhouette di Agnès a Los Angeles, in occasione della cerimonia di premiazione degli Academy Awards 2018: Visages Villages ha ottenuto una nomination per il miglior documentario. In novembre, Agnès ha ricevuto un Honorary Award alla carriera, lunghissima e straordinaria, iniziata per passione, da fotografa autodidatta: «for being everything, but normal, for being unique and daring...» – così Angelina Jolie ha presentato il prestigioso Oscar. A questo proposito, è importante sottolineare che, per la prima volta nella storia dell'Academy, è una regista-artista donna a essere insignita di questa statuetta. Tra gli altri numerosi riconoscimenti internazionali per questo lavoro, L'Oeil d'Or du meilleur documentaire al Festival di Cannes 2017 e il premio del pubblico al Festival di Toronto.

Questi due «outsider dell'arte» si sono incontrati per la prima volta nel 2015, dopo uno stretto giro di visite nei rispettivi atelier e da un vivace confronto a tavolino, «all'ora del tè». In tre giorni si costituisce un'insolita, complementare e più che mai riuscita, coppia artistica. Così, a partire dal desiderio comune di mettersi in viaggio, di un fare-insieme avventuroso, nel rispetto delle diverse individualità e della libertà di esprimersi visivamente ognuno secondo il proprio habitus et modus, dalla necessità e urgenza che muove i grandi maestri e le giovani menti brillanti, a dare forma, creando qualcosa di nuovo, nasce l'idea di un vero e proprio road-movie di campagna, nelle zone rurali di Francia, a bordo della camionette magique di JR,

 

 

ormai celebre laboratorio fotografico in biancoenero su quattro ruote, utilizzato anche per il suo progetto personale Inside Out. Che Agnès avesse un debole per i camion, lo si poteva già intuire guardando Les glaneurs et la glaneuse (2000).

Il lavoro ha preso forma al ritmo di una settimana di riprese al mese, per 15 mesi, prendendosi il lusso del tempo, quello dovuto, necessario, per riflettere e ripartire con nuovi slanci ed energie. In questo documentario risplende il rapporto tra cinema e fotografia e confluiscono paradossalmente frammenti di un journal intime, un memoir reso vivido dall'evocazione o dalle citazioni esplicite o meno, in forma di hommage, di grandi nomi del vivace melieu artistico-culturale francese della seconda metà del secolo scorso: oltre a JacquesDemy, Nathalie Serraute, Guy Bourdin, Henri Cartier-Bresson eJean-Luc Godard.
Una volta partiti per la missione di ricognizione alla scoperta della realtà dei piccoli villaggi di provincia, lontano dai centri delle città più rinomate – «perché tu sei un artista urbano e io amo la campagna» dice Agnès, l'idea in nuce del documentario, l'«intento di creare un legame tra le persone filmate e quelle che guardano il film, gli spettatori», è stata rimodellata continuamente dal caso e ripensata alla luce degli eventi, un altro modo per chiamare tutte le esperienze che aprono a nuove possibilità: questo progetto felice eccede continuamente il suo stesso canovaccio, è sottoposto a una costante verifica e soggetto a continui aggiustamenti o ripensamenti in corso d'opera.
Questo film, che di per sé è già un collage-affresco, è anche una grandestoria sartoriale, cucita a misura di incontro, intrecciata di storie e intessuta di legami; a partire da quello di Agnès con JR, che approfondiscono la loro conoscenza e amicizia strada facendo, nell'ammirazione, nel rispetto e persino nella cura reciproca, sperimentando con entusiasmo. Talvolta giocano, si prendono in giro, Agnès si è conquistata con lui il diritto di ridere della sua vecchiaia: «je vieillis en m'amusant»; aggiunge di non aver paura della morte, anzi, sostiene di aspettare quel momento con una certa curiosità.

Di tanto in tanto Agnès e JR si fermano in luoghi del ricordo, in altri casi è l'hazard– il piacere dell'improvvisazione, il desiderio dello scambio, del dono – a condurli su strade diverse da quelle immaginate; sempre in nome dell'incontro visage à visage: parlano con le persone comuni, ascoltano le storie che hanno da raccontare, imparano a conoscerle e, infine, le ritraggono, attraverso interviste e fotografie. Questi uomini e donne semplici, assolutamente anonimi, senza alcun potere – contadini, allevatori e operai, giovani e pensionati di villaggi dimenticati – diventano i protagonisti di questo racconto a più voci, così dentro la periferia del mondo da esserne in realtà l'arteria più viva e pulsante, tutti singolarmente partecipi di una magnifica narrazione corale, tra la memoria intima e collettiva del passato, in un presente che appare remoto. Incontriamo anche noi il postino di Bonnieux, divenuto l'eroe del villaggio grazie alla sua gigantografia su un'abitazione di tre piani; e Jeannine, una donna anziana, l'ultima ostinata abitante di un quartiere di minatori, che si commuove e commuove tutti, riconoscendo il proprio ritratto sulla facciata della vecchia casa paterna, dove ancora vive e resiste, ostacolandone la demolizione; non vuole andarsene, come gli altri

 


 

Questi volti, ritratti profilati hors-cadre hanno un'umanità e una grandeur classica, che restituisce alle persone la parola, il senso di unicità e decoro, illumina le loro storie personali e il loro insostituibile ruolo nell'economia di una società infragilita dalle assurde logiche di (iper) produzione e consumo orientate alla conquista di una ricchezza che a lungo termine non può non rivelarsi effimera. Nel villaggio abbandonato di Pirou-Plage (invero, un nome curioso), il duo ha pensato di ri-abitarlo, animando una festa insieme alla gente del luogo, per tentare di risalire a un'origine lontana, quasi mitica. Di fatto, hanno creato una connessione a livello sociale: il villaggio è stato ripopolato da nuove famiglie, aggregate al momento come accade in un gioco di ruolo, facendo sì che l'immaginazione e la fantasia delle persone potesse risvegliarsi e ricombinarsi liberamente, in un infinito intrattenimento dentro e fuori la realtà.
Tra i collages di JR si trovano anche immagini fotografiche dell'archivio privato di Agnès o foto scattate durante i sopralluoghi: come la grande capra con le corna. Contrariamente alla barbarie diffusa tra molti allevatori di capre e produttori di fromage de chèvre, che bruciano le corna dei cuccioli, in modo che non combattano né si feriscano, danneggiando così la produzione, Patricia è un'eroina che opera nel rispetto delle leggi della natura: se le capre hanno le corna, ci deve essere un motivo; insomma, funziona come la pistola di Chechov. A Saint-Aubin-sur-Mer, in Normandia, dove JR correva spesso in moto sulla spiaggia, una mise en abîme del ricordo di Agnès: anche lei, negli anni '50 si trovava là dove abitava un suo giovane amico di talento, Guy Bourdin, solo più tardi riconosciuto tra i più importanti fotografi di moda oltralpe. Gli aveva scattato alcune fotografie, molto tempo prima: emerge il desiderio incontenibile di dare nuova vita all’immagine dell’amico, riproducendola sull'enorme bunker tedesco della Seconda Guerra, doloroso resto del passato precipitato dalla scogliera e impiantatosi nella sabbia come una scultura solitaria.

 

 

JR racconta l'impresa, la necessità di organizzare tutto il lavoro nel breve tempo che la marea avrebbe concesso all'équipe

 

 

Inclinando l'immagine, in modo che il giovane Guy venisse accarezzato e cullato dall'acqua, l'hanno resa altro-da-sé, per il tempo brevissimo di un'apparizione destinata a svanire, portata via in poche ore dalle onde prepotenti. Come un'onda, anche il senso dell'effimero ritorna, sempre insistente e ancora si ripete: eppure, non affiora tristezza o nostalgia – «ogni incontro è come l’ultima volta» –, ma una profonda gratitudine nei confronti della vita, fluida come la materia del loro progetto. In un'intervista con Olivier Père, JR sottolinea come l'approccio di Agnès sia gentile, delicato e femminista. «Femminista! Lo sono eccome!» esclama lei. Le donne, e le plages hanno sempre avuto un ruolo determinante nel suo universo poetico; in questo film, sono state coinvolte nel suo «petit numéro de féministe» anche le mogli di tre portuali di Le Havre, dando loro finalmente non solo la parola, ma anche la possibilità di accedere a un luogo, il villaggio portuale, cui l'accesso è solitamente interdetto, dalla cultura tradizionalmente maschilista dell'ambiente (basti pensare che i lavoratori del porto hanno acconsentito alla messa in opera soltanto perché in sciopero). Eccole là, «comme trois grandes totems, qui entrent dans ce monde d'hommes et qui s'installent» sedute nel cuore dei containers colorati come mattoncini di Lego, rispettivi mariti ai piedi.

 

 

Dal momento che «le sujetc'est le regard», è necessario riflettere su l'occhio e lo sguardo, sui diversi modi di vedere– il pensiero torna per un istante a John Berger e di raccontare che fanno di questo documentario un lavoro teorico sui dispositivi della rappresentazione (come realizzare immagini, come condividerle, mostrarle ed esporle) e sociologico ad un tempo; indirettamente persino politico.
Durante il periodo di lavorazione del film, nel mondo sono accaduti eventi terribili, catastrofi e torture; queste immagini non hanno mai smesso di attraversare i media. Varda e JR non hanno voltato le spalle alla realtà in cui siamo tutti immersi e di cui siamo irrimediabilmente consapevoli, ma hanno preferito proporre un 'antidoto': cercare un po' di pace nella meraviglia di ciò che è autentico, del dialogo, dell'incontro reale, e offrire così conforto allo sguardo ferito. Vediamo occhi grandi ovunque, persino sui vagoni di treni merci: sono gli occhi di Agnès, e ci sono anche i suoi piedi dalle dita piccine, perché possa andare ancora e sempre più lontano, mentre noi ci guardiamo e riguardiamo a vicenda, costretti a guardarci intorno, chiamati a volgere il nostro sguardo sugli altri. 

 

La stessa vista di Agnès è messa a tema: si fa sempre più sfocata, i suoi occhi sono malati. Durante la produzione si sottopone a un intervento, in parte documentato. Tra i molti riferimenti dichiarati di cui questo film è punteggiato, la celebre scena di Un chien andalu (1929) di Buñuel e la Varda non nasconde che in gioventù aveva subito il fascino dello spirito surrealista, cadavre exquis. JR le resta sempre accanto, lui ci vede molto bene e non si toglie mai gli occhiali da sole, cifra del suo personaggio. Un po' come Jean-Luc Godard, che concede un'eccezione soltanto alla regia dell'amica, per un suo corto silenzioso, Les Fiancés du pont Mac Donald ou (Méfiez-vous des lunettes noires) che ricorda un classico di Buster Keaton, ma è un estratto dall'odissea interiore di Cléo de 5 à 7. A Godard, è dedicata anche la scena della scorribanda in sedia a rotelle lungo la Grande Galérie dei dipinti – tra Botticelli, Ghirlandaio, Raffaello o Arcimboldo – del Musée du Louvre, omaggio alla corsa perdifiato di Bande à part (1964). Anche Bertolucci aveva girato la stessa scena in The Dreamers (2003), ma in modo decisamente più mimetico; la citazione non è mica una leggerezza. Questi due scanzonati, invece, sono artisti ironici che si occupano di cose molto serie: il racconto, tutto ciò che più importa, sta nei margini (di natura fisica ed economica, come scelta sociale e politica) ed è su questo limite, su questa soglia che l'opera si compie.

È sorprendente come appena prima della fine delle riprese «dopo tante porte aperte, una porta resti chiusa»: proprio quella di Jean-Luc. L'imprevedibile e crudele traditore non si presenta all'appuntamento, ma lascia sulla porta un messaggio misterioso, cifrato, che le ricorda forse il tempo passato insieme, con Jacques. Agnès è addolorata, ferita dall'assenza; assistere alla sua reazione è senza dubbio uno dei momenti più toccanti dell'intero lavoro. Impreca a bassa voce, ma non commenta l'episodio – del tutto inaspettato – che pure è filmato e offerto. Quanta delusione nel suo allontanarsi, è talmente triste che trattiene le lacrime a stento. JR si toglie gli occhiali per un momento, in segno di un affetto ormai profondo. 

 

 

Questa inquadratura avrebbe dovuto essere quella finale: in mezzo a una vasta spiaggia deserta della Normandia, seduti accanto, avvolti dalla bruma, i loro profili se ne stanno nel vento. Sembrano piano sparire: eppure no, non finisce così. Li ritroviamo ancora in viaggio. Verso dove? La risposta è al cinema.

 

IG ⟶ @agnès.varda& @jr + @facesplacesfilm || Scheda del film presentato a Cannes e il Trailer ufficiale.

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Raffaello e l’alfabeto degli esseri celesti

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Il San Sebastiano (1501-1502 ca.) di Raffaello, dell’Accademia Carrara di Bergamo, regge una freccia nella mano destra, simbolo del suo martirio scampato, e guarda assorto verso una vicina lontananza. Il manto rosso è bordato con caratteri di un alfabeto che non sembra appartenere alle famiglie dei linguaggi conosciuti. Nella mostra Raffaello, l’eco del mito sono presenti scritture segrete, in forma di ornamentazioni epigrafiche, anche sulle vesti delle Madonne e dei santi dipinti dai maestri guardati da Raffaello, quando era dodicenne: nella Madonna con il Bambino in trono tra i santi Giovanni evangelista e Agostino (1494) di Perugino, nella Madonna della Pace (1495 circa) di Pintoricchio. 

 

Raffaello Sanzio, Grande Madonna Cowper (o Madonna Niccolini) 1511, dettaglio, National Gallery of Art di Washington.


In numerosi casi della storia dell’arte, tra Duecento e Cinquecento, molti pittori hanno racchiuso nelle aureole dei santi, e dipanato sui manti o sui troni, caratteri di una lingua sconosciuta, una lingua dei cieli, pronunciata iconicamente per gli occhi che sanno intuire i messaggi spirituali. A volte sembrano segni di alfabeti pseudocufici o di altre culture. Il senso sotteso crea un'attesa entro la quale stabilire un contatto con una realtà nimbata dall'oro della rivelazione. Evocano un’alterità, l’ignoto.

 

Raffaello Sanzio, San Sebastiano (1501-1502 ca.), dettaglio, Bergamo, Accademia Carrara.


A prescindere dal vero significato degli alfabeti presenti sui manti e nelle aureole degli angeli e dei santi, i segni misteriosi alludono a una lingua evidentemente di origini celesti, visto che orna gli abiti di coloro che sono in paradiso. Gli artisti traducono in segni grafici una sorta di lingua silente, un linguaggio mistico, perfetto o divino. Cercano di rendere visibile una possibilità misterica, una lingua edenica, utilizzata dagli angeli e dai santi per comunicare tra loro e con gli iniziati. E immagino che sia una sorta di langue des oiseaux, cioè un linguaggio segreto, simile a quello che era parlato dai trovatori nella Francia del medioevo, con giochi di parole e simbolismi che nascevano dall'omofonia.

Raffaello Sanzio, San Sebastiano (1501-1502 ca.), Bergamo, Accademia Carrara.


Anche gli iniziati alla Qabbalah, i maghi del Rinascimento e gli alchimisti avevano ideato linguaggi segreti, per proteggere la sacralità dei testi divini, le pratiche occulte e le formule prodigiose. Non è improbabile che i pittori avessero condiviso un alfabeto comune nelle loro opere, inserendo anche segni che potevano essere compresi solo dagli appartenenti alla corporazione a cui avevano aderito. O questi alfabeti sono un’invenzione personale, con lettere grafiche nate dall’estro del momento? Col tempo, studiosi seri e ispirati faranno luce sulla questione. Già qualche passo è stato fatto. Sulla bordatura del manto, nelle vesti, o nelle rifiniture degli abiti, sono state individuate reali lettere degli alfabeti arabi e ebraici, parole e frasi tratte dal Corano o dal Talmud, copiate dagli artisti da manufatti religiosi o da codici miniati o da tappeti. In alcuni casi sono riportati segni di sigilli magici o di pratiche alchemiche.

 

Pinturicchio, Madonna della Pace  (1490-1495), dettaglio con l'alfabeto edenico sugli abiti della madonna e degli angeli, Pinacoteca civica Tacchi-Venturi, San Severino Marche.


A volte vi sono motti in forma cifrata. O all’interno di un alfabeto di invenzione vengono poste parole, nomi, messaggi, date. 

Ma a prescindere dal significato dei caratteri, in molti dipinti a soggetto sacro sembra che gli artisti suggeriscano che sia avvenuto un atto rituale, un evento sovrannaturale, come se il Creatore dopo aver plasmato il Figlio (e qualsiasi individuo) gli avesse donato anche alcune parole segrete, quell'enigma della psiche, che la persona sentirà di dover comprendere per tutta la sua vita: la ricerca del vero senso delle cose, attraverso la decodificazione delle parole del Verbo. E anche per mezzo del silenzio che precede e segue l’azione del Verbo: “La grande pittura dà l'impressione che Dio sia in contatto con un punto di vista sul mondo, con una prospettiva, senza che né il pittore né chi ammira il quadro s'intromettano a turbare il faccia a faccia. Da qui il silenzio nella grande pittura. Per questo non c'è grande pittura senza santità o qualcosa di molto simile. Non è difficile capire la bellezza di certe sculture negre quando si sa che uno stregone passa sette giorni in preghiera prima di fare un feticcio” (Simone Weil, Quaderni, vol. III, Adelphi, p. 36).  

 

Pinturicchio, Madonna della Pace  (1490-1495), Pinacoteca civica Tacchi-Venturi, San Severino Marche.


Raffaello doveva amare particolarmente la presenza di alfabeti misteriosi sulle vesti dei santi. Nella sua produzione pittorica le lettere criptiche compaiono in molte opere, in maniera insistita: Madonna col Bambino e i santi Gerolamo e Francesco (1501-1502), ora a Berlino, nello Staatliche Museen; Crocefissione (1502-1503) della National Gallery di Londra; Madonna Solly (1500-1504), ora alla Gemäldegalerie di Berlino; Sposalizio della Vergine (1504), nella Pinacoteca di Brera a Milano; Pala Ansidei (1505), ora alla National Gallery di Londra; Madonna Terranuova (1504-1505), alla Gemäldegalerie di Berlino; Madonna del prato (1506 ca.), al Kunsthistorisches Museum di Vienna; Madonna (La bella giardiniera), 1507, custodita nel Musée du Louvre, a Parigi; Pala Baglioni (1507), nella Galleria Borghese, a Roma; Sacra Famiglia Canigiani (1507-1508), nell’Alte Pinakothek di Monaco; Grande Madonna Cowper (1511), ora alla National Gallery of Art di Washington.

E i segni dei pittori italiani si collegano ad altri alfabeti, più arcaici, sorti con l’idea di trasmettere concetti e significati con l’uso delle immagini e dei linguaggi.

 

Raffaello Sanzio, Pala Colonna (1503-1505 circa), dettaglio dell'alfabeto edenico sul manto di San Paolo, New York,  Metropolitan Museum.


Nel 2009 Giuseppe Sermonti propone di far risalire la nascita degli alfabeti fenicio e greco dalle costellazioni celesti, legando così la grafia del cielo con quella della scrittura (L’alfabeto scende dalle stelle. Sull’origine della scrittura, Milano 2009). In questa visione l’uomo si pone in contatto diretto col cosmo: con i suoi pensieri e parole cerca di unire il suo destino al movimento dei corpi celesti. Dalle stelle alle lettere, dai segni celesti agli alfabeti simbolici, dalla mente cosmica a quella umana, si pensa che l’alfabeto sia stato ideato nella prima metà del secondo millennio avanti Cristo. Ma in realtà da oltre un decennio si è intuito che già i dipinti sulle pareti delle grotte preistoriche erano accompagnati da segni, che anticipavano di 25.000 anni le più antiche testimonianze alfabetiche. Gli studiosi hanno riconosciuto una trentina di segni astratti ricorrenti sulle pareti di grotte del Paleolitico superiore (europee, africane, americane, australiane e asiatiche), tracciati “tra le righe” nelle grandiose pitture a soggetto animale e venatorio (Si veda: Genevieve von Petzinger e April Nowell, Il codice dell’età della pietra. Come non ci eravamo accorti dell’origine della scrittura, in New Scientist, 20 febbraio 2010).

 

Raffaello Sanzio, Madonna Terranuova (1504-1505 circa), particolare, Berlino, Gemäldegalerie.


Questo alfabeto primordiale si ricollegava probabilmente a osservazioni astrali, e ai cicli che determinavano riti e momenti topici della vita di un gruppo. I cicli parietali preistorici sono composizioni collettive, perfezionate in almeno 20.000 anni, da centinaia di generazioni. I segni astratti (e i loro significati), venivano tramandati nel corso del tempo, dallo sciamano depositario di una tradizione ancestrale al nuovo adepto, individuato per tramandare il sapere degli avi e i messaggi delle divinità.

Nei tempi arcaici cominciarono anche a catasterizzare, ovvero ad attribuire il nome di una divinità, di un eroe, di un personaggio mitologico o di un animale a una costellazione. Gli artisti, nella loro immaginazione, hanno cercato anche di mettere in atto un’operazione inversa.

 

Raffaello, Madonna del prato (1506), particolare con l'alfabeto cifrato sul manto, Vienna, Kunsthistorisches Museum.


Cioè hanno adottato un asterisma per nominare cose terrene, ovviamente risolto con traduzioni in immagini, visioni, suoni e con altre delocazioni. Gli uccelli migratori partono in stormi verso il loro destino, viaggiano anche nel buio più scuro della notte, volano leggendo il cielo, le luci delle costellazioni, elaborano dati astronomici con una percezione originaria e immediata, seguendo un orientamento innato. Probabilmente qualcosa del genere era presente anche nelle persone nomadi del Neolitico, che sapevano colloquiare con i cieli e col mondo. Con gli occhi rivolti verso le costellazioni e i movimenti luminosi nei cieli notturni i più visionari e sapienti acuirono una propensione a tracciare segni tra le numerose stelle, e questi segni li proiettarono anche sulle rocce e sulle cose del mondo.

 

Raffaello, Sacra Famiglia Canigiani (1507-1508), dettaglio con l'alfabeto preadamitico, Monaco, Alte Pinakothek.

 

Nel corso dei millenni gli alfabeti si moltiplicarono, esponenzialmente fino al mito di Babele e ancora oltre. Vi furono alfabeti condivisi dal popolo e altri che furono utilizzati solo da sacerdoti, da élite, da gruppi di potere, da iniziati. Gli artisti del Medioevo e del Rinascimento si sono rivolti a questa tradizione per immaginare il volo degli angeli, le migrazioni degli esseri celesti, i messaggi degli dei pagani o del Dio dei tre monoteismi?

 

Raffaello, Sacra Famiglia Canigiani (1507-1508), Monaco, Alte Pinakothek.


Raffaello e l'eco del mito, a cura di M. Cristina Rodeschini, Emanuela Daffra e Giacinto Di Pietrantonio, GAMeC di Bergamo, 27 gennaio 2018 - 6 maggio 2018 

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