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Piero Manzoni. Monsieur Zero

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Esce in questi giorni nella «Piccola biblioteca di letteratura inutile» diretta da Giovanni Nucci per le edizioni Italosvevo Monsieur Zero. 26 lettere su Manzoni, quello vero di Andrea Cortellessa: un dizionario giocoso composto da ventisei piccole monografie critiche, una per ogni lettera dell’alfabeto, che vorrebbe verificare in quale misura, ancora oggi, i paradossi dell’artista (morto a Milano il 6 febbraio 1963, prima di compiere trent’anni) mettano in crisi i nostri più inveterati presupposti su quanto, per tradizione, siamo abituati ad associare all’arte. Che è quanto dovrebbe fare, sempre, un artista degno di questo nome.

 

Pittore milanese, ma geniale 

Skiantos, Merda d’artista

 

Fra i Manzoni preferisco quello vero, Piero 

Baustelle, Un romantico a Milano

 

Essere

 

Alfabeto, 1958. Serigrafia su carta, 50 x 35 cm, da Piero Manzoni, Tavole di accertamento, Milano, Scheiwiller, 1962.


«Non c’è nulla da dire: c’è solo da essere, c’è solo da vivere». È la frase più famosa di PM, questa con cui si conclude il suo testo dal titolo Libera dimensione pubblicato nel ’60 sul secondo numero di «Azimuth». Poco prima aveva precisato, Manzoni: «Alludere, esprimere, rappresentare, sono oggi problemi inesistenti […]: un quadro vale solo in quanto è, essere totale: non bisogna dir nulla: essere soltanto». Ma già nei Prolegomeni del ’57 si poteva leggere: «l’immagine prende forma nella sua funzione vitale: essa non potrà valere per ciò che ricorda, spiega o esprime […] né voler essere o poter essere spiegata come allegoria di un processo fisico: essa vale solo in quanto è: essere». Un assunto che si potrebbe anche contraddire – pensando a quanto in effetti PM dica, a proposito del suo lavoro: alla frequenza con cui statements e dichiarazioni d’intenti, cioè, compaiono fra i suoi Scritti. E del resto, se davvero è PM a inventare l’arte concettuale, questa di per sé non può fare a meno di parole: in forma di etichette (→ X), avvertenze, istruzioni per l’uso se non, propriamente, “spiegazioni”. Ma è in altro senso che PM si rifiuta di spiegare: col suo rifiuto, scandalosamente azzerante, di esprimere qualunque contenuto sentimentale, ideale o politico che preesista al concreto agire dell’opera («Non si tratta di formare, non si tratta di articolar messaggi»). Di qualunque contenuto sia cioè, rispetto ad essa, ante rem– per dirla con Luciano Anceschi (che non a caso sarà il primo, nel ’58, a segnalare il suo lavoro → Novissimi). Già → Duchamp si era comportato così, del resto (dichiarerà: «Preferisco vivere, respirare piuttosto che lavorare. Io non considero che il lavoro da me realizzato possa avere, nell’avvenire, una qualunque importanza dal punto di vista sociale. Dunque, se lei preferisce, la mia arte sarebbe quella di vivere; ogni secondo, ogni respiro è un’opera che non è inscritta da nessuna parte, e che non è visiva né cerebrale. È una specie di euforia costante». Insiste, PM: «una superficie bianca che è una superficie bianca e basta (una superficie incolore che è una superficie incolore) anzi, meglio ancora, che è e basta: essere (e essere totale è puro divenire)». Germano Celant ha scritto di un’opera che non dice nulla– se non «“far parlare” la sua stessa materialità»: un’opera «in presa diretta con l’empirico», che «dà presenza a ciò che è presente, lo ostenta tautologicamente». Ma è stato un “incontro mancato” di PM, Edoardo Sanguineti (→ Novissimi), ad aver trovato la formula perfetta per esprimere questa tautologia trascendentale: quando – prima a proposito di Alberto Burri e poi, a più riprese, di Antonio Bueno – evocava l’esempio che Aristotele faceva della metafora, questo è quello, per capovolgerlo in «questo è questo» (anche in contrapposizione al Ceci n’est pas une pipe di Magritte – e Foucault). Nel ’62 Sanguineti impugna la «violenza immediata dell’opera di Burri» per escluderne ogni possibile «sublimazione estetica». La negazione della metafora è la negazione della valenza transustanziale dell’arte, della sua presunta capacità di trascendere la materia. Liberati così dall’ipoteca «idealistico-romantico-borghese» dell’arte moderna (e in particolare dell’esecrato informel), si accede secondo Sanguineti alla «perfezione ferita e dolorosa» che connota la «sicurezza formale di Burri, e chiamiamola pure la sua classicità».

 

Ora, pur sempre ammirando la tempra della lama intellettuale di Sanguineti, non sarei davvero certo che si possa escludere del tutto un’intenzione e (soprattutto) un esito di metafora, nell’opera di Burri. Mentre sono parole che, a dirla tutta, paiono assai più adatte a PM: è questo il vero senso del sostrato «classico», appunto, che egli a sorpresa rivendica nel carteggio col critico catalano Juan-Eduardo Cirlot. Ma se nega ogni trascendimento della materia, il lavoro di PM, è in quanto inscindibilmente legato all’esistenza, alla materialità dell’esistenza: c’è solo da vivere, appunto. Opera e vita si legano, nella sua parabola, ancora più indissolubilmente di quanto avessero mai fatto, in precedenza, nella tradizione delle avanguardie. L’opera non esprime la vita, certo: la divora. E nella frase scherzosa di una lettera – «lavoriamo a tutta birra e beviamo ancor di più» – si legge un oroscopo preciso che la fine bruciante, di questa esistenza, provvederà a terribilmente avverare. Una linea della vita, ha scritto Giorgio Verzotti, è quella dipanata da PM: una volta di più confermando l’antico adagio dell’ars longa, vita brevis (già Agnetti aveva parlato della Linea come di un «numero infinito di secondi in corsa nello spazio»). In questo senso coesistono, come due facce di una stessa tela (→ Hyde), il suo peculiare “classicismo” e quello che PM, nel Diario, chiama «la sua parte romantica». Germano Celant ha definito «romantico» l’atteggiamento di chi «crede nell’estrema moralità del suo fare fino ad annullarsi in essa, tanto da soccombere drammaticamente al mondo». Un “romanticismo” filtrato dall’imprinting esistenzialista, in una certa fase assai intenso, e in particolare dalla definizione – trovata in un manuale pubblicato dal filosofo cattolico Pietro Prini nel ’52, Esistenzialismo– di «esistenzialismo romantico» per Nietzsche, Dostoevskij, Kafka, Unamuno e, in particolare, Kierkegaard. Chi l’avrebbe detto? Era davvero, PM, un romantico a Milano.  

 

Firma / Feticismo

 

Piero Manzoni firma una Scultura vivente, 1961. © Ole Bagger/HEART, Herning Museum of Contemporary Art.


Nel complesso collage intitolato a PM, che Villa inserisce nel ’70 negli Attributi dell’arte odierna, al «giovane discendente di Duchamp» – al quale nel ’59 aveva aperto le porte della sua galleria romana «Appia Antica» (→ Novissimi) – viene riservato un trattamento ambivalente. Approvato, magari per la sua milanesità (raro l’uso del proprio dialetto, negli Attributi, da parte del nativo di Àffori: «E bràu Manzún, dunca, te me piàset»), poco dopo viene definito però «ignorante, milanese, spericolato ma calcolatore»: perché magari restio ad ammettere la primazia di un ancor più giovane spericolato come Ben Vautier (in effetti tutta la prima parte del testo di Villa è un inno franco-latino a «BEN, BEN, BEN, BEN surtout»: «Piero tu lo sai, tu lo sai bene, è Ben che fa tutto»). Soprattutto per il gesto decisivo della firma: «Sono firmato, mi ha firmato, confermato […], sul polso e un tantino più su: opera originale di Piero Manzoni? […] ma io te l’ho detto, te lo scrivo adesso, lo proclamo dal fondo che io sono già stato firmato, opera d’arte, già firmata da chi ha inventato la firma attiva (e io la sto inventando), cioè da […] quel gran furbo folle che è Ben». E traccia una precisa filiera, Villa: «Sono quasi sicuro che questo sacramento, questo battesimo malinconico, a spirale, […] te l’ha insegnato (te l’ha passato, passato mano) Yves Klein; sono quasi sicuro che a Klein lo ha passato Ben». Per aggiungere però che quella spirale può risalire assai oltre: Villa stesso, nel ’51 in Brasile, «una domenica, sulla spiaggia di São Vicente, a Santos», sostiene di aver provato a firmare Ruggero Jacobbi (il quale però «si è scansato, la cosa non gli pareva seria, ed era dolorosa, perché io lo firmavo con un chiodo»). Ma infine – cioè all’inizio, aggiungendo in testa agli Attributi l’ultima loro pagina in ordine di composizione, vergata nel ’68 – riconosce Villa il vero iniziatore, di questo gesto cruciale, nel Demiurgo Marcel: colui cioè che non solo lo ha firmato ma lo ha anche “intitolato” VILLADROME col suo «parababtême» (si rammenti il battesimo malinconico). È la firma di Duchamp, certo (con l’ulteriore ironia di “parabattezzare” se stesso «R. Mutt»), il gesto battesimale con cui l’orinatoio assurge a opera, così mutando radicalmente il corso dell’arte odierna.

 

Per parte sua il «giovane discendente di Duchamp» firma direttamente il corpo delle modelle trasformandole in Opere vive o, come prenderà tra breve a chiamarle, Sculture viventi (azione che si affretta a documentare, il 13 gennaio 1961, il marpione Maccentelli – al quale non par vero avere così la scusa di mostrare i corpi seminudi delle ragazze nel suo Filmgiornale → Cinegiornali/Comunicazione): così «la tradizione fondatrice del nudo occidentale, quella per cui la statua è finzione talmente perfetta da sostituirsi al vero […] si ribalta qui in assunzione dell’essere vivente stesso nel cerchio sacro dell’arte» (Gualdoni). L’arte – come PM aveva appena proclamato – non rappresenta; è (→ Essere). Non solo: subito dopo PM allestisce la Base magica, sulla quale (scrive il complice Antonio Caputo) «tutti coloro che vi montano sopra divengono opera d’arte per il tempo della loro permanenza… è il caso di dire: “Sic transeat gloria mundi…”». È la «fine dell’arte» come sua assunzione in una sfera separata: nella quale ancora Duchamp, in fondo, aveva creduto (→ Duchamp). Anziché creazione di un valore che ha per sorte, poi, d’essere mercificato, a partire dalla firma di PM “arte” non è che la denuncia, scherzosa e insieme tremenda, del fatto che quanto viene mercificato – proprio come tale – diventa arte. Lo ha spiegato Nancy Spector: «la Merda d’artista rappresenta la convergenza della nozione freudiana e marxista del feticcio come sostituto di una mancanza fondamentale»: così PM «demistificò la credenza prettamente modernista che il lavoro artistico sia lavoro non alienato. Riconobbe che l’oggetto estetico, e per estensione l’artista famoso, era divenuto, come tutto il resto nell’economia capitalista del dopoguerra, una merce reificata». Ma si può dire pure (lo ha fatto Luigi Bonfante) che con PM, le sue “firme” e le sue “basi”, inizi l’arte come “brand”: dispositivo di auto-affermazione in quello che, di lì a poco, Andy Warhol chiamerà il quarto d’ora di celebrità per tutti. La performance dell’artista brasiliano Cildo Meireles, che nel 2007 è andato sino a Herning per issarsi a testa in giù sul Socle du monde e autocostituirsi quale Atlas che sorregge il mondo, prosegue il rovesciamento di PM ma insieme, rovesciandolo a sua volta, mostra come sia ormai il mondo, che quel gesto sovvertiva, a seguirne ormai la logica rovesciata.

 

Galileo / Greenwich

 

Socle du Monde, 1961. Ferro e bronzo, cm 82 x 100 x 100. HEART, Herning Museum of Contemporary Art.


La storia dell’arte abbonda di personaggi grandiosi, grandeggianti, debordanti; gli architetti sono, fra tutti, i più megalomani. Ma PM è il primo e unico artista che si sia spinto a occupare con la propria opera tutto il mondo; la cui opera coincida, anzi, col pianeta su cui viviamo. Egli se ne appropria con un gesto semplice e geniale: rovesciare una Base magica– come indica l’orientamento della scritta che vi è incisa, capovolta rispetto all’osservatore – in modo che, anziché “magicamente” rendere un’opera d’arte qualsiasi cosa venga posta su di essa, tramuti in opera d’arte l’intero pianeta che le sottostà. È questo il Socle du monde: un parallelepipedo di ferro di 82 x 100 x 100 centimetri che nell’estate del ’61 PM colloca nel parco della fabbrica Angli, a Herning in Danimarca; e su cui sta scritto appunto Socle du monde Socle magique n. 3 de Piero Manzoni 1961. E poi: Hommage à Galileo. Perché Galileo? Per il mutamento di prospettiva “galileiano” (o “copernicano”) che il gesto impone all’osservatore. A Cirlot dirà, PM, di aver sognato di realizzare anche «una grande luna bianca più grande della luna effettiva». Quella di PM è sempre «un’arte del rovesciamento», ha scritto Elio Grazioli: e in questo caso il rovesciamento, in senso astronomico, è propriamente una rivoluzione (magari nel senso “carnevalesco” che le ha attribuito Jacopo Galimberti). Nel testo per Dadamaino di quello stesso ’61, dice PM che «le barriere sono una sfida, le fisiche per lo scienziato come le mentali per l’artista». Del resto non è la prima volta che lo visita l’immaginario scientifico: ha ricordato il complice di quell’impresa, Enrico Castellani, come il titolo Azimut– con l’acca finale della rivista pubblicata in soli due numeri nel ’59-60, senza acca della galleria aperta in via dei Bossi nel dicembre del ’59 – designasse, in termini appunto astronomici, «la verticale sopra un punto qualsiasi della superficie terrestre»; e volesse dunque essere «fulcro di prospettiva cosmica, proiezione dimensionale e misura possibile nello spazio illimitato dell’universo».

 

Ma già in questo senso erano mirate le Tavole di accertamento preparate da PM forse già nel ’58, ma stampate da Scheiwiller in una cartella uscita nell’autunno del ’62: fra le quali spiccano carte geografiche dell’Irlanda e dell’Islanda che anticipano la ricerca di Alighiero Boetti e, in generale, lo spatial turn in corso anche nell’arte. Certo una spinta in tal senso veniva dall’immaginario “spaziale”, appunto, di Fontana e sodali; ma PM si spinge sino all’estremo colla realizzazione del Socle du monde e col progetto di realizzare, come scrive sul terzo numero di Zero nel luglio del ’61 (→ Linee), «una serie di linee di grande lunghezza, di cui lascerò un esemplare in ognuna delle principali città del mondo […] sino a che la somma totale delle lunghezze delle linee di questa serie non avrà raggiunto la lunghezza della circonferenza terrestre» (e l’anno dopo ribadirà di voler «tracciare una linea bianca lungo tutto il meridiano di Greenwich»; ma già in una lettera a Heinz Mack, nell’aprile del ’60, aveva vagheggiato «una linea che fa il giro di tutta la terra»). 

 

Merda

 

Merda d’artista n. 78, 1961. Scatoletta di latta, carta stampata, 4,8 x Ø 6,4 cm. Fondazione Piero Manzoni, Milano.


Non ci sono Linee o Basi che tengano: nell’immaginario collettivo al nome di PM ad associarsi in modo indissolubile è la Merda d’artista. Nei servizi fotografici del tempo, del resto, il sorriso ironico di PM – ben consapevole di avere conseguito con quest’opera il succès de scandale definitivo – a sua volta occhieggia, insieme alle lattine, in tutte le possibili combinazioni. In una foto eloquente di Giovanni Ricci, PM è ritratto di spalle, assorto, mentre contempla una lattina che tiene in mano come uno specchio oscuro – o un teschio di Yorick. Un marchio di fabbrica e insieme una prigione, una maledizione, «uno stereotipo pop» (Gualdoni). Nonché un’ascendenza: o, come avrebbe detto Magritte, un’invenzione collettiva. Jean-Pierre Criqui ha ricordato Cézanne che, a Manet che gli chiede cosa avrebbe mandato al Salon, risponde «Un vaso di merda!». Vanni Scheiwiller ha ricordato invece Brancusi (o era Vlaminck?) quando diceva a Pound che era ormai vicino il tempo in cui al pubblico l’artista avrebbe proposto «della merda su un piatto d’argento». Ma il riferimento più diretto è ovviamente alla Fontana di → Duchamp. Quando il 12 agosto 1961 PM espone per la prima volta l’opera, ad Albisola, quello che sinora è stato considerato un simpatico buontempone d’improvviso decade (o ascende) al rango di attentatore, dinamitardo, pericoloso eversore. Anche i colleghi e gli amici nicchiano, o fanno aperta resistenza (per esempio quando a Copenaghen, in ottobre, PM vorrebbe esporla nell’ambito di una collettiva). Ancora dieci anni dopo, alla grande mostra alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna voluta da Palma Bucarelli, sarà questa la pietra dello → scandalo.

 

Nell’immaginario pop, la Merda d’artista dimostra «la fine dell’arte»: ma in un senso ben diverso da quello in cui Fontana sosteneva che PM l’avesse condotta (→ Quadro). Flaminio Gualdoni riporta l’eloquente leggenda che si legge sul sito web della Tate Gallery («“La tua opera è una merda”, sembra che il padre avesse detto all’artista italiano Piero Manzoni. In risposta a quest’offesa, Manzoni ebbe l’idea di inscatolare i propri escrementi come opera d’arte»), sottolineando come Egisto Manzoni fosse morto nel 1948: Piero aveva quindici anni. Ma in fondo non è così lontana da quest’altra invenzione collettiva Nancy Spector, quando la interpreta come messa a nudo, e trionfo finale, della natura feticista intrinseca al dispositivo valoriale dell’arte (→ Firma/Feticismo). Già Francesca Alinovi aveva scritto di un’«allegoria del processo di feticizzazione del prodotto artistico che, sottoposto che, sottoposto come ogni altro prodotto alle leggi merceologiche della società consumistica, viene inghiottito e divorato inesorabilmente». Che la merda avesse per lo stesso PM questo controvalore azzerante ( → Zero) lo confermano le pagine introverse, inibite, insofferenti del Diario quando il 12 aprile 1954, in una specie di flusso di coscienza, PM vi scrive: «voglio fare qualcosa… […] sono un raffinato signore niente… sono, … siamo tutti merda». Sette anni dopo l’ironia trascendentale di PM riuscirà a capovolgere questo emblema depressivo in sferzante, esilarante sarcasmo (→ Witz). Ma la Merda prosegue e porta a perfezione, altresì, un preciso vettore di ricerca: quello legato alle tracce del corpo (il fiato, le impronte, ecc.) e alla loro trasformazione in parodiche → reliquie, dimostrando come PM le dissacri, le profani, le capovolga di segno: da materia terrena circonfusa d’un’aura sacrale a deiezione ricondotta alla sua desolante letteralità o, come dice Elio Grazioli, «reale assoluto». L’ha spiegato Dominique Laporte, che della merda ha scritto la storia: «Non è il suo corpo immortale che l’artista fa a pezzi, ma la sua carne corruttibile […]: “Questo è il mio corpo, certo, ma […] ciò che vi lascio in eredità non è la manna immortale, è l’ineluttabilità della putrefazione […]”. In altre parole, là dove l’opera è tradizionalmente una negazione della morte, tutto accade come se Manzoni vedesse nelle proprie opere un modo per convincersi che non è immortale». Il realismo assoluto di PM è quello di chi sa che «non esiste anima e corpo», come si legge alla fine del Diario, perché l’anima si iscrive nel destino di caducità del corpo. Così la sua scrittura raccoglie il testimone del primo diario d’artista che si sia conservato, il Libro mio del Pontormo: in cui l’io, puro metabolismo, si riduce a mero osservatore del proprio cibarsi e delle proprie deiezioni e, come ha scritto Giorgio Manganelli, il mondo si riduce a «maltempo, cibo infido, escrementi».

 

Thelonious

 

Copertina di Thelonious Monk In Italy (RLP 443, Riverside 1963.


A PM piaceva il jazz. Non solo a lui, si capisce. Ma se gli artisti della generazione precedente, gli espressionisti astratti dell’action painting, si erano ispirati al be-bop più scatenato (Jackson Pollock) o magari al cool più austero (Willem de Kooning), significativa appare la predilezione di PM per Thelonious Monk. I classici lp da lui registrati per l’etichetta Riverside gli tenevano costante compagnia (come i concerti di Vivaldi, l’autore dell’Estro armonico e della Stravaganza). Uno fu registrato in Italia, proprio a Milano anzi: il 21 aprile 1961 al Teatro Lirico (ma – se non era tra il pubblico quella sera, in cui Monk si esibì insieme all’altro leggendario pianista Bud Powell – quel set PM non fece in tempo ad ascoltarlo: il disco, Thelonious Monk in Italy appunto, apparirà solo nel ’65). Avvicinato il musicista in quell’occasione, Arrigo Polillo vide confermata la leggenda del suo imperturbabile silenzio, del suo isolamento da tutto e da tutti (il nomignolo Sphere a questo alludeva; e alla sua abitudine, durante gli assolo dei compagni, di alzarsi dalla tastiera e ruotare per qualche attimo su se stesso come un derviscio): sulla rivista Musica Jazz lo descrisse come «un gigantesco bambino pieno di buona volontà e con qualche capriccio, che sorprende […] quando si comporta come uno di noi comuni mortali […]. È chiaro che Monk vive in una dimensione dove non c’è altro che la sua musica». È un ritratto che coincide in modo sorprendente con diverse testimonianze su PM tramandate da chi lo ha frequentato.

 

Ma quello che li accomuna davvero è la dimensione “obliqua” del loro linguaggio. Nessuno dei due ha avuto una formazione tecnica all’altezza, e nessuno dei due si può infatti definire nel proprio campo un “virtuoso”; entrambi spesso “sbagliano”, anzi, secondo i canoni dell’estetica dominante. Eppure proprio questa “povertà”, unita in Monk a un isolamento spinto ai limiti dell’asocialità (per non dire della sociopatia), porta entrambi a forme di riduzione estrema, a un azzeramento elementare del linguaggio (→ Zero) che riesce del tutto straniante e, in un suo modo bizzarro, incredibilmente “ricco”. C’è poi un’altra singolare caratteristica che i due hanno in comune, un’altra accezione della loro “obliquità”. Nessuno dei due è un iniziatore assoluto, un pioniere: se per PM ci sono il totem di Duchamp, lo spettro di Klein e le presenze più benevole di Burri o Fontana, alle spalle di Monk ci sono Powell, appunto, e più in generale Charlie Parker o Miles Davis tra i suoi coetanei, Ornette Coleman tra chi, arrivato dopo di lui, subito si considera “più avanti”. Ma entrambi si mostrano capaci di appropriarsi di un linguaggio che li precede: piegandolo in direzioni letteralmente inaudite, strane e “scandalose” (→ Galileo/Greenwich). Entrambi sono perfettamente unici, insomma, senza essere degli iniziatori. Nel 1982 (Monk era morto quell’anno) il teorico della letteratura Gérard Genette dedicò il suo famoso studio Palimpsestes, sulla «letteratura al secondo grado», «à Thelonious, qui se n’entendait». Dedica (sconsideratamente omessa dall’edizione italiana del libro) magari ovvia, se indirizzata a un grande jazzista che sapeva, come tutti i suoi colleghi, mirabilmente “variare” un tema musicale dato. Assai meno ovvia se – come credo – alludeva invece a questa sua posizione unica sul piano estetico. Allo stesso modo, allora, poteva suonare «a Piero».

 

X

 

Con le → Linee, PM inaugura una pratica sulla quale tornerà spesso: l’inscatolamento e l’occultamento dell’opera (presunta) in un’altra opera (effettiva). Come in altri casi è evidente il precedente di → Duchamp, il quale aveva esposto anche a Milano, nel marzo del ’52 (in una collettiva organizzata all’Associazione Amici della Francia dagli “spaziali” Roberto Crippa e Cesare Peverelli) la sua Boîte-en-valise, perfezionamento datato 1941 della Boîte verte di sette anni prima; di sicuro PM può averla vista alla Mostra surrealista internazionale da Schwarz nella primavera del ’59. È Duchamp a “inventare” l’arte nascosta, interpretando alla lettera l’antico adagio dell’Ars est celare artem (ma già nel ’20 Man Ray, nell’Enigma di Isidore Ducasse, aveva avvolto una coperta attorno a un oggetto ignoto rendendolo enigmatico e perturbante; sono del ’61, invece, i primi, piccoli empaquetages da parte di Christo). Anche in questo caso, tuttavia, PM prende l’idea e la capovolge (→ Galileo/Greenwich): laddove Duchamp inserisce delle copie in formato ridotto di sue opere precedenti in una scatola aperta, come se questa fosse la sala di un museo in miniatura, da un certo momento in avanti PM, al contrario, prescrive che le sue scatole non possano essere aperte. In un’intervista alla rivista «Il Travaso», nell’ottobre del ’59, avverte che le Linee si volatilizzerebbero, se il loro acquirente aprisse l’astuccio la cui etichetta dichiara di contenerle. E congegna poi la Merda d’artista in modo che «il contenuto delle scatolette possa essere verificato solo danneggiando irreparabilmente l’opera, dunque distruggendone il valore». Così creando uno «scacco perpetuo», una «situazione incontrovertibile di stallo mentale» (Gualdoni). Il solito Borgese, sul «Corriere della Sera», ironizza sul fatto che chi acquisti queste opere in effetti le «compra al buio»: «anche questa, forse, tecnica del lampeggiamento cerebrale». E conclude rivolgendosi al pubblico borghese del suo giornale, invitandolo a vederli una buona volta nella loro povertà, «i tubi» delle Linee, «senza ricorrere alla radioscopia». Chissà che – come tante altre volte in passato – il critico complice non si sia valso dell’involontaria intuizione del critico censore: quando Vincenzo Agnetti, in un magnifico testo del ’70, parla delle opere dell’amico scomparso definendole «tavole di bellezza ricordante, di tentativo autoconvincente nell’assenza per una possibilità x». Paradossalmente invocando appunto i raggi x, per essere aperti senza essere distrutti, i contenitori di PM costituiscono una classe particolare di oggetti, che possiamo definire oggetti X. Più che all’archimandrita della prima avanguardia, è possibile che in questo caso PM si sia ispirato a un discepolo di lui più anziano; diciamo a un suo fratello maggiore. Nei film di Luis Buñuel, da Un chien andalou (realizzato nel ’29 insieme a Salvador Dalí) sino all’estremo Cet obscur object du désir (del ’77), ricorrono infatti contenitori misteriosi. Anche se quello che funziona proprio come un oggetto X appare solo dopo la scomparsa di PM (e chissà che il fratello maggiore non si sia ispirato, per una volta, al minore…): in Belle de jour (1966), adattando un testo dei “suoi” tempi, Buñuel inserisce il motivo del cliente asiatico (Iska Khan) che mostra a Severine (Catherine Deneuve) il contenuto – del quale sappiamo solo che è luminoso e ronzante – appunto di una piccola scatola: contenuto che desta il suo entusiasmo (mentre le altre prostitute di Madame Anaïs lo avevano fuggito disgustate). È anzi solo dopo aver conosciuto questo cliente e la sua scatola, che Severine accetta senza più remore la sua nuova professione. Nelle sue memorie intitolate Dei miei sospiri estremi, Buñuel ricorda deliziato come tanti spettatori del film, «specialmente le donne», gli chiedessero cosa conteneva davvero, quella scatola. E lui rispondeva ogni volta allo stesso modo: «quello che volete voi». Chissà che la Merda d’artista non si possa leggere, allora, come allegoria dell’interpretazione, e diciamo pure della critica. Nel ’59, in una lettera indirizzata a PM e ad Agostino Bonalumi, prescriveva ai discepoli Emilio Villa: «non dire mai “attività critica”. Ma entusiasmo, occhio, poesia. I critici sono la merda». E allora che i primi Achromes siano in forma tridimensionale, ricoprendo di caolino ganci, uncini e ami, può voler dire (come ha scritto Michele Dantini): «Si getta un amo perché il pesce abbocchi». 

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RamDom e LaStation. L’arte volano del territorio

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Chiunque si sia mai imbattuto per la prima volta in una cartografia storica si è trovato di fronte a una rappresentazione delle terre emerse rovesciata rispetto a quella che conosceva meglio e si sarebbe aspettato. Questo perché, vero che sembra banale dirlo, ma anche la cartografia come ogni narrazione è soggetta alle centralità politiche e culturali del momento. Per secoli, infatti, la posizione sulla mappa sottolineava il peso simbolico e pertanto luoghi come Gerusalemme che per secoli si è trovata al centro dell’Orbis Terrae. Allo sbilanciamento delle coordinate cardinali, corrisponde il ribaltamento dei continenti per cui l’Asia spicca sugli altri, distinguendosi come l’area più estesa e occupando l’intero emiciclo superiore del cerchio, mentre Europa e Africa sono appaiate in basso, dividendosi la metà inferiore. Nel mezzo: le acque del mare nostrum che ne fa una “T”.

 


Mappa di Bünting, 1581.

 

Orbis Terrae, XII secolo.

 

È da questa consapevolezza e soprattutto dal desiderio di rivedere il peso dei rapporti tra centro e periferia che nascono progetti come Indagine sulleTerre Estreme, un progetto di residenze per artisti di respiro internazionale, nato nel 2014 a Santa Maria di Leuca, nell’estremità meridionale della Puglia e dell’Italia dall’idea di rompere l’unilateralità del rapporto tra periferie e centro attraverso l’arte. L’idea e la cura del progetto si devono all’associazione di produzione culturale e artistica RAMDOM, fondata nel 2011 da Paolo Mele, curatore in fuga a New York, poi rientrato e Luca Coclite, artista, salentino di ritorno anche lui, il cui lavoro racconta spesso le storie sociali dei luoghi, attraverso architettura e paesaggio. Opere di rara sintesi capaci di raccontare le contraddizioni di una gestione territoriale in modo efficace senza la compiacenza di un giudizio esterno. 

 

Luca Coclite, Hall.


La scommessa, come si è detto, è quella di ribaltare a proprio vantaggio l’estremità geografica, politica e culturale della propria posizione, e di farlo attraverso l’arte e proposte di qualità. Una scommessa che in sette anni di attività ha un bilancio positivo e in crescita. A oggi si contano oltre settanta artisti provenienti da ogni latitudine, dal Pakistan alla Cina; più di venti ospiti tra cui Roberto Paci Dalò e Andrea Lissoni, oltre ai numerosi progetti realizzati site specific, e alle collaborazioni esterne. Dal 2015 RamDom ha anche una sede propria e presto avvierà una foresteria. Nel 2013, infatti, è tra i vincitori del bando Mente Locale e ottiene la possibilità di recuperare l’abitazione in disuso del casellante di una stazione delle Ferrovie del Sud Est. L’ultima della tratta. Quella più a sud: Gagliano del Capo. Nasce quindi nel 2015 La Station, sede operativa di RamDom, ed è subito occasione di nuovi incontri. La progettazione degli arrediè infatti il risultato di una classe di studenti della Naba di Milano. Dopo due anni, oggi è una delle poche stazioni che sia stata convertita a centro di produzione culturale. Spazio espositivo, bar, luogo di incontro, bookshop, qui hanno sede le mostre di fine residenza, i workshop di artisti, curatori e ospiti, rassegne, proiezioni, performance; si vendono le opere prodotte e articoli di giovani designer locali. La Station, è diventato un punto di riferimento per tutto il Salento, durante tutti i dodici mesi dell’anno.

 

Simona Di Meo, Roberto Memoli, Nuvola Ravera e Jacopo Rinaldi, tutti under 35, sono gli artisti della scorsa residenza, che hanno avuto modo di conoscere il territorio, tirando fuori ognuno un personale dialogo con il luogo e le sue memorie. Le loro opere sono state esposte nella mostra conclusiva della residenza: Sino alla fine del Mare. Simona Di Meo usa lo spazio pubblico per mostrare le testimonianze raccolte nella comunità albanese, esplorando il concetto di frontiera, mentre Jacopo Rinaldi interviene invece su una littorina ancora in funzione, scambiando le tendine originali – allestite dentro La Station – con altre sui cui sono state stampati i fotogrammi del filmato che riprende l’inaugurazione della linea storica.

 

Simona Di Meo, Crossing Border is an intimate act.


Jacopo Rinaldi, Intervallo.


Con un’installazione video, Roberto Memoli racconta la tradizione locale della focara di mezza estate quando si bruciano gli ulivi, un rito collettivo oggi dai tratti più composti, ma che fino a pochi anni fa vedeva la competizione soprattutto tra i giovanissimi, delle fazioni territoriali, che si scontravano in un gioco tra bande. Infine, Nuvola Ravera gioca sul concetto di narrazione e confine, sottolineando la contraddizione implicita di alcuni scorci con dei cartelli con la scritta “FINE”.

 

Nuvola Ravera, Fine.


Roberto Memoli, Verderame.


La nuova stagione vede le residenze di Romina de Novellis , Elena Mazzi, Rosario Sorbello e nuovi appuntamenti tra Puglia ed Europa. In luglio ritorna il Festival Lands End, in collaborazione con Capodarte e Noon. Da questo festival negli anni passati sono nate opere come The Light House (2016) o Vucca de lu puzzu, dell’artista catalano Carlos Casas, che a breve saranno presentate rispettivamente a Parigi, Berlino e Bruxelles. Tornando a Sud, a giugno ci sarà uno showcase di La Station alla Fondazione Pino Pascali di Polignano a Mare, e prossimamente si sposteranno a Palermo nell’ambito di uno degli eventi collaterali di Manifesta. Dalla Puglia ad Atene, La Station prenderà parte anche ad Art Platform Project, fiera degli spazi indipendenti. 

I numeri, i nomi, la continuità e la capacità di avviare e consolidare dialoghi con realtà esterne fanno di questo progetto un esempio virtuoso, di produzione dal basso e indipendenza, di valorizzazione del territorio e delle sue risorse artistiche di rara efficacia in Italia, dove alla qualità della ricerca e allo spessore dei progetti corrisponde una ricaduta sul territorio, a più livelli. Come diceva Gene Wilder nella parte del giovane Frankenstein: «Si può fare!»

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Indagine sulle Terre estreme
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(Altre) Avventure di Lorenzo

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La nuova edizione di Fotografia Europea si pone sotto l’egida della  “rivoluzione dello sguardo e della visione” una delle conseguenze che proprio la nascita della fotografia ha determinato. Rivoluzioni. Ribellioni, cambiamenti, utopie è il tema portante della tredicesima edizione, curata dal Comitato Scientifico della Fondazione Palazzo Magnani

 

Lorenzo Tricoli, (Altre) Avventure di Pinocchio, book covers, 2016, courtesy Archivio Lorenzo Tricoli.


Nel maggio 2012 una delle edicole del quartiere Isola, a Milano, rimane chiusa e abbandonata per qualche tempo. Lorenzo Tricoli, fotografo, chiede alla proprietà il permesso di poterla utilizzare per esporre un progetto in progress svolto proprio in quella zona: SYL – Support Your Locals, questo il titolo. Si tratta di una approfondita indagine sociale, di matrice artistica, che si rivolge direttamente alla gente del luogo. Sono tempi in cui il volto della città sta cambiando e Lorenzo documenta la progressiva trasformazione del quartiere da zona popolare a zona di pregio. La “mostra dell’edicola” diventa un evento performativo che evidenzia fin da subito un’idea non convenzionale di come fruire la fotografia. In seguito, quelle immagini saranno stampate in una rivista di grande formato, l’autore la distribuirà gratuitamente tra gli abitanti del quartiere, portando l’ignaro lettore a interagire, suo malgrado, con il posto in cui vive.

 

https://vimeo.com/112803705

Edicola, 2012. 

 

Ma chi è Lorenzo Tricoli? “Sono nato a Milano nel 1965; era il 10 Agosto, il giorno delle stelle cadenti, il giorno di San Lorenzo. Mi è stata data una missione: ispirare gli altri attraverso l’arte. E di questo mi occupo, con passione e cura”. Compie gli studi fotografici presso lo ICP di New York, incontra Richard Avedon, frequenta il mondo della moda e del design come fotografo indipendente, producendo campagne per noti stilisti e servizi per le più importanti riviste del settore. 

Contemporaneamente inizia a lavorare alla propria ricerca personale in seguito alla frequentazione di numerosi artisti internazionali conosciuti anche grazie alle attività della libreria Micamera con la quale stringe uno stretto rapporto di collaborazione.  

La sua biografia artistica ce la racconta invece un’ampia retrospettiva dal titolo The Archive You Deserve – T.A.Y.D che sta per essere inaugurata a Reggio Emilia, nell’ambito del Festival di Fotografia Europea 2018 dedicato al tema: Rivoluzioni. Ribellioni, cambiamenti, utopie.  

 

The Archive You Deserve fin dal titolo ci introduce all’interno della forma ironica e irriverente con la quale Tricoli è uso mostrarsi: sembra voler sottolineare che un Paese come l’Italia non possa che meritarsi questa “Storia”. 

 

Lorenzo Tricoli, Autoritratto dietro passepartout, anno sconosciuto, courtesy Archivio Lorenzo Tricoli.

 


Lory, 2014, © Emiliano Biondelli.

 

Con il suo occhio sempre vigile, Lorenzo Tricoli raccoglie informazioni e immagini, immagazzinando ogni cosa lo interessi, spaziando tra politica, cultura, costume, cronaca, ambiente e molto altro ancora. Possiede una straordinaria capacità di vedere il “bello”, anche dove non sembra esserci, che ha origine nella sua “vita precedente” quando, grazie alla madre Anna Riva, affermata giornalista di moda, entra in contatto con personaggi di rilievo e artisti del calibro di Andy Warhol. Grande divoratore di riviste e finissimo esteta, comincia a collezionare ritagli di tutto ciò che cattura la sua attenzione, catalogandoli in vetusti faldoni, creando macro temi cui attribuisce titoli in apparente contrasto con la sua esplosiva vita creativa fatta di cuore e bellezza. Bombe, delirio, distruzione, protesta, barricate, Berlusconi, urlo, ultras, reali, violenza di stato, Vaticano, sono alcune delle 34 diverse categorie che giungerà a catalogare.

 

Lorenzo Tricoli, The Archive You Deserve, 2002-2017, Tag Militari, courtesy Archivio Lorenzo Tricoli.


Lorenzo Tricoli, The Archive You Deserve, 2002-2017, Tags, courtesy Archivio Lorenzo Tricoli.


La summa di tale catalogazione confluisce nel progetto (Altre) avventure di Pinocchio che appare come un grande affresco storico/artistico/sociale del Novecento italiano, pieno al contempo di particolari affascinanti e mostruosi. Possiamo dire che il desiderio recondito di Lorenzo Tricoli è quello di rendere dignità estetica ad ogni “fatto”, per quanto assurdo possa essere, dove per estetica intendiamo la dottrina della conoscenza sensibile. Ogni particolare di questo progetto è curato dall’autore nei minimi dettagli, un atteggiamento che crea nuovi canoni estetici e impone al fruitore un diverso modo di guardare. “È stata un’avventura quasi psichedelica – dice all’amica Giulia Zorzi in una telefonata parlando degli avviamenti di stampa del Pinocchio – Nel momento in cui iniziavamo la sessione di stampa mi è venuto in mente… ti ricordi il libro Scarti di Chanarin e Broomberg? […] loro però avevano solo le immagini mentre qui c’è il testo che si sovrappone e crea delle forme… Non hai idea della bellezza…”.

 

https://vimeo.com/194261888

Book-trailer del libro d'artista (Altre) Avventure di Pinocchio, di Lorenzo Tricoli.

 

Col passare del tempo il percorso di Tricoli si sposta dalla moda verso un contesto sempre più artistico/sperimentale. La dicotomia che scaturisce da questa doppia vita lo renderà sensibile a stimoli sempre nuovi che arriveranno a sfociare nella identificazione di almeno tre o quattro idee creative alla settimana, come testimonia Emiliano Biondelli, tra i suoi più intimi amici. Tale bulimia creativa lo accompagnerà per tutta la vita fino alla prematura scomparsa, nel febbraio del 2017, consegnandoci un artista che nel proprio lavoro è stato in grado di coniugare con attenzione spasmodica la forma (niente affatto casuale ma con una precisa estetica) con il contenuto, sempre altamente sociale. 

 

 

Lorenzo Tricoli, Barricades Will Increase Your Happiness, 2015-2016, dal progetto The Archive You Deserve, courtesy Archivio Lorenzo Tricoli.


Significativa in tal senso è la sede espositiva scelta dal Festival per ospitare la mostra. Villa Zironi è infatti una ricca dimora borghese decadente, che ben si adatta all’opera e all’evoluzione di Lorenzo Tricoli. “Fin dal  primo sopralluogo – racconta Federica Chiocchetti, creatrice della piattaforma Photocaptionist e curatrice della mostra – lo spazio mi suggeriva, stanza dopo stanza, cosa avrei dovuto esporvi. C’erano delle affinità tra quei luoghi e quelli in cui Lorenzo aveva vissuto e la cosa più incredibile che mi è capitata è stata aprire un armadio nello studiolo e scoprire che conteneva 34 cassetti, tutti contrassegnati da altrettante targhette: un archivio con lo stesso numero di catalogazioni che Lorenzo aveva individuato per il suo!” 

 

Lorenzo Tricoli, The Archive You Deserve, 2002-2017, Logo, courtesy Archivio Lorenzo Tricoli.

 

Lorenzo Tricoli, Self-Portrait da (Altre) Avventure di Pinocchio, 2016, courtesy Archivio Lorenzo Tricoli.


La mostra si articola in quattro sezioni che abbracciano la gran parte dell’attività artistica di Lorenzo Tricoli. Partendo da un richiamo sonoro ispirato a una delle sue attività più amate, quella di DJ, denominata Sigla, il percorso si sposta in diverse sale che accolgono l’opera “madre” The Archive You Deserve, una sorta di blob in iper lievitazione che ha permesso la crescita della maggior parte dei progetti dell’autore, molti dei quali inediti. Si passa poi per il salotto buono dove, ironicamente, incontriamo il provocatorio lavoro dal titolo Bunga-Bunga, con i volti artefatti delle “donnine” di Silvio Berlusconi. Si approda infine nella cucina, luogo che rimanda alle vicende del Pinocchio collodiano nelle mani di Mangiafuoco, dove trova collocazione (Altre) avventure di Pinocchio e in cui finisce cucinata la Storia italiana del Novecento. 

 

Lorenzo Tricoli, Bunga Bunga, 2014, courtesy Archivio Lorenzo Tricoli.


(Altre) avventure di Pinocchio si rivela essere una mappa accurata che mette a nudo il “burattino Italia” con l’intento di spingerlo verso una consapevolezza che gli mostri, invece, la sua natura umana. Rappresenta altresì l’elaborazione di un modello fruitivo multidisciplinare, che utilizza la parola scritta e l’immagine, innestando un libro fotografico in un libro di letteratura. Creando un nuovo linguaggio narrativo, Tricoli gioca, nel suo modo ironico e irriverente, usando forme tipografiche precise, una grafica che conduce l’immagine e la parola a una forma unica. Il gioco condotto dall’autore mette in luce le infinite intersezioni che mostrano le connivenze del Bel Paese con il “malaffare”. I 36 capitoli – gli stessi del libro di Collodi – accostati gli uni agli altri, seppure con evidenti salti temporali, denotano l’attenzione maniacale che l’autore pone nel ricostruire il quadro generale senza il quale la Storia non può apparire. L’ossessione che l’autore si impone nell’accumulare ritagli, fotografie, libri, oggetti, diventa qui una rete che genera “nuova informazione”. Lorenzo Tricoli crea, nel tempo, quello che possiamo definire un arcaico elaboratore dal quale possono essere continuamente estratte informazioni di politica, cultura, società, necessarie a portare in luce la realtà occultata. 

 

 

Lorenzo Tricoli, (Altre) Avventure di Pinocchio, dummy, 2014-16, courtesy Archivio Lorenzo Tricoli.

 

Lorenzo Tricoli, The Archive You Deserve, 2002-2017, Playing Cards, courtesy Archivio Lorenzo Tricoli.

 

Le avventure di Pinocchio di Carlo Collodi può a buon titolo essere considerato uno dei libri “italiani per eccellenza”. Al suo interno l’autore fa sfilare i “personaggi” dell’Italia del tempo, i quali non hanno smesso oggi di essere come allora: un po’ ridicoli, anche di fronte a situazioni serie. Dunque l’operazione che Lorenzo Tricoli effettua è oltremodo quella di attualizzare una Storia che si ripete, sempre uguale. Possiamo dire che il “Pinocchio” di Tricoli va nella direzione dello svelamento di un mistero a maglie strette di cui tuttavia si conoscono molto bene i fili. Come in una matrioska dove lo stesso elemento ripetuto ci dice che ciò che sta fuori è esattamente uguale a ciò che sta dentro, il contenitore Pinocchio è la Storia grande che al suo interno contiene quella minore, la propria, ed è questo il motivo per il quale l’autore spesso inserisce se stesso nei suoi lavori, intendendo così sottolineare che la Storia grande è formata dalla storia di ognuno. Il burattino è l’autore stesso (siamo noi), che nel momento in cui scopre il mistero degli incastri diventa umano, uscendo dalla propria storia personale per entrare in quella del mondo, ma con la consapevolezza di esserne parte integrante. 

 

La mostra rimarrà aperta fino al 17 giugno presso Villa Zironi, Reggio Emilia. Domenica 22 aprile, in Piazza Martiri del 7 luglio, alle ore 10:30, si terrà la conferenza L’opera di Lorenzo Tricoli: irriverenza, humor e politicamente scorretto, con interventi di Federica Chiocchetti, Emiliano Biondelli, Lina Pallotta e Giulia Zorzi.

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Braguino o la comunità impossibile

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La nuova edizione di Fotografia Europea si pone sotto l’egida della  “rivoluzione dello sguardo e della visione” una delle conseguenze che proprio la nascita della fotografia ha determinato. Rivoluzioni. Ribellioni, cambiamenti, utopie è il tema portante della tredicesima edizione, curata dal Comitato Scientifico della Fondazione Palazzo Magnani

 

Nella taiga la cosa più pericolosa è l'uomo", racconta uno dei protagonisti del documentario, del libro e della videoinstallazione di Clément Cogitore intitolata “Braguino o la comunità impossibile” (2017) in mostra al Festival di Fotografia Europea di Reggio Emilia. In queste poche parole pare sia racchiuso il destino dell’uomo: non è possibile vivere in pace con gli altri uomini e in armonia con la natura. Il vuoto della taiga rappresenta il vuoto di questa possibilità. Tutto ha inizio dalla narrazione di un sogno, una premonizione. Poi un elicottero vola su un’immensa foresta. Il rumore dell’elica ricorda quello di una mitragliatrice in azione. Nello spazio si intravede qualche volto umano.  

Braguino è poco più di questo. Un punto sperduto nella taiga siberiana a circa 700 chilometri dal primo centro abitato. Qui vivono i Braguine ed i Kiline. Le loro case sono separate, fra loro non vi è alcuna forma di comunicazione. Il fiume funge da barriera, un confine silente e invalicabile. I Braguine sono cacciatori. Il loro padre e fondatore, Sacha, ha dato vita a questa comunità, da cui prende nome, nel tentativo di sottrarsi ad ogni forma di potere. Essi vivono in armonia con la natura, non la sfruttano, si prendono solo ciò che è necessario per sopravvivere. Per i Kiline è l’opposto. Sono i nemici, i predatori, coloro che si alleano con i bracconieri, “les corrompus”, raccontano i Braguine. 

 

Clément Cogitore, Braguino ou la communauté impossible, 2017 © Clément Cogitore /Mac Val/ ADAGP, Paris 2017.


Clément Cogitore, Braguino ou la communauté impossible, 2017 © Clément Cogitore /Mac Val/ ADAGP, Paris 2017.


Tutto si regge su questo conflitto irrisolvibile. La natura, amata o depredata, non fa che da sfondo ininfluente alla vicenda. La taiga appare come “un puro fantasma occidentale”, afferma il regista, poiché anche negli spazi sconfinati la libertà rimane un’utopia. Le immagini sono avvolte da un’atmosfera crepuscolare, la luce indefinita in cui tutto pare immerso, testimonia l’imminenza di una scomparsa, qualcosa che fugge verso le tenebre. 

E purtroppo non c’è alcuna via di scampo. La storia di Braguino conferma ciò che attraversa tutta la storia dell’Occidente: l’ennesima tematizzazione dell’uso della forza per la conquista e la conservazione del potere. Anche qui la violenza ha una sua elaborazione culturale, che evolve costruendo codici, che a loro volta producono un altro tipo di ordine: da una impossibile assenza di regole a una forma di egoismo, colta nella sua dimensione più crudele e predatoria. Lentamente emerge una certezza: nessun comportamento umano può pretendere di essere esaustivo della sua umanità. I Kiline perché contribuiscono ad annientare i Braguine e questi perché non sono in grado di stabilire una relazione. 

 

Clément Cogitore, Braguino ou la communauté impossible, 2017 © Clément Cogitore /Mac Val/ ADAGP, Paris 2017. Installazione presso il Festival di Fotografia Europea di Reggio Emilia.


Solo in due momenti sembra esserci una possibilità. Il primo è la caccia all’orso. Sacha Braguine percorre sicuro la foresta. Imbraccia un fucile e senza esitazioni spara ad un orso. Poi estrae un coltello con cui lo smembra e deposita il muso dell’animale sul tronco di un albero. “Recitiamo una preghiera per lui e poi lo seppelliamo”, dice al figlio. Compie un gesto di gratitudine. Restituisce una parte di nutrimento alla terra che gli ha permesso a sua volta di nutrirsi. Ora la foresta non è più puro spazio geografico, così come ogni gesto compiuto è un atto simbolico, poiché racchiude la memoria di un mito fondativo, ovvero la scelta originaria di abbandonare la “civiltà”. Poco dopo aver ucciso l’orso, Sacha Braguine alita nella canna del suo fucile in direzione degli alberi, lo suona come uno strumento e restituisce all’aria ciò che prima le aveva tolto con il fuoco: un soffio di vita. 

 

L’isola dei bambini è l’altro luogo in cui potrebbe delinearsi la possibilità di convivenza. Nel mezzo del fiume c’è uno spazio sabbioso che non appartiene a nessuno, dove i figli di entrambe le famiglie giocano in totale autonomia. Sembra che i loro corpi siano impregnati dal vento, dall’odore della taiga, dalla freschezza della foresta. Per un istante pare che possano spezzare le dinamiche del mondo adulto. Eppure, nel mezzo di questo spazio in miniatura, non avviene nessun cambiamento. I bambini non parlano. Si spiano, si controllano, ma non comunicano. Sono testimoni silenziosi del conflitto. L’unico luogo destinato alla socializzazione diviene l’ennesimo spazio di costrizione, quasi lo spazio di una sepoltura. Come la natura, essi subiscono il dominio del mondo adulto. 

 

Le immagini lo confermano. Esse viaggiano e accumulano sotto la loro superficie diversi momenti della vita, collegando istanti lontani gli uni dagli altri. Il sogno dell’inizio è premonitore. In esso è possibile intravedere il futuro: l’assedio, la paura, la fuga. Il documento ha lasciato il posto al racconto, il realismo alla messinscena. L’impressione è che il silenzio della foresta non resisterà alle bombe dei bracconieri. La calma infinita della pianura, il cielo nebuloso, il sonno del grande fiume segnano la fine di un mondo. Braguino è poco più di questo, un punto che diventa visibile, si intensifica e si confonde con il movimento di un tempo impossibile. E, viceversa, questo tempo si manifesta nello spazio. Un cronotopo direbbe Michail Bachtin, “centro della concretizzazione e dell’incarnazione raffigurativa”, anche se purtroppo si tratta di un vuoto, dato da un sistema di relazioni che produce solo impoverimento e diseguaglianza.

Infine sorge un interrogativo: che ruolo hanno le immagini? Possono colmare questo vuoto? Sembrerebbe un’utopia. Guardare il dolore degli altri non ha mai cambiato i destini dell’uomo, da Auschwitz alla Siria. Ha solo mostrato l’impotenza di fronte a questa condizione.

 

Nel caso di Cogitore osservare e mostrare la sofferenza e la paura degli altri non porta né ad una vera disapprovazione, né a compassione empatica. Anche l’effetto anestetizzante ed estetizzante di cui parlava Susan Sontag non si concretizza. Le immagini di Cogitore non sono colme di virtuosismi visivi. La natura non è sublime e l’uomo è distante dalla purezza di una ipotetica condizione edenica. Le sue immagini sono problematiche perché si collocano un istante prima della distruzione, la “sintassi rituale” della violenza viene solo fatta intuire. Esse non spettacolarizzano il dolore, non producono effetti voyeuristici e non innescano processi mimetici. Mostrano, piuttosto, la storia che ognuno di noi conosce alla perfezione, calata però in un contesto fuori dalla norma: se non saremo in grado di cambiare i rapporti tra noi ed i nostri simili e, contemporaneamente, non rinunceremo alla nostra visione essenzialmente antropocentrica, non faremo altro che incalzare il processo di autodistruzione della natura e dell’uomo. 

Le immagini per Cogitore hanno la funzione di resistere al nulla. Sono le tracce mute di un mondo che non esiste più. Tuttavia egli afferma che le fotografie non sono chiuse in se stesse, ma appaiono come “documenti luminosi, grandi lucciole nell’oscurità”. Cosa rimane dunque nei nostri occhi: il riflesso di un mondo inafferrabile che combatte contro la sua scomparsa o quello di una verità agghiacciante che si stende minacciosa sul nostro futuro?

 

 

Mostra: Clément Cogitore, Braguino ou la communauté impossible, a cura di Diane Dufour et Léa Bismuth.

Installazione prodotta da LE BAL nell’ambito del premio LE BAL de la Jeune Création con ADAGP.

Per gli orari: https://www.fotografiaeuropea.it/fe2018/mostra/clement-cogitore/

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James Rosenquist. Rosso pomodoro

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Soggetto: James Rosenquist, americano. Nato nel 1933, scomparso un anno fa, il 31 marzo 2017. 

Professione: pittore di cartelloni pubblicitari fino al 1960, per i successivi 57 anni artista.

Tema: i suoi primi trent’anni, il suo primo dipinto.

Svolgimento in cinque parti.

 

Uno

 

Di origini norvegesi, biondo e fronte spaziosa, occhi piccoli, cresce in una terra piatta del Midwest. Vive in case senza elettricità e si sposta così di frequente che a dodici anni ha cambiato sette scuole. In un paesaggio senza rilievi, la voglia di volare e la passione degli aeroplani coinvolgono tutta la famiglia. 

Perde il nonno in un inverno così rigido in North Dakota che, per seppellirlo, la famiglia aspetta che sverni, tenendo la bara in veranda. “Ciao nonno” diceva lui andando a scuola. E pensa al nonno quando per la prima volta vede le mummie egiziane in un museo. Durante la guerra comincia a disegnare scene di battaglia, utilizzando il retro della carta da parati recuperato dalla mamma, perché la carta da disegno costava troppo. La televisione comincia a guardarla solo a 17 anni.

In Minnesota studia pittura a olio, tempera all’uovo, imprimitura in stile rinascimentale, prospettiva, teoria dei colori, disegno. Finché a Chicago ha l’occasione di ammirare dal vero gli impressionisti, Matisse e i maestri moderni. Resta colpito dalla fattura, dalla stesura della pittura alquanto approssimativa, con uno strato burroso di colore. “Oh, pensai, quindi è questo il modernismo”. 

Nel 1954 dipinge il suo primo cartellone pubblicitario della Coca Cola a Minneapolis. È così fiero che porta la mamma ad ammirarlo – “Drink Coca Cola” e “Refresh” si legge. Quando lo ingaggia anche la Northwest Airlines, guadagna più del papà. 

 

1958, Sulla quarantasettesima strada.

 

Due

 

Che fare, andare a West o a East? questo il dilemma: California o New York? La scelta cade sulla costa Est, “more literate, more European, more educated”. S’inscrive all’Arts Students League, dove studia tra gli altri con George Grosz. Conosce Hans Hofmann, maestro di tanti espressionisti astratti; sperimenta con l’astrazione, il cubismo e i murali. Tra un cartellone pubblicitario e un murale messicano la tecnica è la stessa.

Vive in una stamberga su Columbus Circle per 8 $ a settimana. È così fredda che, nel gennaio 1956, s’incammina per Broadway alla ricerca di un teatro dove riscaldarsi. Il marquee del CBS Theatre annuncia: “Tonight – Elvis Presley”. E chi sarà mai questo Elvis Presley? Entra, assiste alla performance agitata, pochi battono le mani, tra cui lui, entusiasta. Qualche settimana dopo Heartbreak Hotelè una hit alla radio.

 


Cerca lavoro per sbarcare il lunario. Gli propongono di dipingere strisce gialle sull’autostrada o i numeretti sui posti di un campo di polo. Rifiuta categoricamente perché lui dipinge solo figure. Gli propongono persino di fare l’albero nello spettacolo Winnie the Pooh a Broadway. Ottiene un lavoro per dipingere cartelloni pubblicitari. Il boss resta impressionato dalla sua testa gigante di Kirk Douglas dal film The Vikings. Ormai lui è capace d’ingrandire immagini a qualsiasi dimensione.

Dipinge i volti delle star del cinema – Gregory Peck, Jean Simmons, Marlon Brando, la nostra Anna Magnani – su superfici di sei metri. Scala, frammentazione, collage: realizzare manifesti pubblicitari vuol dire immergersi nell’atto della pittura. “La mia estetica deriva forse dall’essere troppo vicino a ciò che dipingo per sapere di cosa si tratti”. Col naso incollato sulle immagini, sviluppa una sensibilità per la forma e per il colore piuttosto che per quello che le immagini rappresentano. Un senso di disorientamento trasmesso più tardi al pubblico dei suoi dipinti.

Il suo è un lavoro faticoso a tirar su e giù la passerella; il suo è un lavoro pericoloso, sospesi nel vuoto a diversi metri d’altezza, col rischio di cadere. Così perde due colleghi. 

Lavora spesso a Time Square, all’epoca fulcro della prostituzione, piccoli crimini e spaccio di droga. Ma prima dell’assassinio di Kennedy è l’ombelico del mondo dove puoi incrociare Fidel Castro che va all’Hotel Theresa o Khrushchev in giro in macchina.

Prima di venire a New York non aveva mai sentito parlare di beat e di underground, di Jack Kerouac, William Burroughs e Allen Ginsberg.

 

Rosenquist Dust, 1960.

 

La loro filosofia di vita – che riassume così: “Nothing means nothing means nothing” – lo affascina. Vede Kerouac alla televisione partecipare al “The Steve Allen Show”: “Ci dica Jack, cosa è la Beat generation?”. E lui, scarruffato come se uscisse da un romanzo di Dostoevskij, ribatte: “Nothing”, si alza e se ne va.

Frequenta la Cedar Tavern, la squallida Waldorf Cafeteria, il Dillon per le ore piccole. Qui stringe amicizia con Willem De Kooning e Franz Kline. Passa una serata dal pittore Al Leslie, e beve così tanto che fa una scommessa con se stesso: se riesci a fare il giro del Flatiron Building a piedi puoi salire in macchina e guidare fino a casa. Non arriva neanche al primo angolo. Rientra in metro.

Nel 1959, per arrotondare, allestisce vetrine di Bonwit Teller e Tiffany. Un signore baffuto si accorge di lui, s’incuriosisce e lo invita a colazione al St. Regis. È Salvador Dalí. Lui arriva indaffarato con le mani sporche di pittura, la faccia stanca, Dalí è circondato da ragazze bellissime, abbronzate e scollate. Con fare dinoccolato lui si siede e per disattenzione infila un gomito in un piatto di noccioline, che volano in aria. Dalí estasiato si alza e lo applaude, col bastone dà un colpo al tavolo e urla “Voilà!”. Il resto del pranzo è un distillato di puro surrealismo catalano, cose che, nel suo Midwest, non si vedevano neanche in televisione.

 

1961.


Tre

 

Quando è a casa, dipinge opere astratte con inchiostro indiano, spesso in grisaille – “subliminal collages” li chiamerà poi. Il collage per lui non nasce con Schwitters ma molto prima, con la cerimonia del té giapponese. A colpirlo è meno il risultato che il modo in cui la narrazione viene fatta a pezzi.

Nel 1959 si licenzia e mette una pietra sopra la sua carriera nel campo della pubblicità commerciale. Si sposa. Su suggerimento di Ellsworth Kelly, prende lo studio che era stato di Agnes Martin, nel mitico quartiere di Coenties Slip. Tra tutti gli artisti che vivevano in quella zona, Kelly è l’unico che c’è l’ha fatta, e infatti gira in Volkswagen. Prende il giovane pittore in simpatia e gli insegna a tirare le tele.

Ora che ha un atelier e può concentrarsi sulla pittura notte e giorno, non sa cosa diavolo fare. Trascorre le giornate alla finestra a osservare la gente che va e che viene, che viene e che va senza interruzione. Dalle 9 alle 16 la gente corre a lavoro. Si rincuora pensando che almeno non è più costretto a fare quella vita da cani.

Ritaglia inserzioni pubblicitarie da vecchi numeri della rivista “Life”. Le trova ridicole ed enigmatiche queste pubblicità, propaganda commerciale di un mondo che sembra scomparso. Le osserva con l’occhio clinico di un archeologo della nostra società che, da un altro pianeta, s’interroga su queste immagini prodotte sulla Terra negli anni cinquanta. Un giorno saranno misteriose come i graffiti animali di una grotta preistorica. “Sempre più dottori dicono che le Camel hanno meno catrame di qualsiasi altra sigaretta” – che idioti.

Bisogna abbandonare il modello della finestra, con cui tutta la storia della pittura, inclusa quella dei suoi idoli, gli espressionisti astratti, si è confrontata e conformata. Non sono le immagini pubblicitarie a interessarlo ma le tecniche utilizzate nell’arte commerciale. Quel modo di spiattellare immagini in faccia a uno spettatore sopraffatto. Questo lo interessa, altro che l’immaginario commerciale. Non userà mai il nome di un brand o le star del cinema nella sua arte, come altri artisti pop. E ci tiene a farlo sapere in giro.

 

1963, ph Fred W. McDarrah.


Quattro

 

Le immagini sono così grandi che non si riconoscono subito. È il mistero del banale, un arabesco urbano. Tenendo a mente la lezione di Rauschenberg – più alto è il rischio che corri, più accurata deve essere la tua visione – nel 1960 termina finalmente il suo primo dipinto, Zone.

La tonalità monocroma e grigia rende difficile decifrarlo al primo sguardo. Si riconoscono un volto femminile sorridente, lo sguardo obliterato, e la pelle di un pomodoro. Due elementi che coesistono sulla tela di grandi dimensioni (240 x 245 cm) nonostante la differenza di scala: il pomodoro è grande quanto il volto. Zoneè articolato in due parti dentellate, a zigzag, nettamente divise, inconciliabili ma intimamente connesse. La ciocca di capelli della donna si confonde con le foglioline del peduncolo di pomodoro; i denti bianchi con i riflessi di luce sulle gocce di rugiada; l’arcata delle sopracciglia con la piega delle foglioline vegetali. Le dita della mano sbucano dal nulla, come se non appartenessero allo stesso corpo del volto.

 

Rosenquist Dust, 1960.

 

La sezione destra di Zone viene dalla pubblicità di una lozione per la pelle che trova su “Life”. Nulla si sa della sezione sinistra, si dice sia un pomodoro ed è tutto.

Il collage gli permette di far coesistere realtà irreconciliabili: volto più verdura uguale? Un volto trasfigurato più un pomodoro grande come un composto transgenico: il risultato è mostruoso se confrontato alla logica commerciale della pubblicità. Eppure queste due immagini sono costrette a convivere sulla stessa superficie. Come indica il titolo, si tratta di un’unica zona.

Di Zone ci resta, oltre a un ritaglio di giornale, un disegno dell’artista. Qui elimina il nome del prodotto (Angel Skin) come la decantazione delle proprietà strabilianti della crema e le promesse di una pelle vellutata e ringiovanita. Al posto del pomodoro si distinguono ben tre immagini: un volto con la bocca aperta, con i denti che si giustappongono a quelli del volto femminile alla destra del dipinto. L’effetto è da ritratto cubista, come un volto colto da angolazioni diverse. Si distinguono poi il busto di un uomo in cravatta e il tubo di una doccia il cui getto d’acqua – o di sangue, secondo l’appunto manoscritto – si trasforma nelle stelle della bandiera americana. Una bandiera le cui strisce, ennesimo innesto, riprendono quelle della cravatta dell’uomo. La bandiera americana strizza l’occhio a Jasper Johns.

Finché si sbarazza della complessità eccessiva di queste tre immagini, sostituite dal pomodoro. 

Zone è il suo primo dipinto pop. Come Rimbaud associava colori e vocali, così lui associa colori e oggetti: il verde col sopracciglio di un bambino che beve Coca-Cola, il blu con l’auto della Chrysler, l’arancione con un’aranciata o il colore del whiskey Early Times, il marrone col bacon scuro e il rosso col pomodoro. Che attraverso le tecniche utilizzate nell’arte commerciale sia possibile ottenere una nuova forma di astrazione? una in cui gli oggetti contano solo per i colori e le forme e non per quello che rappresentano? Avrà 57 anni di carriera davanti a sé per rispondere, creando un “vocabolario visivo idiosincratico”, un palinsesto di immagini. Lui lo chiama “un corollario visivo della memoria”, perché è così, per giustapposizioni incongrue, che funziona la memoria, dice.

 

1964, ph Ugo Mulas.


Cinque

 

Il suo nome comincia a circolare. Quando riceve visite nel suo studio continua a dipingere, come quando disegnava enormi cartelloni in spazi pubblici, sotto gli occhi dei passanti. Nel gennaio 1962 apre la sua prima mostra personale alla Green Gallery, di cui resta un breve video

È un periodo di feste continue: “Parties for openings, antiwar parties, parties for eclipses, parties for the hell of it”. Frequenta Jasper Johns, laconico e cerebrale, Warhol, malizioso e provocatore non intenzionale, Rauschenberg, impulsivo genialoide e festaiolo. Nel 1964, assieme a Warhol, Bob Indiana, Charles Henri Ford, va in pellegrinaggio nel Queens, a Utopia Parkway, per rendere omaggio a Joseph Cornell.

Una sera invita a casa sua il curatore Henry Geldzahler e Warhol. Terminata la cena, verso le dieci, Warhol chiede: 

 

1964 con Wesselman, Lichtenstein, Wharol e Oldenburg nel loft di Wharol.


– “Vi va di andare a vedere un mio film?”

– “Che film?”, fa lui.

– “Sleep, lo proiettano in un cinema sulla 28ima strada.”

– “Certo, andiamo, ma a che ora comincia?” 

– “Oh, in effetti è già cominciato. È cominciato alle sette di sera.” 

– “Ma scusa, ormai ci siamo persi la maggior parte del film?”

– “No, possiamo andarci in qualsiasi momento.”

 

1964, ph Ugo Mulas.


§

 

Si rimanda all’autobiografia di James Rosenquist, cui questa breve panoramica si rifà: Painting below zero. Notes on a life in art, con David Dalton, Alfred A. Knopf, New York 2009.

 

http://www.tate.org.uk/context-comment/video/rosenquist-green-gallery

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Infrasottile: note sul vedere

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Esce in questi giorni per i tipi di Postmedia Book Infrasottile. L’arte contemporanea ai limiti, testo importante di Elio Grazioli. In occasione dell’uscita del volume, si apre una mostra omonima presso la sede BACO di Bergamo, che accompagna e illustra la lunga ricerca di Grazioli, nata da una riflessione che ha preso spunto da una serie di lavori di Marcel Duchamp. 

 

Elio Grazioli, Infrasottile.


È un fatto acclarato che la pratica artistica abbia perso autorevolezza nel corso degli ultimi decenni, sulla scia delle neovavanguardie e poi della smaterializzazione avvenuta attraverso le pratiche contemporanee (e si badi bene: in questa sede non si intende dare un’accezione negativa al fenomeno, ma rilevarne la portata fattuale). Numerosi artisti si sono trovati a fare i conti con questo sfaldamento progressivo, trovandosi a confronto con un’entità via via più problematica, incerta, incapace di affermare con fermezza una precisa volontà espressiva.

Questa intrinseca fragilità, per proprietà transitiva, si è allargata a macchia d’olio e ha investito aspetti che riguardano la contemporaneità tutta. L’onda tellurica che ne è scaturita ha mostrato la propria portata soprattutto nell’ambito dei media, influenzandone profondamente lo sviluppo e la fruizione, nonché la percezione da parte degli spettatori, che nell’epoca digitale sono ormai transitati dal ruolo di osservatori, magari partecipanti, a user.

Si tratta, con tutta evidenza, di una questione dirimente e il libro di Grazioli giunge con puntualità a schiudere una porta su scenari inediti, offrendo una prospettiva stimolante per affrontare le problematiche relative allo statuto delle immagini e un’opportunità per sviluppare degli strumenti critici che permettano di cogliere le sfaccettature di una realtà instabile, in continuo movimento, il cui frame è di difficile messa a fuoco.

 

Alessandra Spranzi, Fogli sul tavolo da selvatico o colui che si salva, fotografia a colori, 50x70 cm, 2008.


Il “grimaldello” utilizzato da Grazioli è il concetto di inframince, nato nel 1910 e sviluppato successivamente da Duchamp. Si tratta di uno sentiero teorico poco battuto della produzione del genio francese, ma che nella riflessione dell’autore diventa uno strumento interpretativo affilato per cogliere alcuni aspetti rilevanti della produzione di alcuni artisti, accomunati non da un manifesto, da un linguaggio o dall’appartenenza a un movimento, ma da un approccio alla pratica dell’arte e da una sensibilità specifica.

L’infrasottile è un carattere che Grazioli rinviene nel lavoro di autori eterogenei, tra cui Tacita Dean, Felix Gonzales-Torres, Robert Rauschenberg e Douglas Gordon. Si tratta di una presenza che “indica innanzitutto ciò che è all’estremo della percezione, del discernibile, della differenza, ma senza essere né l’invisibile, né l’indiscernibile, né il trascendente, ma invece una presenza al limite, un possibile ma reale, o una compresenza di due stati che «si sposano».” Va da sé che il pensiero corra subito al problema del ready made, quel momento di frattura che ancora oggi riverbera nelle riflessioni sul limite tra ciò che è o non è arte, così come a quelle azioni di copia, appropriazione o reenactement che sono proliferate a partire dagli anni ‘60 e che hanno trovato nuove forme e declinazioni nell’attualità, dal video alla fotografia, arrivando fino ai casi più radicali della net art e della data art.

 

Tra le varie categorie attraverso le quali si manifesta l’infrasottile, Grazioli indica la tautologia, la copia e la ripetizione, il limite, l’impossibile, ognuna delle quali offre contesti ricchi di suggestioni. Campi dove questa possibilità si manifesta come azione e non come elemento concettuale; una sottile – appunto – differenza, ma fondamentale per comprendere l’importanza di questo dispositivo, che interviene attraverso e si consustanzia con una modalità minima ma non minimalista, agendo ai limiti della percezione.

Per la mostra allo spazio BACO, Grazioli ha selezionato un nucleo di artisti italiani quali Aurelio Andrighetto, Marina Ballo Charmet, Gianluca Codeghini, Eva Marisaldi, Amedeo Martegani, Davide Mosconi, , Giovanni Oberti, Alessandra Spranzi, Luca Pancrazzi, Franco Vimercati, Luca Vitone, a cui si aggiungono due opere del francese Ange Leccia e dello statunitense Eric Baudelaire. Naturalmente la selezione proposta non ambisce a esaurire il fenomeno né a comporre un gruppo chiuso, piuttosto si offre come tavolo di discussione sul quale Grazioli dispone delle figure di riferimento per comprendere questa forma dell’agire artistico. 


Gianluca Codeghini: Cose semplici che puoi fare per perderle

 

Tra gli artisti visti da BACO, vogliamo prendere in esame in particolare il lavoro di Gianluca Codeghini e Amedeo Martegani, protagonisti rispettivamente di due mostre personali – una da poco conclusasi presso la galleria Six di Milano, l’altra ancora in corso presso la galleria Milano – entrambe a cura di Elio Grazioli. 

La mostra allestita da Six ha condensato la produzione ventennale di Gianluca Codeghini, che da sempre lavora sulle zone di confine percettive e sui micro slittamenti di stato. A Bergamo ha realizzato una stanza, in cui ha installato tre interventi, significativi del processo di elaborazione del suoi lavori, che si sviluppa tra caso e opportunità, tra sensibilità poetica e curiosità scientifica. Nella stanza, l’artista traccia su un muro la scritta, esile e dai tratti apparentemente infantili “Fantasia del nulla”, insieme al disegno naif di un teschio: è Fantasia del nulla senza titolo. Edo (2017/2018), “prestito” nato dall’idea di un amico del figlio. Sulla parete adiacente trova posto Sfiorata dalla provocazione (2010/2018), una fotografia che sembra un disegno su carta bianca e che riproduce i segni lasciati dalla tromba dell’artista sul muro di una nicchia di casa, segni che si sono accumulati in anni di utilizzo dello strumento. Attorno alla foto, segni grafici si dipartono dalla carta verso il muro, proseguendone la traiettoria, come se la foto appartenesse a quel muro. Di fronte ad essa, infine, La piega di tutte le tentazioni (1992/2018), una tenda leggera, bianca, copre la finestra, velando la luce che penetra nella stanza, memoria di un lavoro site specific concepito e mai realizzato. Si tratta di lavori inediti che rappresentano efficacemente l’articolata opera di Codeghini, alimentata da uno sguardo analitico, mai sazio, verso la realtà. Uno sguardo che non esaurisce nel visivo la sua pratica artistica, anzi che convive con l’utilizzo degli altri sensi, tra cui spiccano l’udito e il tatto, chiamato in causa nel ruolo di senso che veicola azioni minute, in grado di generare significati sempre nuovi. 

Numerose sono le opere sonore nella produzione dell’artista-musicista: è il caso di Cracked Lip Corner (2017), installazione sonora dove una serie di statuette ceramiche trouvé, rotte, sono applicate a un muro e divengono diffusori di suoni. Oggetti che hanno perso la propria forma originale e anche la vocazione – forse non sono mai state altro che soprammobili di scarso valore e dubbio gusto – ma che vivono una seconda possibilità proprio in questa perdita dello stato originale. Una “seconda volta”, concetto che Grazioli affronta a più riprese nel suo testo, e che rimanda a uno sguardo insistente, che non si accontenta di una spiegazione lineare né di alcuna semplificazione, che occupa una piccola porzione di realtà, all’apparenza senza importanza, fatta quasi di niente. Il niente però è molto, contiene anch’esso categorie e mondi, e questa realtà non è d’avanzo, ma come scrive Elio Grazioli “quel poco che rimane non è un resto, è il poco di realtà che conta, non è la distruzione, è un’altra realtà.” E, aggiungiamo noi, non è inoffensiva, ma ha una dignità e una voce, e una sua forza che agisce a “bassa frequenza”.

 

Gianluca Codeghini, Short story without return, 2017.

 

Il suono ha un ruolo chiave in numerosi altri lavori, come nel caso del concerto “ad personam”, sonorizzato dall’artista nell’orecchio di un singolo ascoltatore facendo scoppiettare del chewing gum frizzante e registrando poi l’azione su disco, dal titolo Ak There’s Still for a Bit (2017). Codeghini maneggia il suono come un materiale e lo impiega per forzare il confine di ciò che è la consueta relazione di ascolto, attraverso installazioni o performance dagli esiti imprevedibili. Il suono in presenza o in assenza, è fruscio, bisbiglio, entità che confonde, rumore, permette di acuire l’ascolto e rivela presenze, diventa concetto o segno grafico e si muove tra stati fisici differenti, come nella serie At the source of noise (a partire dal 1994), immagini realizzate con la polvere non fissata prelevata dei toner delle fotocopiatrici. Questi “disegni” subiscono nel tempo variazioni dovute all’intervento accidentale della polvere, di micro eventi che ne causano l’alterazione e lasciano traccia sulla superficie, modificandola. Lo stesso principio è visibile anche in Everything begins and ends on the tips of the fingers (2016), serie di vasi ricoperti di polvere nera nei quali il titolo indica letteralmente il processo per il quale l’opera viene modificata nel tempo, quando la polvere del vaso viene rimossa dalle dita durante lo spostamento dei vasi e ne cambia l’aspetto. 

 

Il range di indeterminatezza a cui mira Codeghini riguarda tutte le sue opere e ne segna una condizione distintiva, che rimanda a quelle categorie dell’infrasottile di cui si faceva cenno sopra. Il cangiante, con la sua idea di passaggio di luce, di impermanenza e istantaneità, investe le immagini, la permutazione diventa scambio semantico, la citazione si trasforma in vicenda personale, viene metabolizzata per poi trovare spazio come approfondimento, come ritorno sul tema o come forma di “perlaborazione”, secondo la definizione di Jean-François Lyotard. Ecco allora Per una nota paesaggistica (1993), sfocata dove è presente l’artista stesso, che riporta la frase “L’istituzione si promette di trasformare”; tale frase viene modificata ogni dieci anni, cambiandone una porzione (ad esempio “intuizione” al posto di ”istituzione”), aprendo così, attraverso un’azione minima, a delle tematiche di notevole complessità che riguardano l’immagine nel suo insieme e che creano una sorta di iper-ralenty, un arco di tempo decennale durante il quale l’immagine slitta di senso, compiendo un movimento interiore, pur rimanendo uguale a se stessa nella forma. Anche Underderstruction: I don’t have to play (2009) è un’azione che si dilata nel tempo. Nell’opera è presente una rete che raccoglie i palloni usati da alcuni bambini per giocare contro la parete della galleria e una fotografia, e rimanda a un’idea di Man Ray, dove il “play” del titolo è il gioco ma anche il suonare, e richiama alla mente i tonfi delle pallonate della performance. Un’azione che vive su piani molteplici (è una performance ma anche anche una riproposizione, la testimonianza di un’azione ma anche un’installazione, e così via, attraverso una vertigine di stati) in cui si percepisce con chiarezza un’idea di gioco – un gioco del tutto serio – che organizza le opere di Codeghini. Convivono il desiderio di svelare i meccanismi sottesi al reale e la loro ridiscussione, operata attraverso l’ironia e una curiosità illuminata da una sensibilità poetica, che si manifesta anche attraverso una cura verso le cose minime, il desiderio di soffermare lo sguardo su fenomeni apparentemente irrilevanti: un’ombra che si muove, una parola, un episodio della storia dell’arte su cui gettare una nuova luce e riportare alla vita. E la polvere, che di nuovo rimanda a Duchamp e a tante vicende d’arte (si veda al riguardo Elio Grazioli, La polvere nell’arte, Bruno Mondadori, 2004), che trova asilo in opere come Seducente continua aggiunge (1995), un “allevamento” di polvere su carta, con il suo portato di residuo, traccia, sedimento dell’accadere; o la contraddizione, come nella scrittura che cancella sé stessa di Refined: Not to keep Abstaction Refined (2010), azione realizzata durante un convegno di informatica durante il quale l’artista ha scritto liberamente le sue suggestioni, per tutta la durata dell’intervento, su una lavagna cancellabile, utilizzando un pennarello apposito. I segni, sovrapponendosi, hanno provocato la cancellazione dei grafemi sottostanti, componendo una grafia inintelligibile, di cui rimane testimonianza nell’oggetto esposto. 

 

Gianluca Codeghini, At the source of noise, 1994.


Amedeo Martegani: Bisanzio

 

Martegani è un’artista di difficile classificazione, come Codeghini e le altre figure selezionate per la mostra bergamasca. In questo rifiuto di trovare una forma univoca risiede uno degli numerosi aspetti d’interesse di una produzione raffinata, in cui il disegno è eletto a mezzo ideale di espressione. Anche nel caso di Martegani ci si trova di fronte a un’artista che lavora su un piano mentale più che concettuale, interessato alla contraddizione e alla coesistenza di stati dissimili nella stessa opera. Un interesse che si evince anche dal titolo che evoca una città ormai mitica, Bisanzio, splendida e perduta, punto d’unione di oriente e occidente. 

Se prendiamo ad esempio i bellissimi ricami in filo di seta, montati su carta, della serie Alias del 2018: Martegani li fa eseguire partendo da un proprio disegno, e ciò che ne risulta è una sorta di piccola scultura – appunto – infrasottile, costituita da una materia delicata, dallo spessore così ridotto da costituire un disegno a tre dimensioni. O forse in quattro dimensioni, dove la quarta è uno stato dell’essere sospeso tra l’azione – il segno che va attuandosi ma sovente compone una forma aperta, non definita, una forma che suggerisce ma non afferma – e il pensiero, quel momento intermedio tra gli accadimenti che governa il novero del possibile.

Alcune opere di Martegani funzionano come apofenie, ovvero permettono allo spettatore di cogliere legami evidenti laddove non esistono apparenti connessioni, come nel gioco dei bambini che si divertono a scoprire figure nelle nuvole. Qualcosa di simile avviene anche nella fusione in bronzo argentato della roccia-leone (Leone, 2001) o nel disegno Il Re e il suo Cavallo. A proposito di questo fenomeno e di immaginazione, Matteo Meschiari scrive “L’aspetto organico di certe forme rocciose naturali lega ad anello il corpo animale e il corpo terrestre. Ma la circolazione tra i mondi non è a senso unico: la pietra simula l’animale e l’animale simula la pietra, la roccia prende forma vivente e il vivente si mineralizza, l’inanimato si incarna e l’animato si eternizza nella pietra. E non solo nelle pareti di una grotta, ma nelle colline come dorsi di erbivori, nei fiumi e nei ghiacciai come serpenti squamosi, nelle foreste come pellicce scure. Così il paesaggio alberga animali e gli animali albergano paesaggi, in un commercio carnale tra la Terra e viventi cha ha sempre affascinato l’uomo e che ha fornito materia per miti e racconti delle origini” (Nati dalle colline. Percorsi di etnoecologia, Liguori Editore, 2010).

Un continuum che si può estendere alle opere di Martegani, legate tra loro e immerse in un flusso dove ognuna rimane distinta eppure convive con le altre, fuori dalla storia, in attesa in uno spazio-tempo incuneato tra la realtà del mondo e la mente.

 

Amedeo Martegani, Insallation view della seconda sala della mostra di Amedeo Martegani alla Galleria Milano (Amedeo Martegani. Bisanzio, fino al 28 aprile 2018). Ph. Roberto Marossi. Courtesy Roberto Marossi e Galleria Milano. 

 

Altre opere hanno il passo del nascondimento e richiedono un tempo di acclimatamento per offrire il proprio tesoro a chi osserva, come le foto nere di Frane. L’impazienza della terra [San Leo] del 2013 o ancora Navicella (2018), installazione dove tra i rami di bambù e di eucalipto si celano tre multipli d’autore, il Lampone (2018) in bronzo e foglia d’oro. Ecco, in questo apparire improvviso, nel rivelarsi come un fiore che sboccia o una nuvola che compone un cumulo di vapore acqueo, risiede la cifra di Martegani, per il quale la levità diviene una forma di relazione con l’esistente, un modo per non inscrivere forzatamente le cose in uno schema programmatico, sia esso un sistema filosofico o un’intenzione artistica. Ne discende un fare con “sprezzatura”, e la possibilità di cogliere liberamente gli spunti d’interesse che la vita offre, siano essi un viaggio, un libro (per cui ha una passione da bibliofilo), un manufatto artistico, un animale con il suo carico simbolico o un accidente naturale. Si intravede sullo sfondo l’influenza che certo pensiero orientale ha avuto sulla produzione dell’artista milanese, e anche la capacità di cogliere la bellezza nelle forme suggerite dal caso, lavorandole come si farebbe con un diamante grezzo. 

E poi ci sono le linee che diventano forma: le rocce, che in realtà sono bronzi, intitolate Pietra rotante (2018), installate con orientamenti diversi su pannelli di legno; fanno il paio con il lampone, che è un frattale e si espande potenzialmente all’infinito, morbido e organico, destinato a finire e rinascere, mentre nella loro irregolarità, le rocce offrono l’infinita differenza nella ripetizione, rigide e minerali, soggette a un tempo geologico che segue ragioni proprie. Non ready-made, ma artefatti, elementi che compongono un percorso artistico dove opere molto diverse tra loro sono tenute insieme dalla grazia e da un pensiero che prende corpo – un corpo sottile, o infrasottile – partendo dal disegno. Il disegno che orienta, che segna la direzione e lascia poi il campo a forme diverse come in Desertmed, il progetto di mappatura delle isole deserte del Mediterraneo o nell’azione Savigno (2014), nella quale viene fatta indossare una coperta luminosa a un cavallo, poi invitato a inoltrarsi in un bosco dell’Appennino tosco-emiliano, trasformandosi in una apparizione nel buio, un disegno di luce vivente. 

 

Amedeo Martegani, Alias [Cane romano], 2005. Ricamo su organza, 40x50 cm. Ph. Roberto Marossi. Courtesy Amedeo Martegani, Roberto Marossi e Galleria Milano.

 

Rivelazione e sparizione: l’opera concede grazie anche al ritrarsi di Martegani, che si fa trasparente, si toglie dalla scena per lasciare che lo sguardo vaghi e l’attenzione si concentri. Una modestia lontana dagli stereotipi dell’artista egomaniaco, perennemente occupato nell’autocelebrazione, e che suggerisce una strategia precisa volta a prendersi cura del proprio fare arte. 

Che si tratti di una Scogliera (2002) in ceramica o di un disegno come Baader Meinhof (1990) anche l’opera di Martegani è apparentata all’infrasottile, lo impiega come strumento per accedere a un livello altro, forse superiore (e qui trova collocazione il riferimento alla Grande Opera alchemica che osserva Elio Grazioli nell’oro del lampone e nel nero delle rocce e delle fotografie): uno spazio dilatato, non soggetto a costrizioni, più vicino all’apparizione che all’apparenza.

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On the road: Storie. Il design italiano

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Siamo a Broadway? Ci si domanda, dopo un attimo di spaesamento in cui ci pareva invece di avere appena attraversato uno dei passages della modernissima metropolitana di Napoli. Magari quelli di Toledo o di Garibaldi, oppure di Vanvitelli. Ma tutti i neon multicolori che sovrastano le nostre teste potrebbero evocare anche l'atmosfera di una strada di Las Vegas. Invece ci troviamo negli spazi del Triennale Design Museum di Milano, dove lo Studio Calvi Brambilla ha “messo in scena”, per il TDM11, la mostra Storie. Il design italiano con un allestimento che non ha nulla da invidiare alle scenografie di Otto Hunte e di Erich Kettelhut per il film Metropolis di Fritz Lang. Anzi, in un caleidoscopio di colori, di luci riflesse e rifratte, di superfici a specchio, di specchi normali, di specchi deformanti e di effetti optical, i due architetti lombardi, naturalizzati milanesi, nel loro tipico, “luminosissimo" stile, hanno ricostruito una strada urbana, lungo la quale si stagliano, monumentali e quotidiani, 180 pezzi iconici del design italiano del Novecento, selezionati dai curatori della rassegna fra quelli che sono entrati a buon diritto a far parte delle vite degli italiani, contribuendo anche alla fama del made in Italy. 

 

Milano. XI Triennale Design Museum, Storie. Il design italiano. (ph. MLG).


Quasi fossero emergenze architettoniche, case e non cose, tra auto parcheggiate, dalla 202 Coupé (di Giovanni Savonuzzi e Pinin Farina per Cisitalia, 1947), alla Ferrari 125S (di Gioacchino Colombo per Enzo Ferrari, 1947), dall’Isetta (di Ermenegildo Preti per Iso Rivolta, 1953), alla mitica 500 (di Dante Giacosa per Fiat, 1957), alla Panda (di Giorgetto Giugiaro per Fiat, 1980); biciclette, dalla Graziella (di Rinaldo Donzelli per Teodoro Cinelli, 1964), alla Laser (di Antonio Colombo, Paolo Erzegovesi, Gianni Gabella per Cinelli, 1980); moto e motorini, dalla Vespa (di Corradino d’Ascanio per Piaggio,1946), alla Lambretta (di Pier Luigi Torre e Giacomo Pallavicino per Innocenti, 1947), dal Ciao (di Bruno Gaddi per Piaggio, 1967), fino al Monster 900 (di Miguel Galluzzi per Ducati, 1993), che chiude il percorso, i pezzi si susseguono con un andamento cronologico; emergono, ma anche si celano, l'uno dietro all'altro, per lasciarsi scoprire, farsi riconoscere, tetragoni e al contempo lievi nella loro conclamata iconicità.

E neppure la variazione di scala costituisce un limite alla fruizione di questi oggetti, fattisi urbani per finta, come la stessa non è un ostacolo alla percezione di quelli urbani per davvero. E non è un handicap neppure la loro collocazione nello spazio: appoggiati, sospesi, appesi, ritti, sdraiati, frontali, di scorcio, di profilo, esattamente come accade a quelli che si incontrano on the road. Inoltre, che la Superleggera 699 (di Gio Ponti per Cassina, 1957) galleggi nell’aria a tre metri dal suolo sopra la 500, della quale è coetanea, non ci disturba affatto, non dopo centocinque anni dalla Ruota di bicicletta di Duchamp. Anzi, quella collocazione stigmatizza il suo essere divenuta icona del design, in dialogo, lassù, nell’aria, con un'altra poltrona leggera perché d’aria è trionfalmente rigonfia, la Blow (di De Pas, D’Urbino, Lomazzi per Zanotta, 1967), anch'essa una vera star.

 

Alcuni scorci del percorso espositivo (ph. MLG).


La dedica

 

L’undicesima edizione del Triennale Design Museum, visitabile dal 14 aprile 2018 al 20 gennaio 2019, è dedicata a Gillo Dorfles (12 aprile 1910 – 2 marzo 2018) che, tra i suoi numerosi meriti intellettuali, ha avuto anche quello di essersi fortemente adoperato per la rinascita dell’autorevole istituzione culturale milanese, trovatasi in crisi per alcuni decenni, facendole riacquistare il suo connaturato prestigio.

 

La stanza della Tecnologia; la stanza delle aste di design e il logo della mostra. (ph. MLG).


Le stanze a tema

 

Fanno da corollario all’esposizione cronologica delle icone 5 approfondimenti a tema, a ciascuno dei quali è dedicata una stanza.

Quella di Geografia, curata da Manolo De Giorgi, è abitata da grandi atlanti che evidenziano i distretti produttivi del design. 

La zona dedicata alla Comunicazione, orchestrata da Maddalena Della Mura, in un pullulare di archivi di immagini fotografiche e di riviste, mette in luce la divulgazione e la pubblicizzazione del design attraverso i media.

La sezione della Politica, curata da Vanni Pasca, presenta invece dei filmati e dei documenti che evidenziano il rapporto, ma anche il non-rapporto, tra la ricerca del design in un dato momento e la contemporanea situazione politica del nostro paese. Documenta, ad esempio, quello che è avvenuto negli anni del regime e, in particolare, nella Triennale di Giuseppe Pagano del 1936 (la seconda svoltasi nella sede Milanese progettata da Giovanni Muzio dopo il trasferimento della manifestazione da Monza e il cambio della sua cadenza da biennale a triennale, appunto). O ancora il rapporto fra il design e la nascita del MEC (1º gennaio 1958).

 

La stanza della Tecnologia ed Economiaè stata curata da Raimonda Riccini; in Tecnologia vengono illustrate le innovazioni e le sperimentazioni di materiali e le nuove tecnologie di piccole dimensioni, come i transistor e i microchip; Economiaè invece la stanza dei numeri, in cui si presentano i valori economici del mercato del design storico, documentandone i successi e gli insuccessi.

Infine la sezione del contemporaneo, curata da Chiara Alessi, propone una lettura della situazione odierna indagata attraverso il tema della distribuzione e della commercializzazione delle merci. Con la metafora di un negozio virtuale, vi è un’area dedicata al crowdfunding, un’altra all’open surce, una alla customizzazione e un’altra ancora alle aste di design, alle quali sarà possibile partecipare sia dal vivo che tramite una ‘silent auction’ online. Ovviamente, in questa sezione, ogni azione è automatizzata, non vi sono persone fisiche alla vendita, ma solo macchine (se ancora è lecito definirle con questo termine desueto). Inoltre, per l’intera durata dell’esposizione, il pubblico potrà accedere ad un apposito sito e-commerce dove acquistare oggetti di design facenti parte di una collezione di 20 pezzi appositamente progettati e realizzati per il TDM11 sia da brand storici che da nuove realtà aziendali. Questi oggetti sono acquistabili tramite un distributore, simile a quelli delle bibite ma che vende invece sedie, lampade, tazze, bicchieri, etc.

 

Tutte le sezioni che fanno da corollario al percorso espositivo cronologico delle icone del design assumono, nella realtà dell’allestimento, la dimensione di stanze, di negozi privi di finestre che, proprio per questo, oltre che per la loro minima dimensione, a me (inguaribile appassionata dell’architettura e dell’organizzazione urbana degli antichi romani) hanno ricordato quelle del Mercato di Traiano a Roma, o ancora quelle degli scavi archeologici di san Lorenzo Maggiore a Napoli. Mi riferisco al tratto di strada ipogea, lunga circa 60 metri, che corrisponde al soprastante vico Giganti, sul quale si aprono diversi loci, a loro tempo adibiti a botteghe per il commercio: in quelle e in queste del TDM11 la presenza umana è assente, ma, ovviamente, per ragioni assai dissimili.

 

1902-1998: una scelta temporale

 

Vanni Pasca, come termine a quo da cui far decollare la narrazione della vicenda del design italiano, ha optato per il 1902, assolutamente in controtendenza con le scelte effettuate da altri storici del design, quali Gregotti, ad esempio, che aveva invece proposto il 1860, scelto come data simbolica dell’ “inizio del processo di industrializzazione” mentre Enzo Frateili, da buon bauhausiano, preferiva il 1928.

La motivazione addotta per tale scelta risiede nel fatto che il 1902 è l’anno della Prima Esposizione Internazionale d’Arte Decorativa Moderna di Torino, dove hanno esposto persino Charles Rennie Mackintosh e sua moglie Margaret Macdonald e dove il giovane Ernesto Basile ha presentato una collezione di mobili (qui in mostra c’è la bellissima poltroncina chiamata, giustappunto Tipo Torino), realizzati per un esordiente Vittorio Ducrot, “semplici ed eleganti con riferimenti allo Jugendstil di designer tedeschi come Richard Riemerschmid”.

Il terminus post quem dell’indagine è invece il 1998. Vent'anni sono infatti il tempo minimo per fare in modo che la cronaca diventi storia e quella del design non fa eccezione. Inoltre il giro di boa del nuovo millennio ha di fatto prodotto anche una radicale mutazione tanto dei processi industriali, così come dei consumi, temi che vanno affrontati con logiche differenti rispetto a quelle adottate per il novecento.

 

Scorci espositivi di Storie (ph. MLG).


Progettisti e imprenditori

 

Stefano Boeri, nuovo Presidente della Fondazione La Triennale da un paio di mesi, nella sua premessa al catalogo, stampato per i tipi di Mondadori Electa, scrive che, in Italia, quella del design “è stata la storia di un gruppo di giovani imprenditori, per lo più provenienti dalle grandi aree dell’industrializzazione, che si è messo alla ricerca dei talenti creativi capaci di produrre strumenti di comfort per una borghesia urbana in rapido sviluppo e in cerca di un nuovo status (soprattutto) nella sfera domestica. Le icone del design italiano raccontano, ciascuna a suo modo, questo intreccio tra aspirazioni, progetti e imprese; tra segmenti sociali e culturali diversi che si incontrano attorno all’idea di una sedia, di un tavolo, di una lampada, di un divano. Le icone raccontano di come queste idee siano diventate motori di relazioni culturali, economiche e commerciali, generando così, anche grazie a questa coesione, dei simboli potenti e duraturi – e non solo degli oggetti d’uso”. Boeri esemplifica il suo dire sottolineando il fondamentale incontro tra Gio Ponti e Cesare Cassina, senza il quale non sarebbero mai nate la Leggera prima e la Superleggera poi (e pensare che i due avevano iniziato la loro collaborazione per realizzare arredi per i transatlantici); e ancora ci dice di quello tra Bruno Danese, con Jacqueline Vondos, e Bruno Munari, da cui è scaturito il progetto per la lampada Falkland; o ancora del prolifico e duraturo rapporto tra Livio e Pier Giacomo Castiglioni e Flos, che ha reso possibile la nascita di indiscussi capolavori; di Zanuso con Arflex e di altri designer con molte e diverse aziende

 

Per un museo del design a Milano

 

Silvana Annichiarico, nel suo testo in catalogo, intitolato Tra l’effimero e il duraturo. Per una rivisitazione iconica della storia del design italiano, si interroga sul futuro del Triennale Design Museum, di cui è direttrice. Il quesito la porta a riflettere sulla storia di questa istituzione, unica in Italia. Giunta al suo undicesimo anno d’età, ha visto crescere nel tempo il suo pubblico che, da tendente allo zero ai suoi esordi, ha oggi superato i milioni di visitatori provenienti da tutto il mondo. Dopo le esperienze degli scorsi anni, in cui nelle rassegne erano stati indagati temi specifici: “quest’anno il Triennale Design Museum ha ritenuto che il modo migliore per mettersi in discussione continuando ad interrogarsi sul proprio senso fosse quello di tornare al canone: agli oggetti e ai progetti che per unanime consenso e per condivisa percezione rappresentano l’eccellenza del nostro design.” 

Illustra poi lo spazio che la rassegna dedica al contemporaneo: “In un tempo come il nostro, dove i processi contano più degli oggetti, e dove la capacità di incidere sul presente diventa più importante della capacità di resistere al tempo, forse bisognerebbe inventare e sperimentare altri modelli narrativi. E avere il coraggio di applicare altri punti di vista, o differenti punti di fuga prospettici. […] L’obiettivo è quello di andare verso quel museo fuori dai limiti, capace di rompere il divorzio fra le varie discipline messo in atto dalla maggior parte delle istituzioni museali, di cui parla Pietro Maria Bardi in un articolo intitolato Musées hors des limites, pubblicato nel 1951 in Habitat, che andrebbe letto e quanto meno rimeditato.”

 

E di fatto Lina Bo Bardi, consorte di Pietro Maria, un Musées hors des limites lo ha realizzato per davvero, almeno dal suo punto di vista, quello architettonico, naturalmente, quando, fra il 1949 e il 1968 ha creato il MASP (Museo de Arte de Sao Paulo), ancora oggi icona delle architetture museali. All'interno di quella scatola di luce aveva infatti concepito spazi ‘fluidi', aperti a possibilità di fruizione degli oggetti esposti non stabilite a priori ma fluttuanti, libere in uno spazio in grado di cambiarne la percezione a seconda della creatività di chi ne godeva e non già in base a quella impostagli dal suo ideatore, come in genere accade.

 

Ciò che difetta a Milano non sono di certo le idee e neppure le competenze su come concepire un museo del design. A necessitarle sono, invece, gli spazi appropriati per metterle in atto. Eppure, ce ne sarebbero di spazi, anche liberi subito, e soprattutto molto prestigiosi, visto che a progettarli è stato Gio Ponti. Mi riferisco, naturalmente, ai 24.000 mq lasciati liberi nel Pirellone dalla Regione Lombardia, ormai trasferitasi nel nuovo, sinuoso edificio firmato dallo studio Pei Coob Freed & Partners di New York. Tra l’altro, quello tra Giovanni Muzio e Gio Ponti sarebbe davvero un gran bel dialogo tra due architetti milanesi sì ma di conclamata internazionalità. Quid quaeris?

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Giosetta Fioroni, la spia di se stessa

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Liberty, 1964, matita, smalti bianco e rosso su tela, cm 146 x 114, collezione Nanni Benazzo, Roma.


«SENTIMENTALE SPERIMENTALE»: così la fascetta editoriale di Tristano di Nanni Balestrini, anno di grazia 1966. In copertina, un Doppio Liberty di Giosetta Fioroni dell’anno precedente (quando Nanni le dedicava – sul secondo numero del «Catalogo» periodico della Tartaruga di Plinio De Martiis – una prosa che anticipava i tratti école du regard del romanzo combinatorio ma finirà raccolta invece, caratteristicamente, in quella che di Balestrini è la seconda raccolta poetica, Ma noi facciamone un’altra del ’68: è quella che comincia «e intanto che si muove sulla spiaggia»). Manifesta, a quell’altezza, la callida coniunctio fra il senso comune, dell’aggettivo, e il suo riferimento letterario al Sentimental Journey settecentesco dell’abate Sterne che, specie tramite le sue versioni francesi e italiane (quella celebre di Foscolo), ha nutrito di sé la tradizione (anti)narrativa del moderno. Passato mezzo secolo di mode e contro-mode, il riferimento a Sterne sparisce dal catalogo della grande antologica milanese di Giosetta Fioroni che proprio Viaggio Sentimentale ha per titolo (a cura di Flavio Arensi ed Elettra Bottazzi, Museo del Novecento, fino al 26 agosto; catalogo Electa, pp. 112, € 22), nel quale si ricorda subito, invece, la canzone omonima gorgheggiata da Doris Day negli anni Quaranta; ma in verità il dipanarsi avvolgente della mostra, a zigzag fra memorie e corréspondances, ripiegamenti angosciosi d’argento e slarghi improvvisi di respiro e colore, è “sentimentale” in senso buono: quello appunto sterniano. E non è un caso che un titolo letterario rechi, pure, l’ultimo libro d’artista di Giosetta: “La Comédie humaine” (stampato con niveo nitore dal complice di sempre Corraini, pp. 134, € 15), centoventotto piccoli disegni a china e penna stilografica che «vengono dall’osservazione di miei contemporanei», spiega Giosetta al piatto inferiore, visti come i «moltissimi personaggi che popolano i racconti, saggi, scritti e novelle» di Balzac, «con i loro speciali connotati e manie».

 

Giosetta Fioroni, da "La Comédie humaine", Corraini 2018.

 

Anche Balzac, in un’occasione, pagò il suo tributo alla maniera di Sterne: coi Cent Contes drolatiques del 1832, dal manierismo iperletterario ben distante dal realismo della Comédie (e la vena caricaturale di questa Giosetta humor noir può ricordare, certe volte, le illustrazioni fumettistiche realizzate, per un’edizione dei Contes del 1942, dal bizzarro Albert Dubout, compagnon dei surrealisti e padre putativo di Jacovitti…); ma i due si pongono a capo di tradizioni narrative contrapposte. In comune hanno senz’altro, però, l’occhio micidiale col quale scrutano quelli che Giosetta chiama «particolari, attualità caratteriali, deformazioni, “tic” e fisionomie dei personaggi». È la stessa attrazione kafkiana che Goffredo Parise aveva per le piccole malformazioni, i microimbarazzi fisici dei suoi contemporanei: dettagli rivelatori di dissimulate debolezze che era capace di ingrandire, se voleva, con spasso malizioso e crudele. Quello stesso che a Giosetta, oggi, fa collezionare «fisionomie rospacee», «gambette troppo magre» o «gambe feroci», «bambini brutti» e «tipi buffi e disarmonici», «arcigni […] assai ciccioni e deformi», «donnine-pesce» e «avvenenti nane» (mi ha sempre colpito come, nei ricordi delle sue frequentazioni parigine ’58-62, le sia rimasto ossessivamente impresso, di uno scrittore pur ammirato come Beckett, il dettaglio delle «caviglie blu»: causa il freddo ma, soprattutto, l’ostinazione di non voler mai indossare calze). 

 

Giosetta Fioroni, da "Atlante di medicina legale", 1976.


L’artista come spia, insomma. Ed è proprio questa l’attitudine di Giosetta che mette a fuoco Arensi: la sua naturale «curiosità verso le storie degli esseri viventi» che s’appuntisce, a tratti, nell’«intento voyeuristico […] quasi ambulatoriale, che Edgar Degas nutre verso le ballerine. La normalità come racconto domestico, o semplicemente la banalità prodigiosa delle abitudini di ciascuno, divengono una storia da spiare». Si pensa subito, fra le opere esposte a Milano, ai «mostri» delle Foto da un atlante di medicina legale (di feticisti esibizionisti, travestiti, suicidi per pratiche erotiche, tutti crudelmente catalogati negli anni Venti) esposti due anni prima da Alberto Boatto in Ghenos Eros Thanatos, che nel ’76 Giuliano Briganti leggeva come ritorno del rimosso di «un’angoscia fino ad allora latente», «censurata nel momento tutto mentale degli “argenti”» (e davvero a posteriori danno i brividi, quelle istantanee anni Sessanta, specie di bambini: sino all’estremo quasi intollerabile del Bambino con occhiali e del Bambino malato del ’68); e poi, certo, la Spia ottica, omaggio a Duchamp presentato nel mitico Teatro delle mostre messo in scena da De Martiis nel maggio del ’68. Era una replica minuziosa della propria stessa stanza da letto, nella quale Giosetta chiese all’attrice Giuliana Calandra di interpretare la «giornata di una donna annoiata», che i visitatori dovevano appunto osservare da uno spioncino (con ottica, dunque, lievemente deformata).

 

Giuliana Calandra fotografata all’interno della “Spia ottica”. Veduta dell’installazione alla Galleria La Tartaruga, Roma. Courtesy l’Artista Fotografia di Giuseppe Schiavinotto


Come ha raccontato di recente a Hans-Ulrich Obrist, De Martiis aveva chiesto alla stessa Giosetta di eseguire la performance, ma lei voleva invece che «una persona interpretasse se stessa come un alter ego». Il concetto anche morfologico della spia era già (osserva acutamente Obrist) nei costumi Optical realizzati per l’altrettanto mitica, fischiatissima Carmen“strutturalista” messa in scena l’anno precedente, a Bologna, da Alberto Arbasino con la consulenza di Roland Barthes: una cui grande foto è in fondo alla sala (un po’ sacrificata, a lato del corpo principale dell’esposizione) dove c’è appunto la ricostruzione della Spia ottica (purtroppo, però, senza attrice dentro). E torna adesso, mercé la grafica di Leonardo Sonnoli, nel concept-book che è il catalogo: le cui pagine sono, a loro volta, tutte attraversate da un buco traguardabile. 

 

Giosetta Fioroni, Viaggio sentimentale, Electa 2018 (progetto grafico di Leonardo Sonnoli)


È come se fossimo tutti chiamati, dunque, a spiare la vita, ormai lunga e “sentimentalmente” tumultuosa, di Giosetta. Che, a decenni di distanza, ha finito per acconsentire a quella richiesta di De Martiis: interpretando il personaggio di se stessa, performer e tela vivente, nelle fotografie di Marco Delogu delle serie Senex e L’altra ego (2002 e 2012). E che oggi ricuce, questa sua vita-opera, con cortocircuiti da fantascienza: si specchiano, in mostra, un suo Autoritratto a nove anni del ’66 (il bambino – perduto nel tempo come nella Jetée di Chris Marker –, certo, è lei stessa) e la Giosetta a 12 mesi scolpita in bronzo dal padre Mario (tutt’altro che disprezzabile allievo di Arturo Martini); e poi il grande autoritratto doppio del 2002, una rara scultura in resina a grandezza naturale in cui la Giosetta settantenne tiene per mano la Giosetta a nove anni, in tenuta da scolaretta.

 

Giosetta con Giosetta a nove anni, 2002, resina sintetica, 209 x 210 x 133 cm, Archivio Parise-Fioroni, © Giuseppe Schiavinotto.


Come nel Doppio Liberty Io è sempre un Altro, certo. Ma ha pure la saggezza, a distanza di tanto tempo, di sapersi ri-conoscere. In momenti come questi – attraversati i silenzi e le angosce, le solitudini e le perdite, superate le fate e i mostri – non si può che ripetere, col Leopardi dello Zibaldone: «dalla lettura di un pezzo di vera, contemporanea poesia […] si può […] dir quello che di un sorriso diceva lo Sterne: che essa aggiunge un filo alla tela brevissima della nostra vita. Essa ci rinfresca, per così dire; e ci accresce la vitalità. Ma rarissimi sono oggi i pezzi di questa sorta».

 

Una versione più breve di questo articolo è uscita il 22 aprile su «Alias».

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Interviste a Sohei Nishino e Cristóbal Olivares

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La nuova edizione di Fotografia Europea si pone sotto l’egida della  “rivoluzione dello sguardo e della visione” una delle conseguenze che proprio la nascita della fotografia ha determinato. Rivoluzioni. Ribellioni, cambiamenti, utopie è il tema portante della tredicesima edizione, curata dal Comitato Scientifico della Fondazione Palazzo Magnani.

Tra i finalisti del Photography Grant on Industry and Work alla Fondazione MAST di Bologna si sono segnalati Sohei Nishino, che ha vinto il primo premio ex-equo con Sara Cwynar, e Cristóbal Olivares, che Laura Gasparini ha intervistato. La mostra del MAST, già recensita per noi da Silvia Mazzucchelli, è inclusa nell’edizione 2018 di Fotografia Europea sulla Via Emilia.

 

Sohei Nishino

 

Sohei Nishino, Donna che legge il giornale, Boretto, Emilia Romagna.


LG: Il processo creativo che hai utilizzato è molto complesso e laborioso. Hai utilizzato modelli visivi ispirati alla mappa, ma allo stesso tempo quelli di altri sguardi meno precisi della visione dello zenit come, per esempio, la vista a volo d'uccello. Puoi spiegare perché?

SN: Una delle principali differenze dell'artista è vedere come percepisce il mondo e, nel caso del fotografo, vedere come lo cattura all'interno di ogni singola immagine, che io intendo anche come corpo. Il mio approccio, per completare l'immagine, consiste in vari processi che sono: stare in una città, registrare il mio viaggio e le mie esperienze tramite video e ricostruirne la percezione tramite molti frammenti in un'unica immagine. È necessario dedicare tempo per ogni processo: sviluppo le pellicole, taglio con le forbici i provini e le stampe, sistemo i pezzi in una unica composizione, ecc... vivo il processo di riparazione e ricostruzione della realtà dalla memoria. Uno dei motivi per cui ho mescolato i diversi punti di vista e quindi le prospettive all'interno del mio lavoro è scaturito dalla mia infanzia quando, come tutti noi, vedevo dal basso verso l’alto e ho poi percepito una incompatibilità con le prospettive di quando si guarda la stessa cosa da sopra e di quando si cammina per strada. Naturalmente, mentre mi allontano, tutto l'oggetto diventa più piccolo.

Non importa quanto grande fosse il mio bambino. Quindi, per me, la fotografia è qualcosa che funge da misura tra me e questo mondo.

 

LG: Come nasce la composizione? Hai un'immagine mentale che segui attraverso una sinopia o la composizione prende forma mentre lavori?

SN: Normalmente, mentre visito i luoghi che devo rappresentare mi costruisco gradualmente un'idea per la composizione, ma gran parte di essa diventa chiara una volta tornato nel mio studio e dopo aver esaminato tutte le immagini che ho scattato, diverse centinaia di migliaia. La composizione cambia sempre, indipendentemente dal tipo di idea che avevo prima, dopo aver visto tutte queste immagini.

 

 

Sohei Nishino, Po.


LG: Allo stesso tempo, il risultato della tua rappresentazione personale restituisce un micro e un macrocosmo di una vasta area geografica che va dal Monviso al delta del Po dettando modi di leggere le tue opere che richiedono tempo, un'attenzione infinita.

SN: L’indagine sul fiume Po che ho presentato al MAST Foundation è scaturita dalla mia ambizione di vedere l'acqua come elemento fondamentale della nostra vita quotidiana. Ho riflettuto sulla connessione tra l’acqua e la nostra vita concentrandomi sull’intero flusso del fiume: dalla sorgente al mare mostrando tutto quello che vive sulle due sponde. Per esprimere in un’unica immagine il maggiore fiume italiano, lungo circa 650 km, combino le prospettive della vista a volo d'uccello e le istantanee di luoghi, persone e oggetti legati al Po mentre anch'io mi muovo lungo il fiume.

Quindi, i miei movimenti fisici sono anche collegati ai micro e macro modi di vedere.

 

Sohei Nishino, London coll.


LG: Durante il tuo lungo viaggio ti sei fermato a Luzzara, lungo le rive del Po. È un omaggio a Paul Strand e a Cesare Zavattini? I due autori, infatti, hanno dato importanza alla semplicità del paesaggio che Strand chiamava "il contrario del pittoresco". Cosa ti ha colpito di questa realtà?

SN: Durante questo viaggio ho visitato Luzzara diverse volte. Mi era semplicemente piaciuto come nelle fotografie di Paul Strand e lo scenario circostante sembrava non essere cambiato così tanto.

Ero consapevole di questo lavoro e se fotografavo il fiume Po, pensavo di aver bisogno di visitare questo posto. Riguardo a Paul Strand, ricordo che quando stavo studiando il cubismo, guardavo le sue fotografie come uno studio per lo stile cubista. Ora, guardando i paesaggi e le istantanee delle sue fotografie rettilinee, capisco cosa intendesse per "l'opposto del pittoresco".

In realtà, per il mio lavoro, ho cercato di includere scatti fotografici di paesaggi e persone in una singola immagine come non ho mai fatto nei miei lavori precedenti, anche se ho incluso le istantanee in una grande opera di collage.

Questo perché volevo provare a osservare un soggetto da prospettive diverse, anche sul fiume Po. Per questo, presento il flusso e la vista macro del fiume e la micro vista del fiume che cattura i paesaggi a esso adiacenti, le persone e gli oggetti associati alla vita del fiume. Mi auguro e provo sempre a rompere gli stereotipi e le prospettive dominanti del nostro atto di vedere che, oserei dire, ho derivato anche dall'influenza del pensiero, dell’osservazione e della poetica di Strand.

 

Sohei Nishino, Lanugine dei pioppi, Corso Emilia Romagna, 593x443.


Cristóbal Olivares

 

LG: Nel tuo progetto The desert (2017) hai affrontato uno dei grandi temi della società contemporanea, almeno per l'area del Mediterraneo, le migrazioni illegali. Potresti parlarcene?

CO: Il progetto riguarda la migrazione e il traffico umano in Cile. Hai citato l'importanza dell'argomento nell'area mediterranea, che è anche riportato nei media internazionali. Il territorio e il soggetto che ho deciso di documentare io è solo sui media cileni, non sono notizie per il resto del mondo: ecco perché ho deciso di concentrarmi maggiormente sui problemi nella mia regione, non siamo rappresentati dai media mainstream e questo la dice lunga...

Il progetto riguarda persone sopravvissute alla tratta di esseri umani nella zona tripartita del Cile-Perù. Si stima che fino ad oggi oltre 30.000 dominicani abbiano lasciato il proprio paese per cercare migliori opportunità in Cile. Più di 15.000 sono entrati illegalmente. Ai domenicani è richiesto un visto speciale per entrare come turisti, il che li ha resi un bersaglio facile per i contrabbandieri. Sono ingannati, derubati e psicologicamente e sessualmente abusati. La maggior parte viene intercettata nei propri paesi dove ricevono offerte di viaggio che includono visti contraffatti, più di 10 giorni di itinerari su aerei, autobus e lunghe passeggiate attraverso il deserto ai confini tra Perù, Bolivia e Cile dove le più grandi minacce sono campi minati, altezze di oltre 3.800 metri sul livello del mare e temperature estreme durante il giorno e la notte. Il lavoro si concentra sull'esperienza di queste persone e sul loro rapporto con questo paesaggio, che è la pietra angolare di un'intera industria della migrazione e della burocrazia. Molti di loro non volevano mostrare i loro volti, ma volevano comunque raccontare la loro esperienza. Quasi tutti i migranti di questo viaggio posseggono uno smartphone, quindi in aggiunta alle fotografie ho proposto loro di raccontare la loro storia da ciò che conservano in questi dispositivi.

 

Cristóbal Olivares, Desert.


LG: Non solo hai dato un volto a questi migranti, ma hai anche raccolto la loro voce, creando tre livelli di lettura: i pericoli di luoghi inospitali che devono attraversare per raggiungere l'obiettivo, come il deserto, i ritratti di schiene per nascondere l'identità che in quanto immigrati illegali per loro è importante celare, e la loro voce narrante che racconta frammenti della loro esperienza. In tal modo hai creato un approccio poetico piuttosto che giornalistico. È così?

CO: Sì, soprattutto se si pensa a ciò che è mostrato a lavoro terminato, ma durante l'intero processo ho cercato di lavorare nel modo più giornalistico possibile, dalla logistica per ottenere l'accesso / informazioni alla veridicità dei fatti e così via…

 

LG: Il linguaggio dei documenti che usi è contaminato da altri linguaggi espressivi. Qual è il processo creativo?

CO: Cerco sempre di guardare ad altre narrazioni visive come documenti, archivi, album di famiglia, film fatti in casa, ecc. Non importa se confluiscono nel lavoro finale ma mi aiutano a capire. Per questo lavoro avere questo piccolo contributo personale dei video dove il migrante raccontava la propria storia, raccogliere le loro stesse parole e usare le loro immagini è stato per me importante. So che non sto facendo nulla di nuovo, ma credo profondamente in una sorta di collaborazione con i soggetti. Immagino che l'atto di mostrare interesse reale per, ad esempio, i loro album di famiglia, evidenzi che le loro storie non sono importanti solo per loro stessi.

 

LG: Il ruolo del fotografo, nell'era dei social network, assume un significato particolare. Qual è la tua idea?

CO: Penso che i social media siano uno strumento fantastico con molte possibilità e penso anche che l'idea di "ognuno è un fotografo ora"è molto interessante. Per questo credo che il "fotografo professionista" abbia ora la possibilità di focalizzarsi sempre di più sul proprio punto di vista e provare nuove narrazioni e piattaforme perché l'idea del fotografo che gira il mondo fotografando luoghi lontani e nascosti per mostrarli più tardi al pubblico non c'è più, quindi ora è più importante la tua posizione e la tua visione sul mondo in cui viviamo, la tua esperienza personale su qualcosa o qualcuno. Ora con internet e social media come strumenti di auto-pubblicazione l'unica cosa che dobbiamo fare è essere onesti con noi stessi e essere molto consapevoli di ciò che mettiamo lì. Questo è una possibilità e una responsabilità allo stesso tempo. Mi piace molto esplorare sia la stampa periodica che la piattaforma digitale, sono il co-fondatore di Buen Lugar Ediciones, una casa editrice indipendente che si concentra su fanzine e libri di fotografia e allo stesso tempo sta lavorando a un grande progetto di sito web collaborativo. Per me il divertimento è mescolare le cose, farle accadere insieme e pubblicare le storie per il pubblico.

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Sex & Revolution! Corpi ribelli

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La nuova edizione di Fotografia Europea si pone sotto l’egida della  “rivoluzione dello sguardo e della visione” una delle conseguenze che proprio la nascita della fotografia ha determinato. Rivoluzioni. Ribellioni, cambiamenti, utopie è il tema portante della tredicesima edizione, curata dal Comitato Scientifico della Fondazione Palazzo Magnani.

 

Ho un ricordo, impreciso nel tempo (l’estate del 1979 o del 1980…), ma vivissimo nella sostanza. È la stagione nella quale gli italiani diventarono nudisti: e mi chiedo quanti condividano con me quel ricordo, perché la cosa – in mezzo ai tanti eventi di quegli anni feroci – sembrò “solo” un curioso fatto di costume. Quello che successe è che di colpo, senza preavviso, le spiagge (tutte le spiagge, e soprattutto quelle tradizionali) videro i litorali calpestati da masse di gente senza niente addosso. Non si trattava di giovani o di gruppi che si rifacevano in qualche modo alle nudità “di sinistra” emerse nel decennio precedente. Erano intere famiglie che si presentavano senza costume da bagno, o al massimo in topless. Sopra corpi di ogni età riconoscevi tipi sociali imprevedibili: casalinghe, salumieri, piccolo borghesi, manovali, commesse… La cosa fu così improvvisa e così di massa che la repressione fu semplicemente impossibile. Non c’erano abbastanza forze dell’ordine per arginare il fenomeno, che si svolgeva senza scandalo, con quella normalità un po’ ipocrita del “Beh? Che c’è? Non si può?” che si coglie anche in certe imprevedibili conversioni ideologiche dei politici italiani.

 

Aborto.


Mi ricordo che osservavo tutto questo in compagnia di un amico americano con cui passai l’estate, e forse me lo ricordo proprio per quello, perché ne discutemmo dal suo punto di vista (per lui una cosa del genere era incredibile); e perché vedemmo lo stesso comportamento dappertutto. Mi ricordo chiaramente anche un’altra cosa: in quell’esibizione di nudismo integrale c’era qualcosa che non andava. Non per l’aspetto morale, ci mancherebbe: ma proprio perché i corpi venivano all’improvviso mostrati in una banalissima quotidianità balneare – fuori da un contesto, da una motivazione culturale e/o politica, da una rivendicazione. E anche perché, almeno al mio occhio, quell’esposizione aveva poco di naturale, ma sembrava molto “consapevole”, costruita. Forse perché le signore borghesi erano sì nude, ma non rinunciavano ad abbellirsi con catenelle intorno alla vita, cavigliere d’argento, collane. E anche gli uomini portavano orologi o altri orpelli apparentemente fuori luogo.

 


Eica.


Oggi capisco che quell’estate segnava il passaggio – inconsapevole a chi lo osservava, ma anche a chi lo viveva – dalla stagione della rivoluzione sessuale a quella che Pasolini chiamava la “norma”. Il sesso, represso nel corso della prima metà del Novecento, era stato usato come forma di rivolta e di liberazione tra la fine degli anni ’50 e tutti i ’70, legandosi a una multiforme ribellione mondiale. Finita la parabola rivoluzionaria (che non era stata inutile, anzi; ma certo si era fermata ben al di qua della soglia dell’utopia), di quei comportamenti era rimasto solo l’involucro, la ripetizione del gesto.
È qualcosa le cui conseguenze sono oggi evidenti in maniera icastica. Se osservate qualsiasi immagine di gente nuda degli anni settanta, al di là di quel che rappresenta, risulta chiaro che si tratta di corpi di persone che si sono tolti i vestiti senza pensare tanto a cosa c’era sotto. È un’idea di nudità innocente, anche maldestra, contenta e convinta che il corpo non avesse bisogno d’altro che di se stesso; di essere visto, toccato, “condiviso”.

 


Gemelle Kessler.


Oggi sesso e nudità sono dovunque, ma non assomigliano a niente di quell’epoca. Oggi i corpi nudi sono un’altra forma di abito da indossare. I peli naturali dell’uomo e della donna sono stati radicalmente aboliti o consapevolmente elaborati in forme estetiche. L’odore spontaneo e cangiante del corpo è neutralizzato da un’infinità di profumi, deodoranti, antitraspiranti che assicurano “sicurezza a ogni ora del giorno”. Tatuaggi e piercing usano la pelle come una superficie per costruire l’immagine di un “altro da sé” che nasconda quello che c’è sotto. In generale, essere nudi è percepito come un’altra forma di essere presentabili alla società, secondo uno spettro che va dall’accettabilità standardizzata dei corpi “in forma” all’irraggiungibilità un po’ ridicola a cui si ispirano le posture di modelli maschi e femmine nella moda e della pubblicità. Niente di un più lontano dalle nudità “nude” della nostra giovinezza.
Quella stagione di fine decennio ambigua durò – mancò a dirlo – solo un’estate. Già l’anno successivo sulle spiagge non solo i vigili avrebbero vigilato, ma anche i diretti interessati avrebbero trattato i loro corpi con ben altra attenzione. Stavano arrivando gli anni Ottanta, definitivamente.

 

Rimmer.


***

 

Il ricordo, insieme privato e politico (ovvio…), mi è tornato alla mente visitando Sex & Revolution!, una delle mostre organizzate a Reggio Emilia nell’ambito di “Fotografia europea 018”, dedicata a Rivoluzioni – Ribellioni Cambiamenti Utopie. Nel cinquantenario del ’68, la tentazione era evidentemente irresistibile. In realtà, definire “mostra” quella curata da Pier Giorgio Carizzoni con la direzione scientifica di Pietro Adamo è improprio. Mi sembra che nell’esposizione a Palazzo Magnani di libri, copertine di dischi, pagine di riviste, fotografie, sequenze e manifesti di film non ci sia un intento classicamente scientifico (delegato semmai ai contributi del catalogo), quanto una specie di invito a visitare la collezione di memorabilia di un erotomane formatosi in quegli anni (un bel po’ delle cose esposte, peraltro, le possiedo anch’io e fanno parte del “bagaglio culturale” di chi aveva vent’anni o meno in quel periodo). Non a caso, uscendo dalla visita, il pubblico incontra una scritta programmatica: “Se non c’eravate, ora ci siete”.

 

Living theatre.


Ci siamo davvero? Difficile dirlo. Per un sessantenne gli oggetti esposti funzionano in effetti come tante madeleines proustiane (o come sorprese: ignoravo che perfino le gemelle Kessler, icone della tv perbenista, si fossero fatte fotografare senza veli nel 1975). Ma per un giovane contemporaneo è difficile immergersi in quell’atmosfera tagliando fuori, per forza di cose, proprio gli aspetti più fisici e corporei della “rivoluzione” di allora: gli odori, il tatto, il gusto. Mentre vista e udito, tramite film e dischi, hanno ipostatizzato un’epoca in maniera fin troppo epica e leggendaria (e, ahimè, nostalgica). Sarebbe un po’ come aver provato a profetizzare Facebook a un freak o a un hippy nel 1976. A essere onesti, l’effetto è proprio il contrario: e cioè la misura amara di quanto quell’utopia sia distante dalla realtà di oggi, in un ambiguo gioco tra liberazione e omologazione. È innegabile che quella stagione ha stravolto la società occidentale conservatrice, spingendola verso un progresso oggettivo: io, nato nel 1956, sono cresciuto in un paese che, fino a quando ho avuto vent’anni, riconosceva il delitto d’onore ma non il divorzio.

 

Man.


Ma è anche vero che una rivoluzione esiste solo mentre si compie; una volta avvenuta, diventa altro.
Il sesso, oggi, è certamente libero, ma non liberato. È libero nel senso del libero mercato. È un’attività non più regolata dalla morale pubblica, ma nemmeno dal principio del piacere che stava alla base dell’emancipazione sessuale, la radice che teneva insieme i Love-in degli hippies con le famiglie middle class che leggevano Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso… Il sesso oggi è tendenzialmente una forma di scambio normato da valori monetari; o, se gratuito tra liberi contraenti, dal galateo della performance. Non ci potrebbe essere maggiore differenza tra un’orgia giovanile “dionisiaca” anni ’70 e quello che succede oggi in un club per scambisti, dove è impossibile trovare il sentimento descritto da Mircea Eliade: “L’orgia scatena la confusione, la totalità prima della creazione della notte cosmica… gli hippies hanno riscoperto il profondo senso religioso della vita” (citato da Matteo Guarnaccia nel catalogo). Il “perverso polimorfo” di cui parlava Norman O. Brown in La vita contro la morte ha un grottesco corrispettivo nella curiosa nomenclatura con cui sono organizzati tassonomicamente i siti porno o nell’incredibile gergo che si incontra nelle chat degli utenti di escort (che pure non è privo di una sua lunare visionarietà).

 

Peace and love.


Il sesso non ha cambiato il capitalismo. Il capitalismo ha certamente cambiato il sesso. 

Forse bisogna solo prendere atto di una cosa: averlo liberato incrociandolo con l’utopia (sex & revolution, appunto…) ha caricato il sesso di aspettative che probabilmente non era e non è in grado di soddisfare. Depurato dalle paure legate al controllo religioso e insieme dalle speranze palingenetiche, il sesso finisce per essere una semplice attività umana, né buona né cattiva. La rivoluzione non consisteva nel restare nudi, ma nel gesto di togliersi i vestiti. 

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Fotografia Europea 2018
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Arturo Hernández Alcázar per Underneath the arches

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In una intricata rete di cunicoli sotterranei si posa la storia Napoli. Dalle tracce di epoca ellenistica ai rifugi antiaereo, quelle strade nascoste custodiscono gli strati del tempo. Non monumenti, ma tracce di vita, usi e abitudini. In pratica tutto ciò che si oppone al non luogo del white cube. Il cubo bianco, contenitore e sede espositiva privilegiata per decenni per la sua totale assenza di caratteristiche che possano distogliere l’attenzione dall’opera. Per alcuni artisti non esporre nel non-luogo del white cube può essere problematico, per altri una sfida. A maggior ragione quando si tratta di confrontarsi con qualcosa che porta dietro di sé una storia. Ognuno la risolve diversamente, fino a volte a inglobare lo spazio all’interno del proprio lavoro.

 

È il caso dell’opera di Arturo Hernández Alcázar visitabile fino al 13 maggio nell’ultimo tra i ritrovati del sottosuolo partenopeo. La sede è un acquedotto di epoca romana, opera ingegneristica del I secolo, che con questa mostra si apre per la prima volta al pubblico e inaugura un programma di arte contemporanea e residenze per artisti. Scoperto per caso nel 2011, riconosciuto quattro anni dopo nel 2015, questo nuovo sito non è solo uno degli anelli che si aggiungono alla catena di siti sotterranei, ma diventa uno dei passi che le associazioni locali conducono per allargare i percorsi turistici della città, con l’intenzione di riscattarne i quartieri. In questa ottica, quelle che fino a pochi anni fa erano soltanto le fondamenta di un Palazzo storico, Palazzo Maresca-Peschici in area Sanità, oggi sono un sito d’incontro tra storia e attualità. Il progetto artistico è di Alessandra Troncone e Chiara Pirozzi. Underneath the arches, “Sotto gli archi”, il titolo. Blind Horizon, la prima installazione, di Arturo Hernández Alcázar, appunto. Un altro primato di questa iniziativa riguarda l’artista che con questa mostra è al suo esordio personale in Italia.

 

Arturo Hernández Alcázar, backstage, ph Antonio Picascia.


Il progetto nel suo complesso è il risultato della collaborazione tra istituzioni e privati, tra cui la fondazione Morra che accoglie le residenze, "Vergini Sanità", "Celanapoli" e "Riformisti nel Mezzogiorno" che in maniera congiunta hanno capito l’importanza del ritrovamento e condotto le ricerche fino alla sua apertura al pubblico.

Come scrivono le curatrici, Arturo Hernández Alcázar, quarantenne di Città del Messico, lavora di norma con le aree periferiche delle città in cui si trova di volta in volta. Si muove tra depositi e strade, parla con le persone, comprende gli equilibri e inizia a giocarci. 

 

Megafoni e materiali di risulta trovati in situ sono il nucleo di questo intervento. L’installazione è di natura sonora. Il suono si muove al di sotto della superficie rifrangendosi all’interno delle mura cieche, il cui fine è sottolineato da un intervento ostruttivo. Il suono si propaga in uno spazio chiuso intangibile e presente definendo lo spazio e il suo perimetro. Quella di Arturo Hernández Alcázar vuole essere nelle intenzioni dell’artista una riflessione sui meccanismi di manipolazione e controllo esercitati dal potere. Strategie rodate che richiamano decenni di letteratura politica e bio-politica.

 

Arturo Hernández Alcázar, backstage, dettaglio, no credits.


Uno spazio che resta quasi interamente intatto, che non subisce sostanziali alterazioni. Se non una: la presenza degli spettatori. Un secondo elemento con cui gioca Arturo Hernández Alcázar, oltre al suono, immateriale ma presente, sembra essere la fiducia e il suo uso. Scendere al di sotto del livello stradale implica un atto di fiducia. Il percorso di chi scende è guidato dalle tracce audio disseminate attraverso megafoni. Diffusori sonori normalmente utilizzati in luoghi molto ampi e tendenzialmente all’aperto diventano qui la guida per un vicolo cieco. L’orizzonte è infatti chiuso da un intervento realizzato apposta con oggetti del luogo, oggetti lasciati dalle molte identità di questo posto –– una tra le tante, il luogo di rimessa per un ferramenta che vi depositava materiali di risulta. In questo caso è la forza erosiva dell’acqua che si porta dietro detriti e deposita fino a chiudere le uscite da cui il titolo dell’intervento, Blind Horizon. Arturo Hernandez sembra allora riflettere sulle analogie tra la possibilità di controllare l’accesso a un luogo, le prospettive dei suoi orizzonti e il controllo sociale su larga scala. La contemporanea presenza e assenza del potere. La sua capacità di adattarsi alle circostanze pur guidandoci sempre verso lo stesso vicolo cieco. 

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Presso il sito archeologico dell'Acquedotto Augusteo del Serino, Napoli
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Il Sessantotto di Cannes

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Qualche mese fa iniziò a girare voce che persino Emmanuel Macron avesse deciso di celebrare il ’68 francese all’Eliseo. Il primo Presidente nato dopo il “maggio francese” si presentava alla nazione come colui che sarebbe potuto ritornare su questa ricorrenza per la prima volta senza dogmi o pregiudizi, e “riflettere su quel momento storico per trarne insegnamenti non partigiani e per interessarsi agli impatti che il ‘68 aveva avuto sulla mentalità attuale”, come disse il suo collega Christophe Castaner, uno di quegli ex del Partito Socialista che sono spavaldamente saltati sul carro della modernizzazione neo-liberista in salsa francese di En marche!

 

Ma qual è il Sessantotto di cui parla Macron? Qual è il Sessantotto che oggi in Francia viene celebrato dalle più svariate istituzioni pubbliche e culturali? Siamo davvero giunti a una tale consapevolezza post-ideologica da poterci finalmente approcciare a questa ricorrenza deprivandola di ogni divisività politica, come invece storicamente è sempre avvenuto in Francia o in Italia? Questa domanda se l’è posta Alain Badiou in Ribellarsi è giusto! L’attualità del Maggio 68, un efficace piccolo pamphlet uscito settimana scorsa in Francia e già prontamente tradotto da Alberto Destasio per Orthotes, una delle migliori case editrici di filosofia attualmente attive in Italia. Secondo Badiou ci sono buoni motivi per essere sospettosi di queste celebrazioni. Alcuni infatti celebrano il 68 perché ormai lo considerano morto e sepolto: la situazione è troppo cambiata – dicono – e così “non ci resta che ricordare la nostra bella giovinezza in completa tranquillità” (p. 15). Per altri invece il 68 va celebrato per via della sua anima libertaria – la trasformazione dei costumi, l’individualismo, il gusto del godimento – che non sarebbe altro che l’annuncio di quello che poi troverà compimento nel capitalismo postmoderno e neoliberale degli anni Ottanta. 

 

 

Nonostante le mistificazioni – di cui per altro in Italia non mancano gli esempi, a partire dalle campagne antisessantottine di quotidiani come Il foglio– è pur vero che di 68 ce ne sono stati tanti: c’è stato quello degli studenti che hanno posto il problema dell’accesso di massa ai saperi; quello dei lavoratori che si articolò attorno alle grandi fabbriche e alle grandi imprese nazionalizzate (automobilistiche, metallurgiche, chimiche, petrolifere, ferroviarie…) e che darà vita il 13 maggio al più grande sciopero generale nella Francia del dopoguerra; e quello esistenziale debordiano-deleuziano per cui “le questioni dominanti erano la trasformazione dei costumi, i nuovi rapporti amorosi, la libertà individuale” (p. 43). Poi vi fu anche – quello che Badiou chiama un “quarto maggio” – chi questi tre maggio tentò di attraversarli e di “diagonalizzarli” e di pensare al loro incontro come all’opportunità di un rinnovamento profondo delle forme organizzative della sinistra politica e sindacale. 

 

 

Quell’anno il 68 attraversò anche il Festival del Cinema di Cannes. Per fortunata (o sfortunata coincidenza) l’inaugurazione fu infatti proprio il 10 maggio, la notte in cui gli studenti occuparono il Quartiere Latino, eressero barricate e si scontrarono con la polizia fino a mattina. Anche se l’atmosfera a Parigi era quella di un’insurrezione, la Croisette sembrava lontana e dormiente. Eppure a partire dal 13 maggio, quando la CGT e i sindacati convocarono lo sciopero generale, il festival iniziò ad essere attraversato da orde di studenti in rivolta che solidarizzarono con il movimento parigino e interruppero le proiezioni più volte fino a che il 15 maggio un gruppo di cineasti guidati da François Truffaut, Jean-Luc Godard, Claude Lelouch, Claude Berri, Roman Polanski, Louis Malle e Jean-Pierre Leaud si misero alla testa delle contestazione. La Sala Grande del Palais venne occupata da un’assemblea permanente e venne dichiarato lo “stato di crisi” del festival. I registi non volevano solo solidarizzare con gli studenti ma anche dare una forma pienamente cinematografica alla protesta: venne contestata la decisione dell’allora Ministro della Cultura gollista André Malraux di rimuovere Henri Langlois dalla direzione della Cinémathèque française. Quando la proiezione di Frappé alla menta di Carlos Saura venne interrotta per decisione della stessa interprete principale Geraldine Chaplin, quando Louis Malle, Monica Vitti e Roman Polanski si dimisero dalla giuria, e quando persino Alain Resnais e Milos Forman ritirarono i loro film dal concorso, il Delegato Generale Robert Favre Le Bret si trovò costretto a interrompere il festival e a non assegnare per quell’anno la Palma d’Oro. 

 

 

Da quella contestazione nacque la Société des Réalisateurs de Films (SRF), che dall’anno successivo iniziò a organizzare la Quinzaine des Réalisateurs, selezione parallela a quella ufficiale e punto di riferimento per un cinema “meno allineato” per tutti gli anni a seguire. Oggi persino Gilles Jacob, presidente onorario del Festival, può dire che quella contestazione “servì a rinnovare il festival”: nel 1972 il delegato generale Maurice Bessy stabilì che fosse il Festival a scegliere i film del concorso, fino ad allora indicati dai rispettivi Paesi, dando un impulso decisivo al successo di Cannes negli anni a venire. E tuttavia fa una certa impressione adesso pensare a quel 68 cannois che fu in grado di rovesciare il festival del cinema più importante del mondo a partire dalle barricate del Quartiere Latino. In molti oggi ritengono che il festival abbia bisogno di una ribaltamento altrettanto radicale visto l’atmosfera sempre più conservatrice che ormai incombe sulla sua selezione, sul suo regolamento farraginoso per i giornalisti (quest’anno letteralmente “umiliati” dalla cancellazione di fatto delle anteprime per la stampa), sull’idea di cinema che in generale emerge dalla Croisette. 

 

 

È notizia di queste settimane infatti il conflitto che il Festival ha aperto con la più grande piattaforma di streaming del mondo, cioè Netflix. Il problema risale ormai a qualche tempo fa e ne scrivemmo già l’anno scorso, ma negli ultimi dodici mesi la situazione non ha fatto altro che peggiorare. La FNCF, la Federazione nazionale del cinema francese, cioè l’associazione che riunisce gli esercenti cinematografici nazionali (che è membro dell’Association française du Festival international du film che organizza il festival) ha infatti imposto che tutti i film che non hanno una distribuzione nelle sale francesi vengano esclusi dal Concorso, cioè dalla vetrina più importante del Festival. È un atto di miopia non tanto nei confronti di una corporation aggressiva e accentratrice come Netflix, quanto verso tutti coloro che fanno ormai esperienza della visione di un film – nel bene o nel male, il processo è tutt’altro che privo di ombre – al fuori di una sala cinematografica (le quali soprattutto in provincia hanno o definitivamente chiuso o sono state acquistate dai grandi monopoli della distribuzione cinematografica, come in Italia è avvenuto con UCI). 

 

Cannes invece, che sembra sempre più “avvinghiato” alla propria idea di cinema d’autore europeo dalla forte caratterizzazione italo-francese, pensa di poter prescindere da questi cambiamenti, e lo dimostra anche con la selezione di quest’anno – piena di grandi veterani del cinema mondiale con alle spalle carriere pluridecennali – che si apre oggi alla Sala Lumière con Todos lo saben, il primo film “spagnolo” del regista iraniano Asghar Farhadi. Anche oggi, a distanza di cinquant’anni esatti da quel turbolento maggio sulla Croisette, ci sarebbe bisogno un atto di rinnovamento del festival e della propria idea di cinema altrettanto radicale, che però stenta a farsi vedere. E anche se il cinema rimanesse questa volta dormiente c’è da essere speranzosi per quello che sta accadendo nel resto della Francia. I tre “maggio” – studentesco, operaio e culturale – di cui parla Badiou nel suo libro sembrano trovare una nuova vita nelle strade francesi del 2018: a partire dagli studenti universitari e liceali che si stanno opponendo alla riforma Parcoursup, che prevede il numero chiuso nell’accesso universitario sulla base del CV, del liceo di origine e delle attività extra-curriculari svolte; per continuare con gli operai della SNCF, la compagnia ferroviaria nazionale francese, che sono da mesi in sciopero per un progetto di riforma che introdurrebbe la libera concorrenza (e una privatizzazione di fatto del sistema ferroviario); fino al movimento femminista che negli ultimi mesi sta dando un forte impulso di trasformazione a una politica di cambiamento radicale dei costumi e dei rapporti amorosi. Forse l’unico vero modo di “essere fedeli” al Maggio 68, come direbbe Badiou, è di fare come loro. Manca solo qualcuno che, oggi come allora, porti questo vento di rinnovamento anche sulla Croisette. 

 

(Le foto sono prese da ACTUA I di Philippe Garrel. Girato durante gli eventi del maggio parigino, è un montaggio di immagini di varia natura girate in 16mm e 35mm da diversi anonimi protagonisti degli eventi). 

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Festival del cinema
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Lettera da Londra

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London calling cantavano, nel cuore del punk, i Clash. Londra perde rapidamente il suo statuto di capitale dell’impero economico d’occidente, mentre le grandi finanziarie, temendo il boomerang di Brexit, stanno cominciando a far fagotto, e a scegliere altre ambientazioni per la loro recita. I barboni dormono per strada su materassi improvvisati vicino alle stazioni della metro.

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Eco e Narciso

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Tanto, tanto tempo fa, nell'antica Grecia, il dio dei fiumi, Cefiso, rapì la ninfa Liriope e dalla loro unione nacque Narciso. L'astrologo Tiresia predisse che il bellissimo bambino avrebbe vissuto fino a tarda età, mantenendo intatta la sua straordinaria bellezza, solo se non si fosse mai guardato in volto. E così fu. Narciso restò per sempre giovane e bello, ma superbo e solitario. Ignorava tutte le ninfe e i giovinetti che si innamoravano di lui, anche la bella Eco, la più spensierata delle naiadi, che chiamandolo e chiamandolo, senza ottenere risposta, venne consumata dall’amore per lui, divenendo sola voce (da allora essa risponde ai viandanti ripetendo solo l’ultima sillaba delle loro parole). Narciso rimase indifferente al dramma; gli dei, per punire la sua vanità, fecero in modo che il giovane vedesse la propria immagine riflessa nell’acqua. Il ragazzo si innamorò di se stesso e rimase a guardarsi e a guardarsi finché, sporgendosi per toccare la propria immagine, perse l'equilibrio e cadde nell’acqua. Il suo corpo fu allora trasformato in un fiore dal profumo intenso. 

 

Ph Alberto Novelli, preview.


Il mito, narrato da Ovidio nelle sue Metamorfosi, rappresenta due modi di intendere l’identità: quella assoluta di Narciso, che non conosce l’alterità, e quella di Eco che, all’opposto, esiste solo in funzione dell’altro. Non solo: nel 1436, il grande umanista Leon Battista Alberti, vissuto all’epoca della Firenze dei Medici, nel suo De Pictura definisce Narciso “il vero scopritore della pittura … che altra cosa è il dipingere” – si domanda – “che abbracciare e pigliare con l’arte quella superficie del fonte?”. Per Alberti, il bellissimo giovane segna la propria fine come essere vivente nel momento in cui, guardando il proprio riflesso, riconosce se stesso in quanto immagine. E così sembra rappresentarlo Caravaggio più di un secolo dopo: un'immagine che guarda se stessa, un’allegoria della vista, della conoscenza di sé, del rapporto fra uomo e natura, fra uomo e immagine, fra l’uno e il suo doppio. Narciso, vestito da uomo contemporaneo, chino, alla ricerca di un contatto fisico con il suo riflesso, con le braccia disposte ad arco, si specchia nell’acqua e si vede, speculare, nella medesima posa. 

 

Ph Alberto Novelli, preview.


Al tema, in una lettura poliedrica e cronologicamente trasversale, è dedicata la mostra Eco e Narciso. Ritratto e autoritratto nelle collezioni del MAXXI e delle Gallerie nazionali Barberini Corsini, inaugurata il 18 Maggio a Palazzo Barberini a Roma. L’esposizione, curata da Flaminia Gennari Santori e Bartolomeo Pietromarchi, nasce dalla collaborazione tra due musei romani dall’identità (e dall’appartenenza cronologica) distante. Occasione del progetto è stata la riapertura al pubblico di alcuni spazi del palazzo romano, fino ad oggi non accessibili ai visitatori, con una mostra temporanea che permettesse di lavorare sui ‘nuovi’ spazi e su un tema al di là delle cronologie convenzionali, per sondare il luogo e, anche, tentare un’esplorazione delle categorie della storia dell’arte.

Il progetto, molto coraggioso, è riuscito. Il pubblico che da oggi al 28 ottobre percorrerà le sale del palazzo avrà la possibilità di fare un vero e proprio viaggio tra ritratti e autoritratti, dal Rinascimento ai nostri giorni, nel contesto appena ristrutturato delle sale dedicate originariamente agli appartamenti dei cardinali della famiglia Barberini.

 

 

Il percorso inizia sotto la magnifica volta di Pietro Da Cortona, luogo di massima rappresentanza del palazzo, ritratto allegorico dell’unione del potere spirituale e di quello temporale nella famiglia Barberini, strumento della Divina Provvidenza, dove il visitatore si confronta con Le Ore (1975) di Luigi Ontani, montato per l’occasione in una struttura semicircolare. L’artista è ritratto in ventiquattro tableaux vivant in bilico tra fotografia, pittura e performance, alla riscoperta del tempo allegorico e dell’immagine di sé e dell’altro. Segue la bella sala ovale, tra il salone e il giardino, un tempo destinata a riunire i poeti e gli scrittori della cerchia dei Barberini, dove si incontrano il Narciso (1597-1599) di Caravaggio e l’opera di Giulio Paolini, Eco nel vuoto, realizzata per l’occasione. Paolini interpreta il mito di Eco assente, o comunque invisibile, nella tela di Caravaggio e ne paragona il destino a quello di Narciso: entrambi fatalmente attratti da un’immagine. 

 

E ancora, di sala in sala, Markus Schinwald si confronta con Luca Giordano; i ritratti ‘astratti’ di Richard Serra guardano l’Enrico VIII di Hans Holbein e Stefano IV Colonna di Bronzino; il bellissimo Large Dessert di Kiki Smith si accorda con i pastelli di Rosalba Carriera e Benedetto Luti; la Maddalena di Piero di Cosimo e la Fornarina di Raffaello sono accostate all’opera abbagliante di Monica Bonvicini.

Si aggiungono, questa volta nelle sale del MAXXI, La Velata di Antonio Corradini e VB74 di Vanessa Beecroft, portandoci a riflettere sulla nudità tra grazia e peccato, incoscienza e coscienza. Di opera in opera, continua il dialogo tra moderno e contemporaneo, eco e narciso, mito e realtà, figure speculari, modelli sociali e di genere, ritratti e autoritratti – sorprendente l’accostamento tra il Papa e Mao di Yan Pei-Ming al ritratto di papa Urbano VIII di Gian Lorenzo Bernini – rivelando in ogni sala una cosa inaspettata, una malinconia, uno shock visivo, un’inquietudine. 

 

Ph Alberto Novelli, preview.


La storia dell’arte dei manuali ci insegna che, dal Cinquecento, ritratto e autoritratto si arricchiscono di aspetti interiori e che il secolo che affina l’osservazione della psiche è il Novecento. Cosa accade allora se oggi si guardano ritratti e autoritratti dal Cinquecento ai nostri giorni in un contesto forte e connotato come quello di Palazzo Barberini? Accade che si aprano suggestioni inaspettate. L’immagine è ovunque. Non solo, come normalmente dovrebbe essere, nelle sale di un museo, in una mostra, in un palazzo nobiliare di rappresentanza, ma di più. Di sala in sala si riflette sul funzionamento dell’immagine, sul vedere e sul rappresentare. Risulta evidente, ad esempio, nell’accostamento tra Il Nudo femminile di schiena di Pierre Subleyras e i nudi SBQR, netnud, etc. di Stefano Arienti, lo slittamento percettivo tra l’immagine della nudità e dell’intimità dal privato al pubblico, oppure ci si sorprende di fronte alla ‘concettualità’ della Fornarina di Raffaello che, mostrando la donna, riesce a mostrare – in absentia– l’uomo, il pittore, unendo ritratto e autoritratto. 

 

Ph Alberto Novelli, preview.


Insomma, il moderno incontra il contemporaneo nella performatività delle immagini, nella nostra performatività davanti alle immagini e nell’architettura delle sale e degli spazi del palazzo. La mostra ci propone la riscoperta del luogo ma contemporaneamente delle opere stesse: la cronologia mista esorta a una lettura non pregiudiziale delle immagini, a un’indagine sugli sguardi, su somiglianze e differenze inaspettate, sulla retorica delle pose e dei gesti, spingendoci a riflettere su ciò che vediamo, ma anche su ciò che non vediamo (e che non per questo, come Eco, non c’è).

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Palazzo Barberini, Roma
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Le abitazioni

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Rosanna Chiessi

Il MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna presenta nello spazio Project Room, un focus dedicato a Rosanna Chiessi Pari&dispari, a cura di Lorenzo Balbi e organizzato in collaborazione con l’Archivio Storico Pari&Dispari - Rosanna Chiessi e Comune di Reggio Emilia - Biblioteca Panizzi che ha ricevuto in dono gli album fotografici assemblati e commentati da Rosanna Chiessi. Gli album, consultabili nel sito web della Biblioteca Panizzi, raccontano la lunga attività della loro autrice, dal 1965 al 2015 nel campo dell’arte contemporanea, quando le sue diverse abitazioni e galleria sono state trasformate in residenze e atelier per artisti quali Geoffrey Hendricks, Allan Kaprow, Urs Lüthi, Hermann Nitsch, Arnulf Rainer, Charlotte Moorman, Nam June Paik e molti altri.

 

Ermanno Cavazzoni, scrittore e amico di Rosanna Chiessi, in occasione della mostra, le dedica un breve testo che ricorda proprio le sue case, luoghi di incontri e suggestioni.

 

 

Rosanna. Adesso che se n’è andata e non ci rivedremo mai più, adesso che è rimasto solo un album di fotografie, che sbiadiranno anche loro, devo dire che è stata un’amica insostituibile, generosa, soprattutto generosa di case, le tante case che ha abitato e che erano aperte al va e vieni di amici generici come me, e di amici pittori, artisti, e artisti futuri.

Il grande appartamento a Reggio, in via Emilia: quello me lo ricordo bene, in quell’epoca ero laureato da poco, ero giovane, eravamo giovani, e all’una di notte ci veniva fame, a quell’età facilmente si ha fame, e ci facevamo gli spaghetti semplici all’aglio e al peperoncino, cioè era Rosanna che li preparava, ed erano sempre una delizia, conditi con l’allegria di allora, quando la vita ancora non si sapeva cosa sarebbe stata e ci facevamo tante illusioni, perfino politiche, un po’ da ingenui, un po’ da coglioni; Rosanna anche lei seguiva il suo estro, con una fiducia nella bontà della vita che ho sempre ammirato, e che è sempre stata la sua forza. La grande casa sempre piena di gente, anche americani, giapponesi, modenesi, tedeschi, anche amici di amici, con le relative morose o morosi, e le amiche delle amiche delle morose.

 

 


 

Un misto di gente. Non si può dire ci fosse solo il settore umano addetto all’arte, c’erano parrucchieri e parrucchiere, postini, disoccupati, emigrati dal sud, perfino un tale (devo confessarlo) invitato da me, che si era insediato in quella casa e sembrava non se ne volesse più andare, perché si trovava bene, troppo bene, neppure era artista, era uno scioperato, per il quale chiedo ancora scusa a Rosanna …; c’erano ogni tanto assessori e personalità, il sindaco Renzo Bonazzi, che è stato un ottimo sindaco di Reggio, un liberale ottocentesco nell’animo, anche se era iscritto al partito comunista e appariva circa come comunista; la caratteristica della Rosanna era di non precludere la sua casa a nessuno, e se veniva l’idraulico ad aggiustare un sifone, anche l’idraulico veniva invitato e diventava un amico di casa, altrettanto la donna di aiuto domestico, altrettanto il postino che portava la posta, che alla sera si mescolava agli artisti di Fluxus, giocava con loro a ping pong, c’era un ping pong usato da tutti, come sfogo ai discorsi troppo intellettuali, e si era tutti più o meno equivalenti e parificati dalla ospitale generosità della casa. In questa casa, quando era vuota e la Rosanna era all’estero, ci andavo a studiare, in uno stanzino dal soffitto altissimo, il calore saliva e mi gelavano i piedi, però c’era una pace assoluta e ci ho studiato molto intensamente, per cui ringrazierò sempre.

 

 

Prima di questa casa mi ricordo via Bissolati, la Rosanna credo fosse divorziata da poco, era un appartamentino moderno, anche quello molto ospitale, una piccola cerchia di amici, Laura, la bella figlia Laura, faceva ancora il liceo, alle nove e mezza di sera mi ricordo che le veniva sonno e si addormentava, anche se c’era chiasso e l’allegria del carnevale, era una sua caratteristica, che non guastava l’atmosfera cordiale e scherzosa, si era fidanzata con Lao, il carissimo amico Lao; ho detto nove e mezza, ma forse erano le dieci, e poi non sempre; a volte resisteva al sonno fino alle dieci e mezza, eravamo giovani, lei ancora più giovane, quindi era scusata. Dopo, andando avanti con l’età, stava alzata fino alle undici, undici e mezza e oltre, fino all’ora degli spaghetti.

 

 

Poi Cavriago, via Tornara, la grande casa ex contadina, con il largo cortile, lì il via vai di gente era ancora più intenso; la Rosanna sapeva mescolare i suoi commerci d’arte con questa circolazione di gente, e lì a Cavriago era diventata una specie di pubblica istituzione, che faceva concorrenza all’assessorato alla cultura, e forse anche al ministero dello spettacolo, ma la via privata è sempre la migliore.

E poi Capri, villa Malaparte, l’ha avuta per alcuni anni a sua disposizione, per allestire mostre; meraviglioso luogo appartato su uno sperone di roccia; anche lì solo bei ricordi, con la compagnia di quel popolo unico che sono i napoletani. Capri, nonostante la fama e il turismo, è un posto bellissimo, i profumi di fiori che ci sono nell’aria, il clima mite, lo spettacolo commovente del mare, i sentieri su per il monte fino ai ruderi del palazzo imperiale di Tiberio; mi ricordo le scampagnate fino a villa Fersen, una villa liberty semi abbandonata che guarda Napoli; e sulle rovine di Tiberio mi ricordo le bisce che dormivano al sole e scappavano sorprese al rumore di voci, il barcaiolo Costanzo, d’inverno Capri è bellissima, perché è vuota e più autentica, è stata la seconda patria della Rosanna, lì risorgeva, anche da certe amarezze e dai vari guai che durante la vita ha patito; si è trovata anche in gravi difficoltà, ma poi si è sempre ripresa, per il suo spirito inarrestabile, un po’ incosciente; ed è una fortuna avercelo; alla fine la sua generosità le è sempre tornata indietro, e oggi devo dire che se lo è meritato.

 

 

Il catalogo da cui è tratto il testo di Cavazzoni è pubblicato da Danilo Montanari editore, Ravenna

La mostra al MamBo, inaugurata il 24 maggio, resterà aperta fino al 16 settembre 2018

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MAMbo | Museo d’Arte Moderna di Bologna
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Una tempesta dal paradiso

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«C'è un quadro di Klee che s'intitola Angelus Novus». Con queste parole avrei voluto aprire il commento a questa preziosa mostra alla Villa Reale di Milano, sede della Galleria d'Arte Moderna. Purtroppo, come è noto, le ha già scritte invece Walter Benjamin nelle sue Tesi di filosofia della storia, nel 1939 – quando ancora era in esilio a Parigi, appena un anno prima della sua morte. «Una tempesta dal paradiso»: così, tra quelle pagine, Benjamin definiva il progresso. Al breve saggio, assai celebre, fa riferimento il titolo, di grande forza poetica e visiva, del terzo e ultimo progetto espositivo della Guggenheim UBS MAP Global Art Initiative. Nato nel 2012, è un ampio programma internazionale di ricerca, formazione, promozione e costituzione di una collezione d'arte contemporanea (ad oggi: 126 nuove acquisizioni di 88 artisti da 36 nazioni); un impegno tradotto in otto esibizioni e che vede coinvolto, con il supporto della Fondazione UBS, un network di musei in quasi tutto il mondo: oltre al Salomon R. Guggenheim di New York e alla nostra GAM per coronare il progetto, anche la South London Gallery, il Museo Jumex a Città del Messico; l'Asia Society Center di Hong Kong e il Center for Contemporary Art di Singapore.

 

Klee, Angelus novus, 1920.


Questa mostra, organizzata da Sara Raza, curatrice iraniana, spalanca una finestra sul Mediterraneo e lancia uno sguardo di profonda comprensione al Grande Medio Oriente – all'Oriente vicino e a quello un po' più lontano, così come al Nord Africa – ponendosi in ascolto dei temi più attuali, urgenti come un desiderio, attraverso i lavori di un gruppo eterogeneo di tredici artisti (sui diciannove coinvolti nel progetto originario esposto al Guggenheim nel 2016), che sono nati o ancora vivono e lavorano in questa area geografica, così conflittuale, intimamente irrequieta e contraddittoria: le loro voci sono portate dal vento del deserto nel cuore del mondo. In un modo o nell'altro, sono tutti artisti di una diaspora, nel senso più ampio del termine greco, che indica sostanzialmente una dispersione, disseminazione.

 

Quando penso a ciò che la disseminazione significa e, di conseguenza, produce, letterariamente e artisticamente, mi viene sempre in mente l'immagine della 'semina poetica' di Hölderlin. Si legge in una strofa di Patmos – l'isola dell'Egeo dove l'evangelista Giovanni scrisse l'Apocalisse


È il gesto del seminatore quando prende
Con la pala il frumento
E lo getta al chiaro lasciando che vibri sull'aia.
Cade ai suoi piedi la pula, ma
A termine giunge il chicco,

E male non è, se qualcosa
Va perso e del verbo
Il suono vivente si spegne,
Giacché l'opera divina somiglia alla nostra,
Non tutto vuole l'Altissimo in una volta.

 

Rokni Haerizadeh, But a storm, 2014.


Ciò che conta è il tentativo di dire e, in questo caso, di fare; nonostante le difficoltà e i limiti irriducibili, la balbuzie di un linguaggio, poetico e artistico che sia: senza dubbio qualcosa andrà perso, ma anche molto, di quel gesto, si salverà. La bellezza salverà questa terra martoriata e benedetta? Tutta questa arte, sarà finalmente utile? 

 

L'ambizioso lavoro di ideazione e organizzazione nasce da un tentativo di riflessione della curatrice sulla produzione dello spazio, facendo esplicito e immediato riferimento – nel testo introduttivo del catalogo (disponibile in mostra solo per la consultazione) – allo studio di Henri Lefebvre del 1974, che identificando due tipologie di spazi – uno mentale, astratto, matematico e logico; l'altro fisico e reale – aiuta a meglio comprendere la geografia di questa vastissima regione, disegnata a tavolino su una mappa entro un paradigma occidentale di stampo colonialistico (eccezione fatta per l'Iran e la Turchia, dove l'influenza occidentale è stata più indiretta). In seguito, Raza ripercorre anche Orientalismo, uno studio del 1978 diventato ormai un classico di Edward W. Said, professore di letteratura alla Columbia University, ricordando come attraverso i secoli l'Oriente, sia stato «concepito come esotico e persino mitologico – uno spazio mentale». 

 

Ali Cherri, Paysages tremblants algiers.

 

Quest'area, che si distende dall'Asia occidentale all'Africa settentrionale, è stata infatti occupata e depauperata delle proprie risorse, già a partire dalla fine del XIX secolo, in termini non solo fisici, ma anche e soprattutto socio-culturali, dalle potenze occidentali, in particolare britanniche e francesi.

A scuola, ancora bambini, ci insegnavano che la “culla della civiltà” si trovava in quel territorio fertile che disegnava una mezzaluna; oggi, gli abitanti di quella terra sono chiamati indistintamente arabi (indubbiamente lo sono), ma in questo tempo contemporaneo così tragico, il tono lascia ancora trapelare una qualche presupposta e originaria superiorità – il tono di chi ignora la pluralità delle storie e non sa rendere giustizia a una ricchezza culturale, nonché religiosa, unica, ancora da scoprire, conoscere, e accogliere; un tono che annulla, di fatto, molteplici identità, additando così a una radicale distanza e differenza – alterità assoluta di un essere che, straniero, ci fa sentire esposti, vulnerabili e insicuri a dispetto di tutti i doni e gli insegnamenti che per primi questi arabi ci hanno dato nei secoli.

 

Joana Hadjithomas and Khalil Joreige, 2015.


L'intento principale della mostra è quello di «mettere in luce la formazione del presente riconoscendo allo stesso tempo l'influenza attiva esercitata dal passato», attraverso la rimessa in discussione, da parte di questi artisti, di una verità oggettiva capace di interpretare adeguatamente la realtà. Verosimilmente, Abū l-Walīd Muḥammad Ibn ʾAḥmad Ibn Rushd – Averroè per l'Occidente latino, fu anche il primo a formulare una teoria dell'immaginazione, ponendola originariamente nella problematica duplicità del soggetto dell'intellezione, suggerendo che la forza del pensiero logico sarebbe nulla, senza virtusimmaginativa. Proprio su questa imaginatio si gioca la creazione di queste opere d'arte, perché il seme dell'idea che portano, giunga a compimento.
Tra i lavori presentati dagli artisti, tutti nati tra gli anni '60 e '70 del Novecento, secolo breve e feroce, sono realizzati con diverse tecniche e linguaggi che aderiscono a quelli dell'arte globale più contemporanea, decisamente lontani dagli stereotipi preconcetti della rappresentazione tradizionale mediorientale – pittura e collage, sculture, fotografie, mixed-media, video, performance e installazioni che hanno significati diversi e una preghiera comune: non guardarmi soltanto, immaginami. Il valore poetico di ogni opera è indiscutibile, il suo significato è nascosto, come un segreto intrappolato a fior di labbra, che non può diffondersi dibocca in bocca.

 

Abbas Akhavan, Study for a monument, 2016.


Sono 'opere di pensiero' dunque; il loro fine non è puramente estetico, ma più propriamente etico, sociale e politico, sono opere che raccontano storie e resistono – o forse esistono proprio per resistere– alla banalità degli stereotipi su questioni diffuse quali migrazione, dislocazione, storia, società, architettura, geografia e soprattutto, infine, geometria; quest'ultima assume particolare rilievo interpretativo, perché la curatrice se ne serve come fil rouge del pensiero logico alla base dell'allestimento.

Nel suo testo, Sara Raza pensa al Medio Oriente come a un puzzle complesso, derivando, senza nasconderlo, il principale 'interrogativo critico' da un saggio del 1962, opera prima di Jacques Derrida, Introduzione aL'origine della geometria”di Husserl (JacaBook, 1987), che prende le mosse dalle considerazioni del matematico-filosofo, sulla crisi della scienza.
La question-en-retour di Derrida – così traduce la Rückfrage del padre della fenomenologia – si pone da un invio iniziale: «a partire da un documento ricevuto e già leggibile mi è data la possibilità di interrogare di nuovo e en-retour» (ibid., p. 99) e permette alla curatrice di interrogare a ritroso le moderne questioni aperte e riformulare un percorso originale per giungere a una comprensione della condizione attuale di questa regione, nella storia e nel mondo; come a una nuova storicizzazione, verità scevra di a-priori

Un altro tema su cui la curatrice insiste è quello del contrabbando, ripreso da Simon Harvey per il suo valore critico come «strumento di contrattazione alternativo»; il termine è capace di indicare diversi flussi sotterranei, nascosti alla cattura immediata dello sguardo.

Non manca una citazione diretta di Michel Foucault, al concetto di biopotere formulato negli anni '70, atto a descrivere «i modi in cui i moderni stati-nazioni hanno esercitato sovranità politica ed economica sulle proprie popolazioni e sui possedimenti distanti», concetto chiave per rintracciare su questa mappa la 'verità geometrica'nascosta, senza preconcetti geografici.

 

Ergin Cavusoglu, Dust Breeding, 2011.


Il titolo benjaminiano della mostra è, ancor prima, il titolo del corpus di immagini fantastiche presentate da Rokni Haerizadeh (Teheran, 1978). La serie But a Storm is Blowing from Paradise (2014) costituita da 24 lavori tra dipinti e collage, segue un'indagine sulla mobilitazione popolare durante la “Primavera Araba” del 2009, ed è stata realizzata intervenendo su fotogrammi selezionati da Youtube o da altri notiziari televisivi, stampati e rielaborati a commento degli abusi sui diritti civili, ancora perpetrati, che evidenziano la natura intimamente ambigua e ambivalente, delle immagini. L'artista interviene con acquerelli, gesso e inchiostro sulla stampa originaria, sovrapponendo ad essa figure in costumi antichi dai colori sgargianti o teste simboliche di animali, tutti elementi riconducibili sia alle fiabe della tradizione, sia alla grande allegoria della dittatura La fattoria degli animali, firmata da George Orwell nel 1945; inoltre è possibile cogliere una eco dell'interpretazione dei sogni di Freud, e richiami alla storia, alla letteratura e mitologia persiana, come anche alla cultura pop. Il lavoro sottolinea altresì l'inarrestabile capacità di Internet e la forza virale dei social media, in grado di innescare una proliferazione continua di materiali diffusi «per produrre un'intricata mappa alternativa del visibile».
Max Ernst avrebbe molto apprezzato.

 

A proposito di mappature, il giovane artista libanese Ali Cherri, che si divide tra Beirut e Parigi, sta portando avanti da tempo una ricerca sugli 'effetti della catastrofe' causati dall'uomo e dalla natura nelle zone limitrofe alla sua terra, attraverso l'utilizzo di diversi linguaggi: film, video, fotografie e performance. Paysages Tremblants (2016) è composta da una serie di litografie, mappature aeree di Beirut, Damasco, Algeri, Erbil, la Mecca e Teheran, tutte città situate su faglie attive, fenditure le cui coordinate sono indicate in rosso, come a segnalare una precarietà territoriale, che non è solo politica e sociale, ma anche fragilità geologica e del paesaggio.

La video-artista afghana, Lida Abdul mostra, nei cinque minuti del suo video In Transit (2008), non tanto “le conseguenze dell'amore”, ma quelle della guerra, che riguarda sempre, in primis, i bambini; qui li vediamo giocare – allegri, nonostante– vicino a un aereo militare sovietico abbattuto nei pressi di Kabul ormai arrugginito. La missione del gioco? Riparare, con una certa ostinazione, ciò che è ormai distrutto, con garze, cotone e la speranza innocente che torni a volare, come un aquilone: «niente è impossibile quando tutto è perduto». 

Leggendo queste parole, tra i sottotitoli, ho pensato alle distruzioni e alle ricostruzioni continue dei luoghi, e a ciò che resta di Beirut, città regale e ferita, dopo il trauma della guerra. Sarà per il legame sottile, eppure resistente che ho con questa città, che mi sono sentita chiamare da un'opera misteriosa e lirica, Latent Images, Diary of a Photographer, 177Days of Performance, di una coppia di ricercatori e artisti libanesi che vivono e lavorano fra Parigi e Beirut, Joana Hadjithomas & Khalil Joreige, presentata alla Biennale di Venezia nel 2015.

 


Man Ray, Allevamento di polvere, 1920, dettaglio grande vetro Duchamp.


Gli elementi dell'installazione sono molteplici: 354 volumi a stampa di un libro d'artista di 1.312 pagine, 177 scaffali di metallo e un piedistallo; infine, un video (a colori e sonoro, 120 min.) a documentare una performance; si tratta di un lavoro molto lungo e complesso. A prima vista, c'è una lunga parete bianca, tappezzata di libri bianchi e spessi, 'taglio lungo' a vista, posti in una sequenza temporale continua, ma è necessario avvicinarsi per capire meglio, per intuire. Per rendersi conto che ogni volume presenta fotografie invisibili – non le vediamo, ma le possiamo immaginare, nei particolari – che ci figuriamo mentalmente, ognuno a proprio modo, grazie alle didascalie tratte da un taccuino di appunti, il memoir di Abdallah Farah, un fotografo di cartoline libanese (nato dalla fantasia degli artisti per esigenze del dispositivo narritavo) che ha scattato quelle immagini – centinaia di rullini mai sviluppati, effacées – per registrare e testimoniare i cambiamenti culturali e politici che hanno investito Beirut, negli anni successivi alla guerra civile, iniziata nell'aprile del 1975. Per approfondire la questione della impotenza delle immagini nella storia, gli artisti raccontano anche Wonder Beirut, il progetto di decostruzione narrativa, politica e performativa entro cui Latent Images rientra, e che dice: esisto, anche se non mi vedi.

 

Chiude il percorso l'opera più significativa, scelta come immagine-guida di questa mostra, Study for a Monument (2013-2016) dell'iraniano Abbas Akhavan. Su lenzuola bianche di cotone stese a terra sono posti calchi in bronzo di piante native della Mesopotamia, per studiare il danno ecologico causato dalla guerra. Esposti come merce di scambio, ecco una raccolta di resti ossidati e degradati, che ricordano simbolicamente tutti i corpi martoriati durante i continui conflitti e repressioni, deposti su un sudario, ancora senza sepoltura. 

 

Prima di uscire, però, un'ultima opera: forse sarebbe stato meglio dire la prima, ma purtroppo si corre il rischio di non individuarla immediatamente, perché l'intreccio di linee rosse, oro e blu si perde sul motivo della pavimentazione della Villa. In questo modo, però, anche noi abbiamo fatto un passo en-retour, per risalire così a Dust Breeding (2011), installazione dell'artista bulgaro Ergin Çavuşoğlu.
L'opera cita direttamente il complesso rapporto tra Élevage de poussière, celebre fotografia di Man Ray del 1920 e il Grand verre (incompiuto, 1945) di Marcel Duchamp, ma per approfondire questo passaggio, rimandiamo a un saggio di Elio Grazioli del 2004, La polvere nell’arte. Il lavoro di Çavuşoğlu si presenta come una riflessione sull'effimero, intorno alle modalità di registrazione e documentazione di ciò che, direbbe Barthes, «è-stato»: nel caso specifico, l'artista invita il visitatore a percorrere un disegno a terra secondo il modello 3D di una fabbrica di cemento turca, le cui linee sono tracciate in vinile, mentre una telecamera a circuito chiuso riprende i movimenti dello spett-attore, trasmettendoli su un monitor dislocato a sinistra che restituisce una terza composizione, come se il visitatore fosse inscritto in una illusoria struttura architettonica. 

 

Questa mostra è un dialogo circolare e polifonico, la messa in scena di una complessità irriducibile, una moltitudine di realtà intrecciate e inseparabili. Uno sguardo sull'Altro che illumina l'alterità come portatrice di un valore: l'unicità nella pluralità, capace di rivelare anche le sfumature più contraddittorie dell'umano. 

 

But a Storm Is Blowing from Paradise: Contemporary Art from the Middle East and North Africa

GAM – Galleria d'Arte Moderna di Milano | 11.04-17.06 / 2018.

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Arte contemporanea del medio oriente e del nord africa
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Antonino Costa. Scorciatoie

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Sottotitolo: 
Inaugurazione giovedì 7 giugno - ore 18.30

In occasione della Milano Photo Week, Fratelli Bonvini, storica bottega di cartoleria e tipografia milanese e Doppiozero, rivista culturale online dal 2011, presentano un progetto speciale nello spazio di Atelier 1909.

 

“Scorciatoie”, mostra fotografica di Antonino Costa (Palermo, 1973) è il primo evento espositivo ospitato in Atelier curato da Doppiozero: dieci scatti dedicati ai percorsi pedonali tracciati dai passanti a Milano, in centro e in periferia. Sono “scorciatoie”, vie brevi, visibili ovunque, a cui pochi dedicano attenzione. Il lavoro fotografico, proveniente da una collezione privata in prestito per la mostra, è introdotto da un testo di Massimo Recalcati intitolato “Sentieri invisibili”, pubblicato nella rivista Segnature n. 16, a cura di Paola Lenarduzzi, disponibile in occasione dell’evento.

 

Via Tagliamento, 1
www.bonvini1909.com

Mostra aperta dal 5 al 10 Giugno. Orari: 14:30 – 19:30

Inaugurazione giovedì 7 giugno - ore 18.30
Ingresso libero fino ad esaurimento posti

 

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ATELIER 1909, Fratelli Bonvini Milano
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Back to space

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Lo spazio è un dubbio, scriveva Georges Perec. Non esistono luoghi stabili, immobili, intangibili ed è proprio perché non esistono che lo spazio diventa problematico, smette di essere pura evidenza. Lo spazio è “obliquo, vergine, euclideo, aereo, grigio, storto”. Per questi autori ripensare lo spazio significa cogliere l’istante in cui appare l’inafferrabile, l’inclassificabile, l’aleatorio. Le immagini così diventano l’indice di un’apertura che va al di là della mera rappresentazione. Ed è proprio in quella frazione di non rappresentabile che si fonda ogni rappresentazione. Il dispiegarsi della presenza. La sorpresa suscitata dagli spazi di questi sei fotografi infrange l'esperienza e ci devia dal corso normale delle cose: è data dall'imprevisto e dal meraviglioso, che emana una forza insolita coinvolgendo tutti i sensi. 

Uno stupore da intendersi come origine e come elemento costitutivo. Non tanto un principio che sta lì all'inizio, causa qualcosa e poi se ne va, ma un principio che segue ciò che era all'origine, che è legato al tempo, sta nel tempo e anche nello spazio. È quanto ci suggerisce Francesca Rigotti, a proposito dello stupore come stato d’animo che si pone alle origini della filosofia. 

 

La macchina fotografica ne è lo strumento rivelatore, simile all’incanto di chi, dopo un attento esame, scopre nelle linee aggrovigliate di un disegno la vera forma di un oggetto o di un volto. Gli spazi prediletti hanno dunque un’anima, un nucleo irradiante attorno al quale si moltiplicano tutte le rappresentazioni. 

Back to spaceè questo, il movimento e insieme il luogo dell’azione, dello spazio partecipato, vissuto, agito, che la macchina fotografica rivela come piega ulteriore, svelamento di un segreto, visione inattesa. Le immagini di questi fotografi ritraggono alcuni “luoghi” come se non fossero mai stati visti e forse come non potranno mai essere più visti, perché strappati alla loro quiete silenziosa dalla forza dell’immagine. 

 

Giulia Flavia Baczynskiè la cartografa di questo universo. La sua Carta fisica della Terraè una collezione di fotografie di territori immaginari, costituita da una serie di mappe che evocano la geografia del suolo terrestre, ottenute tramite l’increspatura di fogli di carta da lucido. Il nucleo di questo lavoro nasce dall’inversione di un processo: il dato reale non è alla base della sua rappresentazione ma lo spazio è il segno di un segno, un simulacro privo di forma che contiene tutti gli spazi possibili. Un vuoto che corrisponde al massimo della pienezza. 

 

Giulia Flavia Baczynski, Carta fisica della Terra.


[Ju|lü] di Nunzio Battagliaè uno di questi spazi. “La quiddità (ju) è lo stato autentico delle cose (…) esso non allude alla natura misteriosa, alla sostanza impenetrabile delle cose, bensì all’onnipresente nudità e vacuità”, ricorda il fotografo. La parola  si riferisce, invece, al momento in cui si riflette sulla percezione del mondo. Le immagini stanno tutte dentro un istante di luce, che si dilata come il bagliore inafferrabile di una reminiscenza prenatale. Stupirsi dinnanzi ai paesaggi di Battaglia significa abbracciare la possibilità del vuoto, l’assenza dello spazio. Vuol dire percepire solo la luce, un pulviscolo iridescente, la materia originaria della vita e dell’immagine. 

 

Nunzio Battaglia, [Ju|lü].


Non ci sono dubbi. Lo spazio non è solo ciò che arresta lo sguardo, ma anche materia che si lascia attraversare. L’uomo di fronte al soggetto fotografato è l’uomo di fronte a se stesso, alla duplicazione del suo sguardo. Lo spazio diventa uno specchio. Si scruta, si legge ma non si decifra mai completamente. Persiste con il suo mistero. Anzi, semplicemente esiste. Nelle pagine del suo Viaggio in un paesaggio terrestre,Vittore Fossati in collaborazione con lo scrittore Giorgio Messori, fotografa i luoghi frequentati e descritti da poeti e pittori amati da entrambi. Questi paesaggi sono misteri che hanno l’evidenza spontanea e concreta della vita, e proprio per questo stanno perennemente sospesi nello spazio dell’immagine. Tra essi e chi guarda permane un inesplicabile distacco, come tra il fotografo e coloro che hanno guardato prima di lui. “Ho sempre amato i rebus” rivela Fossati, “ma devo ammettere che le poche volte che sono riuscito a risolverli ero poi deluso (…). A rebus risolto si svelava l’enigma, e col mistero se ne andava via anche ciò che aveva reso interessante quell’immagine (…). Per questo non ho mai preteso di tradire la naturale enigmaticità delle immagini”. 

 

Vittore Fossati, Viaggio in un paesaggio terrestre.


Insomma, anche se è un dubbio, lo spazio costituisce la materia del fotogramma. Non è solo una raccolta di curiosità, un ammasso di edifici, un insieme di volti, ma un’essenza sensibile, che di volta in volta diviene segno di riconoscimento. Nelle immagini di Francesca Rivetti lo spazio si costituisce per sottrazione. Lo spazio del colore, della luce, della forma è vuoto, poiché l’azione di svolge ai margini. Le immagini del suo Soggetto difficile sono tali perché gli spazi da percorrere sono indecidibili e trasversali, sono varchi verso qualcosa di incorporeo. Cosa appare più vuoto: il centro dell’immagine o quello che sta fuori? Cosa ci attira di questi vuoti? Lo spazio è inconsistente, ma la materia di cui si compone è tenace come la struttura di un atomo. Tutto si regge su questo paradosso. 

 

Francesca Rivetti, Soggetto difficile.


Cosa si vede nelle immagini di Enrico Bedolo? Gli spazi che rappresenta sono reali o pura illusione? Sono il futuro o il passato? Life in File si compone di fotografie scattate alle simulazioni che vengono esposte fuori dai cantieri edili. In ogni immagine è in gioco il limite dello spazio. Nel momento in cui si nota un dettaglio non finito, la piega del foglio o le tracce lasciate dal tempo, ci si rende conto che il risultato di questo inganno non è uno svelamento, ma quella che potremmo chiamare un’ambivalenza, un incontro-scontro tra immagini.

Nel rapporto inventario/invenzione si produce lo spazio di una nuova destabilizzazione topografica, da intendersi non soltanto come invenzione di mondi possibili, ma come interpretazione di possibilità. Le immagini “mostrano come verrà ciò che si sta costruendo all’interno, anticipano forse il futuro, ma la fotografia di quelle immagini le proietta nel passato dello scatto”, racconta il fotografo. Lentamente lo spazio perde i suoi confini, diventa temporalità. Una linea che abbandona la propria direzione per arrendersi a uno spazio che riemerge dal passato e che a sua volta dilegua i confini del tempo. Un istante sognato, più vero di qualsiasi sensata realtà. 

 

Enrico Bedolo, Life in File.


Accade così nella Nuova Atlantide di Valerio Tosi. L’universo del fotografo è composto da frammenti di computer: tastiere, batterie, circuiti. Egli le definisce “mitologie portatili”, componenti di un mondo invisibile, sepolto, distante. Lo sguardo è avvolto da una sensazione di intima vicinanza e al tempo stesso di perdita irrimediabile. Eppure tutto affiora dalle ombre delle sfocature. E l’Atlantide, fino a quel momento priva di forma, si riprende il proprio spazio. Da ogni fotogramma emerge qualche nuovo frammento di quell’universo inghiottito dal tempo, una città fantasma che torna alla vita. Poco importa della cronologia esatta. Il tempo di Atlantide non conosce che l’impassibile simultaneità del presente. Sta dinnanzi ai nostri occhi e sfida le nostre certezze. Atlantide vive. 

 

Gli spazi dei sei fotografi che appaiono in queste pagine, ovvero la mappa, la luce, il mistero, il vuoto, l’immateriale e l’invenzione, sono impronte di uno sguardo nuovo, quello che Giuliana Bruno nel suo Atlante definisce uno spazio dell’e-mozione, ovvero un movimento, un motus dell’animo e del corpo, che produce un nuovo modo di vedere: si passa dal sight (vista)-seeing, cioè lo sguardo vincolato al puro piacere scopico, all’aptico site (luogo)-seeing, dal colpo d’occhio alla mappa, dallo spettatore come voyeur allo spettatore come voyageur.

 

Testo introduttivo a Back to space, 2018 a cura di Enrico Bedolo e Silvia Mazzucchelli, in collaborazione con Mauro Zanchi e Sara Benaglia (Catalogo, Edizioni WunderKammer). BACO Base Arte Contemporanea Odierna, Palazzo della Misericordia (Bg), dal 9 giugno al 1 luglio 2018.

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Palazzo della Misericordia (Bg) | 9 giugno - 1 luglio 2018
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Paul Klee. «Il bello può essere piccolo»

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Paul Klee, Kleinwelt,1914.


Racconta Pierre Boulez che per la verità, al primo incontro (a una mostra di Christian Zervos, ad Avignone nel 1947), tutta questa impressione Klee non gliela fece: l’occhio glielo rubavano quadri di ben maggiore formato. Una volta, colla sua tipica brutalità, Alberto Burri se ne uscì sprezzante: «Se non si è capaci di dipingere grande, non si è pittori. Klee e Licini, per esempio, bravi e poetici, non c’è che dire, ma “leggerini”». Nel ’46 ricordava André Masson come per molti i suoi non fossero che «francobolli». Ma subito aggiungeva che di questo lui doveva essere ben consapevole, se uno dei suoi primi capolavori, nel ’14, lo aveva intitolato Piccolo mondo: «la cattiveria della pulce è tale che ne basterebbe una delle dimensioni di un cavallo per devastare la Gran Bretagna». A guardia del famoso saggio che all’indomani della morte di Klee, nel ’41, pubblicò sulla «Partisan Review», Clement Greenberg pose un esergo da Kant: «il bello può essere piccolo». Perché, prosegue Boulez, dopo quella prima impressione aveva cominciato ad «agire una forza che costringe a riflettere in profondità», e si era messo a osservare le sue figurazioni «in avanti e indietro, […] da un piano all’altro». Sino a finire attirato, dal cosmo di Klee, come dalla tela di un ragno stellare. 

 

Paul Klee, Drehbares Haus, 1921.


È proprio quello che capita nel visitare la grande mostra Paul Klee. Konstruktion des Geheimnisses (a cura di Oliver Kase, alla Pinakothek der Moderne della “sua” Monaco di Baviera, sino al 10 giugno; catalogo Hirmer anche in inglese, pp. 456, € 50). Dopo averle viste tante volte riprodotte in tutte le salse (e tutti i formati), d’improvviso tocca sintonizzare l’occhio su tele, il più delle volte, di meno di trenta centimetri. S’era andati poi senza grandi attese, live, da un pittore così bidimensionale. E invece, appena entrati, si viene catturati non solo dalla texture dei fantastici fondi-polvere, certo memori del mitico viaggio in Tunisia del ’14, ma persino dal grattare da bisturi sulle carte spesse dei disegni, degli appunti, degli schemi (nessuno ha mai disegnato schemi, come i suoi, euritmici flessuosi sensuali). La mostra racconta tutto, ci mancherebbe, opportunamente incrociando il pattern cronologico con “spiazzi” tematici, o piuttosto concettuali, che di ogni tema mostrano la libertà sfrenata di accordi, variazioni, sviluppi (gli autoritratti in posa-Dürer, certo – ma quello che preferisco è Gespenst eines Genies, “il fantasma di un genio” ’22: un bambino troppo cresciuto, la testa inclinata, non capisce bene cosa stia succedendo –, il tema dell’ascesa-ascesi – colle scale di Giacobbe, le tante stelle di Davide accese nei suoi cieli –, le architetture di sogno – queste ispirate dall’Italia, invece – come la famosa Drehbares Haus, la “casa girevole” del ’21). Non si smette di tornare sui propri passi, in una danza del cervello che, a un certo punto, viene da pensare sul serio che potrebbe non finire mai. È come se al polimorfo Cherubino, il perpetuum mobile delle Nozze di Figaro, non toccasse mai fare i conti con chi lo vuol spedire in guerra e «notte e giorno», invece, potesse continuare sempre la sua ronde«d’intorno girando / delle belle turbando il riposo». 

 

Paul Klee, Gespenst eines Genies, 1922.


E invece il mondo storico a più riprese il conto lo presentò, a Klee. All’inizio del ’15 annota nei Diari: «Credevo di morire, tutt’intorno guerra e morte. Ma posso morire, io, un cristallo? […] Per aprirmi un varco fra le mie macerie, era necessario volare. E volato ho infatti. In quel mondo in rovina vivo ancora soltanto nel ricordo, siccome capita di pensare al passato. Perciò sono “astratto nei ricordi”» (in guerra dovrà andarci pure lui, l’anno dopo; ma gli riuscì d’imboscarsi come scritturale d’un campo d’aviazione; non uguale fortuna toccò all’amico Franz Marc, nel ’16 caduto a Verdun). Rare volte il moto dell’astrazioneè stato esposto con così precisa cognizione della pesanteur storica, esistenziale, psicologica. E mai, forse, rilanciato a superarla con tale stupefacente, davvero cristallina felicità mentale. Anche nei momenti più cupi degli ultimi anni (quando, lasciata la Bauhaus già nel ’31 per insegnare all’Accademia di Düsseldorf, preda d’una sclerosi che a lungo gli impedisce di lavorare, la marea nazista lo fa riparare nella Svizzera dove era nato, e dove morirà nel giugno del ’40) mai smette il suo gioco col mondo. Uno degli ultimi lavori, un carboncino datato appunto 1940, ha per titolo Der mond als spielzeug, “la luna giocattolo”. Klee non può aver visto The Great Dictator di Chaplin (il film uscirà in ottobre), ma la sua visione ricorda la scena d’incanto in cui il dittatore Hynkel, tornato bambino, danza con un mappamondo luminoso.

 

 

Paul Klee, Der mond als spielzeug, 1940.


Non può finire, la danza, perché mai s’interrompe la musica della mente. Era tipico del suo tempo, assai più che del nostro, il «girotondo delle muse»; eppure nessuno come Klee si è posto all’incrocio delle linee di tutte le arti. Davvero, come diceva Greenberg, «il più filosofico, il più lirico e musicale di tutti i pittori moderni». Scrittore instancabile (in versi non meno che in straordinaria prosa saggistica) era soprattutto alla musica, però, che s’ispirava. Figlio di due musicisti, sposato con la pianista Lily Stumpf, Klee non smetterà mai di suonare il violino nelle serate cogli amici.

 

Paul Klee (il primo a destra) suona con gli amici.


Le pagine splendide che gli dedica Boulez (Ilpaese fertile. Paul Klee e la musica, a cura di Paule Thévenin, traduzione di Stefano Esengrini, ora riproposto da Abscondita, pp. 133, € 19) sono un modello di rigore, anzitutto, nei confronti della tentazione (cui ben so d’indulgere) di «stabilire paralleli fra mezzi di espressione diversi»: la «reciprocità, se non proprio l’influenza fra i due mondi non avviene mai sullo stesso piano»; una sfasatura, un anacronismo, un errore di coincidenza salvano dall’orrore kitsch dell’illustrazione (in nome della quale, esemplifica Boulez, «le opere di Wagner hanno ispirato suo malgrado la peggior pittura»). Ciò non toglie che Klee abbia anche spesso “illustrato” alcune delle sue più intense passioni di esecutore e d’ascoltatore (nonché fan: come del soprano-coloratura Hermine Bosetti, per la quale nutriva un’autentica ossessione).

 

 

Paul Klee, Bartolo la vendetta oh la vendetta, 1921.


Lo si vede in un’altra mostra, più piccola ma deliziosa (oltreché a ingresso gratuito, ma con catalogo solo in tedesco) proprio dall’altra parte della strada, a Monaco (alla Galerie Thomas sino al 12 maggio, a cura di Christine Hopfengart), Paul Klee. Musik und Theater in Leben und Werk. Oltre agli immaginari Strumenti per la musica contemporanea (come la Macchina per cinguettare, che a Boulez fa pensare a Kafka), sorprendono le marionette per micro-teatri da camera, e poi le tante evocazioni della musica buffa. Don Giovanni, e soprattutto Così fan tutte, sono il suo elemento. (In quella pagina di diario del ’15 si legge anche: «Mozart, senza avere una chiara visione del suo “inferno” [scritto in italiano], si salvò […] nella parte gioiosa dell’essere».)

 

Paul Klee, Die Zwitscher Maschine, 1922.


Ha ragione Boulez, comunque. La vera «osmosi», la «transustanziazione» fra due linguaggi non può passare che dai procedimenti. Per esempio Klee e Webern, che s’ignorarono cordialmente, «hanno entrambi trovato la soluzione dei piccoli impulsi, impulsi colorati in pittura, ritmici in musica». Per questo entrambi, verrebbe da aggiungere, hanno prodotto in piccolo, in termini di estensione: il loro pointillismeè strutturale (Klee avrà pensato ai mosaici di Ravenna), per questo i loro «francobolli», considerati da vicino, contengono interi universi. La «poetica della freccia» di Klee, come la chiama Boulez, disegna un cosmo in continua evoluzione in cui nessuna forma riposa in sé stessa, per invece generare forme sempre ulteriori: come la vita delle piante secondo quel Goethe a cui Webern, dice Boulez, «fa costantemente riferimento e a cui Klee si avvicina quando esamina la metamorfosi delle piante in natura». È un modo romantico, questo, di guardare alla natura come a un tutto: di cui la parte visibile ricapitola l’invisibile che lo prefigura (un «freddo romanticismo» definiva Klee l’astrazione). Nel catalogo della Pinakothek – a partire da uno dei quadri in assoluto più belli, Grenzen des Verstandes del ’27 – Stephen H. Watson s’interroga sui «limiti della ragione» esplorati dal pensiero-figura di Klee, che non smette mai di rileggere i romantici, a partire da Novalis.

 

Paul Klee, una delle tavole nei Discepoli di Sais di Novalis.


Sicché è quanto mai opportuna la prima edizione italiana dei Discepoli di Sais appunto di Novalis (a cura di Giampiero Moretti e Stefano Esengrini, nella bella collana «Parola dell’arte» di Morcelliana, pp. 129, € 13), in cui la novella-saggio del 1798 – come suo costume solo l’«inizio» di qualcosa che non troverà adempimento, opera aperta in genesi perpetua – è accompagnata da sessanta bellissimi disegni di Klee, come nella princeps uscita nel 1949. Si trattò, avverte Esengrini, di un accostamento ex post, non di un vero libro d’artista; eppure mai «parallelo» (come lo chiamò Stephen Spender nel presentarlo) fu più riuscito. Il territorio magico di Novalis è frutto di un’attenta, quasi scientifica composizione (La costruzione del mistero. suona in italiano il titolo della mostra alla Pinakothek), un reticolo di linee che alludono alla simmetria nascosta del mondo (come nell’esergo che ne trasse Tommaso Landolfi per la sua “goethiana” pietra lunare). E se lo slogan più famoso di Klee suona «l’arte non ripete le cose visibili, ma rende visibile», non stupisce che abbia cercato ispirazione nel poeta-pensatore che in uno dei suoi frammenti ha lasciato scritto: «Tutto ciò che è visibile è attaccato all’invisibile, l’udibile al non-udibile, il sensibile al non-sensibile. Forse il pensabile al non-pensabile». 

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Il design di Marco Zanuso o della sperimentazione

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RovelloDue Piccolo Spazio Politecnico

 

Forse non tutti sanno che il Politecnico di Milano ha una propria sede espositiva in via Rovello, presso il Piccolo Teatro. Almeno io lo ignoravo e come me anche molti che lo hanno scoperto grazie a Marco Zanuso (1916 - 2001). E da chi altri si poteva esserne informati, se non da uno dei componenti dello storico trinomio (o, meglio, della storica divina triade) formata da Paolo Grassi, da Giorgio Strehler e da Zanuso stesso, che del Piccolo Teatroè stato il grande architetto? 

Proprio lì, infatti, gli è stata recentemente dedicata una mostra.

La location espositiva si chiama RovelloDue Piccolo Spazio Politecnico e la sua ridotta metratura non fa che confermarne l’aggettivo qualificativo. Tuttavia essa è bastevole per costituire una valida testa di ponte alle iniziative culturali del PoliMi nel cuore della città meneghina.

A dire il vero, RovelloDue è una sede attiva già dal 2016, nata “dall’incontro tra Piccolo Teatro di Milano-Teatro d’Europa e Politecnico di Milano, legati da una profonda sintonia e da una lunga collaborazione,” che, secondo la condivisibile tesi di Sergio Escobar, direttore del Piccolo, è stata voluta dalle due istituzioni per confermare la natura “Politecnicale” di Milano e della cultura che la città produce, permeata dal rapporto inscindibile fra Arte e Scienza, nonché condotta nel segno dei suoi numi tutelari: Carlo Emilio Gadda in primis, che al Politecnico si è formato, Elio Vittorini, in secundis, che vi ha fondato la rivista “Il Politecnico”e – perché no? – anche lo stesso Marco Zanuso, che dello ‘spirito Politecnico’ è uno dei più illustri interpreti.

 

Il logo del Rovello Due – Piccolo Spazio Politecnico. Veduta dell’ingresso dello spazio espositivo dall’interno.


La mostra In linea con Marco Zanuso. Progetti e visioni tra utopia e razionalitàè, in realtà, una video installazione interattiva (curata da Davide Crippa) che ricostruisce virtualmente lo studio del grande architetto milanese. Unici elementi reali: il suo tecnigrafo e un esemplare di telefono Grillo (Siemens, 1966, con Richard Sapper, il cui nome deriva dalla sua suoneria che emula il finire del grillo), per mezzo del quale mettersi “in linea” con il maestro, così come suggerisce il titolo della rassegna. Infatti, componendo i numeri di telefono annotati su fogli appuntati al tecnigrafo, è possibile accedere alla visione delle immagini degli oggetti, a quelle degli edifici da lui realizzati e ai contenuti multimediali ad essi connessi, immergendosi così nella genesi creativa di ciascuna idea. L’ambiente della piccola sala è buio, e non soltanto per consentire una più nitida visione delle immagini, ma anche per accentuare la ‘messa in scena’ dell’installazione. Si è pur sempre a teatro e a me quel tecnigrafo solitario e al contempo monumentale ha richiamato alla memoria l’immagine della scenografia di Tadeusz Kantor per la sua La classe morta

 

Sul piano del tecnigrafo, unico punto illuminato da una specie di “occhio di bue”, sono appesi schizzi autografi di Zanuso, alcuni vetusti e un po’ polverosi ma comunque sempre capaci di “dare forma attraverso il progetto a quello che chiamo la Complessità”, come ha sostenuto lui stesso in un colloquio del 1999 con Franco Raggi (cfr. Marco Zanuso. Scritti sulle tecniche di produzione e di progetto, a cura di Roberta Grignolo, 2013, p. 324).

I progetti e gli oggetti che si possono invece ammirare digitando i numeri telefonici spaziano dalla macchina da cucire MOD. 1102, per Borletti del 1956, alla radio Cubo, per Brionvega del 1962 (con Richard Sapper); dalla poltrona Antropus, per Arflex del 1948 (nata come arredo di scena per la commedia “La famiglia Antropus” di Thorton  Wilder, rappresentata proprio al Piccolo Teatro), alla poltrona Lady, sempre per Arflex del 1951 (medaglia d'oro alla IX Triennale di Milano, 1951); dal televisore Doney, per Brionvega del 1962 (il primo televisore portatile europeo a transistor. Compasso d’Oro 1962), alla Seggiolina K 1340 per Kartell del 1964; dal divano Triennale per Arflex del 1957, al sistema per il sofà infinito Lombrico per C&B del 1967; dagli Stabilimenti Olivetti (Guarulhos, San Paolo, 1956/61; Buenos Aires, 1955/59); dagli uffici IBM (Segrate, 1968/76), agli interventi nelle tre sedi del Piccolo Teatro (Milano, 1979/98) e molte altre realizzazioni ancora.

 

Marco Zanuso, poltrona Antropus, Arflex, 1948 (oggi rimessa in produzione da Cassina); poltrona Lady, Arflex, 1951 (medaglia d'oro alla IX Triennale di Milano, 1951). Sotto: Marco Zanuso, Richard Sapper, telefono Grillo, Siemens, 1964 (Compasso d’Oro 1967); Seggiolina K 1340, Kartell, 1964 (Compasso d’Oro 1964).


La mostra, organizzata dal Politecnico di Milano, a meno di vent'anni dalla scomparsa del maestro e a più di cento dalla sua nascita, fa parte delle celebrazioni in suo onore, che hanno contemplato anche il convegno internazionale di studi a lui dedicato: Marco Zanuso: architettura e design. Quest'ultimo è stato congiuntamente promosso dall’Archivio del Moderno, Accademia di architettura – USI di Mendrisio, che, per volontà dello stesso progettista, custodisce ormai da diciotto anni il suo archivio professionale; dal Politecnico di Milano, dove egli ha studiato con Ernesto Nathan Rogers (vi si laurea nel 1939 con una tesi su Alexander Klein, relatore Ernesto Griffini) e vi ha anche insegnato per trent'anni, dal 1961 al 1991, avendo come proprio assistente per un certo periodo Renzo Piano; e dalla Fondazione/Ordine degli architetti P.P.C. di Milano e Provincia, a cui egli era iscritto.

 

Marco Zanuso, macchina per cucire superautomatica MOD. 1102 , Borletti, 1956 (Compasso d’Oro 1956); Marco Zanuso e Richard Sapper, radio Cubo, Brionvega, 1962; televisore Doney, Brionvega, 1962 (Compasso d’Oro 1962); Marco Zanuso, ventilatore Ariante, Vortice Elettrosociali, 1973 (Compasso d'Oro 1979).


Al tempo dei miei studi, in facoltà, Zanuso era chiamato da tutti gli allievi “zio Marco” (con buona pace del nipote autentico) anche da chi, come me, non frequentava direttamente il suo corso di Tecnologia dell'Architettura. Si tratta senza dubbio di una definizione all’antica, piena di affettuoso rispetto, riservata a chi, nel pieno rigoglio della vita, non poteva ancora essere definito padre, pur vantandone già ampi diritti. Ma Zanuso, padre e maestro dell’architettura e del design lo è certamente ed uno dei più grandi, anche, "il più problematico tra gli architetti italiani e il più tipico rappresentante di quella generazione 'di mezzo' venuta alla ribalta nell'immediato dopoguerra", come ebbe a definirlo Guido Canella.

 

Marco Zanuso, divano Triennale per Arflex, 1957; sistema per il sofà infinito Lombrico per C&B, 1967.


Marco Zanuso è stato inoltre fra i primi in Italia a occuparsi di disegno industriale e lo ha fatto da pioniere, tracciando la via per quelli che l'hanno percorsa dopo di lui e in molti casi ha addirittura precorso i tempi, come ricorda Ennio Brion a proposito della scocca trasparente del televisore Doney, (Brionvega, 1962), ripresa poi da Apple dopo oltre di 30 anni; per non parlare del telefono Grillo, che può essere considerato l’antesignano dei modelli di cellulari flip, realizzati a partire dagli anni ’90. 

Al tempo in cui il giovane Zanuso studiava, non esisteva in Italia una scuola di design (sarebbe poi stato lui a caldeggiarne la fondazione). A Milano, per esempio, si poteva frequentare il Politecnico, scegliendo tra la facoltà di Ingegneria e quella di Architettura. Lui optò per la seconda che, tra l’altro, muoveva i suoi primi passi di nuovo corso di laurea, inaugurato nel 1933. Come ha riferito Federico Bucci al Convegno, in quell’Anno Accademico alla nuova facoltà si erano iscritti solamente 19 studenti e tra questi c'era anche Marco Zanuso. Sorretto da una solida formazione umanistica, arricchita da quella tecnica appresa sui banchi universitari, e comunque già insita nel suo DNA, egli ha messo a punto un metodo progettuale fondato sul learning by doing. Ed è in questo modo che ha preso vita la maggior parte dei suoi progetti, con lo sperimentare nuove tecnologie, spesso da lui tradotte da un altrove: aeronautica, nautica, automobilismo, aviazione, addirittura dal mondo vegetale (come nel caso della sedia Lambda, Gavina, 1960), verso quello dell'arredamento. L’esempio più macroscopico sono i suoi lavori per Arflex, fondata da Pirelli nel 1948, che gli chiese di studiare la possibilità di un impiego della gommapiuma nelle imbottiture di poltrone e divani. La prima a vedere la luce fu la poltroncina Antropus, realizzata in legno e nastrocord, con un'imbottitura in poliuretano espanso schiumato, privo di CFC e di ovatta di poliestere. Ma essa non fu che l’antesignana di una lunga serie di sedute, divenute delle vere icone del design, come la poltrona Lady del 1951, ad esempio, realizzata attraverso la produzione separata delle parti e il loro successivo assemblaggio, e ancora il divano Triennale del 1957, tutti per Arflex. 

A proposito della poltrona Lady, così scrive Zanuso:

 

“La poltrona Ladyè il risultato più maturo della ricerca iniziata con il modello Antropus. La connessione e integrazione dei tre elementi che la compongono è diventata più elaborata e più complessa; durante l'evoluzione del progetto, il metodo di disegnare sovrapponendo le tre proiezioni dello spazio geometrico, che avevo visto usare nella progettazione dai carrozzieri d'automobile, si è dimostrato uno strumento efficace per il controllo formale dei modelli e da allora è stato adottato sistematicamente. La poltrona nella sua definizione ha acquistato maggior coerenza formale e maggior fluidità ergonomica".

 

L'obiettivo di Zanuso, insomma, è sempre stato quello di sperimentare di continuo per arrivare a tradurre in forma/struttura (“in ‘figuralità' […] volta alla plasticità", François Burkhardt, Design. Marco Zanuso, 1994) gli elementi tecnici, i materiali nuovi, le nuove tecnologie, dando vita ad “archetipi di oggetti".

Realizzati per le aziende più note, sia nel settore dell’arredamento che in quello degli elettrodomestici e dell'oggettistica: da Arflex, a Bonacina; da Gavina, a Kartell; da Elam, a Poltrona Frau, a Poggi; da Borletti, a Necchi; da Brionvega a Siemens; da Terraillon, a Vortice; da Aurora, a Cleto Munari e molte altre ancora, essi sono entrati a far parte della storia del design da autentici protagonisti.

 

Zanuso amava Jean Prouvé, fu proprio lui a farlo conoscere in Italia in un suo articolo pubblicato su Casabella-Continuità (dicembre 1953 – gennaio 1954, n. 199), quando era redattore della rivista di Rogers. L’ironia della vita ha voluto che purtroppo anch’egli, come Prouvé, abbia dovuto subire una progressiva marginalizzazione da parte della cultura ufficiale, al punto che persino il centenario della sua nascita è stato lasciato passare sotto silenzio.

Ben vengano, naturalmente, le iniziative di approfondimento e le occasioni di studio su di lui, come queste per addetti ai lavori, che Milano, la sua città natale e professionale, gli ha recentemente dedicato; sarebbe tuttavia auspicabile che organizzasse presto anche una grande mostra ‘popolare’ in suo onore (o, ancor meglio, un museo a lui intitolato), per proporne la conoscenza a un pubblico più vasto, soprattutto a quello dei giovani.

In fondo, Milano ha un grande debito di riconoscenza nei suoi confronti, come sostiene anche Burckhardt, e sarebbe ormai giunto il momento di iniziare a saldarlo:

 

“Concorrendo a fare della città un centro di diffusione di idee sul design riconosciute a livello internazionale, e ponendo l’estetica industriale al centro della propria attività, Marco Zanuso costruisce per Milano un'immagine e una fama che la fanno entrare nella storia come una delle capitali europee del design, fatto di cui essa ancora oggi si giova ampiamente e sotto gli aspetti più diversi, tanto economici, quando culturali".

 

Intelligenti pauca.

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