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Giacometti, Bacon: la cenere e la carne

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Il 13 luglio 1965 Alberto Giacometti incontra a Londra Francis Bacon, che conosce e ammira il lavoro dello scultore svizzero. È grazie alla pittrice Isabel Rawsthorne, per un periodo amante di Giacometti e amica comune, che si incontrano: la donna, una figura carismatica che fa parte dell’avanguardia parigina, posa come modella per entrambi gli artisti; la sua presenza avvicina i due ed è testimoniata in alcune opere in mostra, tra cui Femme au chariot (1945) e Portrait of Isabel Rawsthorne Standing in a Street in Soho (1967). Al tempo, Bacon non è il solo grande artista a guardare con rispetto alla produzione di Giacometti: la cronaca racconta che Pablo Picasso, dopo la guerra, si sia recato in visita allo scultore e gli abbia comunicato “Sono venuto qui per dirti che ci sei solo tu” (Giorgio Soavi, Alberto Giacometti. Il sogno di una testa, Mazzotta, 2000, p.  20). 

 

I due giganti si sono incrociati poche volte nella loro vita, ma l’appuntamento del 1965 è documentato dalle foto scattate da un giovane Graham Keene, durante l’allestimento della personale di Bacon alla Tate’s Gallery di Londra. Vediamo la testa arruffata, piena di segni dello svizzero, un volto che parla di fatica di vivere, eppure illuminato da una forma di grazia; dall’altra parte Bacon, con i suoi occhi incandescenti, spiritato, lui che dichiarerà di Giacometti “This is the man who has influenced me more than anyone”. Otto anni li separano, e a Giacometti rimangono solo pochi mesi di vita: tra loro sembra esistere un’affinità di lungo corso, un dialogo che sembra anticipare un’amicizia che, però, non avrà mai il tempo di compiersi. Sono due autori che hanno raggiunto la fama nel mondo dell’arte, conducono vite ugualmente disordinate e frequentano il mondo intellettuale, che gli tributa fama e rispetto. Del loro “cerchio magico” fa parte anche Ernst Beyeler, che colleziona e contribuisce alla diffusione delle opere dei due artisti. Tra queste, alcune sono oggi esposte nella meravigliosa mostra alla Fondazione Beyeler, costruita attraverso prestiti privati e istituzionali prestigiosi – tra cui il Moma di New York, il Centre Pompidou di Parigi e l’Art Institute di Chicago –, dove sono visibili numerosi lavori raramente esposti come Buste d’Annette IV (1962), inedito installato nell’ultima sala, o Figure in Movement (1972).

 

Francis Bacon, In Memory of George Dyer, 1971 Oil and dry transfer lettering on canvas je 198 x 147.5 cm Fondation Beyeler, Riehen/Basel, Sammlung Beyeler © The Estate of Francis Bacon. All rights reserved / 2018, ProLitteris, Zurich Photo: Robert Bayer.


Le vite degli artisti sono piene di contraddizioni e increspature, e le vite di Alberto Giacometti e Francis Bacon sono state colme di conflitti e dissipazione, tanto che le difficoltà delle loro reciproche esistenze interiori sono equiparabili solo all’importanza che la loro ricerca riveste nell’ambito dell’arte del ‘900. Questa smisurata grandezza non ha avuto luogo in virtù di una difficoltà che li accompagnati per tutto il loro cammino: l’idea dell’artista romantico, strapazzato dalla propria musa e la cui ispirazione è alimentata dal dolore è un cliché tanto pervicace quanto dannoso. Quello che invece possiamo rilevare è una comune, dolorosa attitudine alla vita, una tragicità che in modi differenti ma contigui, ha accompagnato passo dopo passo i due autori, accrescendone il mito e contribuendo ad alimentare quell’ossessione che li ha condotti, attraverso uno scavo implacabile, a toccare le più recondite profondità dell’essere umano.

Vedendoli oggi a confronto nelle sale della Fondazione Beyeler di Basilea ci si chiederà perché nessuna istituzione abbia provveduto prima a realizzare un’esposizione così necessaria. A partire dal nucleo espositivo, composto da cento opere di prim’ordine, la mostra curata da Catherine Grenier, direttrice della Fondation Giacometti di Parigi, da Michael Peppiatt, esperto dell’opera di Bacon e suo amico, e Ulf Küster, curatore della Fondazione Beyeler, offre un percorso esaustivo, che mette in luce i punti di contatto, le assonanze e le differenze che intercorrono tra le opere del pittore irlandese, autodidatta, e lo scultore proveniente da una famiglia di artisti, il maestro svizzero che amava definirsi “lombardo”.

 

Alberto Giacometti e Francis Bacon, 1965 Gelatin silver print © Graham Keen.


Di fronte alle opere che costellano il percorso espositivo, difficilmente si coglierà quell’elemento comune che avvicinò i due artisti nella pratica quotidiana dell’arte e che fu il dubbio. Nella potenza espressiva delle tele di Bacon e nei corpi combusti di Giacometti non è immediato rinvenire il tarlo che possiamo definire come il loro “minimo comun denominatore”; eppure, fu proprio una costante, ineffabile insoddisfazione ad alimentare la ricerca dei due, rinchiusi nei rispettivi studi, più simili a tane che a luoghi di sapere, sepolti da giornali e materiali di lavoro, disordine, fumo e alcool, l’uno immerso nelle fotografie che utilizzava come fonte d’ispirazione per le sue tele, l’altro in lotta con i modelli che obbligava a estenuanti sedute di posa, quasi costretti a non respirare per non “perdere la faccia”, una condizione transitoria che cercava di fermare nella terra, incidendola nella materia attraverso le dita e le unghie. 

Fu Bacon a dichiarare “I have never succeeded, and because of that I carry on; otherwise, I wouldn’t paint anymore. I keep hoping something will happen.” (nota a p. 17 del catalogo), e gli faceva eco Giacometti che continuava a ripetere come un mantra “non va”. Ecco un passaggio di un’intervista rilasciata alla Televisione della Svizzera Italiana dallo scultore:

 

«Senta, Giacometti, cosa sta facendo?» 

«Una testa. Insomma, l’unica cosa che ho voglia di fare è la testa. Così. È così, è difficile e non ci riesco. Allora...»

«Come, non riesce?» 

«Non ci riesco. Per niente. Non ci riesco.» 

«Ricerca la testa? O una testa?»

«Una testa qualunque. Sono incapace.»

«E questi corpi, così allungati, sono ispirati forse ai suoi corpi?»

«No, no. È involontario, non voglio più farli allungati. Diventano allungati malgrado me stesso; ma non erano allungati. Io vorrei farli, non lunghi eh, ma non riesco. Fino ad adesso non ho mai fatto, non un giorno dal ‘35 in poi, non ho mai fatto un cosa come volevo. È sempre uscita una cosa diversa da quella che volevo. Sempre. Io vorrei fare teste normali, figure normali. Insomma: non ci riesco»    

«Ma lei come giudica in generale le sue opere?»

«Male. Beh, sono tutte scadenti.»

«Questa è la forza dell’artista, no? La continua ricerca.»

«No, no. Io non sono riuscito. Sono delle ricerche mancate. Unicamente delle ricerche mancate, ecco.» (G. Soavi, cit., p. 45-46)

 

Non si tratta di una civetteria d’artista: sicuramente sia Giacometti che Bacon ne hanno avute molte, ma non rispetto alla lotta quotidiana che ognuno dei due si è trovato a combattere con l’oggetto della propria arte. C’è qualcosa di sacro nell’ostinazione con cui entrambi hanno cercato, attraverso la materia, di portare alla luce le forme, interrogando lo spazio e la carne, un’intenzione così lucida e determinata che ancora oggi lascia esterrefatti. 

Entrambi hanno lavorato essenzialmente sulla figura umana, seguendo fonti di ispirazione differenti, metabolizzando la storia dell’arte e le avanguardie fino a diventare loro stessi un’avanguardia, inventando una nuova lingua e riuscendo nell’impresa titanica di creare qualcosa che fosse dentro e fuori dal proprio tempo, un’opera universale ma al contempo completamente specifica, nella quale si inseguono gli echi della scultura etrusca e la statuaria egizia, gli affreschi pompeiani e Velasquez, l’astrazione americana, l’arte negra e lo spazio del Bauhaus, il surrealismo, i cristi medievali e il Barocco. Quel modo di lavorare ha a che fare con una inesorabilità della pratica dell’arte, qualcosa che attiene a un tempo passato (non solo al Modernismo) e alla solitudine. 

 

E certo, entrambi furono abitati da fantasmi. Nelle figure scavate di Giacometti e nelle creature urlanti di Bacon non si può non cogliere la voce dell’Europa lacerata dalle guerre, ma le presenze che popolano il lavoro dei due sono anche e prima di tutto apparizioni private, spettri della psiche e incubi che attengono alla propria, individuale umanità. In ogni amante, modello o immagine ritratta, quello che appare, come un riflesso che si sdoppia e prende vita, è una figura denudata – e per questo ridotta in cenere o deformata, avendo rinunciato all’apparenza per mostrare una realtà più fonda – ma anche il ritratto di un’impossibilità che appartiene all’artista stesso, la proiezione di un tormento che ha sempre a che fare con uno iato insanabile tra percezione e rappresentazione. Si tratta perciò di rivelare una presenza, che risiede al centro di ogni essere umano, e nel proprio io: su questo doppio registro rappresentativo, in una duplicità insanabile, risiede in parte la malìa che queste sculture e tele gettano anche oggi sullo spettatore, che si trova risucchiato in un vortice di rispecchiamenti. Non di meno, le risonanze tra i lavori dei due artisti vanno al di là di una comunanza di temi e di sensibilità, per sfociare in misteriose corrispondenze formali, come nel caso di Trois hommes qui marchent (petit plateau) del 1948 e Marching Figures (1952) o di Study for a portrait (1952) e di Têted’homme (n.d.).

 

Alberto Giacometti, L'homme qui marche II, 1960 Plaster 188.5 x 29.1 x 111.2 cm Fondation Giacometti Paris © Succession Alberto Giacometti / 2018, ProLitteris, Zurich.


Ci sono forze che si agitano nelle tele di Bacon e nelle figure di Giacometti: in Three Studies of Henrietta Moraes (1969) qualcosa spinge da dentro, obbliga la carne a cambiare la propria forma, soccombendo a un’altra forma che cerca di emergere. Non è solo un movimento in uscita, lacerante, un prolasso carnale e poi psichico, ma anche una spinta centrifuga, che prima deforma e poi investe anche lo spazio attorno alla figura, abbracciando la possibilità dell’astrazione. Qualcosa di simile accade nelle figure di Giacometti, che sembrano condannate dall’auto-consunzione da un’energia interna che si manifesta modellando la forma esteriore della figura, come nella composizione minuta di La Forêt (1950). Un forza che consuma e assomiglia all’istinto della sopravvivenza, alla fame, qualcosa di liminale eppure inestinguibile. Giovanni Testori ne scrisse sul Corriere della Sera con parole acute, cogliendo quella fiamma sottile:

 

“La forza di resistenza che l’opera di Giacometti possiede; una forza tenace e insieme esilissima; una forza ridotta, ecco, a lucignolo stesso di quella povera, ferita, offesa e bestemmiata candela che è l’esistenza”. (Giovanni Testori, Lo scultore del Nulla, Corriere della Sera, 2 ottobre 1991)

 

A Bacon, altro suo immenso amore intellettuale, Testori dedicò alcune delle sue pagine più intense, portando la scrittura d’arte a traboccare, per allargarsi a un territorio ibrido tra parola e segno pittorico. Nei passaggi delle Suites per Francis Bacon, scritti pubblicati postumi, la lirica ecfrastica cerca di compiere il salto per carpire lo spirito dell’opera del pittore:

 

“attorno alla sedia gestatoria

pende la carcassa umana,

ventre divaricato,

vano.

Urla:

trapassa dall’immemore del tempo

all’ardente, irrisolvibile presente;”

 

Le forze che abitano le opere di Giacometti e Bacon trovano un bilanciamento anche grazie alle gabbie che i due artisti introducono nelle proprie composizioni;, talvolta esplicitate come nel confronto che apre la mostra tra Head VI (1949) e Le Nez (1947-49), in La Cage (1947-49), presente in mostra sia nella versione in bronzo che in gesso, o in Study of a Nude (1952-53); talvolta solo percepibili, ma sempre presenti, come in tutto il ciclo dei “papi urlanti” di Bacon, dove lo spazio è sempre claustrofobico, controllato. Sono gabbie che indicano allo spettatore che si sta muovendo nel dominio della mente, ma sono anche perimetri simbolici in cui la figura è costretta, prigioni da cui è impossibile fuggire, pena la dissoluzione nel nulla. Senza quelle gabbie, sembra che la figura non possa essere, che attraverso quelle costrizioni trovi le coordinate per esistere nel mondo e da esse non possa prescindere. La griglia reifica un perimetro mentale, determina lo spazio e lo definisce, anche in assenza. E, per stessa ammissione di Bacon, le “scatole” sono strumenti che convogliano l’attenzione verso la figura, esaltandone la presenza in relazione allo spazio: un bellissimo esempio è Chimpanzee (1955), con la misteriosa figura bestiale addossata alla parete, o lo Study for Portrait VII (1953), con il papa che, come un morto vivente, sembra uscire da una bara. 

 

Se la gabbia stabilisce una relazione tra la figura e lo spazio, il colore in Giacometti soggiace all’imperativo della dissoluzione: è il grigio cenere, il grigio delle matite dure con cui graffia i propri disegni, le patine che il fratello Diego applica alla sculture che riesce a sottrarre di notte alla distruzione da parte di Giacometti stesso. Senza di lui non avremmo testimonianza di gran parte del lavoro dello scultore, che tendeva a riprendere incessantemente il pezzo lasciato incompiuto il giorno prima, senza giungere mai a una fine, preda di un febbrile bisogno di rifacimento. Per Bacon invece il colore è presenza, è brutale e dinamico, agisce come se fosse una figura a sua volta, esiste con una propria fisicità e presenza scultorea. Lo è nei neri profondi, che sembrano mangiarsi la luce, e nei grigi-bianchi mortiferi dei papi o di certe teste, a cui fanno da contraltare le squillanti cromìe dei senape, i verdi acidi, gli azzurri dei trittici. Tale evidenza si riscontra nelle magnifiche tele esposte nella sala numero 7, dove il rosa struggente di In Memory of George Dyer (1971, dedicato all’amante suicida) o il raramente visto Three Studies on Figures on beds (1972), che si alternano a tele singole come Lying Figure (1961) o Study for Bullfight No.2 (1969) e accerchiano le figure di Giacometti, tra cui Grande Femme III (1960), L’Homme qui marche II (1960), Femme de Venise I (1956, opera realizzata per la Biennale di Venezia) in una visione che lascia sgomenti per intensità drammatica. È qui dove si evidenziano anche i differenti approdi a cui giungono i due artisti: da un lato la violenza visiva di Bacon, controllata da una straordinaria sapienza formale ma pur sempre preda di un dinamismo senza scampo; dall’altra la ieraticità delle figure di Giacometti, come appartenenti a un altro tempo, idoli distanti e silenziosi.

 

Francis Bacon, Study for Portrait VII, 1953 Oil on canvas 152.3 x 117 cm Schenkung von Mr. und Mrs. William A.M. Burden. Acc. N.: 254.1956. © 2017. Digital image, The Museum of Modern Art, New York/Scala, Florence. © The Estate of Francis Bacon. All rights reserved / 2018, ProLitteris, Zurich.


A guardare oggi le opere di Giacometti e Bacon viene di chiedersi, come già fece Testori alla fine degli anni ‘80, cosa si sia salvato. Tutto e niente, potremmo dire. Gli “scorticati” di Bacon, figure senza pelle – simbolicamente e formalmente – che discendono direttamente da El Greco e Tiziano, insieme alle sue creature deformate, nate dalla visione di cristi e crocifissioni, dalle linee plastiche di Cimabue e Parmigianino, dalla grande ritrattistica seicentesca, hanno alimentato le visioni di autori a lui postumi che, nel campo delle arti visive e del cinema, hanno attinto per decenni a piene mani dal suo lascito. In modo meno evidente, qualcosa di simile è accaduto a Giacometti, vittima anch’esso di una extra-esposizione, vertice della scultura figurativa contemporanea a cui molti si sono ispirati ma la cui ricerca, allo stesso tempo, ha dimostrato di contenere in sé la propria fine, un capitolo figurativo che si è concluso con un ultimo slancio bruciante, verticale. Dopo Giacometti e Bacon, per la figura sembra esserci solo la dissoluzione o l’astrazione. La loro arte, potente nella propria differente fragilità, rappresenta una stagione all’inferno irripetibile, una strada che il contemporaneo non può più percorrere, disorientato com’è da fantasmi digitali che impongono una riflessione sul corpo radicale, ora che si profila con più chiarezza il passaggio da un’umanità carnale a un’umanità aumentata

O forse no, forse c’è sempre una possibilità della forma, ma questo ce lo potrà rivelare solo il prossimo artista in grado di arrivare là, dove sono stati loro. 

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Lo spazio rende liberi

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Il Padiglione Britannico, un austero edificio in stile neopalladiano firmato dall’architetto Edwin Alfred Rickards risalente al primo decennio del 1900, è trasformato – con l’aiuto di un ponteggio metallico – nel gigantesco supporto per una terrazza di legno montata al livello del tetto. Raggiungibile mediante una lunga scalinata esterna, la piattaforma (denominata icasticamente Island e progettata dagli architetti Caruso St John in collaborazione con l’artista Marcus Taylor) consente ai visitatori di osservare i Giardini della Biennale dall’alto, riposarsi sulle sedie che vi sono disposte, prendere il sole o sorseggiare il tè che viene puntualmente servito alle 16. 

 

 

Nelle Corderie dell’Arsenale, l’architetto portoghese Álvaro Siza dispone una panchina di marmo di forma semicircolare, impreziosita da un elemento scultoreo astratto collocato in posizione asimmetrica. La panchina è fronteggiata da un muro bianco altrettanto curvo, che offre a chi si sieda un orizzonte definito ma percettivamente infinito, e configura nel suo complesso uno spazio intimo, benché aperto e penetrabile.

 

Al termine della lunghissima navata delle medesime Corderie, l’architetto svizzero Valerio Olgiati ha collocato una piccola selva di colonne, candide e del tutto prive di qualsiasi ornamento o ordine; elementari e svettanti cilindri che intrattengono una stretta relazione con i ben più possenti pilastri rotondi in mattoni che costituiscono l’ossatura del vetusto edificio veneziano. In questo caso, la “funzione” dell’intervento risulta meno immediatamente evidente. Non si tratta di uno spazio di riposo, e neppure di semplice sosta o intrattenimento. Piuttosto uno spazio evocativo, simbolico, anche se di che cosa precisamente non è dato saperlo, ovvero è lasciata a ciascuno la libertà di attribuirvi il significato che gli pare.

 

 

È proprio il tema della libertà quello intorno a cui gira il senso di tutti gli spazi sopra citati, e di molti altri presentati nell’ambito della 16. Mostra Internazionale di Architettura alla Biennale di Venezia. Con risultati di qualità tra di loro differenti (com’è del resto prevedibile in occasione di grandi manifestazioni di questo tipo), l’edizione curata da Yvonne Farrell e Shelley McNamara, le architette irlandesi che dal 1978 hanno dato vita allo studio Grafton Architects, cerca di offrire al pubblico dei visitatori l’esperienza – diretta o indiretta – di quanto hanno denominato FREESPACE. Nella mostra, lo “spazio libero” in questione è inteso in molteplici modi dai diversi architetti e gruppi invitati, e variamente interpretato nei numerosi padiglioni nazionali. Ma è soprattutto all’interno del progetto curatoriale di Farrell e McNamara che lo “spazio libero” occupa un posto centrale; posto che le due curatrici hanno significativamente segnato con un “manifesto” vero e proprio. 

 

 

In esso si legge tra l’altro: «FREESPACE rappresenta la generosità dello spirito e il senso di umanità che l’architettura pone al centro della propria agenda, concentrando l’attenzione sulla qualità stessa dello spazio.

FREESPACE si concentra sulla capacità dell’architettura di offrire in dono nuovi spazi liberi a coloro che la utilizzano, nonché sulla sua capacità di soddisfare i desideri inespressi.

FREESPACE celebra la capacità dell’architettura di trovare in ogni progetto una nuova e inattesa generosità, anche nelle condizioni più private, difensive, esclusive o commercialmente limitate.

FREESPACE invita a riesaminare il nostro modo di pensare, stimolando nuovi modi di vedere il mondo, di inventare soluzioni in cui l’architettura provvede al benessere e alla dignità di ogni abitante di questo fragile pianeta».

 

 

Da questo “manifesto” promana un’idea ottimistica e umanistica dell’architettura, un’idea che pecca indubbiamente di vaghezza e astrattezza, ma che altrettanto sicuramente prende le distanze dal modo in cui l’architettura è intesa nell’epoca presente: un’architettura non soltanto finalizzata nella gran parte dei casi a scopi commerciali ma anche integralmente immersa in una prospettiva esclusivamente economica. Il “manifesto” di Farrell e McNamara, da questo punto di vista, risuona più come un appello che come una dichiarazione di poetica o la constatazione di una condizione corrente. E forse – per quanto possa risuonare apparentemente ingenuo e sotto molti aspetti inattuale – tale appello è la “novità” più interessante di questa Biennale. 

 

 

Come tutte le Biennali veneziane (di architettura o d’arte), anche quella delle Grafton è probabilmente destinata a lasciare insoddisfatti molto visitatori, a sollevare polemiche e a generare scontento. Come sempre, soprattutto nelle ultime edizioni, troppo lo spazio a disposizione, e troppi i progetti e le opere esposti, per potere sensatamente centrare l’obiettivo prefissato dal tema e da chi l’ha proposto. Tra i lavori presentati che paiono poco consonanti con i presupposti della mostra, diversi sono anche quelli direttamente selezionati dalle curatrici (basti pensare ai modelli di Peter Zumthor, esposti nel Padiglione Centrale, tanto belli quanto tutto sommato incongrui nell’economia dell’esposizione; o alla confusa e in fondo inutile sezione Close Encounter. Meetings with remarkable buildings, al centro del medesimo Padiglione, in cui 16 edifici d’affezione per le curatrici sono reinterpretati e riproposti attraverso modelli anche abitabili da altrettanti architetti contemporanei). Come in tante altre circostanze analoghe, inoltre, estremamente soggettivo risulta anche ciò che si lascia “salvare” all’interno del panorama complessivo (il bellissimo spazio esterno-interno inventato da Flores & Prats alle Corderie, o Freestanding di James Taylor-Foster, dedicato a una intensa rilettura delle cappelle dell’architetto svedese Sigurd Lewerentz, per fare solo un paio di esempi); tanto soggettivo da non costituire il possibile fondamento per un discorso critico solido e sensato. 

 

 

Ciò che invece appare significativo e degno di costituire il nucleo di una concezione nuova e diversa dell’architettura oggi è proprio quanto posto da Farrell e McNamara al centro dell’attenzione con la loro Biennale: non una fotografia dell’esistente (come spesso accaduto in passate edizioni), e neppure l’indicazione di “pratiche virtuose” (com’è stato in occasione della 15. Biennale del 2016, curata da Alejandro Aravena); piuttosto un’ipotesi di sviluppo alternativo rispetto a quello che l’architettura allo stato attuale propone, o riflette.

 

Certo, manca nei presupposti del discorso impostato dalle due architette irlandesi qualsiasi considerazione in merito all’attuabilità – politica, economica, sociale – della loro ipotesi. Se l’architettura è diventata oggi l’emanazione di un capitalismo che lascia pochissimi margini ad ogni opposizione e che riduce ogni espressione al proprio interno a semplice “cosa” ubbidiente assai più alle sue proprie logiche che non a quelle dei soggetti che la praticano e che ne usufruiscono, non è affatto facile anche solo pensare – per non dire poi tradurre in atto – una vera e compiuta libertà architettonica. Ma è altrettanto significativo che tale libertà, per le Grafton, si presenti strettamente legata alla sostanza stessa di cui è fatta l’architettura, vale a dire lo spazio.

 

 

Se lo spazio incarna nel modo più effettivo e profondo l’essenza dell’architettura, lo “spazio libero” incarna l’essenza di un’architettura libera non tanto dalle sue funzioni, quanto piuttosto dai luoghi comuni che ordinariamente la vincolano e oggi finiscono per soffocarla. Si tratta di un ripensamento dell’architettura a partire da se stessa, dalla propria capacità di offrire riposo, protezione, piacere, comfort, stupore, e da quella dell’architetto di donare attraverso di essa, attraverso la sua invenzione, una condizione di emancipazione, di autonomia dal modo di pensare e di agire dominante. 

 

 

Ricorda, questa impostazione, il tentativo di modificazione della società mediante l’architettura propugnato negli anni venti del Novecento da Le Corbusier: la rivoluzione dell’architettura moderna, anziché quella attuata per via politica. E tuttavia, è assente – nel “manifesto” delle Grafton – qualsiasi riferimento a un’architettura determinata da un punto di vista “stilistico” o estetico. La vera rivoluzione di cui l’architettura dovrebbe farsi carico oggi è – o dovrebbe essere – comportamentale; offrire lo scenario per una liberazione dei nostri corpi e delle nostre menti, dentro le condizioni date, ma nella misura del possibile contro di esse.

 

 

Quanto questa liberazione per via architettonica sia agevole è difficile a dirsi. Di certo non trova un terreno fertile nel panorama (politico, economico, sociale) odierno; e prevede da parte degli architetti una “supplenza” alla quale probabilmente questi non sono preparati. Per questo, l’averla almeno nominata in un consesso internazionale di una simile importanza, è già di per sé rilevante. Anche se farlo espone chi se n’è fatto carico a prevedibili critiche o derisioni. Ma non è forse sempre stato così per tutte le manifestazioni che nella storia hanno provato a immaginare qualcosa di diverso da ciò che la realtà proponeva, o imponeva? Poteva giovare loro un mero rispecchiamento della realtà? O non era piuttosto l’assenza di questo il segno di una possibile apertura verso altri, diversi orizzonti, verso la libertà?

 

Tutte le fotografie sono di Marco Biraghi.

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Fotografia, documento, ambiguità

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Laura Gasparini incontra Simone Sapienza e Umberto Coa, fotografi tra i finalisti della Public call della dodicesima edizione di Fotografia Europea a Reggio Emilia. 

 

Simone Sapienza

 

LG: Rivoluzioni, ribellioni cambiamenti, utopie. Il titolo di questa edizione di Fotografia Europea si addice molto a diversi tuoi progetti che hai realizzato in Vietnam come United States of Vietnam e Charlie surfs on Lotus Flower. Puoi raccontarci la tua declinazione?

 

SS: Sono molto affascinato dalle tematiche vicine al potere e a come quest'ultimo possa influenzare il corso della storia e soprattutto la percezione di essa. I due progetti sono in qualche modo complementari, anche se United States of Vietnam, in formato installazione-bandiera, è diventato sempre più bonus track dell'altro. La dinamica è stata pressoché questa: la bandiera rappresenta in maniera seriale e controllata la "libertà" in crescita del mercato; Charlie surfs on Lotus Flowers si concentra invece sulla tematica del controllo (politico) attraverso un approccio libero e slegato da ogni vincolo giornalistico. È come se tematica ed approccio fotografico si alternassero e compensassero.

 

LG: Perché, nelle tue indagini, hai scelto il Vietnam? Quali sono stati i cambiamenti e, forse, le utopie tradite o no, che più ti hanno affascinato di quel paese?

 

SS: Durante i miei studi in fotografia, ebbi modo di scoprire come la guerra del Vietnam fu crocevia fondamentale per la storia della fotografia documentaria in particolare dal fronte di guerra. La documentazione di quel fallimento ha dato il via alla censura e al fotografo embedded, fino a rinnovarsi totalmente in citizen journalist ai tempi della Primavera Araba. Così cominciai a chiedermi cosa sapessero i miei coetanei della storia del Vietnam, e mi sono reso conto che i riferimenti principali fossero cinematografici, non essendo un argomento battuto nelle scuole. Mi chiesi poi io cosa ne fosse rimasto del Vietnam oggi, e da lì le scoperte sui dati economici, sociali e demografici mi hanno spinto ad approfondire il Vietnam oggi, al di là delle risaie e altri stereotipi da cartolina. Utopie tradite, sicuramente – come in tanti altri Paesi in cui la rivoluzione ha portato ad una forma diversa di potere, spesso assoluto. Ecco perché il Vietnam c'è, ma non è così esplicito nelle foto. È un simbolo.

 

 

LG: Ti definisci fotografo documentario, a quale pensiero ti senti più vicino, in particolare a quale autore?

 

SS: La mia definizione di fotografo documentario è molto vaga, eterogenea, spesso criticata. Credo molto nell'importanza della ricerca preliminari nei progetti – per me, è quello a definire un progetto documentario o meno. Per il resto, c'è un determinato tasso di interpretazione che può essere più o meno esteso, a seconda del progetto. Sicuramente, al di là dei fotografi di break news, non credo nell'obiettività della fotografia come medium, e quindi in quella presunzione di verità spesso portata in auge dal mondo del fotogiornalismo. Si prendi ad esempio il WPP – World Press Photo – negli ultimi due-tre anni, è tornato a rifossilizzarsi e auto-compiacersi, è attuale nelle tematiche rappresentate, ma totalmente scostato dalla realtà quanto a cambiamento del medium fotografico. 

Non ho degli autori di riferimento in maniera "religiosa", diciamo. Ce ne sono due che stimo moltissimo, grazie al loro approccio metodico e intelligente, progetto per progetto, Max Pinckers e Federico Clavarino. Quest'ultimo, anche ottimo docente che riesce a distinguersi rispetto all'offerta educativa vasta sì, ma generalmente sempre più piatta. Rispetto alla fotografia del passato, rispetto eterno per Frank ed Eggleston, e non per assonanza di approccio. Semplicemente, ci ricordano che a volte bisogna passare per "eretici" prima di poter affermare il proprio linguaggio.

 

LG: Il linguaggio fotografico che utilizzi nel descrivere e documentare i temi dei tuoi progetti non è diretto ma richiede un’attenzione e una partecipazione attiva dello spettatore. È un elemento indispensabile del tuo modo di documentare?

 

SS: Nei miei ultimi progetti c'è un elemento in comune: la decontestualizzazione. Mi piace l'idea di poter realizzare dei progetti che possano rappresentare realtà simili, seppur con geografie e storie diverse. Quest'approccio è diventato ancor più estetico in Vietnam. Le fotografie sono poco descrittive, semplici, quasi banali e troppo pulite. Quindi sì, bisogna un po' scavare e trovare empatia con i soggetti, e soprattutto con gli oggetti. L’immagine verticale, inconsciamente, mi aiuta in questa pulizia di contenuti. Mi sarà stato detto così tante volte che una fotografia deve raccontare quanto più da sé, che alla fine ho cercato di limitare i messaggi espliciti. Sì, sono un po' bastian contrario.

 

 

 Umberto Coa

 

L.G.: Non dite che siamo pochi nasce da un ritrovamento avvenuto casualmente di fotografie, lettere e documenti. È l'ennesimo ritrovamento che ha fatto scaturire un progetto che presenti a Fotografia Europea 2018. Puoi parlarcene?

 

U.C.: Il lavoro si sviluppa a partire da un espediente narrativo, il ritrovamento di un insieme di fotografie, documenti, provini a contatto, libri, oggetti e diari. Questo materiale è stato messo insieme e mi è stato consegnato da un uomo, al quale mi riferisco utilizzando solo le sue iniziali: MB. 

In molti lo definirebbero un anarchico insurrezionalista, io preferisco anarchico d’azione. Il materiale raccolto, in fondo, si concentra prevalentemente su questo aspetto: quello delle pratiche di opposizione e di attacco al potere e agli strumenti d’oppressione. Dalle fotografie di MB emergono le diverse forme attraverso le quali la rivolta si manifesta, investendo l’esistenza nella sua interezza. Così immagini di cortei, sabotaggi, cariche e prigioni si alternano ad altre di natura privata. A questo si aggiungono collage e fotografie storiche rielaborate, che dialogano con scritti, comunicati di rivendicazione e opuscoli. 

Le didascalie aiutano a seguire il percorso del protagonista, contestualizzando le immagini e dando un nome ai volti che incontriamo: Luigi Lucheni, Severino di Giovanni, Horst Fantazzini, Niko Matiotis e altri ancora. 

Tutto ciò conduce al cuore di un’idea di rivolta, con un suo portato fisico, corporeo, che si esprime alla luce del giorno così come nel buio della notte, dall’Italia alla Grecia, dalla Spagna alla Francia.

 

 

LG: Hai dismesso i panni del fotografo per indossare quello dell'archeologo, come direbbe Michael Foucault l'"archeologo dei saperi". Cosa hai scoperto?

 

UC: Tante cose. Cercare di riassumerle sarebbe riduttivo.

Non avendo vissuto gli eventi cui si fa riferimento e non avendo preso parte a situazioni simili, non mi sento di poterne fornire un’analisi esaustiva. Il mio lavoro può al massimo contenere degli indizi, a partire dai quali ciascuno può provare a discostarsi dalla lettura che comunemente viene data di tutte quelle azioni di dissenso che vanno oltre i limiti legali e morali della società democratica.

 

LG: Vedendo il tuo lavoro, però, sorge spontanea la domanda cosa hai inventato?

UC: MB non è mai esistito; il suo archivio raccoglie immagini trovate in rete, frame estrapolati da video, messe in scena e fotografie che talvolta non hanno niente a che vedere con l’oggetto del racconto. Paradossalmente queste sono le sole che hanno mantenuto la funzione, unicamente narrativa, per le quali sono state realizzate. 

Anche l’idea di installazione, curata da Renata Ferri, è stata quella di costruire una dimensione dell’immaginario, in cui la finzione penetra nella realtà e si confonde ad essa. 

I riferimenti a eventi accaduti, nonché i documenti che utilizzo, sono frammenti del percorso biografico di MB. Costituiscono, così come il resto del materiale esposto, una prova tangibile della sua esistenza.

Non mi interessava quindi fornire una precisa ricostruzione storica o dare informazioni complete. Ho provato a raccontare una storia, sperimentando le molteplici possibilità con cui orientare il significato delle immagini e chiedendomi che ruolo queste svolgano nella percezione della realtà. 

Per sapere cosa è inventato, cosa non lo è, cosa è attendibile, cosa è manipolato, bisogna verificare.

Questo lavoro può anche essere letto come un invito a distinguere tra vero e falso rispetto a un tema preciso.

 

 

LG: La fotografia, o meglio le immagini, hanno un potere evocativo straordinario tale da "documentare" una realtà che non esiste. È un aspetto davvero sovversivo del linguaggio della fotografia. Tu come l'hai elaborato?

 

UC: Questo aspetto sovversivo della fotografia è stato utilizzato, per ragioni diverse, fin dai primi anni di diffusione del mezzo. Prendendo spunto dai diversi episodi che si sono susseguiti nel campo dell’arte e dell’informazione, ho utilizzato l’ambiguità delle immagini, la loro naturale capacità di mentire, come una risorsa utile per costruire una storia, servendomi di quello che ho trovato e aggiungendo le “parti mancanti’’: una continua opera di selezione, riadattamento e decontestualizzazione. 

Le didascalie ricollocano le immagini nello spazio e nel tempo. 

 

 

Così un frame tratto da un video di scontri a Exarchia nel 2016, mi permette di far riferimento alle proteste durante il Consiglio europeo di Salonicco del 2003. Un incendio di un traliccio causato da un corto circuito, si trasforma in un’azione di sabotaggio. La foto di un portabagagli con un bidone di plastica diventa l’anello di congiunzione tra l’immagine di un ordigno incendiario a quella di una ruspa in fiamme.

Il metodo che ho seguito acquista senso in rapporto al tema trattato; in questo senso il personaggio di MB ha un ruolo chiave in quanto presunto testimone diretto. Io riorganizzo il suo archivio, aggiungendo un secondo filtro. Nel momento in cui scopri che lui non c’è, ti chiedi che cosa sia veramente quello che hai di fronte. Quanti filtri ci siano effettivamente tra la realtà a cui si fa riferimento e la sua rappresentazione. 

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I francobolli di Elisabetta Di Maggio e Flavio Favelli

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Rispetto ad altre forme di collezionismo iscritte nelle opere d’arte, la filatelia ha uno statuto ambivalente. Al pari di ogni collezionista quello di francobolli è un malinconico (se non altro perché, come ogni collezione, anche la sua è costitutivamente destinata allo scacco dell’incompletezza e della morte, come il puzzle di vita del Bartlebooth di Perec nella Vita, istruzioni per l’uso).

 

Greetings from Venice, ph Matteo De Fina.


Eppure permane sempre in lui un tratto espansivo, che deriva dalla radice infantile di ogni collezione di francobolli, «mossa insieme dalla passione per l’esotismo e da quella per la sistematicità della serie». Così scriveva il Calvino di Collezione di sabbia commentando l’opera di Donald Evans (pittore americano morto trentenne nel ’77, e specializzatosi nella pittura – a matite e acquarelli – di francobolli d’invenzione scrupolosamente ascritti, appunto per serie, a paesi e periodi storici altrettanto immaginari). Sicché «questo preteso introverso era un uomo nient’affatto ripiegato su se stesso ma proiettato sul fuori, sulle cose del mondo, scelte e riconosciute e nominate una per una con delicatezza e precisione amorosa». La filatelia non è che un metodo illusoriamente abbreviato, a misura d’infanzia appunto, con cui ci s’illude di appropriarsi di uno scibile umano racchiuso entro proporzioni in apparenza gestibili. Collezionare francobolli equivale a pretendere di catalogare il mondo, in formato ridotto: a partire dalle sue categorie fondanti, la storia e la geografia. 

 

Greetings from Venice, ph Matteo De Fina.


Molti artisti degli ultimi decenni hanno provato a esercitare questo controllo del mondo miniaturizzato, in scala. Ad Alighiero Boetti, per esempio, colori e forme dei francobolli (rigorosamente scelti fra i più ordinari e “seriali” possibili) consentivano combinazioni matematiche, serie inesauribili, multiformi gradazioni di colore (opportunamente “sporcate” dall’irregolarità dei timbri postali). Ma la mail art– che ha conosciuto il suo periodo d’oro al displuvio del situazionismo, fra anni Settanta e Ottanta – vive oggi una condizione paradossale. Nata come messa fra parentesi dell’autore individuale, per sostanziarsi di circuiti relazionali e networks creativi, è oggi esautorata – come in generale la posta cartacea – dal network globale che è la Rete. E sopravvive allora, ricondotta alla sua matrice malinconicamente individualista, solo come ossessione privata, liturgia famigliare, memoria di repertori luttuosamente conclusi (l’ascetismo associato al nomadismo, celebrato già in Evans da Bruce Chatwin; ma lo stesso Boetti – ha testimoniato la figlia Agata– concepiva le sue lettere come un modo introvertito e compensatorio, quasi à la Raymond Roussel, di “vedere” il mondo: «se la gente non viaggia, le lettere lo fanno al loro posto»).  

 

Greetings from Venice, ph Francesco Allegretto.


È un caso eloquente che due artisti pressoché coetanei (nati rispettivamente nel ’64 e nel ’67) ma fra loro diversissimi, Elisabetta Di Maggio e Flavio Favelli, abbiano esposto lavori che proprio i francobolli impiegano come materiale. Di Di Maggio Greetings from Venice (a cura di Chiara Bertola, fino al 25 novembre) è un’installazione collocata al quarto piano (o Event Pavillion) del Fondaco dei Tedeschi, nel quale a Venezia a lungo ha avuto sede il Palazzo delle Poste ma ha dovuto subire, qualche anno fa, la riconversione in centro commerciale di lusso; di Favelli Serie Imperiale (Italian Council 2017, a cura di Elisa Del Prete e Silvia Litardi, dal 24 marzo al 3 giugno) si compone di due pitture murali di grande formato (due metri e mezzo circa d’altezza), collocate nella Casa del Popolo e nell’ex Minicoop (spazio commerciale dismesso e prossimo all’abbattimento) di Bazzano, in provincia di Bologna (le due pitture, alla fine della mostra, verranno “strappate” e trasferite su tela, mentre i “buchi” resteranno “otturati” da due «anti-dipinti», come li chiama Favelli: stuccature e rattoppi su intonaco). 

Non si possono immaginare procedimenti più distanti: Di Maggio impiega francobolli di tutte le epoche e di tutti i paesi, in numero esorbitante (centomila sono quelli giustapposti sul pavimento del Fondaco, con la collaborazione degli studenti del Liceo Marco Polo), materialmente disponendoli su una superficie orizzontale. L’esito è un mosaico multicolore e festoso, che allude ovviamente a quelli della Basilica di San Marco: e il percorso che facciamo su di esso, infatti, conduce a un belvedere, sulla città-giocattolo, che induce i turisti a mettersi in coda a serpentone. Di contro, Favelli usa solo l’immagine di due singoli francobolli, della stessa serie che dà il titolo del suo lavoro (uscita fra il 1929 e il ’42), e li colloca in verticale, a parete: due facce di Vittorio Emanuele III, il re formato-francobollo, qui ingrandite a dismisura, ci osservano intimidatorie; il suo volto imperscrutabile è reso ancora più enigmatico, sin quasi all’irriconoscibilità, dalle sovra-scritte a pesanti caratteri neri, del territorio di Zara occupato dalla Wehrmacht, e rossi, della Repubblica Sociale Italiana. L’esito è severo, laconico, dalla cupezza quasi minacciosa. 

Già le sedi dei rispettivi interventi la dicono lunga sulla distanza fra i due temperamenti, prima che fra le loro opere. Lo scenario di Bazzano, dimesso e pressoché dismesso, allude a una storia opacizzata e “rientrata”, sconfitta e denegata, che ci appare come un revenant persecutorio; il décor squillante di colori e cartellini di prezzi del centro commerciale, che per raggiungere il lavoro di Venezia tocca attraversare (un po’ come il serpentone in autogrill, per guadagnare la zona dei bagni), dice di un presente assoluto e ostentatamente spensierato. Il titolo di Favelli è tetramente suprematista e rinvia a una storia tragica, quello di Di Maggio ironizza sull’exploitation a stereotipo turistico di un territorio non meno carico di storia. 

 

Greetings from Venice, ph Francesco Allegretto.


Ma il sorriso eginetico di Betta non è meno crudele del cipiglio corrucciato di Flavio. A un esame più attento, infatti, i loro lavori mostrano un elemento decisivo in comune. Entrambi ragionano sullo spessore del tempo mediante pratiche di sovrapposizione e palinsesto, immagini dialettiche. Le sovra-scritte sui francobolli, come ben sanno i filatelici, sono sigle provvisorie di passaggi storici repentini, brutali, quasi sempre tragici. Dicono di occupazioni, spodestamenti, sfollamenti. E i passaggi successivi del progetto di Favelli, lo strappo e l’otturazione, riproducono ex post e appunto in scala, come in una macchina del tempo, la violenza di quella storia. Mentre il mosaico di Di Maggio, dalla minuziosità maniacale che come suo solito capovolge in ossessione sacrificale ogni sospetto di decorativismo, a sua volta “scava” il pavimento del centro commerciale «creando un fittizio cantiere archeologico in cui si è scoperto un immaginario pavimento nato negli interstizi di quello spazio», come scrive Chiara Bertola: l’anima “postale”, fatta di un lavoro materiale come il suo stratificatosi nei decenni, è un passato che, anche in questo caso, riemerge a contraggenio, diplopia e sovrimpressione d’una storia preterita e rimossa. E che costringe, chi voglia apprezzarne da vicino l’arazzo sterminato di tempi e luoghi che lo compone, a inchinarsi: a quella storia. 

 

Una versione più breve di questo articolo è uscita su «Alias» il 27 maggio

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Carlo Scarpa bizantino

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“Oh! Come balleremo, quel giorno! Oh! Come plaudiremo alle lagune, per incitarle alla distruzione! E che immenso ballo tondo danzeremo in giro all’illustre ruina [di Venezia]!” declamava Filippo Marinetti nel Discorso futurista ai Veneziani improvvisato al Teatro La Fenice nel 1910. 

Se il desiderio dei futuristi si fosse avverato Venezia non avrebbe il problema delle moltitudini che invadono la laguna per ammirare i suoi monumenti architettonici, perché sarebbero stati sacrificati a un “supremo ideale estetico”. “È nella certezza che nella fatale e futura distribuzione del lavoro tra le razze, all’Italia solo sarà dato di rinnovare un supremo ideale estetico in cui potranno riconoscersi gli uomini superiori di razza bianca!”, scriveva Umberto Boccioni in Pittura e scultura futuriste (Dinamismo plastico) del 1914. 

Cosa avrebbero mai edificato al posto di Venezia storica questi uomini di razza superiore? “Ponti metallici” e “opifici chiomati di fumo” annunciavano nei volantini lanciati dalla Torre dell’Orologio sulla folla l’8 luglio 1910. Alcuni ponti metallici in effetti sono stati costruiti e a Marghera anche molti opifici “chiomati di fumo”, ma le macerie dei palazzi storici non hanno colmato “i piccoli canali puzzolenti”, come i futuristi avrebbero voluto.

Venezia storica è ancora al suo posto, anche se con i tornelli posizionati ai piedi del Ponte della Costituzione e del Ponte Degli Scalzi, per monitorare gli ingressi e indirizzare i non residenti a percorsi alternativi nel caso di sovraffollamento. 

 

Varco posto ai piedi del Ponte degli Scalzi. 


Tornelli sì o tornelli no? 

Dalla contesa del 29 aprile scorso tra amministrazione pubblica e giovani dei centri sociali che hanno tentato di rimuovere i tornelli posti ai piedi del Ponte della Costituzione, la questione è ancora aperta. È un problema di ordine pubblico, come sostiene l’amministrazione? D’impoverimento demografico e sociale, come lamentano i giovani dei centri sociali? Molti sostengono che sia un problema da risolvere politicamente. 

E se fosse invece un problema da risolvere geometricamente, mi viene da pensare oltrepassando il varco posto ai piedi del Ponte degli Scalzi? 

Mi torna alla mente un ragionamento che Narciso Silvestrini, studioso del colore e della geometria chiaroscurata, fece in occasione di una cena organizzata a casa di Marco Belpoliti. Mentre Lino Gerosa riposava sul divano e Giuseppe Di Napoli sturava una bottiglia, Silvestrini esponeva alcune sue riflessioni sulla geometria, utili per comprendere la funzione del granello di sabbia nell’architettura in calcestruzzo armato. Ogni dimensione trova il suo limite in quella precedente: il volume nella superficie, la superficie nella linea e la linea nel punto, ma il punto? Il punto non ha dimensione eppure è la condizione di possibilità di ciò che ha dimensione. Silvestrini paragonò il punto al granello di sabbia nel calcestruzzo armato che ha in potenza tutte le dimensioni e le forme possibili, al che mi venne da pensare che doveva essere il punto della geometria intuitiva perché nella geometria razionale è concepito come entità astratta, non certo come granello. 

 

Mi fermo perplesso in Campo San Geremia e telefono a Silver (così viene confidenzialmente chiamato dagli amici) per avere un chiarimento. Gli chiedo se ricordo bene i contenuti della conversazione, ma subito sposta il discorso sugli strumenti di scrittura e disegno appuntiti – anche qui il punto è inteso in modo intuitivo – attraverso i quali il pensiero fluisce e poi sul punto che genera la linea, la linea il volume, il volume un ipervolume, ma siccome la quarta dimensione non è rappresentabile, l’ombra di un volume è la manifestazione di un ipervolume irrappresentabile. Perbacco! Penso tra me e me mentre Silver fila con il suo ragionamento: ma allora il decreto legislativo 507 del 1993, per il quale l’ombra che le insegne dei negozi e dei bar proiettano sui marciapiedi va equiparata all’occupazione di suolo pubblico e perciò tassata, smentisce quanto si dice dei nostri legislatori, che in questo caso avevano intuito con ardita e insospettabile intelligenza l’esistenza di un volume alla quarta che occupa i marciapiedi, ma senza intralciare il passo.

 

Nel frattempo si sta rannuvolando. Saluto Silver e mi avvio lungo Rio Terà Lista di Spagna facendomi strada tra la folla. Venezia è dimensionata e perciò ha dei limiti di cui si dovrebbe tener conto, ma all’estremo delle sue dimensioni troviamo il punto che non ha estensione. Siamo rimasti impigliati in un paradosso, pare a causa di Euclide che ha tentato di conciliare la geometria intuitiva con quella razionale formulando una definizione di punto geometrico poco chiara se non addirittura nulla. In Storia della matematica (Mondadori, 1980, p.124) Carl Boyer scrive: “La debolezza di questa parte [degli Elementi] sta nel fatto che alcune definizioni non definiscono nulla”.

In conclusione: Venezia è dimensionata e perciò ha dei limiti di cui si dovrebbe tener conto, ma all’estremo delle sue dimensioni troviamo il punto che non ha estensione e perciò non riusciamo a venirne a capo. Che sia questa l’incertezza che alimenta la polemica tornelli sì VS tornelli no? Se così fosse, per dirimere la contesa ci vorrebbe un amministratore o un legislatore esperto di geometria, come quello che ha tassato l’ombra dei volumi quadridimensionali. 

 

Giunto al Ponte delle Guglie penso alla geometria chiaroscurata di Silver che potrebbe benissimo riempire il vuoto lasciato dal crollo dei grandi sistemi di analisi (storici, filosofici, semiologici, psicanalitici) aiutandoci a leggere e interpretare il nostro tempo e le sue contraddizioni. 

Con queste idee che ronzano in testa in modo piuttosto confuso mi inoltro in un dedalo di calli intricato quanto il problema posto dalla collocazione dei varchi, finché sbuco in piazza San Marco. Sul lato nord-ovest della piazza si trova il negozio Olivetti progettato da Carlo Scarpa, un grande e sapiente artefice dei punti della geometria intuitiva pronti ad assumere svariate forme nella tecnica di costruzione che impiega il calcestruzzo armato. Le sue architetture presentano una varietà di utilizzo del calcestruzzo armato a vista con soluzioni che valorizzano il ruolo espressivo della superficie. Le opere dell’architetto veneziano hanno fatto scuola e il negozio Olivetti in piazza San Marco è quotidianamente visitato da architetti e studenti, ma ignorato dal vasto pubblico, nonostante si affacci su una delle piazze più famose e visitate al mondo e sia incluso tra i beni FAI.

Alla collaborazione tra Scarpa e Adriano Olivetti Elena Tinacci ha dedicato un saggio dal titolo Mia memore et devota gratitudine. Carlo Scarpa e Olivetti, 1956-1978 (Edizioni di Comunità, 2018). Lo studio porta l’attenzione sulla responsabilità sociale dell’impresa e sull’etica del lavoro che, secondo Olivetti, si esprime compiutamente attraverso la bellezza dei luoghi di produzione e vendita dei prodotti. Al rapporto tra l’architetto e l’imprenditore è dedicata anche la mostra Scarpa e Olivetti: sinergie tra parole e progetti allestita presso il Centro Carlo Scarpa di Treviso (fino al 13 gennaio 2019).

 

Carlo Scarpa, negozio Olivetti, 1957-58. Venezia, piazza San Marco. Ingresso laterale.


L’architettura del negozio, nel quale sono entrato dall’incredibile e bellissimo ingresso laterale, ha due centri di generazione dello spazio. Il primo è la scala che mette geometricamente in moto un sistema di piani e volumi, il secondo è la scultura Nudo al sole di Alberto Viani che “galleggia” sullo specchio d’acqua raccolta in una vasca di marmo nero. Lo storico dell’arte Ludovico Ragghianti ricorda che “Tra le poche cose che Scarpa mi ha detto nel presentarmi la sua architettura del negozio Olivetti è questa: che egli l’ha fatto come ambiente per la statua di Viani” (La Crosera de piazza di Carlo Scarpa, in Zodiac, n°4, 1959, pp.134-137). In realtà, osserva Ragghianti, la scultura era una componente necessaria alla soluzione architettonica proposta da Scarpa. 

 

Carlo Scarpa, negozio Olivetti, 1957-58. Venezia, piazza San Marco. Vedute dell’interno.


In questo saper cogliere il rapporto tra architettura e opera d’arte pesa sicuramente l’attività museografica dell’architetto: gli allestimenti di mostre e biennali e la sistemazione di gallerie, alla quale Philippe Duboÿ ha dedicato il saggio Carlo Scarpa. L’arte di esporre (Johan & Levi, 2016), mettendo in evidenza l’amore di Scarpa per la memoria storico-artistica. A differenza dei futuristi che la detestavano, che avrebbero voluto radere al suolo Venezia storica, Scarpa l’amava, la sentiva sua, tanto da portare dentro il nuovo linguaggio dell’architettura razionalista “i modi, le misure del vivere della città” (da una conversazione trasmessa dalla RAI nel 1972, nel corso di un programma televisivo realizzato da Maurizio Cascavilla e Gastone Favero).

L’aspetto orientale e bizantino di Venezia ha influenzato la sua poetica architettonica innestando nel razionalismo quella componente decorativa che fa l’originalità della sua opera. In una conferenza tenuta all’Akademie der bildenden Künste di Vienna il 16 novembre 1976, Scarpa dichiarò: “In fondo io sono un bizantino”. Bellissimo il logo Olivetti con il fondo oro nel quale sembrano essere migrati i bagliori musivi della basilica di San Marco e le aureole quadrangolari rappresentate negli affreschi e dei mosaici di derivazione bizantina. Tra queste quelle dei donatori nella cappella di San Teodoro in Santa Maria Antiqua e nel catino absidale in Santa Prassede a Roma.

 

Carlo Scarpa, negozio Olivetti, 1957-58. Venezia, piazza San Marco. Logo Olivetti posto all’ingresso principale.


Insieme alla decorazione, Scarpa porta dentro il nuovo linguaggio dell’architettura razionalista anche la memoria storica con una complessa e ben articolata geometria delle forme. Architettura, decorazione e talvolta anche scrittura (Ilaria Abbondandolo, Francesca Palladini, Carlo Scarpa e la forma delle parole, Marsilio, 2011) si integrano geometricamente tra loro. 

Volumi che si scompongono e ricompongono geometricamente attraverso piani, idealmente mobili, generati dalle linee che egli traccia sul foglio da disegno, forse con l’idea, come suggerisce Silver, che nel disegno architettonico il pensiero (visivo) fluisce attraverso il punto rappresentato dal segno lasciato sul foglio dalla punta di una matita. “Voglio vedere, e per questo disegno. Posso vedere un’immagine solo se la disegno” (Edorado Gellner, Franco Manuso, Carlo Scarpa e Edoardo Gellner. La chiesa di Corte di Cadore, Mondadori Electa, 2000, p. 38).

 

Carlo Scarpa, ampliamento della Gipsoteca Canoviana, 1955-57. Possagno, piazza Canova. Finestra ad angolo.


Scarpa è un sapiente artefice del passaggio da una dimensione all’altra con la consapevolezza del complesso e problematico ruolo svolto dal punto geometrico, come risulta dalla sistemazione della Gipsoteca Canoviana a Possagno, che nel frattempo ho raggiunto passando da San Vito d’Altivole. Qui la finestra d’angolo smaterializza le superfici, gli spigoli e il punto dove questi convergono con un moto implosivo, trasformando in luce la porzione cubica sottratta all’edificio. Magnifica invenzione. Ah! Silver, qui l’ipervolume non si manifesta attraverso l’ombra ma attraverso la luce. Scarpa buca l’involucro edilizio con dei triedri trasparenti per “ritagliare l’azzurro del cielo”, in largo anticipo sullo Skyspace realizzato a Villa Panza da James Turrell nel 1974.

 

Carlo Scarpa, ampliamento della Gipsoteca Canoviana, 1955-57. Possagno, piazza Canova. Finestra ad angolo – James Turrell, Skyspace, 1974. Villa Panza, Varese.


Quanto avrà pesato sulla sua poetica la celebre frase: “l’architettura è il gioco sapiente, rigoroso e magnifico delle forme assemblate nella luce” pronunciata da Le Corbusier a Palazzo Ducale il 25 luglio 1934, in occasione del convegno internazionale Arti contemporanee e la realtà, l’arte e lo stato? Non lo sappiamo, ma possiamo invece dire con certezza che quella di Scarpa è la luce della pittura e dell’architettura veneta. Nell’Idea dell’Architettura universale, pubblicata nel 1615, l’architetto e scenografo vicentino Vincenzo Scamozzi descrive sei tipologie di luce e la loro incidenza nell’architettura: 1 il lume amplissimo o celeste, 2 il lume vivo perpendicolare, 3 il lume vivo orizzontale, 4 il lume terminato, 5 il lume di lume, 6 il lume minimo. La finestra d’angolo di Scarpa combina il lume vivo perpendicolare, che “viene à cielo aperto, e riceuiamo nelle corti, ò dalle apriture delle cupole” con il lume vivo orizzontale, che “prendiamo di fronte, ò diagonalmente dal puro cielo”. Scarpa reinterpreta con intelligenza visiva la finestra ad angolo e a nastro dell’architettura razionalista, forse pensando a Scamozzi e alla luce dei Veneti, che è anche la sua. 

 

Ci vorrebbe qualcuno in grado di trovare soluzioni altrettanto intelligenti per risolvere il problema del sovraffollamento a Venezia. Purtroppo abbiamo perso Scarpa nel 1978 e inoltre, in questa difficile fase politica, non possiamo neppure confidare di trovare amministratori esperti di geometria, in grado cioè di comprendere la natura problematica e contradditoria dei punti, compresi quelli del nuovo programma di governo.

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Lenz: il Grande Teatro del Mondo

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Un campo lungo sul lato oscuro della commedia umana. Lenz Fondazione inquadra Il Grande Teatro del Mondo da Calderón de la Barca nel Complesso Monumentale della Pilotta di Parma (18-23 giugno). Figure, azioni, caratteri, sono riconoscibili, ma rimangono inglobati nell’ambiente. È il circostante il vero Dio/Autore, predomina su tutto e tutti, anche sulla sua copia in scena, che pur distribuisce tra gli attori ruoli e parti, giudizi e sentenze. Per Francesco Pititto (testo e imagoturgia) e Maria Federica Maestri (installazione, costumi e regia) questo luogo è l’opera. E, viceversa, la parola è il luogo, come recita il titolo del focus del 21 giugno sullo spettacolo e su 27 anni di poetica in dialogo con il corpo muto di archivi, musei, ospedali, regge e palazzi.

 

Difatti, fin dal 1991 e dallo studio sulle tre stesure de La morte di Empedocle di Hölderlin (1797-1800), la compagnia parmense ha usato una particolare espressione, mutuata dal regista Jean-Marie Straub, per definire le sue creazioni: “mise en site”. Lo spazio non è uno qualsiasi, è un sito, è storia, che qui ha attraversato lo Scalone Imperiale, la Galleria Nazionale, il Teatro Farnese. Il teatro, invece, è vita che lo riattraversa alla ricerca della luce nascosta in ciò che non si vede. Un lavoro a “scompensare” e “ricompensare”, spiegano Pititto e Maestri, l’impatto tra ambiente e testo, immagine e musica. Un gesto estetico che sospende l’attimo e rende possibile l’incontro con lo spirito del tempo e la condizione dei tempi, evocati dai performer dell’ensemble di Lenz e dai musicisti del Conservatorio ‘Arrigo Boito’ di Parma.

 

Ph. Francesco Pititto.


Ai piedi dello Scalone ci vengono impartite le regole d’ingaggio per la visione, votate, soprattutto, al rispetto della preziosità del Complesso, la pagina scenica per la riscrittura dell’auto sacramental, dramma religioso per la festa del Corpus Christi del 1641 a Valencia, composto da Calderón de la Barca nel 1633-36. È il benvenuto, per così dire, al movimento e alla combinazione degli spazi agiti da oltre 20 artisti. Investitura solenne dell’uno in tutti, perché ciascuno spettatore ha il compito di scegliere dove rivolgere lo sguardo o indirizzare il passo, tra forme reali e virtuali, opere concrete e fantastiche.

Sciamati al primo piano della Pilotta, la vista si apre sulla proiezione di Barbara Voghera. È intenta a farsi il segno, mille segni della croce, su un portale in legno dipinto, incorniciato da due coppie di colonne sormontate da una corona ducale: è il fastoso ingresso al Teatro Farnese. Quel cenno ossessivo restituisce l’ineluttabilità sacra della legge per cui l’universo è un palcoscenico e ogni uomo interpreta un ruolo: calato il sipario, l’Autore, cioè Dio, giudica la riuscita dell’attore.

Il nostro Dio/Autore è un bambino, Matteo Castellazzi, vestito con una tunica bianco papale. Arriva da sinistra, dalla Galleria Nazionale, dove ci recheremo tra poco. È l’anima giovane del puro fare e leva maestoso il grazie alla struttura che ci accoglie: ha bisogno del suo aiuto, della sua intercessione, per dire un “mistero allegorico” che si dipana tra due porte, la culla e la tomba, l’una il rovescio dell’altra (la stessa porta con due cornici in Quasi una vita di Roberto Bacci). Il richiamo fa breccia nel portale del Farnese e compare Voghera con una tunica rosso cardinalizio. Il Mondo si è staccato da sé, l’eterna parvenza si è incarnata nella viva presenza.

 

Per partecipare allo spettacolo dell’esistere bisogna, simbolicamente, rinascere. Così, il gruppo torna singolo, la moltitudine individuo, passando, in fila per uno, la prima porta, l’antro scuro, ignoto, della Galleria. Dentro, Dio/Autore, assiso in trono, fronteggia le decine di metri della Sala delle Colonne. In fondo, stanno il Mondo e la statua di Canova Maria Luigia d’Asburgo in veste di Concordia (1814), “irretita” da riproduzioni video di volti penitenti, con colori marcati e ripetizioni ostinate. Pare una selva di spettri, che subissano di suppliche la più alta autorità presente per avere una seconda opportunità, una nuova parte, un eterno riscatto.

 

Ph. Francesco Pititto.


Chi ha avuto accesso al copione de Il Grande Teatro del Mondo è seduto ai due lati della sala, accanto a teche in legno tipo quella che protegge una scultura in disparte nel Farnese. Una volta di più Lenz anima il recondito e l’inconfessato del luogo e ne fa la fonte principale di luce. I quadri alle pareti, solitamente il centro dell’attenzione, sono lasciati in penombra, neri come finestre affacciate sulle tenebre. La loro cornice è la fine, sono opere terminate, chiuse nel buio dopo l’applauso, mentre davanti agli occhi di Dio/Autore si palesano spettri, idee iniziali di esistenze ancora da venire.

Sono qualità emblematiche, posizioni che da formali diventano sostanziali, perché determinano le mosse in palcoscenico. Il Re (Sandra Soncini), la Bellezza (Carlotta Spaggiari), il Ricco (Monica Bianchi), il Contadino (Frank Berzieri), la Discrezione (Laura Bonvini), il Povero (Paolo Maccini), il Bambino mai nato (Lorenzo Davini). Al termine della recita saranno valutati non per il loro abito, ma per come l’hanno indossato, e al fianco del Creatore siederanno le creature che hanno fatto la loro parte “senza lamenti e senza errori”. È l’antico adagio dei teatranti, secondo cui non esistono piccole parti, ma solo piccoli attori. A loro si aggiungono i ruoli di apertura e chiusura, la Legge di Grazia (Valentina Spaggiari) e la Morte (Valeria Meggi), e gli interventi di Eugenio Degiacomi (basso). La tessitura musicale è barocca, eseguita da sei clavicembalisti dal vivo diretti dal Maestro Francesco Baroni (Sara Dieci, Alessandro Trapasso, Luciano D’Orazio, Alessio Zanfardino, Francesco Monica, Francesco Melani) e contrappuntata dai lampi dell’elettronica di Claudio Rocchetti.

 

La Sala non si mostra docile di fronte all’azione artistica. Il rimbombo non aiuta a seguire alla perfezione lo scambio delle battute, l’andare e venire per richiedere al Mondo il necessario per il ruolo. La narrazione acquista respiro, il suono si distende e la parola risuona di umana pienezza, varcata la soglia del Teatro Farnese, un’apertura ritagliata nella parete tra le altre tele “oscurate”. È questa la seconda e ultima porta.

Una distesa di cavalli a dondolo in legno ci fissa immobile giù dall’immenso palco, lungo 40 metri, con un’apertura di 12. Coevo de Il Grande Teatro del Mondo, il Farnese fu realizzato 400 anni fa, nel 1617-19, dall’architetto Giovan Battista Aleotti, e inaugurato nel 1628 con il dramma allegorico-mitologico Mercurio e Marte, testo di Achillini e musica di Monteverdi, arricchito da un torneo cavalleresco e da una naumachia, una battaglia di navi e mostri marini nella platea allagata ad arte. La “maraviglia” del teatro barocco oggi è un gioco a misura di un Dio/Autore bambino, è il potere creativo dell’immaginazione.

 

Ph. Francesco Pititto.


L’odore del legno è una presenza corposa, insieme alla semioscurità che, come con i quadri della Galleria Nazionale, ricopre la ripida gradinata a ferro di cavallo sormontata da una doppia loggia ad archi, che circonda la vasta platea, 14 gradoni per oltre 3000 spettatori. È il regno della finzione della finzione, della finzione al quadrato, dal momento che il Teatro fu ricostruito tra il 1953 e il 1965, secondo i disegni originali e con il materiale recuperato dal bombardamento degli Alleati, che lo distrusse quasi completamente il 13 maggio 1944.

Performer, musicisti e spettatori abitano la cavea. Il palcoscenico, invece, è l’orbita del Mondo, su cui gravitano tre grandi pannelli, “Trinità” di Dio/Autore che imita gli attori soltanto con le smorfie del viso. Osserva la rappresentazione e si guarda guardare: Castellazzi è seduto lassù in alto, nella loggia centrale, maestoso e reale. Ognuno comincia a interpretare il ruolo per sé: il Re esercita il potere terreno, il Ricco non condivide i suoi averi, il Contadino si lamenta del duro lavoro, la Discrezione viene derisa dalla Bellezza. La veduta si fa paesaggio drammatico con il Povero, che impersona un ruolo che non basta a sé.

Preso dalla disperazione, “bussa” alla riottosità degli altri per chiedere l’elemosina. Viene allontanato, rifiutato, scacciato dalle teche in legno che ora li ospitano. Maccini raffigura la diversità, la fragilità messa alla porta, esclusa da chi pensa di contare di più o comunque qualcosa. Al collo ha la corda con cui non sono riusciti a impiccarsi Vladimiro ed Estragone (è stata Valeria Ottolenghi su “La Gazzetta di Parma” ad accostare per prima questo Lenz a Beckett). Non ha scelto di vivere, non può ancora morire, anche lui è in eterna attesa, punto minuscolo nella vastità di un Creato ostile, segnato fin dal copione. Il ragazzo che dice che il signor Godot non verrà nemmeno stasera, ma di sicuro domani, qui è il Bambino mai nato, si dondola su uno dei cavalli giocattolo e non ha niente di suo.

“Datemi il pane, ho fame, che pena, che vita grama, che pietà”. Il monologo del Povero è la nenia straniante che accompagna il termine della commedia e la restituzione al Mondo di abiti e modi presi in prestito. Sfilano a uno a uno sul palco del Teatro Farnese, restano in mutande e canottiera. Niente appartiene a nessuno, in questo specchio l’immagine riflessa è quella della disumana perdita di sé. La bocca della scena mangia i suoi stessi figli, Barbara Voghera ha tutti i loro orpelli addosso, e in grandi sacchi di iuta forse stringe quelli di chi li ha preceduti e seguirà: gli spettri che infestano il candore geometrico della statua di Canova.

 

L’atto finale è la costruzione della tavola di Dio/Autore con una fila di casse in legno che taglia per lungo la cavea. Il Re adesso “conta” meno del Povero, ma la speranza cristiana di Calderón de la Barca nelle mani di Francesco Pititto e Maria Federica Maestri suona in battere, non in levare, è un diminuendo inesorabile. La tavola è imbandita di niente, gli ammessi mangiano in ginocchio un pane inesistente. Non c’è remissione dei peccati, salvezza o redenzione. Quasi trasfigurati, si dileguano tutti come ombre nella notte che avanza.

Il Farnese resta un polmone nero, tutto il percorso a ritroso lo è. Sono accese unicamente le luci di servizio, le videoproiezioni, le teche e la schiera di cavalli a dondolo, esercito infantile nel dormiveglia. La suggestione sembra rimandare al tema del progetto triennale di Lenz su Calderón de la Barca con e per il Complesso Monumentale della Pilotta: il passato imminente. Il Grande Teatro del Mondo costituisce la prima parte, poi sarà la volta de La vita è sogno, in forma di auto sacramental (2019) e di dramma teologico-filosofico (2020 per Parma Capitale Italiana della Cultura).

Dunque, per Pititto e Maestri il monumento farnesiano è la drammaturgia che racchiude nel medesimo spazio-tempo la vita e il sogno, tra periodo storico e contemporaneità, fruizione individuale e memoria collettiva. Un enciclopedico abbraccio delle differenze, delle possibilità dell’essere umano. A occhi chiusi ben aperti.

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"La miccia sotto le pietre di Roma"

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«A Roma l’amore per l’arte è più scontroso, forse il giudizio romano è infine un confetto da spezzare con la martellata, ma amore e giudizio non si conciliano mai a Roma. Meglio così che le braccia larghe quanto il Colosseo. (…) Per camminare sul suolo di Roma ci vogliono le gambe lunghe». È il 1943, Libero de Libero firma un articolo dal titolo “Belle Arti”. In piena Seconda Guerra Mondiale, ma sapendo che «in ambienti di innocua apparenza quali sempre appaiono i luoghi dell’arte, resisteva qualcosa che nei dizionari va sotto il nome di civiltà, per la quale milioni di persone possono benissimo sacrificare la propria vita», come precisò nel 1945 sulla rivista “Cosmopolita”. Lo riporta Lorenzo Cantatore, curatore del diario deliberiano Borrador (Nuova Eri, 1994), uno dei più luminosi del Novecento, nel catalogo “Libero de Libero e gli artisti della Cometa” (Palombi, 2014) realizzato per la mostra alla Galleria d’Arte Moderna di Roma nel 2014. 

 

A distanza di qualche anno, la capitale annovera un nuovo spazio per l’arte: Palazzo Merulana. L’ex Ufficio d’Igiene è ora un delizioso edificio pronto a farsi, all’occorrenza, “hub culturale”. Il bianco contorna la salita sino in terrazza, il piano luci disegna occhi sulle opere e si può rimanere chiusi dentro le cabine dei bagni misteriosi di De Chirico. Inaugurato lo scorso 11 maggio, la Fondazione Cerasi ha esposto una serie di capolavori per lo più riguardanti la cosiddetta scuola romana di pittura, grazie alla collezione della omonima coppia di mecenati, proprietari di un gran numero di opere d’arte italiana del primo Novecento, tra cui Capogrossi, Raphaël, Mafai, Scipione, Trombadori, Pirandello, Fazzini, Leoncillo, De Chirico, Savinio. E, non ultimo, “Il direttore delle stelle” di Jan Fabre, artista e performer belga: incursione del contemporaneo.

 

Proprio qui risiede una prima corrispondenza fortissima, sebbene non citata nella mostra: in mezzo agli artisti di via Cavour si staglia questo astronauta con bacchetta da direttore d’orchestra, ma i musicisti sono nel firmamento, tra cui certamente s’avverte il passaggio d’una Cometa. Libero de Libero fu direttore della Galleria d’arte “La Cometa” a Roma in un brevissimo periodo – come pensare a più tempo nel caso del fugace passaggio di questo corpo celeste così raro? Dal 1935 al 1938 questo giovane poeta dagli occhi blu, proveniente dalle campagne di Fondi e della Ciociaria, è stato un indiscusso protagonista della Roma degli artisti, grazie al mecenatismo – questa volta – della contessa Anna Laetitia Pecci Blunt, da tutti detta Mimì, che dapprima ospitava concerti e mostre nella sua dimora di palazzo Malatesta, su una terrazza affacciata sul Campidoglio (artisti del calibro di Jean Cocteau, Paul Valery, Salvador Dalì, Georges Braque), ma che poi affidò a un poeta – e non a un critico d’arte – la direzione d’un progetto che così poteva approfondire «la sua ricerca di una dimensione europea» dell’arte. De Libero ne era certo, tanto da scrivere in una lettera a Mimì, appena due mesi prima dell’inaugurazione della galleria, che «gioveremo all’arte italiana più d’ogni vaga parola». E così 

 

 

«Il 15 aprile 1935, alle ore 17.00, in piazzetta Tor de’ Specchi 18, accanto al Campidoglio, dove, con la mostra dei disegni di Cagli si inaugura la galleria della Cometa e si incontrano Afro e Bartoli, Capogrossi e Fazzini, Ferrazzi e Franchina, Gerardi e Guttuso, Longanesi e Maccari, Mafai e Melli, Mirko e Moravia, Pirandello e Savinio, Tomea e Ziveri, Ungaretti e Cecchi, Alvaro e Cardarelli, Sibilla Aleramo e Maria Luisa Astaldi, Bontempelli e Goffredo Bellonci, Beccaria e Alfredo Casella, Colla e Don Giuseppe De Luca, Gerardi e Praz, Pannunzio e Petrassi, Rieti e Labroca, Signorelli e Severini, Tamburi e Vigolo, Trilussa e Brandi appena rientrato da Rodi, Roma è un libro aperto di pensieri, aneddoti, abitudini, modi morali del passato dove il cicaleccio letterario, filosofico e artistico (ciò che de Libero chiama “le vicende quotidiane, gli sviluppi e le gelosie, i sodalizi e le rivalità, le astuzie e i tradimenti, le rivelazioni: tutto quanto infine ha realizzato, manomesso, perduto e guadagnato la società romana degli artisti”) è un pensare e ripensare al mutevole specchio dell’io, dove azioni e malizie, luci e voci, colori e rumori, note e inchiostri sono impastati con l’aria che si respira, dove la vita e la storia hanno ritmi diversi, mutano col mutare dei rapporti, si scandiscono tra un libro, un dipinto e una scultura che, fissando la loro memoria del tempo e dei luoghi, in una lenta progressiva osmosi, fanno di Roma l’Italia e viceversa». 

 

Restituisce la vividezza del tempo Giuseppe Appella, critico d’arte che da de Libero “ereditò” le edizioni della Cometa, che si affiancarono all’attività galleristica già dal 1935. De Libero a Roma approda 24enne nel 1927. Studente alla “Sapienza”, sotto la Minerva incontra Luigi Diemoz: amicizia fulminea e fulminante. Fondano il giornale di lettere e arti “L’interplanetario” dove de Libero inizia a scrivere d’arte per poi continuare sulle pagine di “L’Italia letteraria” e poi, in fondo, per non smettere mai. Dove ci si vede con gli altri la sera? Da Aragno, che, come ebbe a scrivere Cardarelli, «non era un caffè, ma un foro, una basilica, un porto di mare». «Da Aragno, dove ormai andavano in gruppo – racconta de Libero – la rivelazione di Mafai e Scipione fu messa in sordina, dai celebri tavoli venivano occhiate gelide, ci chiamavano surrealisti, eravamo poeti ignoti, ma a noi importava la pittura. (…) Fu allora che scrissi la mia prima cronaca d’arte per gridare alla gente quei due nomi che avevano messo la miccia sotto le pietre di Roma». Lo stoppino infiamma: Bruno Barilli definisce «mitraglia incandescente» l’arte di De Chirico che sarà esposta nella Cometa dal 30 novembre 1937.

 

Per capire il legame strettissimo tra gli artisti, basti pensare che Scipione era anche poeta e uno dei suoi componimenti più intensi s’intitola “Solstizio”, esattamente come l’opera d’esordio di de Libero, pubblicata da Ungaretti nei Quaderni di Novissima nel 1934, un anno dopo la morte del pittore. Proprio Ungaretti fu grande collaboratore della galleria, tanto da scrivere il testo introduttivo della seconda mostra, affidata a Guglielmo Janni e inaugurata l’11 maggio 1935: «Piazze deserte di De Chirico, infuocati cieli romani di Scipione, punti di campagna, attentamente prediletti per vecchia consuetudine, di Morandi, marine di Carrà, popolo di Rosai: l’occhio nostro non potrà più dimenticare osservando gli aspetti della vita, un’intensità del vedere che è la vostra. (…) Nella pittura dei più giovani, e nella pittura di Guglielmo Ianni che invito il pubblico ad ammirare con me, questo sentimento della nostra gioventù spirituale è vivissimo. In particolare, nella pittura di Ianni c’è un impeto sorvegliato da tanta grazia che fa pensare a quel Quattrocento il cui mito fu Davide. Pittura sempre castissima, e velata dal sogno, come sono casti e sognanti i forti». 

I ritratti sono la cifra dell’epoca, il ritratto non come merce di scambio, ma come dono per entrarsi a vicenda nelle viscere, per colmarsi di poesia il pittore e di colore il poeta. L’arte è una. Come scrive Giuseppe Lupo in “Poesia come pittura. De Libero e la cultura romana 1930-40” (Vita e Pensiero, 2002) 

 

«poeti e pittori amano specchiarsi gli uni negli altri o raffigurarsi, molto spesso in un interno, fra tavolozze, cavalletti e colori, tanto in pose pensierose, quanto in atteggiamenti perplessi, ilari, statuari e perfino freddi. In un modo e nell’altro si muovono alla ricerca della propria identità, consolidando la volontà a fare dell’espressione creativa uno strumento d’introspezione. (…) Quando poi sono i profili dei letterati che si prestano alla tavolozza degli amici pittori, si percepisce il clima di generale concordia disposto ad avvolgere in un percorso parallelo la cultura romana tra le due guerre».

 

Il ritratto, citando ancora il saggio del professor Lupo, è lo strumento per «sancire un’affinità elettiva». Sorprende come recentemente anche Palazzo Barberini sia stato restituito al suo splendore (con l’inaugurazione di 11 sale precedentemente non aperte al pubblico) e nell’occasione sia stata allestita una mostra dedicata proprio ai ritratti, in questo caso quelli delle collezioni del MAXXI e della Galleria Barberini-Corsini. S’intitola “Eco e Narciso”, e in apertura campeggia il celebre Narciso di Caravaggio. Scoppia una ulteriore affinità con de Libero: a metà anni Cinquanta il poeta scrive un’opera teatrale ad oggi ancora completamente inedita, il “Don Giovanni”, ma che sarà portata in scena in autunno, in cui nell’epilogo il protagonista fissa, più che lo specchio di sé, la costola mancante di un Narciso che in fondo è stato solo “burlatore di se stesso”.

 

Per tornare agli anni “cometini” (come definisce anche Mimì gli artisti che giungono in galleria) entre deux guerres, la galleria viene chiusa nel 1938 dopo la promulgazione delle leggi razziali. Il tempo pare rabbuiarsi, invece de Libero fonda con Falqui “Beltempo”, almanacco annuale delle lettere e delle arti in cui non compare una unica classe, ma «pittori scultori poeti»: senza alcuna virgola a separarli, senza ostacolo alcuno a separarne le arti: «Una pittura una scultura una poesia esistono: e, ci puntiamo sopra, fanno il nuvolo e il bel tempo, spente ormai in Europa tante altre faci. In un domani, non lontano, a riconoscerlo non saremo soltanto noi, d’Italia». Eppure fuori impazza la guerra, è il 1942, e questi pittori scultori poeti pensano soltanto all’arte, oppongono soltanto l’arte alle armi, devono contrapporre la bellezza alla devastazione. In questo trambusto sorprende la lucidità, la guerra che è mondiale ma è anzitutto continentale crea una idea di Europa da ricostruire, e sconforta pensare alla pochezza dei giorni nostri.

 

La Cometa, come scrisse il poeta, artista e biblista Emilio Villa aveva «dettato legge nelle Biennali veneziane come nelle Quadriennali» perché vi erano avvenuti «i fatti più significativi, le indicazioni più precise della pittura italiana contemporanea». Vi erano avvenuti, al contempo, anche i fatti più intimi, le amicizie più preziose e irrecuperabili, i furori più amorevoli e i gesti d’affetto e le separazioni più strazianti. Il 6 maggio 1952 muore Alberto Savinio, «il più intelligente di tutti» lo definisce de Libero nel suo diario, commosso fino alle lacrime («ho singhiozzato a lungo contro la parete, era da tempo che non lo facevo») per un’amicizia che «non è soltanto un’esigenza del cuore, è anche una conquista della mente, una gratitudine senza fine». Ci auguriamo che anche Roma possa essere grata a un uomo come de Libero, poeta in cerca di ordigni bellici da far brillare in spazi sicuri, in una galleria d’arte romana per esempio.

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Via Emilia psichedelica

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Il passato non esiste – si dice – siamo noi a ricrearlo. Sarà anche vero, ma di certo è esistito. E, alla fine, ci sono due modi per incontrarlo: far sì che entri nel nostro tempo, oppure andare noi verso di esso. Sono due metafore che disegnano itinerari simili solo in apparenza, in realtà opposti. 

Un passo di Walter Benjamin spiega in che cosa consista la prima direzione: “Il vero metodo per renderci presenti le cose è rappresentarcele nel nostro spazio (e non di rappresentare noi nel loro). (Così fa il collezionista e così anche l’aneddoto). Le cose, così rappresentate, non tollerano in nessun modo la mediazione ricavata da ‘ampi contesti’. È questo in verità (…) il caso anche della vista di grandi cose del passato – cattedrale di Chartres, tempio di Paestum: accogliere loro nel nostro spazio. Non siamo noi a trasferirci in loro, ma loro a entrare nella nostra vita”.

Siamo dunque davanti al contrario dell’abusato “viaggiare nel tempo”: è l’immanenza del passato nelle sue testimonianze materiali che impatta, per così dire, il nostro tempo e la nostra quotidianità; è a questo punto che il passato, lontano o lontanissimo che sia, rivela la sua fisionomia e, non di rado, la sua sostanziale alterità.

 

Il secondo possibile itinerario, il “viaggio nel tempo” appunto, è ampiamente rappresentato nella storia della comunicazione di massa, a cominciare dalla pubblicità; per la semplice ragione che è quello che ci viene più naturale: rappresentarci nello spazio degli uomini che ci hanno preceduto è un modo per parlare di noi, estendendo ad altri e ad altre epoche la nostra esperienza, l'unica che conosciamo veramente bene, l'unica che ci pare reale. 

In un messaggio pubblicitario del 1952 un giovane marito americano mangia in cucina, mentre la moglie gli prepara un piatto svuotando una lattina; tutti e due sorridono al signore imparruccato in abiti sei-settecenteschi che mangia seduto accanto all’uomo. Che sia un re, lo dichiara la scritta principale: “Today’s Americans eat better than yesterday’s royalty”. Solo in apparenza è “un reale di ieri” a scendere in cucina, in realtà è il presente che tinge di sé il passato.

 

 

Si possono conciliare questi due movimenti, possono convivere questi due diversi sguardi verso il passato? La mostra aperta fino al 1 luglio ai musei di Reggio Emilia – On the road, via Emilia 187 a.C.-2017, a cura di Luigi Malnati, Roberto Macellari ed Italo Rota – ha cercato di tenerli assieme; un esperimento potenzialmente pilota e per questo significativo. 

Gli organizzatori avevano davanti, bisogna ammetterlo, un compito difficile. Allestire un’esposizione su una via consolare dell’antica Roma e aprire su questo tema un dialogo col pubblico non è cosa ovvia, in tempi in cui le mostre richiamano grandi numeri se sono dedicate ai van Gogh, agli Impressionisti, ai Caravaggio, ai “capolavori”, agli “splendori”, ai “tesori”.

 

 

La strada intrapresa dai curatori è la coerente continuazione di quella che ha guidato per una decina d’anni il rinnovamento del museo civico reggiano [vedi i precedenti articoli su doppiozero: del sottoscritto e di Alessandra Sarchi]: “un allestimento di taglio spiccatamente contemporaneo”. Basta poco per capire che siamo davanti al solito, vecchio imperativo alla modernità (senonché “moderno” suona stantìo e allora va usato “contemporaneo”); come non è più di moda parlare di “attualità”, tanto che verrebbe da dire, parafrasando Henri Focillon: la contemporaneità è sfuggente, che cos’è in fondo la contemporaneità? Resta la fascinazione delle parole d’ordine: si legge nella guida di mostra che “la via Emilia è, dalla sua prima pietra, una strada contemporanea”.

Il tema con cui misurarsi va dunque al di là dell’ambito locale: la via Emilia, la grande arteria che il console Marco Emilio Lepido fondò verso la fine del III secolo a. C., una strada che congiungeva e congiunge Rimini a Piacenza. Una via il cui tracciato si è mantenuto sostanzialmente intatto per due millenni, tanto è vero che lungo il suo corso si susseguono i più importanti centri urbani della regione, tutti tranne Ravenna e Ferrara; centri fondati (o rifondati) in età romana.

 

 

Il visitatore di On the road viene accolto dal calco di un bassorilievo proveniente dalla Basilica Aemilia di Roma sovrastato dalla fronte di tempio (più o meno) dorico a quattro colonne; sull’architrave, retroilluminato, campeggia rossa la scritta AEMILIV’S (“da Aemiliu”); si immagina insomma un ristorante “da Emilio” sulla SS9 (la via Emilia appunto), un locale che potrebbe anche essere sulla Route 66 o su un’altra grande strada americana, on the road appunto (ma lì avrebbero scritto Aemilius’ o Aemilius’s).

Saliamo le scale ed ecco l’apertura vera e propria dell’esposizione. Accanto al titolo della mostra, a sinistra leggiamo un passo di Omero, “A volte i carri strisciavano sulla terra feconda …”; sono versi del XXII canto dell’Iliade, in cui gli Achei ingaggiano una gara durante i funerali di Patroclo: sono cocchi da guerra che si sfidano lungo una pista. Dalla parte opposta, invece, l’inizio di una canzone di Guccini, “Lunga e diritta correva la strada …”. Né la road di Kerouac, né i carri omerici, né l’autostrada di Guccini hanno a che fare con la via Emilia (c’è bisogno di dirlo?); a maggior ragione, a che cosa si deve la presenza di alcuni vasi attici del V sec. a. C. “con scene dell’epica omerica” (ma senza neppure i carri)? 

L’apertura è l’annuncio dello spirito della mostra, rimescolare senza problemi tempi e spazi, seguendo fili conduttori come quello del mezzo di trasporto. I carri da guerra di Omero non hanno mai sfilato sulla via Emilia; ma se l’obiettivo è montare uno spettacolo vanno benissimo, come del resto va bene Charlton Heston nel film Ben Hur (1959) come manifesto della mostra.

Al piano superiore, il grande corridoio ospita una serie di vetrine; ognuna contiene elaborate microarchitetture di legno (ben altra cosa rispetto alle tradizionali vetrine di derivazione, diciamo così, ottocentesca). In ognuno di questi complessi, piccoli teatri lignei, vanno a disporsi piccoli oggetti antichi, scritte, monitor. Ogni vetrina diviene il perno attorno a cui si sviluppano sette temi, quasi tutti legati a un luogo delle città antiche (il ponte, la locanda, il limite, la casa, le sepolture, il commercio, il foro).

 

 

Come vengono trattati questi temi? Nella prima vetrina c’è la pila di un ponte, su cui sono fissati una statuetta di Mercurio, una di amorino, amuleti fallici, una moneta; sotto al ponte, tra la sabbia, alcuni minuscoli frammenti, la ruotina (di un triciclo), il tappo di una bottiglia di plastica. In alto la scritta: “Fin che la barca va… lasciala andare”, la canzone di Orietta Berti.

Celebri hit della musica leggera emiliana sono infatti impresse su tutte le vetrine: “E poi ci troveremo ... al Roxy Bar" e “Certe notti…” (quella sulle locande), "Non ti potrò scordar casetta mia …" (la casa romana), "non piangerò mai sul denaro che spendo ..." per il commercio; e quindi Zucchero, Dalla, CCCP, Giuseppe Verdi (“Di quella pira…”), i Pooh... 

Il percorso delle vetrine si raccorda poi alle pareti, dove sono fissate grandi foto tratte da film peplum dagli anni ’50 in poi, e colorate alla Warhol; ciascun attore impersona un abitante della città romana, quelli che conosciamo tramite antiche iscrizioni su pietra. Ogni cartellone ne riporta il testo originale e in traduzione, mentre accanto viene invece scritta la “storia” del personaggio. Che i film peplum siano stati un elemento di mediazione tra la cultura di massa e il mondo classico è un’intuizione già sviluppata brillantemente in Tutto quello che sappiamo su Roma, l'abbiamo imparato a Hollywood di Luisa e Laura Cotta Ramosino, con Cristiano Dognini (Bruno Mondadori, 2004). 

Aveva dunque un senso, all’interno di una mostra in cui l’archeologia fa da sfondo, riparlare di peplum, ma per smontarne il meccanismo (il presente che si maschera da passato). Invece si fa il contrario: la “storia” che viene raccontata accanto a ciascun personaggio è, volutamente, di fantasia. Ecco che Marlon Brando diventa il decurione C. Iulius Valens, ma non quello vero, quello finto che avrebbe deciso la costruzione di un imponente ponte coi suoi colleghi di magistratura; una liberta (cioè una ex schiava) diventa la tenutaria di una locanda-bordello; un soldato viene ricollocato come agrimensore; e poi un accigliato Laurence Olivier, Bekim Fehmiu, Irene Papas, George Clooney che fa Marco Emilio Lepido.

 

 

Il linguaggio di queste “storie” d’invenzione ha un’aria più da anni ’50, che “contemporanea”: il “fiore degli anni”, i “luoghi sperduti, ricettacoli di belve ed uomini nefandi”, le “feroci genti barbare”, il “diletto sposo”, il “volto, chiaro e lucente come la luna, nel quale brillano due stelle verdi”, e – va da sé – “il nostro eterno amore”.

Tra queste narrazioni più hollywoodiane che padane, tra gli oggettini antichi che fanno da comprimari nelle vetrine, tra gli attori-icone dei film “spade e sandali”, i materiali antichi fanno da ospiti non troppo desiderati; e le stesse belle e attente ricostruzioni (un carro da trasporto antico, la tecnica costruttiva di una strada romana) vengono risucchiate nella sequenza generale, spettacolare e (volutamente) caotica. Ed è così anche per la pagina più efficace dell’intera mostra, il magnifico sinottico in cui si tenta di rendere graficamente la nervatura antica e moderna dell’intera regione Emilia.

Come si vede dalle prime battute della mostra, i percorsi sono due: quello degli archeologi e degli storici (l’antico che si affaccia sul nostro oggi nella sua potenziale, irriducibile diversità), e quello dell’allestimento (il presente che finge di “viaggiare” nel passato). Curatori e comitato scientifico hanno creduto, o hanno voluto credere, che i due itinerari potessero intrecciarsi senza condizionarsi, ma le cose non sono andate così: è il secondo a mettere di continuo in ombra il primo.

La ragione è semplice: non siamo davanti solo e tanto a “scelte espositive innovative”, ma alla traduzione concreta di una visione (non importa quanto consapevole e non importa se ancora poco organizzata come teoria): dato che ci muoviamo in un “eterno presente” (cito Guy Debord), si può pure concedere qualcosa alla storia e analizzarne qualche aspetto, ma quello che conta è suggerire analogie, offrire suggestioni, impressioni, piroettando su nessi logici e storici; un tempo si sarebbe usato il termine “fantasmagoria”, oggi va ancora bene “psichedelia” (parola usata da uno dei curatori). Eccoci nel dominio dell’indistinto, in cui tutto è in rapporto con tutto, e perciò con niente; ci si muove all’insegna del “tutto è contemporaneo” (niente altro che uno slogan).

Lo si vede a pochi metri dal sinottico: la centuriazione romana, il grande processo di trasformazione del paesaggio strettamente connesso alla via Emilia (e poi in tutta l’Italia del Nord e non solo) – viene evocata più che spiegata. Troppo banale una foto aerea delle campagne attorno a Carpi o Forlì? O è più chiara la scritta a caratteri cubitali sul pavimento: “RATIO PULCHERRIMA = COLONIA + AGER COLONIARIUS = HARMONIA”? Qui capiscono (qualcosa) solo gli addetti ai lavori; e a volte neanche quelli: ROAD + TOWNS + LEGIONS = LIMES. Ironizzare non serve a nulla.

 

Del resto come possono, i non addetti ai lavori, capire quale sia il ruolo dei volti (veri) di Gustave Eiffel, Frank Gehry, Kevin Lynch, Robert Venturi e altri ancora che troviamo a questo punto? La risposta è alla portata di tutti, e sempre a caratteri cubitali: LANDSCAPE, LANDART.

Dal ristorante “di Aemiliu” (sic) alla reverente celebrazione di architetti e di artisti di oggi: è probabile che i curatori non sentano alcuna frizione, che non avvertano l’irrisione (se non il disprezzo) espressi da tanti passaggi della mostra verso il modello culturale (per semplificare) umanistico; tanto è forte la convinzione che l’alleanza di ferro marketing-spettacolo debba essere il sistema operativo generale, valido per la pubblicità come per la cultura, per i social come per la politica. A proposito, la prossima fase della “valorizzazione” del nostro patrimonio archeologico e artistico percorrerà strade come questa, all’insegna di un’archeologia psichedelica?

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Lettera da Vienna

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Da uno schermo nella metro, alla fermata Museumquartier, il telegenico e azzimato primo ministro Sebastian Kurz ribatte sul suo tasto: basta migranti, bisogna intervenire, bloccare il flusso! L’onda xenofoba da Vienna va verso est, trovando consonanze in Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria. Insomma negli stati che un tempo erano parte dello sconfinato mosaico dell’Impero Austroungarico, franato clamorosamente dopo la Prima Guerra Mondiale.

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La Tartaruga. Storia di una Galleria

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C’era una volta a Roma la galleria La Tartaruga, aperta nel 1954 da Plinio De Martiis, avvocato, impresario teatrale e fotografo. La sede era prima al numero 196 di via del Babbuino, in una palazzina oggi sede di un albergo, e poi al primo piano di uno stabile ottocentesco, a Piazza del Popolo, appena sopra il caffè Rosati e il ristorante Il Bolognese. Il nome lo aveva suggerito l’artista Mino Maccari come omaggio a uno degli animali più longevi e adattabili, noto per la sua lentezza ma anche simbolo di saggezza e di sicuro approdo. Si era negli anni dell’euforia del dopoguerra; gli artisti, anche quelli più all’avanguardia, come Alberto Burri, facevano ancora quadri e Roma era una città cosmopolita in cui si fondevano il popolare e i prodromi del moderno: un centro di incontro di artisti, scrittori, registi, attori. La Tartaruga, che diventa subito un luogo di riferimento per l’avanguardia, debutta mostrando soprattutto la pittura della scuola romana. Poi, dal 1957, propone una programmazione dedicata agli artisti dell’astrattismo americano e dell’informale europeo. Dagli anni Sessanta è la volta di quei giovani (Mario Schifano, Tano Festa, Franco Angeli, Giosetta Fioroni, Cesare Tacchi, Ettore Innocente, …) che sarebbero stati il nucleo portante della cosiddetta scuola di Piazza del Popolo, proprio dove la galleria si sarebbe trasferita nel febbraio del 1963. Con l’ottobre del 1968 la sede di Piazza del Popolo chiude – oramai, secondo De Martiis, le gallerie hanno «esaurito la loro funzione» – e l’attività prosegue dal 1969, in una terza nuova sede, con spirito diverso. 

 

Ritratti di Plinio de Martiis.


Si chiude così un capitolo fondamentale della storia dello spazio espositivo ma anche un capitolo importante delle vicende dell’arte italiana di cui in effetti La Tartaruga è uno specchio fedele. A provarlo è il recente libro di Ilaria Bernardi La Tartaruga.Storia di una galleria (Postmedia 2018, 16,90, 141 pagine): un piccolo volume, illustrato dalle bellissime fotografie dello stesso De Martiis, in cui vengono ripercorse le vicende dello spazio espositivo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, e citati i relativi documenti attualmente conservati presso L’Archivio di Stato di Latina. Il libro è utile agli studiosi, come regesto degli eventi promossi da De Martiis, e ai curiosi per ripercorrere, attraverso le vicende della galleria, quelle dell’arte italiana di quel ventennio cruciale della nostra storia. A partire dal conflitto figurazione-astrazione, di cui Roma era il centro maggiore  (anche perché qui il partito comunista aveva la sua sede istituzionale), la programmazione di De Martiis testimonia quanto, nel tentativo comune di riallinearsi alla ricerca europea, le strade dell’arte italiana risultassero allora almeno due: quella di una ‘figurazione’ che in Guttuso aveva il suo principale modello, e quella più aderente all’astrazione, a una scoperta dell’informe e delle potenzialità insite a gesti e materie.

 

Con il nuovo decennio la programmazione ci mostra, e in buona parte conduce, lo sbarco dell’arte americana a Roma (e di quella italiana negli Stati Uniti) celebrato, tra l’altro, a livello nazionale dalla prima antologica europea dedicata a Jackson Pollock, ospitata nel marzo del 1958 (a neanche due anni dalla scomparsa dell’artista) alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma. Si prosegue con l’esordio dei giovani artisti afferenti a un nuovo realismo fatto di monocromo, reportage, oggetto e immagine, fino all’“invasione” americana della Biennale di Venezia del 1964 – un momento cruciale nel corso del quale De Martiis organizza un interessantissimo Premio La Tartaruga – fino a giungere all’evento conclusivo dell’attività di La Tartaruga a Piazza del Popolo, che coincide con il maggio del 1968. È allora che la galleria presenta “Il Teatro delle mostre. Festival Maggio 1968”, una successione di eventi singolari in cui De Martiis veste i panni del regista (curatore diremmo oggi) organizzando una mostra al giorno, per circa tre settimane, con lavori, installazioni, performance, azioni dei maggiori esponenti dell'avanguardia artistica italiana dell'epoca: “ogni giorno un artista in scena” recitano locandina e catalogo della manifestazione. 

 

Copertina volume teatro delle mostre.


Ebbene, nel leggere il libro di Ilaria Bernardi, oggi che di quel maggio ricorre il cinquantenario, proprio su quel festival (a cui tra l’altro Ilaria Bernardi ha dedicato nel 2014 un approfondimento) viene spontaneo concentrare l’attenzione: in una galleria privata si proponeva un evento capace di interpretare, e in parte anticipare, la spinta radicale di quegli anni e di quell’anno simbolo a partire dal quale, come dichiarava Edgar Morin, in un articolo su Le Monde, “Il mondo non sarà più come prima”. La programmazione di quel festival straordinario, la sua stessa concezione, dà un’immagine piuttosto vivida di un momento in cui nell’arte, come del resto in tutti gli ambiti, culturali e politici, si evidenziava un movimento spontaneo teso a rovesciare le strutture esistenti. Così gli happening del Teatro delle mostre invitavano il pubblico alla contemplazione attiva di un evento, un momento, un processo: sostanzialmente facevano vivere al pubblico un’esperienza e poi un’altra, e un’altra ancora, in un’orchestrazione ottimale (di De Martiis) di provocazioni, sorprese, sensazioni, ironia e poesia.

«Non è l’accadere, non è il succedere, non è l’happening, ma è il succedersi che interessa» – avvertiva Maurizio Calvesi dalle pagine del catalogo – «la successione non come flusso ma come processo, come ritmo, come verifica nel tempo e del tempo».

 

Nanni Balestrini, I muri della Sorbona, 1968.


E, difatti, a colpire ancora oggi della programmazione di quel Festival è l’idea di un’arte calata nell’esperienza, nel tempo dell’esperienza e della sua intimità in una catena capace di trasportare l’individuale nel collettivo. Quattro eventi per tutti che sono quattro meravigliose cartoline di quel 1968 a questo 2018: Renato Mambor che in Dovendo imballare un uomo imballa Claudio Previtera e mima di fatto le celebri fotografie del Che ucciso; Alighiero Boetti che, appena arrivato da Torino, monta un grosso telaio ricoperto di carta blu che invita il pubblico a bucare con dei chiodi, creando così, in una successione di segni, una costellazione personale e comune (Un cielo); Fabio Mauri che crea un allunaggio ambientale, una stanza in cui si entra come in un’astronave, con il pavimento ricoperto di polistirolo in cui si affonda, ci si siede, ci si sdraia, si gioca (Luna); e Nanni Balestrini che appena rientrato da Parigi, telefona dall’aeroporto in galleria e detta le frasi scritte sui muri della capitale francese perché vengano riportate su quelle delle spazio di De Martiis (I muri della Sorbona). “Chi fa la rivoluzione a metà si scava la tomba”, “proibito proibire”, “è meraviglioso sentirsi liberi” “dite sempre di no per primi” esortano i muri della galleria d’arte di concerto con quelli parigini, in una stupefacente alternanza di grafie, corsivi e stampatelli capace di incarnare istantaneamente il clima pulsante di quei giorni e di mostrarci oggi la sostanza del Sessantotto. Plinio De Martiis con il Teatro delle mostre ha scansato il pericolo di trasformare la pratica artistica in mestiere offrendo al pubblico di allora (e a quello di oggi attraverso libri come questo di Ilaria Bernardi) esperienze capaci di decostruire e confondere le categorie perseguendo nuovi orizzonti di senso e portando, in momenti al contempo effimeri e immortali, l’immaginazione al potere.  

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Lo spirito dell’alveare

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A Berlino, in contemporanea, due mostre si misurano con due questioni cruciali per la cultura della nostra epoca. La prima riguarda l’eredità storica dell’arte moderna e la sua rivendicazione di autonomia estetica, tradizionali capisaldi i cui presupposti sociali e culturali e le cui pretese di universalità appaiono assediati sia dall’affermarsi di una visione policentrica, multiculturale, del mondo attuale sia dalla crescente erosione della stessa categoria di “arte” a vantaggio di quella ben più elastica e accogliente di cultura visiva. La seconda tocca invece le istituzioni-simbolo del “mondo dell’arte”: il museo e la mostra. In che modo aprire – “rendere inclusivi”, come si dice – questi luoghi a pubblici eterogenei, portatori di istanze culturali, di identità spesso mutuamente conflittuali?

 

Nonostante le differenze – la prima è un allestimento tematico di una grande collezione di arte del XX e XXI secolo, la seconda una stratigrafia multidisciplinare di un singolo momento della vicenda novecentesca – sia Hello World (Hamburger Bahnhof – Museum für Gegenwart, fino al 26 agosto), che Neolithische Kindheit. Kunst in einer falschen Gegenwart, ca. 1930 (“Infanzia neolitica. Arte in un falso presente, 1930 ca.”, Haus der Kulturen der Welt, fino al 9 luglio), entrambe le esposizioni si oppongono alla trasformazione dell’esperienza dell’arte in qualcosa al tempo stesso, e perversamente, di sempre più irrilevante e sempre più monetizzabile. Ma come inscrivere una indispensabile revisione critica della vicenda moderna in una cultura in cui l’estensione globale delle comunicazioni, la tirannica aspirazione al consumo, la reificazione delle relazioni sociali, il livellamento midcult del gusto, la fine dell’autosufficienza estetica, hanno eroso l’idea di arte come luogo di sperimentazione audace, complessa, scomoda, irriducibile al presente?

 

Hello World, Hamburger Banhof, Berlino, vista dell'allestimento

 

La risposta di Hello World potrebbe essere riassunta così: rendiamo leggibili anzitutto i conflitti rimossi, le narrazioni cancellate o emarginate, gli scenari politici e sociali remoti o invisibili nel museo tradizionalmente inteso come “deposito”, come immacolato riparo dallo sporco della Storia. Per una collezione le cui vicende riflettono la tragedia tedesca – dall’epoca guglielmina al nazismo, dalla partizione Est/Ovest alla riunificazione post-1989 – questa esigenza di nuova storicità si traduce nella sistematica contestazione delle tradizionali gerarchie di valori, dei concetti di “periferia” e “centro”, di high e low, nella sottolineatura di ibridazioni e scambi inediti tra culture.

 

Sono esempi di questa attitudine le sezioni allineate nella lunga “manica” della Hamburger Bahnhof, a partire da quella dedicata all’Arte Popular messicana e all’originale  rapporto tra folklore, sensibilità modernista, sguardo antropologico e programmi rivoluzionari che in Messico, tra anni Venti e Quaranta del secolo scorso, alimentò al tempo stesso esperimenti di radice surrealista e imprese monumentali del muralismo, così come il lavoro di artisti di profilo diverso come Dr. Atl (Gerardo Murillo), tra i propugnatori del ritorno alle radici precolombiane, e Tina Modotti, con inserti contemporanei come il video Xilitla (2010) di Melanie Smith, dedicato alla allucinatoria stravaganza architettonica di Las Pozas, realizzata in piena giungla dall’eccentrico mecenate inglese Edward James.

 

Stesso discorso può valere per la sala dedicata alle culture indigene dell’America del Nordovest e al loro impatto sulla pittura americana o per gli ampi insiemi dedicati alle esperienze artistiche di opposizione nei paesi dell’Europa orientale e in Unione Sovietica nel periodo della Guerra fredda, in cui le difficoltà e i rischi di un dissenso tanto culturale che politico trovava spesso forme alternative e complementari alla produzione di opere, come azioni collettive, pubblicazioni o forme di scambio internazionale. In un’altra sezione, le connessioni tra il gruppo dada giapponese Mavo e la scena artistica berlinese dei primi anni Venti vengono indagate come un caso di precoce e originale appropriazione delle strategie più radicali dell’avanguardia in un contesto culturale remoto.

 

Hello World, Hamburger Banhof, Berlino, vista dell'allestimento della collezione Marx

 

In tutti questi casi il punto di vista adottato dai curatori di Hello World rappresenta un necessario correttivo alle narrazioni convenzionali dell’arte novecentesca, tipicamente incentrate su pochi, selezionati centri europei e nordamericani, e insieme un’inevitabile presa di rischio. Annettendo il contesto artistico alle metodologie e alla prospettiva dei cultural studies e delle indagini postcoloniali, ed esaltando, come reiterano i testi di sala, il valore politico di tali scelte, non può infatti che attenuarsi o diventare irrilevante la differenza, il dissidio, tra opera e testimonianza, tra documento e fiction: quanto si guadagna come estensione della visuale, come più precisa misurazione della mutua interferenza tra sfera simbolica e sfera sociale, si perde in termini di profondità di lettura storica e critica dei fatti artistici.

 

Il problema è che la contestazione del “canone occidentale” e la simultanea necessità di una nuova teoria mondiale dell’arte finiscono nella mostra per basarsi su una sostanziale incomprensione dei meccanismi di competizione, sovversione e costante riscrittura con cui lo stesso canone si è venuto formando, nonché su una restrizione del perdurante scarto di portata, complessità e novità prodotto proprio dalle opere e dal loro eccedere l’epoca e il contesto, dalla loro capacità di incubare altri potenziali di senso, che rimangono integri anche dismettendo – come argomenta su “Current Affairs” Daniel Walden– lo stesso deformante e ormai inservibile concetto di “Occidente”. Sullo sfondo, inconfessata, accanto alla salutare apertura multidisciplinare, si profila un’ideologia della pratica curatoriale come rimedio alla condizione indebolita o degradata dell’opera d’arte ma resa in questo modo ancor più dipendente da un sistema istituzionale che la assoggetta alla sua drammaturgia, al suo disegno di autoperpetuazione.

 

Diversi sono i punti in cui Hello World subisce le conseguenze impreviste di questa agenda. Ancor più della sezione Agora che accoglie i visitatori all’ingresso con una vacua, scontata retorica del dialogo e dell’accoglienza (e ciò nonostante la presenza di lavori interessanti come Pavilion for International Institute of Intellectual Co-operation, 2016, di Goshka Macuga), è nelle sale in cui è riunita una notevole selezione di sculture del XX secolo che si possono misurare i limiti della pedagogia espositiva adottata dai curatori. L’essenziale e intricata relazione tra ricerche moderne e arti “primitive”, l’arcaico, l’inc0nscio (la sezione è convenientemente intitolata Woher kommen wir?, “da dove veniamo?”), viene qui ricondotta a un semplicistico ridimensionamento del valore antiautoritario delle esperienze d’avanguardia, epitomizzato, con involontaria comicità, nell’accostamento tra Le Penseur (1880) di Auguste Rodin e il Ritratto dello scimpanzé “Missie” (1916-17) di Anton Puchegger. Molto più interessante osservare da vicino i lavori, tra cui spiccano ad esempio, accanto a nomi celebri (Brâncuși, Giacometti, Ersnt, ecc.), figure meno note come Hans Josephsohn, sua una impressionante “massa” vagamente antropomorfa (Senza titolo, 2002), o i molli volumi neri di Thomas Schütte (Senza titolo, nn. 4 e 10, 2001).

 

Hello World, Hamburger Banhof, Berlino, vista dell'allestimento

                                    

Forse il colmo di questa urgenza di giustificazione lo si misura nel trattamento riservato alla collezione Marx, un importante insieme di opere di artisti del secondo Novecento come Warhol, Beuys, Rauschenberg, Twombly ecc. Qui l’ortopedia istituzionale – in una sezione intitolata addirittura “diritti umani dell’occhio” – è esplicita: com’è possibile rettificare una donazione irrimediabilmente marchiata dal puro arbitrio del collezionista? In mancanza di soluzioni definitive ci si affida alla intraprendenza del duo cyan (Daniela Haufe e Detlef Fiedler), pedanti lettori di Aby Warburg e Georges Didi-Huberman che collocano sulle pareti “tavole” a sfondo color pastello con riproduzioni di fotografie e documenti incaricati di rieducare, mostrando loro i non-detti e i non-visti della contigua, ingombrante high art, gli inconsapevoli spettatori. Anziché un effetto ironico o critico qui è l’inconscia infantilizzazione del pubblico a rivelarsi il vero significato dell’operazione.

 

Joseph Beuys, Das Ende des 20. Jahrhunderts (“La fine del XX secolo”), 1982–83, particolare dell'installazione

 

I momenti migliori di Hello World restano così quelli in cui più difficile si dimostra la costruzione di un frame ideologico generale: la sezione dedicata all’uso degli strumenti di comunicazione come medium artistici tra anni ’60 e ’70, a partire dal progetto Three Country Happening (1966) di Marta Minujín, Allan Kaprow e Wolf Vostell, o gli Interludes con opere maggiori di On Kawara (il grande ciclo Date Paintings) o Bruce Nauman (l’installazione My Soul Left Out, Room That Does Not Care, 1984), e il sempre straordinario insieme di opere e installazioni di Joseph Beuys, e in particolare Das Ende des 20. Jahrhunderts (“La fine del XX secolo”) (1982–83), con i suoi grandi monoliti di basalto posati sul pavimento, la cui minerale, misteriosa impassibilità continua a turbare i nostri tentativi di scioglierci finalmente dai legacci con l’oscurità novecentesca.

 

Neolitische Kindheit, Haus der Kulturen der Welt, vista dell'allestimento

 

Pur con premesse simili, assai diversa appare la strada percorsa alla Haus der Kulturen der Welt dalla mostra che prende il titolo da un’espressione dello storico e teorico tedesco Carl Einstein, figura essenziale del panorama culturale tedesco tra le due guerre, per il quale quella dell’“infanzia neolitica” è la condizione di un’arte che si misura con un mondo sempre più ostile e frammentato e ricerca una possibile rifondazione dell’umano guardando alle forme di vita collettiva e all’immaginario della preistoria. La mostra esplora così le connessioni e gli intensi scambi tra arti visive e discipline diverse (etnologia, psicoanalisi, filosofia, ecc.) tra anni Venti e Trenta del Novecento come forme di inquieta ricerca di vie di uscita dalla spirale imperialista, totalitaria e razzista, dalla vera e propria crisi di civiltà che attanaglia l’Europa. Su questo sfondo, le esperienze artistiche, in particolare quelle legate al surrealismo, vanno alla ricerca di un orizzonte alternativo, ritrovandolo nelle culture premoderne, “primitive”, negli strati profondi della psiche e del linguaggio, nell’“animismo” – come lo chiamò ancora Einstein rovesciando di segno un classico termine dell’etnologia evoluzionista ottocentesca – cioè una forma di percezione sensibile a una pluralità di forze prive di un riferimento “centrale”, di un fondamento identitario, in senso tanto estetico che politico.

 

Neolitische Kindheit, Haus der Kulturen der Welt, vista dell'allestimento

 

Nel solco di altre mostre enciclopediche tenutesi nello spazio diretto da Anselm Franke, anche Neolithische Kindheit organizza il suo percorso come una fitta trama di riferimenti alla cultura visiva, alla storia e alla teoria dell’arte, accostando opere e materiali eterogenei, libri, film, fotografie, documenti. Lo spettatore è chiamato a un lavoro di autonomo montaggio all’interno di un percorso policentrico che connette opere di artisti di profilo e notorietà assai diverse, come il belga Frits van den Berghe, idiosincratico pittore di sensibilità surrealista, Max Ernst, Paul Klee (con alcuni straordinari disegni degli anni Trenta), Toyen, fotografie di esponenti di primo piano del surrealismo parigino come Brassaï, Florence Henri, Eli Lotar e Raoul Ubac, film di Jean Painlevé, Sergei Eisenstein (con un frammento inedito del mai terminato film sul Messico) e Jean Renoir (sorprendente il suo cortometraggio Sur un air de Charleston del 1926), a una prospezione del paesaggio intellettuale degli stessi anni, i cui diversi filoni e discipline sono testimoniate da una cospicua presentazione di pubblicazioni e altri materiali. La scommessa, ambiziosa, è “decolonizzare” etnologia, antropologia, pensiero filosofico e arte modernista, senza però evacuarne il potenziale dialettico, il valore di critica radicale tanto dell’eurocentrismo che della razionalità strumentale e dei meccanismi di assoggettamento e dominio consustanziali alla forma di vita capitalista.

 

Gli anni Trenta giungono così a interrogare la nostra epoca. Se di fronte a conflitti e ineguaglianze intrattabili, alla crisi della democrazia e dello stesso progetto utopico moderno, sorse irresistibile in Germania e in Europa un progetto di sottomissione a un Ordine imposto violentemente come orizzonte escatologico collettivo, emerge dall’atomizzata società contemporanea l’immagine inconcepibile dello sciame e con essa una logica dell’alveare, una proiezione del soggetto a scala collettiva non per mezzo dei tradizionali strumenti della religione e dell’ideologia o attraverso il conflitto, ma piuttosto grazie un potente, pulsionale ed estatico movimento verso il gruppo, verso l’abbraccio sincronizzato con gli altri. In questo paesaggio postumano, l’arte, anziché dissolversi, appare al contrario come uno strano quantum energetico singolarmente durevole, al cui interno, ha scritto Edward Said, l’identità umana si mostra proteiforme, instabile e indifferenziata nella sua ambivalenza come qualsiasi altra cosa esistente al mondo.

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Il salto di scala da Rodin alla cultura Pop

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È una delle esclamazioni dei visitatori alla vista del manichino Bonaveri, collocato nel cortile di Palazzo Pucci durante la mostra Bonaveri A fan of Pucci. La mostra è articolata in un percorso espositivo che comprende abiti, accessori e installazioni che legano la casa di moda Emilio Pucci a Bonaveri Artistic Mannequins. Il manichino Bonaveri alto 6 metri ha un aspetto Pop per il salto di scala rispetto al contesto e per i disegni della casa di moda trasferiti in scala ciclopica sui volumi del manichino. Visito le sale al primo piano, assisto anche ai laboratori sartoriali e decorativi allestiti al piano terra, ma l’impressione lasciata del gigante non mi abbandona e domina tutte le altre. Il salto di scala grafico e plastico messo in scena a Palazzo Pucci dal direttore creativo Emma Davidge per sorprendere gli addetti ai lavori non è solo un prodotto della cultura Pop.

 

Bonaveri - A fan of Pucci, veduta dell’installazione nel cortile di Palazzo Pucci a Firenze.

 

Bonaveri - A fan of Pucci, veduta dell’installazione nella sala grande al primo piano di Palazzo Pucci a Firenze.


Ho avuto modo di vedere le foto del manichino mentre l’artista Tiziano Colombo lo stava dipingendo aiutato da una proiezione dei motivi grafici sui volumi scomposti del colosso. Questi passaggi dal bidimensionale al tridimensionale e da un codice visivo all’altro, accompagnati da scomposizioni e ricomposizioni della forma, mi hanno ricordato la tecnica utilizzata da Auguste Rodin. Il celebre scultore trasferiva alle sue sculture le modifiche ottenute manipolando la loro riproduzione fotografica. I suoi assemblaggi in gesso realizzati attraverso sorprendenti salti di scala, sono un esempio del dialogo tra visione plastica e visione grafica, all’insegna delle tecniche di taglio, prelievo, riposizionamento e montaggio delle parti. 

 

Auguste Rodin, Calco della mano di Auguste Rodin che tiene un torso,1917. Gesso. Museo Rodin, Meudon.


Rodin non è il solo artista a concepire la scultura in rapporto alla manipolazione dell’immagine grafica e fotografica. Lo è stato anche Medardo Rosso che conosceva e frequentava Rodin. In tempi successivi anche Adolfo Wildt. 

Studiando la scultura antica sulla base delle riproduzioni fotografiche in circolazione ai suoi tempi, Wildt si era immaginato una forte presenza del taglio, talvolta associato al riposizionamento delle parti ritagliate, che tradurrà nella sua opera. È il caso della scultura I Parlatori del 1907 composta riposizionando con una rotazione oraria di 90 gradi una figura ritagliata da un gruppo scultoreo successivamente andato distrutto. Nel catalogo della mostra Wildt. L’anima e le forme, Paola Mola scrive: “le immagini sui libri o sulle cartoline, scontornate su fondo nero, apparivano estraniate dal contesto, e in assenza del colore tutte in qualche modo simili e componibili tra loro. In più la fotografia riprodotta sui libri esaltava il frammento […] nelle tavole sui libri, si trovavano giustapposti senza unità di proporzione, teste o mani isolate e figure intere, così che un senso di enorme e gigantesco usciva immaginoso nella pagina” (Wildt. L’anima e le forme, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, Milano 2012, p. 22).

 

Fotografia ai Sali d’argento di Antonio Paoletti o di Giovanni Scheiwiller dell’opera Sant’Ambrogio di Adolfo Wildt in corso di lavorazione, 1925. Archivio privato - Fotografia del manichino Bonaveri in corso d’opera con l’artista che l’ha dipinto.


Alcune fotografie scattate da Antonio Paoletti o più probabilmente da Giovanni Scheiwiller nel 1925, mostrano il Sant’Ambrogio di Wildt in corso d’opera. Quando ho visto le fotografie del manichino Bonaveri in lavorazione, la mia mente non è andata direttamente ai salti di scala di Rodin ma alle fotografie di Paoletti/Scheiwiller. Da lì ai tagli e ai riposizionamenti di Wildt e poi, solo dopo, agli assemblaggi di Rodin. Il pensiero per immagini non è lineare, procede anch’esso per spostamenti e improvvisi salti di scala, che sono penetrati a fondo nella nostra cultura visiva e nell’arte contemporanea.

 

Damien Hirst, Demon with Bowl (Treasures from the Wreck of the Unbelievable), 2017. Resina dipinta. Atrio di Palazzo Grassi, Venezia.


Non mi riferisco tanto al gigante collocato da Damien Hirst nell’atrio di Palazzo Grassi a Venezia l’estate scorsa, quanto ai video di Uri Aran nei quali l’artista divide le unità espressive in blocchi per poi ricomporle spostando l’asse narrativo, una tecnica che mostra impressionanti analogie con le tecniche di cui si è detto sopra. Si potrebbe dire che la sua visione dell’immagine in movimento, soprattutto cinematografica, si sia formata attraverso le tecniche scultoree di taglio, ricollocazione e montaggio delle parti accompagnate da rotture di simmetria e salti di scala. Agli scarti nelle grandezze spaziali e temporali Ruggero Pierantoni ha dedicato il saggio Salto di scala. Grandezze, misure, biografie delle immagini, Bollati Boringhieri, Torino 2012.

Il salto di scala è l’aspetto della mostra a Palazzo Pucci che più colpisce. Qui, a Firenze, tra le forme proporzionate del Rinascimento, il contrasto con il gigante Bonaveri è esplosivo, dirompente. Le due visioni sono tra loro incompatibili. Infatti lo scultore Medardo Rosso, che attraverso le operazioni di taglio, riposizionamento e “riscrittura” grafica dell’immagine fotografica della scultura aveva tra i primi conquistato questa visione, ogni volta che si trovava a passare in treno per Firenze accostava le tendine del finestrino per non vedere la città. L’aneddoto mi è stato raccontato dalla storica dell’arte Paola Mola, la maggiore esperta di Rosso e peraltro anche di Wildt. Da allora il finestrino è rimasto oscurato. Il Rinascimento è diventato un fatto storico-artistico capitalizzato e amministrato come bene. Quindi ben venga il gigante che involontariamente pone il problema della trasformazione della Rinascita del mondo antico greco e romano in un bene di consumo culturale e di Firenze in un parco a tema.  

La Rinascita del mondo antico teorizzata dagli Umanisti e dai letterati del Quattrocento, passata poi alla storiografia con il termine Rinascimento, diede impulso a un movimento culturale nel quale l’uomo divenne “modo et misura di tutte le cose”. Usiamo dire “a misura d’uomo” spesso dimenticando che questa espressione deriva dall’idea rinascimentale che l’uomo sia la misura di tutte le cose, e che questa misura sia riferita alla regolarità e alla simmetria che gli Umanisti ravvisarono nelle opere del mondo antico greco e romano. Una concezione lontana anni luce dalle giustapposizioni senza unità di proporzione che caratterizzano la nostra cultura visiva.

Il senso di ordine, misura, proporzione, equilibrio e armonia tra le parti che caratterizza il primo Rinascimento trovò esemplare espressione architettonica nella Sagrestia Vecchia progettata da Filippo Brunelleschi, il primo esempio di artista ideale del Rinascimento, e altrettanto esemplare espressione politica nel progetto amministrativo di Federico da Montefeltro duca di Urbino. Questa concezione umanistica della politica, come dell’arte, della moda e dello stile non è più la nostra e proprio qui, a Palazzo Pucci, lo si avverte chiaramente. Il contrasto tra il gigante Bonaveri e la Firenze rinascimentale impone una visita alla Sagrestia Vecchia che si trova poco lontano.

 

Questa magnifica opera di Brunelleschi costituisce il prototipo architettonico della forma rinascimentale nella quale ogni elemento che la compone è in una relazione armonica con l’altro. Una forma simmetrica, proporzionata pacifica e serena, quasi come quella della gemella Sagrestia Nuova di Michelangelo Buonarroti turbata dai profili ellittici dei “cassoni” che conservano le spoglie di Giuliano e Lorenzo de’ Medici. Mi sposto dalla Sagrestia Vecchia a quella Nuova pagando un secondo biglietto. Nella nicchia sopra il suo sarcofago Lorenzo de’ Medici, divenuto duca di Urbino alcuni decenni dopo la morte di Federico, medita sul tempo che separa lo spazio chiaro e sereno della Rinascita da quello inquieto nel quale già si trova. Non è ancora quello dei tagli, dei montaggi e dei salti di scala senza unità di proporzione, ma ormai il primo Rinascimento è alle spalle. 

Esco dalla Sagrestia Nuova passando dal bookshop, dove le bellezze di Firenze riprodotte in scala ridotta si possono acquistare a pochi euro, e penso al gigante Bonaveri che certamente è costato molto di più. La scala economica, dimensionale e sociale è diversa: l’ingresso alla Sagrestia Nuova costa 8 euro, quello a Palazzo Pucci è solo su invito.

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Mostre tra Parigi e Berlino

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A Parigi, nelle continue minacce di attentati, i musei sono guardati a vista. Dappertutto, compare l’etichetta minacciosa del servizio Vigipirate, che da sistema antitaccheggio, è divenuto deterrente antiterrorismo. La stagione delle mostre parigine guarda a Oriente, dal mondo arabo alla Cina, al Giappone, come proponendo un’affascinante ricognizione nei nostri concetti di esotismo, così come essi stanno mutando nel mondo in cui la Cina ha sempre maggiore potere economico e politico, e gli emiri del Golfo finanziano esposizioni in tutto il mondo intorno all’eredità islamica nei suoi molteplici aspetti. Al Musée Maillol compare Foujita, magnifico pittore di eroticissimi nudi, e di non meno allusivi gatti, di tutte le taglie e dimensioni, che sono in braccio all’artista.

 

Noto per il suo comportamento eccentrico e trasgressivo (a certe sue gesta allude il personaggio di Bertram Stone nel film The Moderns di Alan Rudolph, dove il ruolo era interpretato da un magnetico John Lone), si incide come uno dei protagonisti delle années folles, anche per il notevole impegno profuso per definire un personaggio eccentrico, come dichiarano i magnifici ritratti fotografici firmati da Istvan Kertesz. Abile a modulare il proprio linguaggio espressivo con le necessità decorative dell’Art Dèco, venne catturato dallo spleen, con la sua compagna decise perciò di trasferirsi in Sud America, ed alla fine tornò in Giappone, dove il governo lo usò per tele di propaganda, sulla gloria dell’esercito giapponese, che non sono presenti in mostra. In bicicletta andando verso il Quai Branly, i soldati si moltiplicano e specialmente quando si arriva in vista della Torre Eiffel, presidiatissima, mentre lo chef Ducasse cerca il sostegno del suo amico Macron, per tenere la prestigiosa location, che spregiosamente è stata data a un marchio non stellato.

 

 

Tra gli alti lai del cuciniere, si accede alla notevolissima esposizione Enfers et Fantộmes d’Asie, memorabile esposizione su inferni e spettri, tra Buddismo e altre religioni. Spettri inquieti, demoni infernali, giudici dell’averno burocratici e maligni, vanno in scena nel cinema dei demoni, dove va in onda un estratto del cattivissimo Narok (ossia inferno) dei tre cineasti thai Jitnukul, Praditsarn e Thamnitayakul. Al piano di sopra si passa a vicende di blues con una mostra biografica dedicata al paradossale destino di Paul Robeson, cantante blues, attore, comunista dichiarato, che a lungo ebbe notevoli problemi nel suo paese natale, gli Stati Uniti.

 

Il filo orientale continua al vicino Musée Guimet, dove Mata Hari, per il titillamento dell’élite parigina iniziò la sua strepitosa carriera, dove è in scena Le monde vu d’Asie, capziosa rassegna di immagini (e in specie di magnifiche carte geografiche), in cui si assiste al mondo visto dall’Asia, tra pregiudizi, stereotipi e folgoranti invenzioni. Altrettanto notevole la mostra all’Institut du Monde Arabe dedicata al Canale di Suez, di cui si indagano nelle mille pieghe l’impatto nella vita egiziana ed europea, con non pochi legami con l’Italia, perfettamente incarnati dalla commissione a Giuseppe Verdi per Aida, che clamorosamente aprì la sua fortunata carriera al Teatro Khediviale del Cairo nel 1871: soldi e sogni si sono saldamente intrecciati nella creazione di questa colossale opera, che è costata molte vite umane. Poi, arrivati al crepuscolo, resta solo di prendere la bicicletta, per andare, tra vari controlli alle Bassin de la Villette, dove si può giocare a Seurat, facendo il bagno nelle grandi piscine a bordo Senna. Poi, di controllo in controllo, è il momento di andare a Berlino, dove la tappa principale è la notevole Wanderlust, alla Alte Pinakothek. Una riflessione polifonica sulla Wanderung polifonica, dove nel cuore del dispositivo è una presenza fortissima di Caspar David Friedrich, senza scordare la presenza inquietante di Heinz Thoma.

 

Una ricognizione articolata in area tedesco-francese, con alcune presenze importanti dal mondo anglosassone.  Come una scena dell’acclamata serie Babylon Berlin, si impone all’attenzione Jeanne Mammen alla Berlinische Galerie, maestra di un realismo acido negli anni ’20 berlinesi, poi censuratissima dai nazisti e mai tornata dopo la guerra alla stessa felicità del ritratto di Valeska Gert, regina del cabaret di Weimar poi immortalata come guru ermafrodito da Federico Fellini in Giulietta degli spiriti. Infine, un altro paio di pedalate, e per concludere, prima del consueto low cost da una affollatissimo aeroporto di Schonefeld, l’incantevole Oh, yeah!, al Museo delle Poste e Telecomunicazioni, ossia una immersione nel pop alla tedesca, dagli anni ’20 ad oggi, con video, musiche e racconti.

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Alik Cavaliere: un artista concettuale?

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Ingresso dell’aula 45, Accademia di Belle Arti di Brera, Milano.


Com’erano le aule del corso di scultura a Brera alla fine degli anni Settanta? Quella del professore Alik Cavaliere era vuota ad eccezione di un tavolo. Niente copie in gesso tratte da esemplari greci e romani, niente modelli viventi in posa, solo un tavolo intorno al quale discutere. Per noi studenti, che per la prima volta dopo gli studi liceali iniziavamo a visitare le gallerie di arte contemporanea, il tavolo era una struttura primaria della Minimal Art, caratterizzata da una riduzione della forma all’essenziale, una struttura intorno alla quale discutere su arte, politica e società. Nel minimalismo l’analisi del fare arte prevaleva sul fare, spingendo la ricerca verso un grado zero della pittura e della scultura, ma l’impossibilità di raggiungere l’inafferrabile e sfuggente minimum sensibile teorizzato dagli artisti minimalisti provocò uno spostamento verso il concetto, favorendo la nascita della Conceptual Art nella quale ogni aspetto materiale venne espulso totalmente dall’opera. Il rifiuto dell’oggetto costituiva l’asse portante della Conceptual Art, un’arte che “non ha un oggetto come residuo” (Douglas Huebler) e quindi non è mercificabile. 

“Oggetto, nasconditi” si leggeva sui muri di Parigi nel ’68. Un’altra scritta diceva: “ho qualcosa da dire ma non so cosa”. Qualcosa di aperto e indeterminato, intuitivo, animava tanto il ’68 quanto il tentativo in arte di cogliere l’inafferrabile minimum fino a ridurlo al concetto. Le Sentences on Conceptual Art pubblicate nel 1969, due anni dopo i Paragraphs on Conceptual Art che rappresentano l’atto di nascita dell’idea come opera artistica senza residuo materiale, si aprono con questa dichiarazione di Sol LeWitt:  “Gli artisti concettuali sono mistici piuttosto che razionalisti. Saltano a conclusioni cui la logica non può arrivare”.

 

Art-Language, the journal of conceptual art, 1969, volume 1, numero 1, maggio 1969, pubblicato da Art & Language Press, Coventry, Gran Bretagna. A pagina 11 le Sentences on Conceptual Art di Sol LeWitt.


L’indeterminatezza del concetto (nell’Arte Concettuale) e del ’68, alla quale il regista João Moreira Salles ha dedicato il bellissimo film No Intenso Agora del 2017, era ormai lontana, sepolta in un dogmatismo delle idee, ma intorno a quel tavolo avevamo l’impressione che qualcosa potesse ancora nascere in modo inaspettato nell’arte e nella società. La Conceptual Art, così come è annunciata nella prima delle Sentences on Conceptual Art di LeWitt, esercitava ancora una certa influenza su di noi, mentre si stava preparando il ritorno al disegno, alla pittura e alla scultura, alla forma e alla materia: stava per farsi strada la Transavanguardia. Il fenomeno artistico della Transavanguardia non ha lasciato in me traccia alcuna mentre ne ha lasciata una profonda il tavolo nell’aula di Alik. Il tavolo intorno al quale si discuteva di arte, politica e società costituiva per noi il simbolo di un progetto sociale oltre che artistico, giunto però a una catastrofica conclusione. 

 

Giuseppe Memeo punta una pistola contro la polizia durante una manifestazione di protesta in via De Amicis a Milano il 14 maggio 1977. Foto di Paolo Pedrizzetti.


Nel saggio Settanta, (Einaudi, Torino 2001) Marco Belpoliti indaga sul legame tra ricerca letteraria e progetto politico nel decennio che chiude con largo anticipo il secolo XX, il cosiddetto secolo breve.  Sono gli anni di piombo, dal titolo del film girato nel 1981 da Margarethe von Trotta sugli analoghi avvenimenti in corso negli stessi anni in Germania, quando il progetto sociale e politico in cui molti avevano riposto le loro speranze perde la sua creativa indeterminatezza e si radicalizza ideologicamente giungendo alla sua tragica parabola finale.

 

Sol LeWitt. Between the Lines. Veduta dell’installazione alla Fondazione Carriero, Milano 2017, con 8 x 8 x 1 del 1989 e Wall Drawing #1104: All combinations of lines in four directions. Lines do not have to be drawn straight (with a ruler) del 2003. Foto Agostino Osio - Francesco Arena, 3,24 mq, 2004. Collezione Raffaella e Stefano Sciarretta, Roma. Ricostruzione in scala 1:1 della cella di Aldo Moro nella quale appare evidente il riferimento alla scultura minimalista.


Alla Fondazione Carriero si è da poco conclusa la mostra Sol LeWitt.Between the Lines dedicata all’opera dell’artista delle Sentences on Conceptual Art. La griglia-gabbia disegnata a pennarello su uno specchio che nasconde uno spazio mostrandone un altro (Wall Drawing #1104: All combinations of lines in four directions. Lines do not have to be drawn straight - with a ruler – del 2003) e le forme geometriche cubicolari incastrate le une nelle altre (8 x 8 x 1 del 1989) mi hanno ricordato il cubicolo, la stanza nella stanza dove le Brigate Rosse rinchiusero Aldo Moro per tutta la durata della trattativa con lo Stato, prima di assassinarlo. Esito funesto della radicalizzazione del progetto sociale in cui avevamo creduto, mentre quello artistico, con la sua vocazione anti-oggettuale e anti-mercantile, non approdò a nulla: il mercato trionfò trasformando in merce ciò che non avrebbe dovuto esserlo. Lo constata anche Rem Koolhaas co-curatore della mostra di LeWitt alla Fondazione Carriero: “Negli ultimi vent’anni il mercato economico è diventata la forza preponderante dietro ogni interazione tra la gente e gli altri sistemi di riferimento. Quindi la parola concettualeè diventata quasi impossibile da utilizzare in ogni circostanza, perché suggerisce una certa purezza che pochi elementi possono ancora vantare” (dall’intervista di Ginevra Bria a Rem Koolhaas pubblicata in Artribune, 10 febbraio 2018). L’allestimento alla Fondazione Carriero, con le Structures di LeWitt che attraversano gli spazi in continuità con l’architettura per dare forma a un nuovo spazio ideale al di là di quello architettonico, sembra un esercizio di stile applicato a un’estetica dell’idea: un fatto estetico piuttosto che artistico. In questa mostra le sue opere non sembrano avere più la forza del tavolo, che noi studenti consideravamo la forma artistica del “qualcosa [che ho] da dire ma non so cosa”. 

 

Nell’aula 45 un tavolo, solo un tavolo, parole e concetti. Eppure Alik aveva interesse per i materiali e le tecniche della scultura, alcune delle quali antiche. Nel saggio Werke aus Kupfer, Bronze und Messing (Siegl, München 2014, p.171) lo storico del restauro Hermann Kühn scrive che Alik utilizzò una tecnica che usavano i Romani e poi, prima che Alik la riscoprisse, mai più. Di questo non sapevo nulla prima che Carla Pellegrini, che conosceva Alik e lo stesso Kühn (Carla è direttrice artistica della Galleria Milano, una di quelle gallerie che tra anni Sessanta e Settanta resero Milano un centro dell’arte europea e internazionale), me lo spiegasse con dovizia di particolari traducendo la pagina dal tedesco.

 

Maschera in cera proveniente da una tomba cumana. Fine del III – inizio del IV secolo d.C. Museo archeologico nazionale di Napoli – Togato Barberini. I secolo a.C. Centrale Montemartini, Musei Capitolini, Roma, già Collezione Barberini (il personaggio in toga regge le imagines di due suoi antenati).


In quella stessa aula, Alik mi insegnò anche la tecnica del calco dal vivo, mi insegnò come ricavare un’impronta in gesso da modello vivente di un particolare anatomico e anche del corpo intero. In particolare mi spiegò molto bene la tecnica del calco del viso, che poi ho avuto modo di eseguire su corpi vivi e morti per alcuni ritratti. È una tecnica antica che Plinio fa risalire a Lisistrato di Sicione: “Primo di tutti a riprodurre il ritratto umano in gesso derivandolo dalla faccia stessa e, versata della cera nello stampo in gesso, a correggere poi l’immagine fu Lisistrato di Sicione, fratello di Lisippo” (Storia naturale, XXXV, 153). Sappiamo quindi che questa tecnica era nota ai Greci in epoca ellenistica con il nome di ceroplastica, ma solo con i Romani raggiunse il suo vertice passando attraverso la ritrattistica etrusca. Nell’atrio di ogni casa romana patrizia, racchiuse in nicchie che recavano iscrizioni, si trovavano le maschere in cera degli antenati defunti ottenute attraverso la suddetta tecnica. Nel corso delle esequie gentilizie venivano portate in processione: “ad ogni nuovo morto era sempre presente la folla dei familiari vissuti in un tempo prima di lui” (Plinio, Storia naturale, XXXV, 6). Nel saggio Storia del ritratto in cera (Quodlibet, Macerata 2011) Julius von Schlosser tratta in modo esaustivo l’argomento.

Così, negli anni della mia formazione, il grado zero della scultura rappresentato dal tavolo, attraverso la tecnica dei calchi funerari in gesso, si coniugò all’assoluto della morte che si avverte nelle mele, nelle pere e nei corpi viventi da Alik immortalati per mezzo della stessa tecnica nel bronzo o nella resina prima di marcire.  

 

Veduta della mostra a Palazzo Reale con l’opera di Alik Cavaliere Grande pianta. Dafne del 1991 (Archivio Cavaliere, Milano) che proietta la sua ombra sulle pareti della sala – Alik Cavaliere, Albero per Adriana, 1970. Collezione privata, Milano.


Elena Pontiggia, curatrice della mostra Alik Cavaliere. L’universo verde allestita a Palazzo Reale, Milano (fino al 9 settembre 2018), ha sottolineato in diversi suoi studi il fatto che “un’aspirazione all’infinito anima la sua ricerca”. A prima vista la mostra sembra portare l’attenzione su un Alik lucreziano in veste green, che nel 1962 trasforma l’area incolta intorno al suo studio in via Bocconi 15 a Milano in una fattoria domestica con animali, fiori e alberi da frutto, ma a un esame più attento emerge anche un Alik romantico, che vede la natura come un ciclo senza fine di nascita e di morte, vale a dire come un infinito.

In Romantic Conceptualism (BAWAG Foundation, Vienna 2007) Jörg Heiser sostiene che il romantico riaffiora nella Conceptual Art come ineffabilità, frammentarietà, emotività e sentimento. Tra questi aspetti del romantico si potrebbe senz’altro aggiungere anche la tensione verso l'illimitato, verso ciò che non ha fine e perciò è infinito. Gli studi di Heiser sull’Arte Concettuale riscoprono in chiave romantica il carattere di indeterminatezza che l’impossibilità di raggiungere il minumum trasferì al concetto. Consiglio la lettura del capitolo 9 del saggio Infrasottile. L’arte contemporanea ai limiti (Postmedia, Milano 2018) nel quale Elio Grazioli riassume la questione nei suoi tratti essenziali. 

 

Vincenzo Ferrari e Alik Cavaliere, Attraversare il tempo, 1978. Acquaforte. Archivio Galleria Milano – Veduta della retrospettiva dedicata all’opera di Vincenzo Ferrari allestita presso la Sala Ristorante Università Bocconi. Forse Vincenzo avrebbe apprezzato l’accostamento della sua opera Verità del 1971 (Archivio Galleria Milano) ai tavoli apparecchiati per il pranzo.


Alik, un artista concettuale? Bisogna ricordare che il suo sodalizio con l’artista Vincenzo Ferrari si tradusse in opere in cui l’aspetto concettuale era reso evidente per l’aderenza a quella che già si poteva definire la maniera del concettuale. Mi riferisco per esempio all’opera grafica Progetto per attraversare il tempo del 1978 esposta nella retrospettiva dedicata a Vincenzo Ferrari presso l’Università Bocconi – Sala ristorante (fino al 14 settembre), nella quale predomina la “pittura a caratteri mobili” combinatoria e permutativa di Vincenzo piuttosto che la “partecipazione alla realtà” sentita da Alik come il “centro del problema” dell’arte (Alik Cavaliere, Taccuini, 6.7.1964). 

Carla Pellegrini, che ha lavorato con entrambi gli artisti e organizzato alcune loro mostre, mi racconta che Alik e Vincenzo passavano interi giorni e notti a chiacchierare di arte, politica e società. Un concettuale di maniera si ravvisa anche in altre opere di Alik, ma attraverso la lettura romantica dell’arte concettuale di Heiser, nei frutti e nei corpi umani da lui immortalati nel bronzo o nella resina prima di marcire, prima di decomporsi per poi rinascere in un ciclo senza fine, potrebbe benissimo rivelarsi un concettuale per nulla di maniera, anzi originale, che spiegherebbe l’apparente incongruenza di quello che insegnava nella sua aula di scultura a Brera: la tecnica della ceroplastica e della discussione intorno a un tavolo. 

 

Piero Marabelli davanti all’opera di Alik Cavaliere Susi e l’albero del 1969. Archivio Cavaliere, Milano – Particolare dell’opera di Alik Cavaliere Albero per Adriana, 1970. Collezione privata, Milano.


La mostra a Palazzo Reale si estende presso altri musei, gallerie e fondazioni: Museo del Novecento, Palazzo Litta, Gallerie d’Italia, Università Bocconi e Centro Artistico Alik Cavaliere. In quest’ultimo vengo accolto da Piero Marabelli, operaio meccanico in pensione, negli anni Sessanta addetto alla riparazione di motori e differenziali presso l’officina della Yomo. Mi racconta che la sorella di Alik, proprietaria dell’azienda prima che venisse acquistata da Granarolo, un giorno del 1964 lo incaricò di portare una bombola di gas allo studio in via Bocconi. “Appena entrato sono rimasto colpito da un albero ai cui rami era appesa una mela. L’ho toccata piano piano credendola vera, ma non del tutto. Poi mi sono reso conto che era di bronzo”. Quel “credendola vera, ma non del tutto”  mi ha fatto pensare al naturalismo della scultura ellenistica nella quale la realtà conserva i caratteri della finzione. Nell’arte ellenistica, in particolare nel cosiddetto barocco antico dello stile pergameno, le figure retoriche si mescolano alla resa del dettaglio naturalistico con un virtuosismo che infonde alla retorica della narrazione plastica una carica patetica. Alik è sfaccettato: ellenistico, pop, liberty, concettuale, informale, surrealista, metafisico, realista esistenziale. “Mi racconto per frammenti” dichiara in un programma di Antonia Mulas trasmesso da RaiTre: Alik Cavaliere. La scultura e i luoghi.

In un appunto del 1961 Alik riflette sulla narrazione che può trovare espressione attraverso medium diversi, nella scrittura così come nella scultura: “Pensavo oggi allo scrivere. Finora ho solo scritto sculture… ho scritto un fatto e un personaggio. Oggi come scultore voglio giungere al racconto di più motivi” (Lorena Giuranna, Scrivere e vivere. La narrazione di Alik, in Alik Cavaliere, Taccuini 1960-1969, Abscondita, Milano 2015, p.180). Alik ha frequentato anche la facoltà di Lettere classiche all’Università Statale assecondando il suo interesse per gli studi umanistici, attratto sia dall’arte che dalla letteratura come Luciano di Samosata secoli addietro. Nell’Elogio della mosca, l’autore ellenistico descrive il petto dell’insetto con una sensibilità e una competenza da scultore. Incerto se dedicarsi alla scultura o all’eloquenza, Luciano di Samosata si decise infine per la seconda portando nella sua scrittura i modi della scultura, ma questi erano sin dall’inizio nella letteratura. Non è in fondo il naturalismo dell’ellenismo, che ravvisiamo nell’opera sfaccettata di Alik, un naturalismo nel quale la realtà conserva i caratteri della finzione letteraria prima ancora che plastica? Non è forse il suo un racconto continuo come quello ellenistico dell’altare di Pergamo? 

Negli anni in cui le Sentences on Conceptual Art esercitavano ancora a distanza di tempo una certa influenza, Alik mi ha insegnato l’arte di scolpire concetti attraverso la parola (la stessa arte alla quale qui ricorro per ricordarne l’opera di artista e di docente) insieme all’arte della ceroplastica ellenistica. Così ha fatto perché non poteva separarle.

 

La mostra Alik Cavaliere. L’universo verde, a cura di Elena Pontiggia, è allestita a Palazzo Reale, Milano, fino al 9 settembre 2018 

La mostra si estende anche ad altre sedi: Museo del Novecento, Palazzo Litta, Gallerie d'Italia - Piazza Scala, Università Bocconi, Centro Artistico Alik Cavaliere

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Man Ray. Wonderful visions

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Da sotto in su. Lo sguardo è proprio questo. La fotografia non mente: due bellissime gambe, una ha una calza e l’altra no, quasi con noncurante trascuratezza. La donna è sdraiata a terra con i piedi verso l’alto e li appoggia a una parete nera, il suo sguardo non si dirige verso l’obiettivo del fotografo e nemmeno verso di noi, ma in direzione del suo alluce destro, la punta estrema del suo corpo. Non si vede nemmeno il volto. È nascosto, misterioso, perso in chissà quali pensieri. Non esiste che in se stessa, solo per sé. Si direbbe un momento di estrema, compiaciuta solitudine.


Lo sguardo del fotografo non è dinnanzi alla modella, non si contrappongono, ma sono sulla stessa linea. Coincidono. Non si guardano, ma guardano entrambi lo stesso punto. Sembra che Man Ray, l’uomo raggio, stia fotografando l’istante prima dello scatto, quello dove l’aspetto della creazione non ha ancora una forma, ma di lì a poco l’acquisterà. Forse è il momento in cui la libertà è al suo apice, in cui tutto può ancora accadere. La modella non ha uno sguardo, o meglio, noi non lo possiamo vedere. Tutto deve essere inventato. La seduzione risiede in questo istante di pura distanza e di estrema vicinanza, come avviene nel mito di Narciso. Le immagini di Man Ray sono desideri. Idee impalpabili, come l’allevamento di polvere di Marcel Duchamp che egli ha fotografato: la polvere che si muove nell’aria mostra la libertà di una forma che si esprime nelle infinite possibilità combinatorie date dal caso. Cos’è la forma di un desiderio se non la sua mancanza? Desiderare e fotografare hanno la stessa natura: cercano di dare forma a ciò che è impossibile da fissare sia sul fotogramma che nella vita. Non è un caso che l’immagine delle due gambe elevate verso l’alto sia destinata a una pubblicità, luogo per antonomasia in cui si alimentano i desideri, come suggerisce il titolo Publicité pour les bas.

 

Man Ray, Publicité pour les bas, 1930 circa.


In questa immagine si materializza un’utopia, un sogno, la totale, libera, irrealizzabile autosufficienza, l’istante vuoto ovvero la forma stessa del desiderio: il buio prima della luce dell’immagine. La modella sta guardando il suo alluce, il suo sguardo si chiude in sé. “Desideri del soggetto, espressi da un’ascensione alata degli oggetti del desiderio”, direbbe Georges Bataille. Questo alluce rivolto verso l’alto come estrema propaggine di sé, non è poi così distante da quell’alluce evocato in Documents, immagine e feticcio in cui l’alto e il basso perdono i loro connotati. È la punta di uno spazio insolito, che confonde la nostra percezione, il cui movimento ricorda la fantasia ascensionale che Roland Barthes evocava a proposito della Tour Eiffel, euforica, poiché aiuta l’uomo a “vivere, a sognare, associandosi all’immagine della più felice delle grandi funzioni psicologiche, quella della respirazione”. Il desiderio non è forse un affanno: euforia, entropia e perdita di ogni punto di riferimento? 

 

È con questa immagine che si potrebbe guardare la mostra Wonderful visions, dedicata a Man Ray con la cura di Elio Grazioli. La si dovrebbe percorrere da sotto in su, da un punto di vista insolito, che lascia spazio a un capovolgimento, per dirla nuovamente con Bataille, non tanto con “i piedi nel fango” e la testa “quasi nella luce”, ma in un continuo cambio di prospettive e di spazi.

 

Più che i soggetti sono gli espedienti visivi elaborati del fotografo il vero punctum del suo lavoro. La solarizzazione non è solo una tecnica, ma un vero stravolgimento semantico: in sede di stampa vengono alleggerite le aree scure e scurite quelle chiare. Il risultato è un’immagine argentea ed eterea, il soggetto emerge dalla foto come una creatura fantastica: i ritratti solarizzati di Giorgio De Chirico, dello stesso Man Ray e di André Breton, paiono i riflessi provenienti da un’altra realtà: distanti, quasi intoccabili, inconcepibili anche allo sguardo. Qui fotografare significa spingersi oltre ciò che si vede, significa trovare l’invisibile nel visibile. Vuol dire entrare nell’immagine stessa, far parte della sua materia costitutiva. L’uomo raggio, che ha solarizzato anche se stesso, è riuscito a insinuarsi con la luce del suo sguardo nei profili delle cose, ne ha fissato sul fotogramma l’essenza nascosta, il suo stesso desiderio, “allo stesso modo di certe improvvise condensazioni atmosferiche, il cui effetto è di rendere conduttrici delle regioni che non lo erano e di produrre i lampi”, direbbe l’amico Breton. 

 

Ma non è tutto. Se la solarizzazione prevede un rivolgimento della nostra percezione, attraverso lo sguardo del fotografo, nei rayogrammi egli decide di scomparire per lasciare il posto alla luce. Queste immagini derivano dall’atto di appoggiare direttamente gli oggetti sulla lastra, emergono dalla loro materia, nascono dalla luce senza la fotocamera. Si trasformano in oggetti a funzionamento simbolico, o meglio paiono altrettanti “object trouvé”, direttamente estratti dalla luce. Sono simboli del vuoto: il fotografo cessa di esistere e forse anche la fotografia intesa come manufatto prodotto dall’uomo. La scena è orfana di un autore-creatore e chi osserva le immagini è disorientato, ma allo stesso tempo indotto a riappropriarsi di queste forme in bilico tra epifania e dissoluzione. Cosa significa creare: separare la materia, dare luce o lasciare che la luce stessa crei ogni oggetto? Chi è il vero artefice? Sfere, riflessi, ombre costituiscono la materia dei vari rayograph, che conservano l’embrione dell’indeterminatezza e delle sue possibili forme a venire, come una presenza spettrale o fantasmatica, di ciò che c’è senza davvero esserci. Esattamente come in una fotografia.

 

Man Ray, Dora Maar (Composition à la petite main), 1936

 

Tutto questo non avviene solo nei rayogrammi. In generale, nelle immagini di Man Ray, ciò che sta dinnanzi ai nostri occhi sono riflessi, ombre, sogni, meraviglie. Hanno le qualità di ciò che Breton definisce “bellezza convulsiva”, ovvero “magica-circostanziale”, “erotica-velata”, “esplodente-stabile”, una bellezza in perenne movimento e senza un senso univoco, “che lega l’oggetto considerato in movimento e nello stato di quiete”, scrive nell’Amour fou, sintetizzando con queste parole un programma estetico che riguarda anche i rapporti umani, e ogni genere di incontro capace di sprigionare la “scintilla poetica”. Una bellezza del tutto insolita, considerata da Breton, e dallo stesso Man Ray, “esclusivamente secondo fini passionali”, capace di generare “un turbamento fisico caratterizzato dalla sensazione di un alito di vento alle tempie capace di provocare un vero brivido”. 

E nelle foto di Man Ray questo brivido non si alimenta solo della bellezza dei corpi femminili da lui fotografati, ma soprattutto di ciò che di incongruo l’obiettivo riesce a produrre attraverso la materia di quei corpi. Le immagini che più ci interrogano sono quelle in cui niente è come appare. Dove si dirige lo sguardo di Lee Miller stesa a terra con gli occhi chiusi e i capelli sospesi? Dentro di sé? Cosa si cela dietro al fitto intreccio di linee che costituisce il volto della moglie Juliet Browner? Qual è il mistero che si sprigiona dallo sguardo solarizzato di Dora Maar? Enigmi visivi.

 

E quindi cosa ci insegna oggi lo sguardo di Man Ray? Non è facile rispondere. Forse ci mostra come si può rappresentare l’indice di una rottura, di una crisi, un’apertura che mostra la rappresentazione nel suo punto critico, ovvero là dove si manifesta il rifiuto della semplice imitazione.

 

E poiché non si è avverata la profezia di Wim Wenders, ovvero che la proliferazione delle immagini (digitali), tutte bellissime e straordinarie, simili al mondo della pubblicità, avrebbero finito per allontanarci dal mondo della verità, avvolgendoci con il loro potere seduttivo in una sterminata orgia visiva, che finirà per renderci ciechi (Fred Ritchin lo dimostra con molti esempi, nel suo saggio Dopo la fotografia), soffermarsi oggi sulle foto di Man Ray, significa non limitarsi ad essere puri consumatori di immagini. 

 

Man Ray, Rayograph, 1923


La fotografia può davvero divenire un “oggetto d’affezione”, che dovrebbe “dilettare, disturbare, disorientare o far riflettere”, poiché, suggerisce Elio Grazioli nell’introduzione al catalogo della mostra, “l’affezione è ciò che crea il mistero, è il sentimento segreto che resta enigmatico al di là dello svelamento simbolico, è una dimensione privata in più di cui si carica l’oggetto, fotografia compresa, e lo sguardo si fa incantato”. L’incanto è il desiderio di soffermarsi su ciò che appare più lontano dall’essere compreso: l’ambivalenza, le polarità, l’“enfasi antitetica” di una fotografia, ovvero la propensione a inglobare distorsioni e rovesciamenti semantici. Man Ray lo asseriva con ironia: “Dipingo quello che non può essere fotografato. Fotografo quello che non voglio dipingere. Dipingo l’invisibile. Fotografo il visibile”. 

 

Fotografare e rapportarsi alle immagini significa davvero celebrare la libertà che risiede in ogni nuova acquisizione di senso. Se il timore è che le immagini vincano perché troppo disponibili a trasformarsi in feticci e tali da distogliere lo sguardo da una realtà che invece si impone ai nostri sguardi in tutta la sua inafferrabile complessità, l’occhio, come il medium fotografico, è divenuto l’interminabile estensione artificiale della nostra sensorialità naturale, in grado di incarnare le due facce opposte dell’attualità: quella dei sistemi di controllo e quella della libertà di vedere dappertutto. Una libertà che se da un lato ha inevitabilmente esasperato l’incontenibile pulsione voyeuristica connessa alle potenzialità meccaniche dell’obiettivo fotografico, alla sua presunta capacità di rappresentare la flagranza del reale (e di condividerla online), dall’altro può rappresentare al tempo stesso, un antidoto allo stesso voyeurismo, impedendone la normalizzazione attraverso l’individuazione di elementi sovversivi, che interrompono il flusso illimitato di immagini in cui siamo immersi. Cos’è che impedisce al nostro sguardo di andare oltre ciò che guardiamo? Cosa ci costringe a fermarci dinnanzi a un’immagine? 

 

Se pensiamo a Man Ray si tratta della libertà di sperimentare, o meglio di trasformare l’esperienza in immagine, soprattutto, per paradosso, quando egli riesce a raffigurare ciò che non ci aspettiamo di trovare o vedere nell’immagine. Così scrive nel suo articolo “L’epoca della luce” pubblicato sulla rivista Minotaure nel 1933: “È nello spirito di un’esperienza, e non di un esperimento, che vengono presentate le immagini autobiografiche che seguono. Colte in momenti di distacco visivo, durante periodi di contatto emozionale, queste immagini sono residui ossidati, fissati dalla luce e da elementi chimici, di organismi viventi. Nessuna espressione plastica può mai essere qualcosa di più del residuo di un’esperienza. Il riconoscimento di un’immagine tragicamente sopravvissuta a un’esperienza, che ricorda più o meno nitidamente l’evento come le ceneri intatte di un oggetto consumato dalle fiamme, il riconoscimento di questo oggetto così scarsamente rappresentativo e così fragile, e la sua semplice identificazione da parte dell’osservatore che ha avuto un’analoga esperienza personale, vanificano ogni classificazione psicoanalitica, ogni assimilazione in un sistema decorativo arbitrario”.

Lo diceva a modo suo anche Breton: “Per chi sa condurre in porto la barca fotografica in mezzo all’incomprensibile mulinello delle immagini, c’è la vita da afferrare come un film da girare al contrario”. Forse non è così difficile.

 

Mostra: Wonderful visions, a cura di Elio Grazioli. Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, S. Gimignano, 8 aprile – 7 ottobre 2018.

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La mina di Matticchio

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Franco Matticchio. La miniera di polvere è il titolo che Giovanna Durì ha scelto per la personale dell’artista che si tiene fino al 14 ottobre presso la Fondazione Benetton di Treviso. La curatrice, che i lettori di Doppiozero conoscono per i suoi disegni al tratto dei passeggeri delle ferrovie del Nord Est, ha utilizzato il termine miniera perché, oltre a rimandare a un racconto di Matticchio, allude sia alla mina, cioè alla grafite della matita, sia allo “sminamento” necessario per far conoscere l’autore a una cerchia più vasta di quella che già lo apprezza in Italia e nel mondo. Matticchio, con quella sua aria da eterno ragazzo, ha più di quarant’anni di lavoro alle spalle: il ‘Corriere della Sera’ dal 1979, il bel ‘Linus’ degli anni Ottanta, ‘Linea d’Ombra’ che, attraverso Goffredo Fofi, fece conoscere una generazione di grandi fumettisti (Mattotti, Giandelli, Toccafondo, Scarabottolo, Negrin), ‘L’Indice’, fino alla copertina del ‘New Yorker’.

 

Negli ultimi anni i non molti lettori che si soffermano sulle immagini possono trovare le ‘Matticchiate’ ogni domenica sul supplemento culturale del Sole 24 ore, mentre il lavoro più narrativo del fumettista è stato raccolto da Rizzoli Lizard in due grossi tomi: Jones e altri sogni e Ahi e altri guai. Il signor Jones non è un gatto, anche se molto gli somiglia, è comunque un solitario dotato di uno humour impassibile alla Buster Keaton; al massimo scambia qualche parola con l’amico Dog. Dai racconti trapela una metafisica del quotidiano che avviene in ambienti borghesi, all’apparenza rassicuranti, ed è colta attraverso la dilatazione dell’istante. Matticchio è un narratore beckettiano, che continua a raccontare storie in un’epoca in cui venne decretata la morte del romanzo (rinato poi in forma di feuilleton). Può essere cattivissimo, come nella vera storia di Cappuccetto rosso (capolavoro paratattico), ma fatica a nascondere il romanticismo del timido a cui piacciono le donne con le gambe lunghe ma non sa come attaccare bottone. Il signor Ahi ha per faccia una pupilla ed è ancora più disancorato dalla realtà, anzi vorrebbe proprio uscirne.  

 

Gatti.


In una vignetta Matticchio scrive: “Il critico non conosce i propri limiti, l’artista sì”. La Durì, pur essendo una profonda conoscitrice della storia dell’illustrazione e del fumetto, si pone a metà strada, e organizza il materiale come una quadreria, disponendo le opere una vicina all’altra, in modo che i confronti siano evidenti e che, aldilà del virtuosismo mai fine a sé stesso in cui si rende omaggio ad autori tra loro lontani come Jacovitti ed Edward Gorey, i diversi filoni dell’artista risaltino immediatamente. I critici migliori di Matticchio sono probabilmente i colleghi. Ha scritto Gabriella Giandelli, provando a definirne il ‘realismo magico’: “Per chi disegna esiste una linea sottile e fondamentale dove la realtà poco alla volta si trasforma e s’imbeve del nostro sogno, del desiderio che abbiamo di cambiarla, di renderla più vicina a noi e renderla carica di senso”. O di non senso, che ne è il rovesciamento. Senza senso è il titolo di un libro di Matticchio che, tra le altre cose, è un campione di acrobazie. Lorenzo Mattotti, dopo averlo accolto nella famiglia dei Matt (c’è anche Mattioli), afferma che: “non scrive con le parole ma scrive col disegno. Racconta con le immagini come se scrivesse”. In una tavola di Matticchio convivono un’infinità di storie, di storie in potenza, dove gli animali si antropizzano e gli uomini potrebbero prendere le fattezze di animali, senza per questo diventare bestie. Guido Scarabottolo ne ha offerto le istruzioni per l’uso

 

 

Passaggio segreto.

 

Il cognome del disegnatore sollecita giochi di parole. Il surrealismo quotidiano, un umorismo che può essere lieve ma anche puntuto, sono la sua cifra, anche se poi il mondo in grigio di Jones inquieta non poco (Edgar Allan Poe). Contagiato dai giochi di parole e per libere associazioni – il nucleo creativo del mondo di Matticchio – mi torna in mente il titolo di un film degli anni Cinquanta: L’uomo dal vestito grigio, con Gregory Peck. Mi pare che nel technicolor di quella Hollywood risieda un deposito di immagini che il disegnatore trasporta, scompaginandolo, nelle due dimensioni. Così in una tavola ci sentiamo contemporaneamente estranei e a casa nostra. Insomma, siamo da capo al sogno e ad Alice che attraversa lo specchio, ovvero all’atto di nascita delle avanguardie.

Sia lode a Matticchio e alla sua mina inesauribile e ben temperata!

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A casa di Monet

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Domenica mattina a Parigi le strade sono deserte nei dintorni della stazione Saint-Lazare. Ad attenderci dentro c’è Monet, che la stazione l’ha dipinta nel 1877 in quattro celebri quadri. Impossibile non pensare subito agli effetti di colore che la sua pittura ha colto quando entriamo. Dalla copertura sopra i binari la luce trapassa con dolcezza andando a toccare la solidità un po’ brutale delle travi in ferro e dei bulloni che la tengono su. Monet è già qui con noi, lui che, facendo della tecnica – non dei passanti o dei viaggiatori – il vero e unico soggetto del quadro, ne ha colto le sembianze più profonde e più dense unicamente in forza della sua visione. 

 

 

Ed eccola qua la domanda che questa volta non smetterà di imporsi durante tutto il viaggio e durante la visita: la pittura è la riproduzione della realtà, come abitualmente si crede, o non è forse vero che è quella che noi chiamiamo realtà a dipendere dalla pittura e, più ampiamente, dall’arte e dalle forme della sua riproducibilità? Esiste oggi per noi la stazione di Parigi Saint-Lazare senza passare da Monet? Queste domande pongono in dubbio uno dei capisaldi del nostro modo di guardare il mondo: la distinzione tra originale e copia. Ha ancora senso parlare di copia dove tutto è già copia? E l’originale esiste ancora se noi non lo conosciamo che in forza delle copie a cui ha dato vita? Se anche la stazione viene storicamente prima del quadro, noi potremmo vederla e addirittura viverla come tale se non ci fosse il quadro a testimoniarne in immagine? Vista da questo punto di vista, la stazione non è in un certo senso che la copia dei quadri dipinti da Monet, uno per uno, in una mattina di fine Ottocento.

 

 

Da Saint-Lazare saliamo sul treno che in meno di un’ora ci porta a Vernon. Da lì in un autobus stipato di gente raggiungiamo Giverny. È presto, ma lungo la strada principale del villaggio si è già creata una lunghissima coda che cerca riparo dalla calura estiva all’ombra del muro di casa Monet. Sembrano pellegrini venuti da lontano, in attesa di entrare in visita alla tomba di un profeta, ordinati e pazienti. Questa straordinaria affluenza fa della minuscola Giverny il secondo posto più visitato in Normandia, dopo Mont St. Michel, mi dirà poi l’autista che con il suo bus fa la spola tra qui e Vernon. 

Bisogna dire subito una cosa: la visita in casa di Monet è in realtà una visita al suo giardino. Qui le piante e i fiori sono i protagonisti assoluti: gli incroci, gli accostamenti, le tavolozze di colori riprodotte nelle aiuole... è un’arte della convivenza tra specie diversissime. Come nei quadri, anche qui i colori vengono affiancati, aumentando la luminosità del paesaggio. Si tratta con tutta evidenza di un’arte dei cambiamenti minimi, tra apparizioni e sparizioni lungo il corso delle stagioni. Si riflette in un ritmo di pieni e vuoti, leggerezze e gravità, che i fiori sembra non aspettino altro per interpretare. Tutto è qui riprodotto nel segno di Monet e del suo sogno di un grande giardino sperimentale.

Dentro il giardino la calma della folla è quasi surreale. È come se la fragilità dei fiori avesse il potere di rabbonire ogni tono di voce troppo alto. Dà la sensazione che tutto questo immenso concentrato di natura abbia un potere magico sulle persone per composizione, quantità di colori, varietà delle specie.

 

 

Si sa che i colori dell’impressionismo vivono della luce del sole. En plein air, a cielo aperto, è stato il motto che si è voluta dare questa rivoluzione, portando a dipingere nella natura, sotto i condizionamenti della luce del giorno, fuori dagli studi e dalle accademie. Rispetto a questo il giardino di Giverny ha tutto il valore di un manifesto programmatico. O, forse, di un messaggio ai posteri. Meglio sarebbe dire che prolunga la missione di quel movimento pittorico di cui Monet fu uno degli rappresentanti più illustri. Prima degli impressionisti la natura non è mai stata vista così: se la vediamo è grazie a loro, alla loro arte. Si potrebbe addirittura dire: prima degli impressionisti la natura non è mai stata così.

 

 

Qui tutto si fa impressione, tutto discende dall’intercessione di un’impressione fugace e di un’altra, e dal loro intreccio. Se è facile capire un’arte che nasce dall’osservazione della vita della natura, qui abbiamo l’opposto speculare di questo principio: tutto si offre come in un quadro. La natura si fa pittura. È come se, procedendo dalla natura, la pittura stessa avesse fatto della natura, sua alleata prediletta, un quadro. Ma allora è vero che l’arte procede dalla natura unicamente divenendone la misura. Come un quadro anche questo giardino è inventato e prodotto dall’artista. Non meno della pittura, anche il giardino è inventio. Per questo l’impressione non è mai una copia. È invece l’invenzione resa possibile dalle mescolanze cromatiche e dal movimento che si crea tra i colori. La pittura che copiava la natura, ha fatto della natura stessa il suo ultimo risultato. 

 

 

Questo effetto del giardino come dispositivo di rispecchiamento artistico della natura trova la sua perfezione nel secondo centro di questo luogo, il giardino giapponese che si sviluppa attorno al laghetto delle ninfee, subito dietro il boschetto di bambù. Le ninfee che spuntano dall’acqua appaiono raddoppiate sulla superficie, ma evidentemente noi le ricordavamo apparire raddoppiate già nel magnifico ciclo finale di un Monet che arriverà a dipingerle anche quando è ormai prossimo alla cecità. Oggi sono raddoppiate anche sugli schermi degli smartphone e delle macchine fotografiche che occupano la riva del laghetto, in un’orgia di riproduzione dell’immagine, che non trova pausa se non nell’occasionale spossatezza dei visitatori. L’unicità della luce di ogni singolo istante, che è stata la grande questione pittorica dell’impressionismo, s’incontra con l’effetto copia di un raddoppiamento del giardino, raddoppiamento che è sia naturale, che artistico, che tecnico.

 

 

Nella sua unicità ogni istante è costantemente raddoppiato nella pittura e anche nella fotografia, oltreché sullo specchio dell’acqua e nei nostri ricordi. La natura stessa discende dall’effetto segreto di questo raddoppiamento. Se non smette di essere unica, è perché trova nella pittura il suo doppio che se ne va in giro per il mondo, nei musei, nel nostro immaginario. E che ora ci porta a vedere questo laghetto come se fosse l’origine segreta della pittura di Monet, il suo “è stato qui!” segreto, mentre è vero piuttosto il contrario: che non ci sarebbe laghetto senza l’arte, senza la pittura, senza l’Oriente sognato, e senza la mano allenata a cogliere con i colori a olio le variazioni minime della luce. 

 


In questo raddoppiamento le cose si accostano le une alle altre per somiglianza, anche quando sono di materie diverse: pittura, natura, immagini varie, prodotti. Per mimesis si confondono. La luce, i giochi di luce e ombre, l’ottica come dimensione strutturale dei soggetti guardanti che noi siamo: tutto concorre a fare della visita al giardino di Giverny una rêverie. 

Della casa dirò poco. Ricorderò le magnifiche stampe giapponesi di cui Monet era raffinato collezionista (privilegiando soprattutto i paesaggi), i libri di orticoltura e giardini europei sugli scaffali, le copie dei suoi quadri in salone, le stanze al piano di sopra, la sala da pranzo che pare un tavolo impressionista e per finire la magnifica cucina di maioliche di Rouen di cui però una guardiana mi dice “c’est tout vide”, è tutto vuoto. Mi è sembrata la migliore confessione del fatto che siamo qui soprattutto per ammirare quella ricchezza sconfinata dei giardini che non si smetterebbe mai di guardare e di respirare. 

 

Il negozio merita un discorso a parte. Collocato nel grande padiglione che Monet si fece costruire per dipingere le ninfee, sembra oggi la sintesi perfetta del grande saggio che il filosofo tedesco Walter Benjamin ha dedicato negli anni ’30 al problema della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte. Tutto qui è riprodotto: i quadri di Monet, la sua effigie, il nome stesso: i modellini stessi delle stanze della casa sono in vendita. In un’altra forma di raddoppiamento vertiginoso, in cui il nome, i quadri, il ritratto, sembrano esistere unicamente come parte di questo gigantesco caleidoscopio in cui li si vede come tazze da caffè, calendari, saponette, borsette, puzzle, scialli, orecchini, cartoline, cioccolatini, profumi, miele… Riproducendosi e raddoppiandosi su tutto, senza fine. Qui tutto è copia, o meglio: ognuna delle cose che vediamo non è né copia né originale, ma solo l’originalità delle copie nelle quali viviamo definitivamente immersi.

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Fotografia, documento, ambiguità

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Laura Gasparini incontra Simone Sapienza e Umberto Coa, fotografi tra i finalisti della Public call della dodicesima edizione di Fotografia Europea a Reggio Emilia. 

 

Simone Sapienza

 

LG: Rivoluzioni, ribellioni cambiamenti, utopie. Il titolo di questa edizione di Fotografia Europea si addice molto a diversi tuoi progetti che hai realizzato in Vietnam come United States of Vietnam e Charlie surfs on Lotus Flower. Puoi raccontarci la tua declinazione?

 

SS: Sono molto affascinato dalle tematiche vicine al potere e a come quest'ultimo possa influenzare il corso della storia e soprattutto la percezione di essa. I due progetti sono in qualche modo complementari, anche se United States of Vietnam, in formato installazione-bandiera, è diventato sempre più bonus track dell'altro. La dinamica è stata pressoché questa: la bandiera rappresenta in maniera seriale e controllata la "libertà" in crescita del mercato; Charlie surfs on Lotus Flowers si concentra invece sulla tematica del controllo (politico) attraverso un approccio libero e slegato da ogni vincolo giornalistico. È come se tematica ed approccio fotografico si alternassero e compensassero.

 

LG: Perché, nelle tue indagini, hai scelto il Vietnam? Quali sono stati i cambiamenti e, forse, le utopie tradite o no, che più ti hanno affascinato di quel paese?

 

SS: Durante i miei studi in fotografia, ebbi modo di scoprire come la guerra del Vietnam fu crocevia fondamentale per la storia della fotografia documentaria in particolare dal fronte di guerra. La documentazione di quel fallimento ha dato il via alla censura e al fotografo embedded, fino a rinnovarsi totalmente in citizen journalist ai tempi della Primavera Araba. Così cominciai a chiedermi cosa sapessero i miei coetanei della storia del Vietnam, e mi sono reso conto che i riferimenti principali fossero cinematografici, non essendo un argomento battuto nelle scuole. Mi chiesi poi io cosa ne fosse rimasto del Vietnam oggi, e da lì le scoperte sui dati economici, sociali e demografici mi hanno spinto ad approfondire il Vietnam oggi, al di là delle risaie e altri stereotipi da cartolina. Utopie tradite, sicuramente – come in tanti altri Paesi in cui la rivoluzione ha portato ad una forma diversa di potere, spesso assoluto. Ecco perché il Vietnam c'è, ma non è così esplicito nelle foto. È un simbolo.

 

 

LG: Ti definisci fotografo documentario, a quale pensiero ti senti più vicino, in particolare a quale autore?

 

SS: La mia definizione di fotografo documentario è molto vaga, eterogenea, spesso criticata. Credo molto nell'importanza della ricerca preliminari nei progetti – per me, è quello a definire un progetto documentario o meno. Per il resto, c'è un determinato tasso di interpretazione che può essere più o meno esteso, a seconda del progetto. Sicuramente, al di là dei fotografi di break news, non credo nell'obiettività della fotografia come medium, e quindi in quella presunzione di verità spesso portata in auge dal mondo del fotogiornalismo. Si prendi ad esempio il WPP – World Press Photo – negli ultimi due-tre anni, è tornato a rifossilizzarsi e auto-compiacersi, è attuale nelle tematiche rappresentate, ma totalmente scostato dalla realtà quanto a cambiamento del medium fotografico. 

Non ho degli autori di riferimento in maniera "religiosa", diciamo. Ce ne sono due che stimo moltissimo, grazie al loro approccio metodico e intelligente, progetto per progetto, Max Pinckers e Federico Clavarino. Quest'ultimo, anche ottimo docente che riesce a distinguersi rispetto all'offerta educativa vasta sì, ma generalmente sempre più piatta. Rispetto alla fotografia del passato, rispetto eterno per Frank ed Eggleston, e non per assonanza di approccio. Semplicemente, ci ricordano che a volte bisogna passare per "eretici" prima di poter affermare il proprio linguaggio.

 

 

LG: Il linguaggio fotografico che utilizzi nel descrivere e documentare i temi dei tuoi progetti non è diretto ma richiede un’attenzione e una partecipazione attiva dello spettatore. È un elemento indispensabile del tuo modo di documentare?

 

SS: Nei miei ultimi progetti c'è un elemento in comune: la decontestualizzazione. Mi piace l'idea di poter realizzare dei progetti che possano rappresentare realtà simili, seppur con geografie e storie diverse. Quest'approccio è diventato ancor più estetico in Vietnam. Le fotografie sono poco descrittive, semplici, quasi banali e troppo pulite. Quindi sì, bisogna un po' scavare e trovare empatia con i soggetti, e soprattutto con gli oggetti. L’immagine verticale, inconsciamente, mi aiuta in questa pulizia di contenuti. Mi sarà stato detto così tante volte che una fotografia deve raccontare quanto più da sé, che alla fine ho cercato di limitare i messaggi espliciti. Sì, sono un po' bastian contrario.

 

 

 Umberto Coa

 

L.G.: Non dite che siamo pochi nasce da un ritrovamento avvenuto casualmente di fotografie, lettere e documenti. È l'ennesimo ritrovamento che ha fatto scaturire un progetto che presenti a Fotografia Europea 2018. Puoi parlarcene?

 

U.C.: Il lavoro si sviluppa a partire da un espediente narrativo, il ritrovamento di un insieme di fotografie, documenti, provini a contatto, libri, oggetti e diari. Questo materiale è stato messo insieme e mi è stato consegnato da un uomo, al quale mi riferisco utilizzando solo le sue iniziali: MB. 

In molti lo definirebbero un anarchico insurrezionalista, io preferisco anarchico d’azione. Il materiale raccolto, in fondo, si concentra prevalentemente su questo aspetto: quello delle pratiche di opposizione e di attacco al potere e agli strumenti d’oppressione. Dalle fotografie di MB emergono le diverse forme attraverso le quali la rivolta si manifesta, investendo l’esistenza nella sua interezza. Così immagini di cortei, sabotaggi, cariche e prigioni si alternano ad altre di natura privata. A questo si aggiungono collage e fotografie storiche rielaborate, che dialogano con scritti, comunicati di rivendicazione e opuscoli. 

Le didascalie aiutano a seguire il percorso del protagonista, contestualizzando le immagini e dando un nome ai volti che incontriamo: Luigi Lucheni, Severino di Giovanni, Horst Fantazzini, Niko Matiotis e altri ancora. 

Tutto ciò conduce al cuore di un’idea di rivolta, con un suo portato fisico, corporeo, che si esprime alla luce del giorno così come nel buio della notte, dall’Italia alla Grecia, dalla Spagna alla Francia.

 

 

LG: Hai dismesso i panni del fotografo per indossare quello dell'archeologo, come direbbe Michael Foucault l'"archeologo dei saperi". Cosa hai scoperto?

 

UC: Tante cose. Cercare di riassumerle sarebbe riduttivo.

Non avendo vissuto gli eventi cui si fa riferimento e non avendo preso parte a situazioni simili, non mi sento di poterne fornire un’analisi esaustiva. Il mio lavoro può al massimo contenere degli indizi, a partire dai quali ciascuno può provare a discostarsi dalla lettura che comunemente viene data di tutte quelle azioni di dissenso che vanno oltre i limiti legali e morali della società democratica.

 

LG: Vedendo il tuo lavoro, però, sorge spontanea la domanda cosa hai inventato?

UC: MB non è mai esistito; il suo archivio raccoglie immagini trovate in rete, frame estrapolati da video, messe in scena e fotografie che talvolta non hanno niente a che vedere con l’oggetto del racconto. Paradossalmente queste sono le sole che hanno mantenuto la funzione, unicamente narrativa, per le quali sono state realizzate. 

Anche l’idea di installazione, curata da Renata Ferri, è stata quella di costruire una dimensione dell’immaginario, in cui la finzione penetra nella realtà e si confonde ad essa. 

I riferimenti a eventi accaduti, nonché i documenti che utilizzo, sono frammenti del percorso biografico di MB. Costituiscono, così come il resto del materiale esposto, una prova tangibile della sua esistenza.

Non mi interessava quindi fornire una precisa ricostruzione storica o dare informazioni complete. Ho provato a raccontare una storia, sperimentando le molteplici possibilità con cui orientare il significato delle immagini e chiedendomi che ruolo queste svolgano nella percezione della realtà. 

Per sapere cosa è inventato, cosa non lo è, cosa è attendibile, cosa è manipolato, bisogna verificare.

Questo lavoro può anche essere letto come un invito a distinguere tra vero e falso rispetto a un tema preciso.

 

 

LG: La fotografia, o meglio le immagini, hanno un potere evocativo straordinario tale da "documentare" una realtà che non esiste. È un aspetto davvero sovversivo del linguaggio della fotografia. Tu come l'hai elaborato?

 

UC: Questo aspetto sovversivo della fotografia è stato utilizzato, per ragioni diverse, fin dai primi anni di diffusione del mezzo. Prendendo spunto dai diversi episodi che si sono susseguiti nel campo dell’arte e dell’informazione, ho utilizzato l’ambiguità delle immagini, la loro naturale capacità di mentire, come una risorsa utile per costruire una storia, servendomi di quello che ho trovato e aggiungendo le “parti mancanti’’: una continua opera di selezione, riadattamento e decontestualizzazione. 

Le didascalie ricollocano le immagini nello spazio e nel tempo. 

 

 

Così un frame tratto da un video di scontri a Exarchia nel 2016, mi permette di far riferimento alle proteste durante il Consiglio europeo di Salonicco del 2003. Un incendio di un traliccio causato da un corto circuito, si trasforma in un’azione di sabotaggio. La foto di un portabagagli con un bidone di plastica diventa l’anello di congiunzione tra l’immagine di un ordigno incendiario a quella di una ruspa in fiamme.

Il metodo che ho seguito acquista senso in rapporto al tema trattato; in questo senso il personaggio di MB ha un ruolo chiave in quanto presunto testimone diretto. Io riorganizzo il suo archivio, aggiungendo un secondo filtro. Nel momento in cui scopri che lui non c’è, ti chiedi che cosa sia veramente quello che hai di fronte. Quanti filtri ci siano effettivamente tra la realtà a cui si fa riferimento e la sua rappresentazione. 

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Intervista a Simone Sapienza e Umberto Coa
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I francobolli di Elisabetta Di Maggio e Flavio Favelli

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Rispetto ad altre forme di collezionismo iscritte nelle opere d’arte, la filatelia ha uno statuto ambivalente. Al pari di ogni collezionista quello di francobolli è un malinconico (se non altro perché, come ogni collezione, anche la sua è costitutivamente destinata allo scacco dell’incompletezza e della morte, come il puzzle di vita del Bartlebooth di Perec nella Vita, istruzioni per l’uso).

 

Greetings from Venice, ph Matteo De Fina.


Eppure permane sempre in lui un tratto espansivo, che deriva dalla radice infantile di ogni collezione di francobolli, «mossa insieme dalla passione per l’esotismo e da quella per la sistematicità della serie». Così scriveva il Calvino di Collezione di sabbia commentando l’opera di Donald Evans (pittore americano morto trentenne nel ’77, e specializzatosi nella pittura – a matite e acquarelli – di francobolli d’invenzione scrupolosamente ascritti, appunto per serie, a paesi e periodi storici altrettanto immaginari). Sicché «questo preteso introverso era un uomo nient’affatto ripiegato su se stesso ma proiettato sul fuori, sulle cose del mondo, scelte e riconosciute e nominate una per una con delicatezza e precisione amorosa». La filatelia non è che un metodo illusoriamente abbreviato, a misura d’infanzia appunto, con cui ci s’illude di appropriarsi di uno scibile umano racchiuso entro proporzioni in apparenza gestibili. Collezionare francobolli equivale a pretendere di catalogare il mondo, in formato ridotto: a partire dalle sue categorie fondanti, la storia e la geografia. 

 

Greetings from Venice, ph Matteo De Fina.


Molti artisti degli ultimi decenni hanno provato a esercitare questo controllo del mondo miniaturizzato, in scala. Ad Alighiero Boetti, per esempio, colori e forme dei francobolli (rigorosamente scelti fra i più ordinari e “seriali” possibili) consentivano combinazioni matematiche, serie inesauribili, multiformi gradazioni di colore (opportunamente “sporcate” dall’irregolarità dei timbri postali). Ma la mail art– che ha conosciuto il suo periodo d’oro al displuvio del situazionismo, fra anni Settanta e Ottanta – vive oggi una condizione paradossale. Nata come messa fra parentesi dell’autore individuale, per sostanziarsi di circuiti relazionali e networks creativi, è oggi esautorata – come in generale la posta cartacea – dal network globale che è la Rete. E sopravvive allora, ricondotta alla sua matrice malinconicamente individualista, solo come ossessione privata, liturgia famigliare, memoria di repertori luttuosamente conclusi (l’ascetismo associato al nomadismo, celebrato già in Evans da Bruce Chatwin; ma lo stesso Boetti – ha testimoniato la figlia Agata– concepiva le sue lettere come un modo introvertito e compensatorio, quasi à la Raymond Roussel, di “vedere” il mondo: «se la gente non viaggia, le lettere lo fanno al loro posto»).  

 

Greetings from Venice, ph Francesco Allegretto.


È un caso eloquente che due artisti pressoché coetanei (nati rispettivamente nel ’64 e nel ’67) ma fra loro diversissimi, Elisabetta Di Maggio e Flavio Favelli, abbiano esposto lavori che proprio i francobolli impiegano come materiale. Di Di Maggio Greetings from Venice (a cura di Chiara Bertola, fino al 25 novembre) è un’installazione collocata al quarto piano (o Event Pavillion) del Fondaco dei Tedeschi, nel quale a Venezia a lungo ha avuto sede il Palazzo delle Poste ma ha dovuto subire, qualche anno fa, la riconversione in centro commerciale di lusso; di Favelli Serie Imperiale (Italian Council 2017, a cura di Elisa Del Prete e Silvia Litardi, dal 24 marzo al 3 giugno) si compone di due pitture murali di grande formato (due metri e mezzo circa d’altezza), collocate nella Casa del Popolo e nell’ex Minicoop (spazio commerciale dismesso e prossimo all’abbattimento) di Bazzano, in provincia di Bologna (le due pitture, alla fine della mostra, verranno “strappate” e trasferite su tela, mentre i “buchi” resteranno “otturati” da due «anti-dipinti», come li chiama Favelli: stuccature e rattoppi su intonaco). 

Non si possono immaginare procedimenti più distanti: Di Maggio impiega francobolli di tutte le epoche e di tutti i paesi, in numero esorbitante (centomila sono quelli giustapposti sul pavimento del Fondaco, con la collaborazione degli studenti del Liceo Marco Polo), materialmente disponendoli su una superficie orizzontale. L’esito è un mosaico multicolore e festoso, che allude ovviamente a quelli della Basilica di San Marco: e il percorso che facciamo su di esso, infatti, conduce a un belvedere, sulla città-giocattolo, che induce i turisti a mettersi in coda a serpentone. Di contro, Favelli usa solo l’immagine di due singoli francobolli, della stessa serie che dà il titolo del suo lavoro (uscita fra il 1929 e il ’42), e li colloca in verticale, a parete: due facce di Vittorio Emanuele III, il re formato-francobollo, qui ingrandite a dismisura, ci osservano intimidatorie; il suo volto imperscrutabile è reso ancora più enigmatico, sin quasi all’irriconoscibilità, dalle sovra-scritte a pesanti caratteri neri, del territorio di Zara occupato dalla Wehrmacht, e rossi, della Repubblica Sociale Italiana. L’esito è severo, laconico, dalla cupezza quasi minacciosa. 

Già le sedi dei rispettivi interventi la dicono lunga sulla distanza fra i due temperamenti, prima che fra le loro opere. Lo scenario di Bazzano, dimesso e pressoché dismesso, allude a una storia opacizzata e “rientrata”, sconfitta e denegata, che ci appare come un revenant persecutorio; il décor squillante di colori e cartellini di prezzi del centro commerciale, che per raggiungere il lavoro di Venezia tocca attraversare (un po’ come il serpentone in autogrill, per guadagnare la zona dei bagni), dice di un presente assoluto e ostentatamente spensierato. Il titolo di Favelli è tetramente suprematista e rinvia a una storia tragica, quello di Di Maggio ironizza sull’exploitation a stereotipo turistico di un territorio non meno carico di storia. 

 

Greetings from Venice, ph Francesco Allegretto.


Ma il sorriso eginetico di Betta non è meno crudele del cipiglio corrucciato di Flavio. A un esame più attento, infatti, i loro lavori mostrano un elemento decisivo in comune. Entrambi ragionano sullo spessore del tempo mediante pratiche di sovrapposizione e palinsesto, immagini dialettiche. Le sovra-scritte sui francobolli, come ben sanno i filatelici, sono sigle provvisorie di passaggi storici repentini, brutali, quasi sempre tragici. Dicono di occupazioni, spodestamenti, sfollamenti. E i passaggi successivi del progetto di Favelli, lo strappo e l’otturazione, riproducono ex post e appunto in scala, come in una macchina del tempo, la violenza di quella storia. Mentre il mosaico di Di Maggio, dalla minuziosità maniacale che come suo solito capovolge in ossessione sacrificale ogni sospetto di decorativismo, a sua volta “scava” il pavimento del centro commerciale «creando un fittizio cantiere archeologico in cui si è scoperto un immaginario pavimento nato negli interstizi di quello spazio», come scrive Chiara Bertola: l’anima “postale”, fatta di un lavoro materiale come il suo stratificatosi nei decenni, è un passato che, anche in questo caso, riemerge a contraggenio, diplopia e sovrimpressione d’una storia preterita e rimossa. E che costringe, chi voglia apprezzarne da vicino l’arazzo sterminato di tempi e luoghi che lo compone, a inchinarsi: a quella storia. 

 

Una versione più breve di questo articolo è uscita su «Alias» il 27 maggio

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Carlo Scarpa bizantino

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“Oh! Come balleremo, quel giorno! Oh! Come plaudiremo alle lagune, per incitarle alla distruzione! E che immenso ballo tondo danzeremo in giro all’illustre ruina [di Venezia]!” declamava Filippo Marinetti nel Discorso futurista ai Veneziani improvvisato al Teatro La Fenice nel 1910. 

Se il desiderio dei futuristi si fosse avverato Venezia non avrebbe il problema delle moltitudini che invadono la laguna per ammirare i suoi monumenti architettonici, perché sarebbero stati sacrificati a un “supremo ideale estetico”. “È nella certezza che nella fatale e futura distribuzione del lavoro tra le razze, all’Italia solo sarà dato di rinnovare un supremo ideale estetico in cui potranno riconoscersi gli uomini superiori di razza bianca!”, scriveva Umberto Boccioni in Pittura e scultura futuriste (Dinamismo plastico) del 1914. 

Cosa avrebbero mai edificato al posto di Venezia storica questi uomini di razza superiore? “Ponti metallici” e “opifici chiomati di fumo” annunciavano nei volantini lanciati dalla Torre dell’Orologio sulla folla l’8 luglio 1910. Alcuni ponti metallici in effetti sono stati costruiti e a Marghera anche molti opifici “chiomati di fumo”, ma le macerie dei palazzi storici non hanno colmato “i piccoli canali puzzolenti”, come i futuristi avrebbero voluto.

Venezia storica è ancora al suo posto, anche se con i tornelli posizionati ai piedi del Ponte della Costituzione e del Ponte Degli Scalzi, per monitorare gli ingressi e indirizzare i non residenti a percorsi alternativi nel caso di sovraffollamento. 

 

Varco posto ai piedi del Ponte degli Scalzi. 


Tornelli sì o tornelli no? 

Dalla contesa del 29 aprile scorso tra amministrazione pubblica e giovani dei centri sociali che hanno tentato di rimuovere i tornelli posti ai piedi del Ponte della Costituzione, la questione è ancora aperta. È un problema di ordine pubblico, come sostiene l’amministrazione? D’impoverimento demografico e sociale, come lamentano i giovani dei centri sociali? Molti sostengono che sia un problema da risolvere politicamente. 

E se fosse invece un problema da risolvere geometricamente, mi viene da pensare oltrepassando il varco posto ai piedi del Ponte degli Scalzi? 

Mi torna alla mente un ragionamento che Narciso Silvestrini, studioso del colore e della geometria chiaroscurata, fece in occasione di una cena organizzata a casa di Marco Belpoliti. Mentre Lino Gerosa riposava sul divano e Giuseppe Di Napoli sturava una bottiglia, Silvestrini esponeva alcune sue riflessioni sulla geometria, utili per comprendere la funzione del granello di sabbia nell’architettura in calcestruzzo armato. Ogni dimensione trova il suo limite in quella precedente: il volume nella superficie, la superficie nella linea e la linea nel punto, ma il punto? Il punto non ha dimensione eppure è la condizione di possibilità di ciò che ha dimensione. Silvestrini paragonò il punto al granello di sabbia nel calcestruzzo armato che ha in potenza tutte le dimensioni e le forme possibili, al che mi venne da pensare che doveva essere il punto della geometria intuitiva perché nella geometria razionale è concepito come entità astratta, non certo come granello. 

 

Mi fermo perplesso in Campo San Geremia e telefono a Silver (così viene confidenzialmente chiamato dagli amici) per avere un chiarimento. Gli chiedo se ricordo bene i contenuti della conversazione, ma subito sposta il discorso sugli strumenti di scrittura e disegno appuntiti – anche qui il punto è inteso in modo intuitivo – attraverso i quali il pensiero fluisce e poi sul punto che genera la linea, la linea il volume, il volume un ipervolume, ma siccome la quarta dimensione non è rappresentabile, l’ombra di un volume è la manifestazione di un ipervolume irrappresentabile. Perbacco! Penso tra me e me mentre Silver fila con il suo ragionamento: ma allora il decreto legislativo 507 del 1993, per il quale l’ombra che le insegne dei negozi e dei bar proiettano sui marciapiedi va equiparata all’occupazione di suolo pubblico e perciò tassata, smentisce quanto si dice dei nostri legislatori, che in questo caso avevano intuito con ardita e insospettabile intelligenza l’esistenza di un volume alla quarta che occupa i marciapiedi, ma senza intralciare il passo.

 

Nel frattempo si sta rannuvolando. Saluto Silver e mi avvio lungo Rio Terà Lista di Spagna facendomi strada tra la folla. Venezia è dimensionata e perciò ha dei limiti di cui si dovrebbe tener conto, ma all’estremo delle sue dimensioni troviamo il punto che non ha estensione. Siamo rimasti impigliati in un paradosso, pare a causa di Euclide che ha tentato di conciliare la geometria intuitiva con quella razionale formulando una definizione di punto geometrico poco chiara se non addirittura nulla. In Storia della matematica (Mondadori, 1980, p.124) Carl Boyer scrive: “La debolezza di questa parte [degli Elementi] sta nel fatto che alcune definizioni non definiscono nulla”.

In conclusione: Venezia è dimensionata e perciò ha dei limiti di cui si dovrebbe tener conto, ma all’estremo delle sue dimensioni troviamo il punto che non ha estensione e perciò non riusciamo a venirne a capo. Che sia questa l’incertezza che alimenta la polemica tornelli sì VS tornelli no? Se così fosse, per dirimere la contesa ci vorrebbe un amministratore o un legislatore esperto di geometria, come quello che ha tassato l’ombra dei volumi quadridimensionali. 

 

Giunto al Ponte delle Guglie penso alla geometria chiaroscurata di Silver che potrebbe benissimo riempire il vuoto lasciato dal crollo dei grandi sistemi di analisi (storici, filosofici, semiologici, psicanalitici) aiutandoci a leggere e interpretare il nostro tempo e le sue contraddizioni. 

Con queste idee che ronzano in testa in modo piuttosto confuso mi inoltro in un dedalo di calli intricato quanto il problema posto dalla collocazione dei varchi, finché sbuco in piazza San Marco. Sul lato nord-ovest della piazza si trova il negozio Olivetti progettato da Carlo Scarpa, un grande e sapiente artefice dei punti della geometria intuitiva pronti ad assumere svariate forme nella tecnica di costruzione che impiega il calcestruzzo armato. Le sue architetture presentano una varietà di utilizzo del calcestruzzo armato a vista con soluzioni che valorizzano il ruolo espressivo della superficie. Le opere dell’architetto veneziano hanno fatto scuola e il negozio Olivetti in piazza San Marco è quotidianamente visitato da architetti e studenti, ma ignorato dal vasto pubblico, nonostante si affacci su una delle piazze più famose e visitate al mondo e sia incluso tra i beni FAI.

Alla collaborazione tra Scarpa e Adriano Olivetti Elena Tinacci ha dedicato un saggio dal titolo Mia memore et devota gratitudine. Carlo Scarpa e Olivetti, 1956-1978 (Edizioni di Comunità, 2018). Lo studio porta l’attenzione sulla responsabilità sociale dell’impresa e sull’etica del lavoro che, secondo Olivetti, si esprime compiutamente attraverso la bellezza dei luoghi di produzione e vendita dei prodotti. Al rapporto tra l’architetto e l’imprenditore è dedicata anche la mostra Scarpa e Olivetti: sinergie tra parole e progetti allestita presso il Centro Carlo Scarpa di Treviso (fino al 13 gennaio 2019).

 

Carlo Scarpa, negozio Olivetti, 1957-58. Venezia, piazza San Marco. Ingresso laterale.


L’architettura del negozio, nel quale sono entrato dall’incredibile e bellissimo ingresso laterale, ha due centri di generazione dello spazio. Il primo è la scala che mette geometricamente in moto un sistema di piani e volumi, il secondo è la scultura Nudo al sole di Alberto Viani che “galleggia” sullo specchio d’acqua raccolta in una vasca di marmo nero. Lo storico dell’arte Ludovico Ragghianti ricorda che “Tra le poche cose che Scarpa mi ha detto nel presentarmi la sua architettura del negozio Olivetti è questa: che egli l’ha fatto come ambiente per la statua di Viani” (La Crosera de piazza di Carlo Scarpa, in Zodiac, n°4, 1959, pp.134-137). In realtà, osserva Ragghianti, la scultura era una componente necessaria alla soluzione architettonica proposta da Scarpa. 

 

Carlo Scarpa, negozio Olivetti, 1957-58. Venezia, piazza San Marco. Vedute dell’interno.


In questo saper cogliere il rapporto tra architettura e opera d’arte pesa sicuramente l’attività museografica dell’architetto: gli allestimenti di mostre e biennali e la sistemazione di gallerie, alla quale Philippe Duboÿ ha dedicato il saggio Carlo Scarpa. L’arte di esporre (Johan & Levi, 2016), mettendo in evidenza l’amore di Scarpa per la memoria storico-artistica. A differenza dei futuristi che la detestavano, che avrebbero voluto radere al suolo Venezia storica, Scarpa l’amava, la sentiva sua, tanto da portare dentro il nuovo linguaggio dell’architettura razionalista “i modi, le misure del vivere della città” (da una conversazione trasmessa dalla RAI nel 1972, nel corso di un programma televisivo realizzato da Maurizio Cascavilla e Gastone Favero).

L’aspetto orientale e bizantino di Venezia ha influenzato la sua poetica architettonica innestando nel razionalismo quella componente decorativa che fa l’originalità della sua opera. In una conferenza tenuta all’Akademie der bildenden Künste di Vienna il 16 novembre 1976, Scarpa dichiarò: “In fondo io sono un bizantino”. Bellissimo il logo Olivetti con il fondo oro nel quale sembrano essere migrati i bagliori musivi della basilica di San Marco e le aureole quadrangolari rappresentate negli affreschi e dei mosaici di derivazione bizantina. Tra queste quelle dei donatori nella cappella di San Teodoro in Santa Maria Antiqua e nel catino absidale in Santa Prassede a Roma.

 

Carlo Scarpa, negozio Olivetti, 1957-58. Venezia, piazza San Marco. Logo Olivetti posto all’ingresso principale.


Insieme alla decorazione, Scarpa porta dentro il nuovo linguaggio dell’architettura razionalista anche la memoria storica con una complessa e ben articolata geometria delle forme. Architettura, decorazione e talvolta anche scrittura (Ilaria Abbondandolo, Francesca Palladini, Carlo Scarpa e la forma delle parole, Marsilio, 2011) si integrano geometricamente tra loro. 

Volumi che si scompongono e ricompongono geometricamente attraverso piani, idealmente mobili, generati dalle linee che egli traccia sul foglio da disegno, forse con l’idea, come suggerisce Silver, che nel disegno architettonico il pensiero (visivo) fluisce attraverso il punto rappresentato dal segno lasciato sul foglio dalla punta di una matita. “Voglio vedere, e per questo disegno. Posso vedere un’immagine solo se la disegno” (Edorado Gellner, Franco Manuso, Carlo Scarpa e Edoardo Gellner. La chiesa di Corte di Cadore, Mondadori Electa, 2000, p. 38).

 

Carlo Scarpa, ampliamento della Gipsoteca Canoviana, 1955-57. Possagno, piazza Canova. Finestra ad angolo.


Scarpa è un sapiente artefice del passaggio da una dimensione all’altra con la consapevolezza del complesso e problematico ruolo svolto dal punto geometrico, come risulta dalla sistemazione della Gipsoteca Canoviana a Possagno, che nel frattempo ho raggiunto passando da San Vito d’Altivole. Qui la finestra d’angolo smaterializza le superfici, gli spigoli e il punto dove questi convergono con un moto implosivo, trasformando in luce la porzione cubica sottratta all’edificio. Magnifica invenzione. Ah! Silver, qui l’ipervolume non si manifesta attraverso l’ombra ma attraverso la luce. Scarpa buca l’involucro edilizio con dei triedri trasparenti per “ritagliare l’azzurro del cielo”, in largo anticipo sullo Skyspace realizzato a Villa Panza da James Turrell nel 1974.

 

Carlo Scarpa, ampliamento della Gipsoteca Canoviana, 1955-57. Possagno, piazza Canova. Finestra ad angolo – James Turrell, Skyspace, 1974. Villa Panza, Varese.


Quanto avrà pesato sulla sua poetica la celebre frase: “l’architettura è il gioco sapiente, rigoroso e magnifico delle forme assemblate nella luce” pronunciata da Le Corbusier a Palazzo Ducale il 25 luglio 1934, in occasione del convegno internazionale Arti contemporanee e la realtà, l’arte e lo stato? Non lo sappiamo, ma possiamo invece dire con certezza che quella di Scarpa è la luce della pittura e dell’architettura veneta. Nell’Idea dell’Architettura universale, pubblicata nel 1615, l’architetto e scenografo vicentino Vincenzo Scamozzi descrive sei tipologie di luce e la loro incidenza nell’architettura: 1 il lume amplissimo o celeste, 2 il lume vivo perpendicolare, 3 il lume vivo orizzontale, 4 il lume terminato, 5 il lume di lume, 6 il lume minimo. La finestra d’angolo di Scarpa combina il lume vivo perpendicolare, che “viene à cielo aperto, e riceuiamo nelle corti, ò dalle apriture delle cupole” con il lume vivo orizzontale, che “prendiamo di fronte, ò diagonalmente dal puro cielo”. Scarpa reinterpreta con intelligenza visiva la finestra ad angolo e a nastro dell’architettura razionalista, forse pensando a Scamozzi e alla luce dei Veneti, che è anche la sua. 

 

Ci vorrebbe qualcuno in grado di trovare soluzioni altrettanto intelligenti per risolvere il problema del sovraffollamento a Venezia. Purtroppo abbiamo perso Scarpa nel 1978 e inoltre, in questa difficile fase politica, non possiamo neppure confidare di trovare amministratori esperti di geometria, in grado cioè di comprendere la natura problematica e contradditoria dei punti, compresi quelli del nuovo programma di governo.

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