Quantcast
Channel: Tutti i contenuti con tag: Mostre
Viewing all 655 articles
Browse latest View live

Lenz: il Grande Teatro del Mondo

$
0
0
Sottotitolo: 

Un campo lungo sul lato oscuro della commedia umana. Lenz Fondazione inquadra Il Grande Teatro del Mondo da Calderón de la Barca nel Complesso Monumentale della Pilotta di Parma (18-23 giugno). Figure, azioni, caratteri, sono riconoscibili, ma rimangono inglobati nell’ambiente. È il circostante il vero Dio/Autore, predomina su tutto e tutti, anche sulla sua copia in scena, che pur distribuisce tra gli attori ruoli e parti, giudizi e sentenze. Per Francesco Pititto (testo e imagoturgia) e Maria Federica Maestri (installazione, costumi e regia) questo luogo è l’opera. E, viceversa, la parola è il luogo, come recita il titolo del focus del 21 giugno sullo spettacolo e su 27 anni di poetica in dialogo con il corpo muto di archivi, musei, ospedali, regge e palazzi.

 

Difatti, fin dal 1991 e dallo studio sulle tre stesure de La morte di Empedocle di Hölderlin (1797-1800), la compagnia parmense ha usato una particolare espressione, mutuata dal regista Jean-Marie Straub, per definire le sue creazioni: “mise en site”. Lo spazio non è uno qualsiasi, è un sito, è storia, che qui ha attraversato lo Scalone Imperiale, la Galleria Nazionale, il Teatro Farnese. Il teatro, invece, è vita che lo riattraversa alla ricerca della luce nascosta in ciò che non si vede. Un lavoro a “scompensare” e “ricompensare”, spiegano Pititto e Maestri, l’impatto tra ambiente e testo, immagine e musica. Un gesto estetico che sospende l’attimo e rende possibile l’incontro con lo spirito del tempo e la condizione dei tempi, evocati dai performer dell’ensemble di Lenz e dai musicisti del Conservatorio ‘Arrigo Boito’ di Parma.

 

Ph. Francesco Pititto.


Ai piedi dello Scalone ci vengono impartite le regole d’ingaggio per la visione, votate, soprattutto, al rispetto della preziosità del Complesso, la pagina scenica per la riscrittura dell’auto sacramental, dramma religioso per la festa del Corpus Christi del 1641 a Valencia, composto da Calderón de la Barca nel 1633-36. È il benvenuto, per così dire, al movimento e alla combinazione degli spazi agiti da oltre 20 artisti. Investitura solenne dell’uno in tutti, perché ciascuno spettatore ha il compito di scegliere dove rivolgere lo sguardo o indirizzare il passo, tra forme reali e virtuali, opere concrete e fantastiche.

Sciamati al primo piano della Pilotta, la vista si apre sulla proiezione di Barbara Voghera. È intenta a farsi il segno, mille segni della croce, su un portale in legno dipinto, incorniciato da due coppie di colonne sormontate da una corona ducale: è il fastoso ingresso al Teatro Farnese. Quel cenno ossessivo restituisce l’ineluttabilità sacra della legge per cui l’universo è un palcoscenico e ogni uomo interpreta un ruolo: calato il sipario, l’Autore, cioè Dio, giudica la riuscita dell’attore.

Il nostro Dio/Autore è un bambino, Matteo Castellazzi, vestito con una tunica bianco papale. Arriva da sinistra, dalla Galleria Nazionale, dove ci recheremo tra poco. È l’anima giovane del puro fare e leva maestoso il grazie alla struttura che ci accoglie: ha bisogno del suo aiuto, della sua intercessione, per dire un “mistero allegorico” che si dipana tra due porte, la culla e la tomba, l’una il rovescio dell’altra (la stessa porta con due cornici in Quasi una vita di Roberto Bacci). Il richiamo fa breccia nel portale del Farnese e compare Voghera con una tunica rosso cardinalizio. Il Mondo si è staccato da sé, l’eterna parvenza si è incarnata nella viva presenza.

 

Per partecipare allo spettacolo dell’esistere bisogna, simbolicamente, rinascere. Così, il gruppo torna singolo, la moltitudine individuo, passando, in fila per uno, la prima porta, l’antro scuro, ignoto, della Galleria. Dentro, Dio/Autore, assiso in trono, fronteggia le decine di metri della Sala delle Colonne. In fondo, stanno il Mondo e la statua di Canova Maria Luigia d’Asburgo in veste di Concordia (1814), “irretita” da riproduzioni video di volti penitenti, con colori marcati e ripetizioni ostinate. Pare una selva di spettri, che subissano di suppliche la più alta autorità presente per avere una seconda opportunità, una nuova parte, un eterno riscatto.

 

Ph. Francesco Pititto.


Chi ha avuto accesso al copione de Il Grande Teatro del Mondo è seduto ai due lati della sala, accanto a teche in legno tipo quella che protegge una scultura in disparte nel Farnese. Una volta di più Lenz anima il recondito e l’inconfessato del luogo e ne fa la fonte principale di luce. I quadri alle pareti, solitamente il centro dell’attenzione, sono lasciati in penombra, neri come finestre affacciate sulle tenebre. La loro cornice è la fine, sono opere terminate, chiuse nel buio dopo l’applauso, mentre davanti agli occhi di Dio/Autore si palesano spettri, idee iniziali di esistenze ancora da venire.

Sono qualità emblematiche, posizioni che da formali diventano sostanziali, perché determinano le mosse in palcoscenico. Il Re (Sandra Soncini), la Bellezza (Carlotta Spaggiari), il Ricco (Monica Bianchi), il Contadino (Frank Berzieri), la Discrezione (Laura Bonvini), il Povero (Paolo Maccini), il Bambino mai nato (Lorenzo Davini). Al termine della recita saranno valutati non per il loro abito, ma per come l’hanno indossato, e al fianco del Creatore siederanno le creature che hanno fatto la loro parte “senza lamenti e senza errori”. È l’antico adagio dei teatranti, secondo cui non esistono piccole parti, ma solo piccoli attori. A loro si aggiungono i ruoli di apertura e chiusura, la Legge di Grazia (Valentina Spaggiari) e la Morte (Valeria Meggi), e gli interventi di Eugenio Degiacomi (basso). La tessitura musicale è barocca, eseguita da sei clavicembalisti dal vivo diretti dal Maestro Francesco Baroni (Sara Dieci, Alessandro Trapasso, Luciano D’Orazio, Alessio Zanfardino, Francesco Monica, Francesco Melani) e contrappuntata dai lampi dell’elettronica di Claudio Rocchetti.

 

La Sala non si mostra docile di fronte all’azione artistica. Il rimbombo non aiuta a seguire alla perfezione lo scambio delle battute, l’andare e venire per richiedere al Mondo il necessario per il ruolo. La narrazione acquista respiro, il suono si distende e la parola risuona di umana pienezza, varcata la soglia del Teatro Farnese, un’apertura ritagliata nella parete tra le altre tele “oscurate”. È questa la seconda e ultima porta.

Una distesa di cavalli a dondolo in legno ci fissa immobile giù dall’immenso palco, lungo 40 metri, con un’apertura di 12. Coevo de Il Grande Teatro del Mondo, il Farnese fu realizzato 400 anni fa, nel 1617-19, dall’architetto Giovan Battista Aleotti, e inaugurato nel 1628 con il dramma allegorico-mitologico Mercurio e Marte, testo di Achillini e musica di Monteverdi, arricchito da un torneo cavalleresco e da una naumachia, una battaglia di navi e mostri marini nella platea allagata ad arte. La “maraviglia” del teatro barocco oggi è un gioco a misura di un Dio/Autore bambino, è il potere creativo dell’immaginazione.

 

Ph. Francesco Pititto.


L’odore del legno è una presenza corposa, insieme alla semioscurità che, come con i quadri della Galleria Nazionale, ricopre la ripida gradinata a ferro di cavallo sormontata da una doppia loggia ad archi, che circonda la vasta platea, 14 gradoni per oltre 3000 spettatori. È il regno della finzione della finzione, della finzione al quadrato, dal momento che il Teatro fu ricostruito tra il 1953 e il 1965, secondo i disegni originali e con il materiale recuperato dal bombardamento degli Alleati, che lo distrusse quasi completamente il 13 maggio 1944.

Performer, musicisti e spettatori abitano la cavea. Il palcoscenico, invece, è l’orbita del Mondo, su cui gravitano tre grandi pannelli, “Trinità” di Dio/Autore che imita gli attori soltanto con le smorfie del viso. Osserva la rappresentazione e si guarda guardare: Castellazzi è seduto lassù in alto, nella loggia centrale, maestoso e reale. Ognuno comincia a interpretare il ruolo per sé: il Re esercita il potere terreno, il Ricco non condivide i suoi averi, il Contadino si lamenta del duro lavoro, la Discrezione viene derisa dalla Bellezza. La veduta si fa paesaggio drammatico con il Povero, che impersona un ruolo che non basta a sé.

Preso dalla disperazione, “bussa” alla riottosità degli altri per chiedere l’elemosina. Viene allontanato, rifiutato, scacciato dalle teche in legno che ora li ospitano. Maccini raffigura la diversità, la fragilità messa alla porta, esclusa da chi pensa di contare di più o comunque qualcosa. Al collo ha la corda con cui non sono riusciti a impiccarsi Vladimiro ed Estragone (è stata Valeria Ottolenghi su “La Gazzetta di Parma” ad accostare per prima questo Lenz a Beckett). Non ha scelto di vivere, non può ancora morire, anche lui è in eterna attesa, punto minuscolo nella vastità di un Creato ostile, segnato fin dal copione. Il ragazzo che dice che il signor Godot non verrà nemmeno stasera, ma di sicuro domani, qui è il Bambino mai nato, si dondola su uno dei cavalli giocattolo e non ha niente di suo.

“Datemi il pane, ho fame, che pena, che vita grama, che pietà”. Il monologo del Povero è la nenia straniante che accompagna il termine della commedia e la restituzione al Mondo di abiti e modi presi in prestito. Sfilano a uno a uno sul palco del Teatro Farnese, restano in mutande e canottiera. Niente appartiene a nessuno, in questo specchio l’immagine riflessa è quella della disumana perdita di sé. La bocca della scena mangia i suoi stessi figli, Barbara Voghera ha tutti i loro orpelli addosso, e in grandi sacchi di iuta forse stringe quelli di chi li ha preceduti e seguirà: gli spettri che infestano il candore geometrico della statua di Canova.

 

L’atto finale è la costruzione della tavola di Dio/Autore con una fila di casse in legno che taglia per lungo la cavea. Il Re adesso “conta” meno del Povero, ma la speranza cristiana di Calderón de la Barca nelle mani di Francesco Pititto e Maria Federica Maestri suona in battere, non in levare, è un diminuendo inesorabile. La tavola è imbandita di niente, gli ammessi mangiano in ginocchio un pane inesistente. Non c’è remissione dei peccati, salvezza o redenzione. Quasi trasfigurati, si dileguano tutti come ombre nella notte che avanza.

Il Farnese resta un polmone nero, tutto il percorso a ritroso lo è. Sono accese unicamente le luci di servizio, le videoproiezioni, le teche e la schiera di cavalli a dondolo, esercito infantile nel dormiveglia. La suggestione sembra rimandare al tema del progetto triennale di Lenz su Calderón de la Barca con e per il Complesso Monumentale della Pilotta: il passato imminente. Il Grande Teatro del Mondo costituisce la prima parte, poi sarà la volta de La vita è sogno, in forma di auto sacramental (2019) e di dramma teologico-filosofico (2020 per Parma Capitale Italiana della Cultura).

Dunque, per Pititto e Maestri il monumento farnesiano è la drammaturgia che racchiude nel medesimo spazio-tempo la vita e il sogno, tra periodo storico e contemporaneità, fruizione individuale e memoria collettiva. Un enciclopedico abbraccio delle differenze, delle possibilità dell’essere umano. A occhi chiusi ben aperti.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Teatro Farnese di Parma
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

"La miccia sotto le pietre di Roma"

$
0
0

«A Roma l’amore per l’arte è più scontroso, forse il giudizio romano è infine un confetto da spezzare con la martellata, ma amore e giudizio non si conciliano mai a Roma. Meglio così che le braccia larghe quanto il Colosseo. (…) Per camminare sul suolo di Roma ci vogliono le gambe lunghe». È il 1943, Libero de Libero firma un articolo dal titolo “Belle Arti”. In piena Seconda Guerra Mondiale, ma sapendo che «in ambienti di innocua apparenza quali sempre appaiono i luoghi dell’arte, resisteva qualcosa che nei dizionari va sotto il nome di civiltà, per la quale milioni di persone possono benissimo sacrificare la propria vita», come precisò nel 1945 sulla rivista “Cosmopolita”. Lo riporta Lorenzo Cantatore, curatore del diario deliberiano Borrador (Nuova Eri, 1994), uno dei più luminosi del Novecento, nel catalogo “Libero de Libero e gli artisti della Cometa” (Palombi, 2014) realizzato per la mostra alla Galleria d’Arte Moderna di Roma nel 2014. 

 

A distanza di qualche anno, la capitale annovera un nuovo spazio per l’arte: Palazzo Merulana. L’ex Ufficio d’Igiene è ora un delizioso edificio pronto a farsi, all’occorrenza, “hub culturale”. Il bianco contorna la salita sino in terrazza, il piano luci disegna occhi sulle opere e si può rimanere chiusi dentro le cabine dei bagni misteriosi di De Chirico. Inaugurato lo scorso 11 maggio, la Fondazione Cerasi ha esposto una serie di capolavori per lo più riguardanti la cosiddetta scuola romana di pittura, grazie alla collezione della omonima coppia di mecenati, proprietari di un gran numero di opere d’arte italiana del primo Novecento, tra cui Capogrossi, Raphaël, Mafai, Scipione, Trombadori, Pirandello, Fazzini, Leoncillo, De Chirico, Savinio. E, non ultimo, “Il direttore delle stelle” di Jan Fabre, artista e performer belga: incursione del contemporaneo.

 

Proprio qui risiede una prima corrispondenza fortissima, sebbene non citata nella mostra: in mezzo agli artisti di via Cavour si staglia questo astronauta con bacchetta da direttore d’orchestra, ma i musicisti sono nel firmamento, tra cui certamente s’avverte il passaggio d’una Cometa. Libero de Libero fu direttore della Galleria d’arte “La Cometa” a Roma in un brevissimo periodo – come pensare a più tempo nel caso del fugace passaggio di questo corpo celeste così raro? Dal 1935 al 1938 questo giovane poeta dagli occhi blu, proveniente dalle campagne di Fondi e della Ciociaria, è stato un indiscusso protagonista della Roma degli artisti, grazie al mecenatismo – questa volta – della contessa Anna Laetitia Pecci Blunt, da tutti detta Mimì, che dapprima ospitava concerti e mostre nella sua dimora di palazzo Malatesta, su una terrazza affacciata sul Campidoglio (artisti del calibro di Jean Cocteau, Paul Valery, Salvador Dalì, Georges Braque), ma che poi affidò a un poeta – e non a un critico d’arte – la direzione d’un progetto che così poteva approfondire «la sua ricerca di una dimensione europea» dell’arte. De Libero ne era certo, tanto da scrivere in una lettera a Mimì, appena due mesi prima dell’inaugurazione della galleria, che «gioveremo all’arte italiana più d’ogni vaga parola». E così 

 

 

«Il 15 aprile 1935, alle ore 17.00, in piazzetta Tor de’ Specchi 18, accanto al Campidoglio, dove, con la mostra dei disegni di Cagli si inaugura la galleria della Cometa e si incontrano Afro e Bartoli, Capogrossi e Fazzini, Ferrazzi e Franchina, Gerardi e Guttuso, Longanesi e Maccari, Mafai e Melli, Mirko e Moravia, Pirandello e Savinio, Tomea e Ziveri, Ungaretti e Cecchi, Alvaro e Cardarelli, Sibilla Aleramo e Maria Luisa Astaldi, Bontempelli e Goffredo Bellonci, Beccaria e Alfredo Casella, Colla e Don Giuseppe De Luca, Gerardi e Praz, Pannunzio e Petrassi, Rieti e Labroca, Signorelli e Severini, Tamburi e Vigolo, Trilussa e Brandi appena rientrato da Rodi, Roma è un libro aperto di pensieri, aneddoti, abitudini, modi morali del passato dove il cicaleccio letterario, filosofico e artistico (ciò che de Libero chiama “le vicende quotidiane, gli sviluppi e le gelosie, i sodalizi e le rivalità, le astuzie e i tradimenti, le rivelazioni: tutto quanto infine ha realizzato, manomesso, perduto e guadagnato la società romana degli artisti”) è un pensare e ripensare al mutevole specchio dell’io, dove azioni e malizie, luci e voci, colori e rumori, note e inchiostri sono impastati con l’aria che si respira, dove la vita e la storia hanno ritmi diversi, mutano col mutare dei rapporti, si scandiscono tra un libro, un dipinto e una scultura che, fissando la loro memoria del tempo e dei luoghi, in una lenta progressiva osmosi, fanno di Roma l’Italia e viceversa». 

 

Restituisce la vividezza del tempo Giuseppe Appella, critico d’arte che da de Libero “ereditò” le edizioni della Cometa, che si affiancarono all’attività galleristica già dal 1935. De Libero a Roma approda 24enne nel 1927. Studente alla “Sapienza”, sotto la Minerva incontra Luigi Diemoz: amicizia fulminea e fulminante. Fondano il giornale di lettere e arti “L’interplanetario” dove de Libero inizia a scrivere d’arte per poi continuare sulle pagine di “L’Italia letteraria” e poi, in fondo, per non smettere mai. Dove ci si vede con gli altri la sera? Da Aragno, che, come ebbe a scrivere Cardarelli, «non era un caffè, ma un foro, una basilica, un porto di mare». «Da Aragno, dove ormai andavano in gruppo – racconta de Libero – la rivelazione di Mafai e Scipione fu messa in sordina, dai celebri tavoli venivano occhiate gelide, ci chiamavano surrealisti, eravamo poeti ignoti, ma a noi importava la pittura. (…) Fu allora che scrissi la mia prima cronaca d’arte per gridare alla gente quei due nomi che avevano messo la miccia sotto le pietre di Roma». Lo stoppino infiamma: Bruno Barilli definisce «mitraglia incandescente» l’arte di De Chirico che sarà esposta nella Cometa dal 30 novembre 1937.

 

Per capire il legame strettissimo tra gli artisti, basti pensare che Scipione era anche poeta e uno dei suoi componimenti più intensi s’intitola “Solstizio”, esattamente come l’opera d’esordio di de Libero, pubblicata da Ungaretti nei Quaderni di Novissima nel 1934, un anno dopo la morte del pittore. Proprio Ungaretti fu grande collaboratore della galleria, tanto da scrivere il testo introduttivo della seconda mostra, affidata a Guglielmo Janni e inaugurata l’11 maggio 1935: «Piazze deserte di De Chirico, infuocati cieli romani di Scipione, punti di campagna, attentamente prediletti per vecchia consuetudine, di Morandi, marine di Carrà, popolo di Rosai: l’occhio nostro non potrà più dimenticare osservando gli aspetti della vita, un’intensità del vedere che è la vostra. (…) Nella pittura dei più giovani, e nella pittura di Guglielmo Ianni che invito il pubblico ad ammirare con me, questo sentimento della nostra gioventù spirituale è vivissimo. In particolare, nella pittura di Ianni c’è un impeto sorvegliato da tanta grazia che fa pensare a quel Quattrocento il cui mito fu Davide. Pittura sempre castissima, e velata dal sogno, come sono casti e sognanti i forti». 

I ritratti sono la cifra dell’epoca, il ritratto non come merce di scambio, ma come dono per entrarsi a vicenda nelle viscere, per colmarsi di poesia il pittore e di colore il poeta. L’arte è una. Come scrive Giuseppe Lupo in “Poesia come pittura. De Libero e la cultura romana 1930-40” (Vita e Pensiero, 2002) 

 

«poeti e pittori amano specchiarsi gli uni negli altri o raffigurarsi, molto spesso in un interno, fra tavolozze, cavalletti e colori, tanto in pose pensierose, quanto in atteggiamenti perplessi, ilari, statuari e perfino freddi. In un modo e nell’altro si muovono alla ricerca della propria identità, consolidando la volontà a fare dell’espressione creativa uno strumento d’introspezione. (…) Quando poi sono i profili dei letterati che si prestano alla tavolozza degli amici pittori, si percepisce il clima di generale concordia disposto ad avvolgere in un percorso parallelo la cultura romana tra le due guerre».

 

Il ritratto, citando ancora il saggio del professor Lupo, è lo strumento per «sancire un’affinità elettiva». Sorprende come recentemente anche Palazzo Barberini sia stato restituito al suo splendore (con l’inaugurazione di 11 sale precedentemente non aperte al pubblico) e nell’occasione sia stata allestita una mostra dedicata proprio ai ritratti, in questo caso quelli delle collezioni del MAXXI e della Galleria Barberini-Corsini. S’intitola “Eco e Narciso”, e in apertura campeggia il celebre Narciso di Caravaggio. Scoppia una ulteriore affinità con de Libero: a metà anni Cinquanta il poeta scrive un’opera teatrale ad oggi ancora completamente inedita, il “Don Giovanni”, ma che sarà portata in scena in autunno, in cui nell’epilogo il protagonista fissa, più che lo specchio di sé, la costola mancante di un Narciso che in fondo è stato solo “burlatore di se stesso”.

 

Per tornare agli anni “cometini” (come definisce anche Mimì gli artisti che giungono in galleria) entre deux guerres, la galleria viene chiusa nel 1938 dopo la promulgazione delle leggi razziali. Il tempo pare rabbuiarsi, invece de Libero fonda con Falqui “Beltempo”, almanacco annuale delle lettere e delle arti in cui non compare una unica classe, ma «pittori scultori poeti»: senza alcuna virgola a separarli, senza ostacolo alcuno a separarne le arti: «Una pittura una scultura una poesia esistono: e, ci puntiamo sopra, fanno il nuvolo e il bel tempo, spente ormai in Europa tante altre faci. In un domani, non lontano, a riconoscerlo non saremo soltanto noi, d’Italia». Eppure fuori impazza la guerra, è il 1942, e questi pittori scultori poeti pensano soltanto all’arte, oppongono soltanto l’arte alle armi, devono contrapporre la bellezza alla devastazione. In questo trambusto sorprende la lucidità, la guerra che è mondiale ma è anzitutto continentale crea una idea di Europa da ricostruire, e sconforta pensare alla pochezza dei giorni nostri.

 

La Cometa, come scrisse il poeta, artista e biblista Emilio Villa aveva «dettato legge nelle Biennali veneziane come nelle Quadriennali» perché vi erano avvenuti «i fatti più significativi, le indicazioni più precise della pittura italiana contemporanea». Vi erano avvenuti, al contempo, anche i fatti più intimi, le amicizie più preziose e irrecuperabili, i furori più amorevoli e i gesti d’affetto e le separazioni più strazianti. Il 6 maggio 1952 muore Alberto Savinio, «il più intelligente di tutti» lo definisce de Libero nel suo diario, commosso fino alle lacrime («ho singhiozzato a lungo contro la parete, era da tempo che non lo facevo») per un’amicizia che «non è soltanto un’esigenza del cuore, è anche una conquista della mente, una gratitudine senza fine». Ci auguriamo che anche Roma possa essere grata a un uomo come de Libero, poeta in cerca di ordigni bellici da far brillare in spazi sicuri, in una galleria d’arte romana per esempio.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Palazzo Merulana
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Via Emilia psichedelica

$
0
0

Il passato non esiste – si dice – siamo noi a ricrearlo. Sarà anche vero, ma di certo è esistito. E, alla fine, ci sono due modi per incontrarlo: far sì che entri nel nostro tempo, oppure andare noi verso di esso. Sono due metafore che disegnano itinerari simili solo in apparenza, in realtà opposti. 

Un passo di Walter Benjamin spiega in che cosa consista la prima direzione: “Il vero metodo per renderci presenti le cose è rappresentarcele nel nostro spazio (e non di rappresentare noi nel loro). (Così fa il collezionista e così anche l’aneddoto). Le cose, così rappresentate, non tollerano in nessun modo la mediazione ricavata da ‘ampi contesti’. È questo in verità (…) il caso anche della vista di grandi cose del passato – cattedrale di Chartres, tempio di Paestum: accogliere loro nel nostro spazio. Non siamo noi a trasferirci in loro, ma loro a entrare nella nostra vita”.

Siamo dunque davanti al contrario dell’abusato “viaggiare nel tempo”: è l’immanenza del passato nelle sue testimonianze materiali che impatta, per così dire, il nostro tempo e la nostra quotidianità; è a questo punto che il passato, lontano o lontanissimo che sia, rivela la sua fisionomia e, non di rado, la sua sostanziale alterità.

 

Il secondo possibile itinerario, il “viaggio nel tempo” appunto, è ampiamente rappresentato nella storia della comunicazione di massa, a cominciare dalla pubblicità; per la semplice ragione che è quello che ci viene più naturale: rappresentarci nello spazio degli uomini che ci hanno preceduto è un modo per parlare di noi, estendendo ad altri e ad altre epoche la nostra esperienza, l'unica che conosciamo veramente bene, l'unica che ci pare reale. 

In un messaggio pubblicitario del 1952 un giovane marito americano mangia in cucina, mentre la moglie gli prepara un piatto svuotando una lattina; tutti e due sorridono al signore imparruccato in abiti sei-settecenteschi che mangia seduto accanto all’uomo. Che sia un re, lo dichiara la scritta principale: “Today’s Americans eat better than yesterday’s royalty”. Solo in apparenza è “un reale di ieri” a scendere in cucina, in realtà è il presente che tinge di sé il passato.

 

 

Si possono conciliare questi due movimenti, possono convivere questi due diversi sguardi verso il passato? La mostra aperta fino al 1 luglio ai musei di Reggio Emilia – On the road, via Emilia 187 a.C.-2017, a cura di Luigi Malnati, Roberto Macellari ed Italo Rota – ha cercato di tenerli assieme; un esperimento potenzialmente pilota e per questo significativo. 

Gli organizzatori avevano davanti, bisogna ammetterlo, un compito difficile. Allestire un’esposizione su una via consolare dell’antica Roma e aprire su questo tema un dialogo col pubblico non è cosa ovvia, in tempi in cui le mostre richiamano grandi numeri se sono dedicate ai van Gogh, agli Impressionisti, ai Caravaggio, ai “capolavori”, agli “splendori”, ai “tesori”.

 

 

La strada intrapresa dai curatori è la coerente continuazione di quella che ha guidato per una decina d’anni il rinnovamento del museo civico reggiano [vedi i precedenti articoli su doppiozero: del sottoscritto e di Alessandra Sarchi]: “un allestimento di taglio spiccatamente contemporaneo”. Basta poco per capire che siamo davanti al solito, vecchio imperativo alla modernità (senonché “moderno” suona stantìo e allora va usato “contemporaneo”); come non è più di moda parlare di “attualità”, tanto che verrebbe da dire, parafrasando Henri Focillon: la contemporaneità è sfuggente, che cos’è in fondo la contemporaneità? Resta la fascinazione delle parole d’ordine: si legge nella guida di mostra che “la via Emilia è, dalla sua prima pietra, una strada contemporanea”.

Il tema con cui misurarsi va dunque al di là dell’ambito locale: la via Emilia, la grande arteria che il console Marco Emilio Lepido fondò verso la fine del III secolo a. C., una strada che congiungeva e congiunge Rimini a Piacenza. Una via il cui tracciato si è mantenuto sostanzialmente intatto per due millenni, tanto è vero che lungo il suo corso si susseguono i più importanti centri urbani della regione, tutti tranne Ravenna e Ferrara; centri fondati (o rifondati) in età romana.

 

 

Il visitatore di On the road viene accolto dal calco di un bassorilievo proveniente dalla Basilica Aemilia di Roma sovrastato dalla fronte di tempio (più o meno) dorico a quattro colonne; sull’architrave, retroilluminato, campeggia rossa la scritta AEMILIV’S (“da Aemiliu”); si immagina insomma un ristorante “da Emilio” sulla SS9 (la via Emilia appunto), un locale che potrebbe anche essere sulla Route 66 o su un’altra grande strada americana, on the road appunto (ma lì avrebbero scritto Aemilius’ o Aemilius’s).

Saliamo le scale ed ecco l’apertura vera e propria dell’esposizione. Accanto al titolo della mostra, a sinistra leggiamo un passo di Omero, “A volte i carri strisciavano sulla terra feconda …”; sono versi del XXII canto dell’Iliade, in cui gli Achei ingaggiano una gara durante i funerali di Patroclo: sono cocchi da guerra che si sfidano lungo una pista. Dalla parte opposta, invece, l’inizio di una canzone di Guccini, “Lunga e diritta correva la strada …”. Né la road di Kerouac, né i carri omerici, né l’autostrada di Guccini hanno a che fare con la via Emilia (c’è bisogno di dirlo?); a maggior ragione, a che cosa si deve la presenza di alcuni vasi attici del V sec. a. C. “con scene dell’epica omerica” (ma senza neppure i carri)? 

L’apertura è l’annuncio dello spirito della mostra, rimescolare senza problemi tempi e spazi, seguendo fili conduttori come quello del mezzo di trasporto. I carri da guerra di Omero non hanno mai sfilato sulla via Emilia; ma se l’obiettivo è montare uno spettacolo vanno benissimo, come del resto va bene Charlton Heston nel film Ben Hur (1959) come manifesto della mostra.

Al piano superiore, il grande corridoio ospita una serie di vetrine; ognuna contiene elaborate microarchitetture di legno (ben altra cosa rispetto alle tradizionali vetrine di derivazione, diciamo così, ottocentesca). In ognuno di questi complessi, piccoli teatri lignei, vanno a disporsi piccoli oggetti antichi, scritte, monitor. Ogni vetrina diviene il perno attorno a cui si sviluppano sette temi, quasi tutti legati a un luogo delle città antiche (il ponte, la locanda, il limite, la casa, le sepolture, il commercio, il foro).

 

 

Come vengono trattati questi temi? Nella prima vetrina c’è la pila di un ponte, su cui sono fissati una statuetta di Mercurio, una di amorino, amuleti fallici, una moneta; sotto al ponte, tra la sabbia, alcuni minuscoli frammenti, la ruotina (di un triciclo), il tappo di una bottiglia di plastica. In alto la scritta: “Fin che la barca va… lasciala andare”, la canzone di Orietta Berti.

Celebri hit della musica leggera emiliana sono infatti impresse su tutte le vetrine: “E poi ci troveremo ... al Roxy Bar" e “Certe notti…” (quella sulle locande), "Non ti potrò scordar casetta mia …" (la casa romana), "non piangerò mai sul denaro che spendo ..." per il commercio; e quindi Zucchero, Dalla, CCCP, Giuseppe Verdi (“Di quella pira…”), i Pooh... 

Il percorso delle vetrine si raccorda poi alle pareti, dove sono fissate grandi foto tratte da film peplum dagli anni ’50 in poi, e colorate alla Warhol; ciascun attore impersona un abitante della città romana, quelli che conosciamo tramite antiche iscrizioni su pietra. Ogni cartellone ne riporta il testo originale e in traduzione, mentre accanto viene invece scritta la “storia” del personaggio. Che i film peplum siano stati un elemento di mediazione tra la cultura di massa e il mondo classico è un’intuizione già sviluppata brillantemente in Tutto quello che sappiamo su Roma, l'abbiamo imparato a Hollywood di Luisa e Laura Cotta Ramosino, con Cristiano Dognini (Bruno Mondadori, 2004). 

Aveva dunque un senso, all’interno di una mostra in cui l’archeologia fa da sfondo, riparlare di peplum, ma per smontarne il meccanismo (il presente che si maschera da passato). Invece si fa il contrario: la “storia” che viene raccontata accanto a ciascun personaggio è, volutamente, di fantasia. Ecco che Marlon Brando diventa il decurione C. Iulius Valens, ma non quello vero, quello finto che avrebbe deciso la costruzione di un imponente ponte coi suoi colleghi di magistratura; una liberta (cioè una ex schiava) diventa la tenutaria di una locanda-bordello; un soldato viene ricollocato come agrimensore; e poi un accigliato Laurence Olivier, Bekim Fehmiu, Irene Papas, George Clooney che fa Marco Emilio Lepido.

 

 

Il linguaggio di queste “storie” d’invenzione ha un’aria più da anni ’50, che “contemporanea”: il “fiore degli anni”, i “luoghi sperduti, ricettacoli di belve ed uomini nefandi”, le “feroci genti barbare”, il “diletto sposo”, il “volto, chiaro e lucente come la luna, nel quale brillano due stelle verdi”, e – va da sé – “il nostro eterno amore”.

Tra queste narrazioni più hollywoodiane che padane, tra gli oggettini antichi che fanno da comprimari nelle vetrine, tra gli attori-icone dei film “spade e sandali”, i materiali antichi fanno da ospiti non troppo desiderati; e le stesse belle e attente ricostruzioni (un carro da trasporto antico, la tecnica costruttiva di una strada romana) vengono risucchiate nella sequenza generale, spettacolare e (volutamente) caotica. Ed è così anche per la pagina più efficace dell’intera mostra, il magnifico sinottico in cui si tenta di rendere graficamente la nervatura antica e moderna dell’intera regione Emilia.

Come si vede dalle prime battute della mostra, i percorsi sono due: quello degli archeologi e degli storici (l’antico che si affaccia sul nostro oggi nella sua potenziale, irriducibile diversità), e quello dell’allestimento (il presente che finge di “viaggiare” nel passato). Curatori e comitato scientifico hanno creduto, o hanno voluto credere, che i due itinerari potessero intrecciarsi senza condizionarsi, ma le cose non sono andate così: è il secondo a mettere di continuo in ombra il primo.

La ragione è semplice: non siamo davanti solo e tanto a “scelte espositive innovative”, ma alla traduzione concreta di una visione (non importa quanto consapevole e non importa se ancora poco organizzata come teoria): dato che ci muoviamo in un “eterno presente” (cito Guy Debord), si può pure concedere qualcosa alla storia e analizzarne qualche aspetto, ma quello che conta è suggerire analogie, offrire suggestioni, impressioni, piroettando su nessi logici e storici; un tempo si sarebbe usato il termine “fantasmagoria”, oggi va ancora bene “psichedelia” (parola usata da uno dei curatori). Eccoci nel dominio dell’indistinto, in cui tutto è in rapporto con tutto, e perciò con niente; ci si muove all’insegna del “tutto è contemporaneo” (niente altro che uno slogan).

Lo si vede a pochi metri dal sinottico: la centuriazione romana, il grande processo di trasformazione del paesaggio strettamente connesso alla via Emilia (e poi in tutta l’Italia del Nord e non solo) – viene evocata più che spiegata. Troppo banale una foto aerea delle campagne attorno a Carpi o Forlì? O è più chiara la scritta a caratteri cubitali sul pavimento: “RATIO PULCHERRIMA = COLONIA + AGER COLONIARIUS = HARMONIA”? Qui capiscono (qualcosa) solo gli addetti ai lavori; e a volte neanche quelli: ROAD + TOWNS + LEGIONS = LIMES. Ironizzare non serve a nulla.

 

Del resto come possono, i non addetti ai lavori, capire quale sia il ruolo dei volti (veri) di Gustave Eiffel, Frank Gehry, Kevin Lynch, Robert Venturi e altri ancora che troviamo a questo punto? La risposta è alla portata di tutti, e sempre a caratteri cubitali: LANDSCAPE, LANDART.

Dal ristorante “di Aemiliu” (sic) alla reverente celebrazione di architetti e di artisti di oggi: è probabile che i curatori non sentano alcuna frizione, che non avvertano l’irrisione (se non il disprezzo) espressi da tanti passaggi della mostra verso il modello culturale (per semplificare) umanistico; tanto è forte la convinzione che l’alleanza di ferro marketing-spettacolo debba essere il sistema operativo generale, valido per la pubblicità come per la cultura, per i social come per la politica. A proposito, la prossima fase della “valorizzazione” del nostro patrimonio archeologico e artistico percorrerà strade come questa, all’insegna di un’archeologia psichedelica?

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
On the road
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Lettera da Vienna

$
0
0

Da uno schermo nella metro, alla fermata Museumquartier, il telegenico e azzimato primo ministro Sebastian Kurz ribatte sul suo tasto: basta migranti, bisogna intervenire, bloccare il flusso! L’onda xenofoba da Vienna va verso est, trovando consonanze in Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria. Insomma negli stati che un tempo erano parte dello sconfinato mosaico dell’Impero Austroungarico, franato clamorosamente dopo la Prima Guerra Mondiale.

Immagini: 

La Tartaruga. Storia di una Galleria

$
0
0

C’era una volta a Roma la galleria La Tartaruga, aperta nel 1954 da Plinio De Martiis, avvocato, impresario teatrale e fotografo. La sede era prima al numero 196 di via del Babuino, in una palazzina oggi sede di un albergo, e poi al primo piano di uno stabile ottocentesco, a Piazza del Popolo, appena sopra il caffè Rosati e il ristorante Il Bolognese. Il nome lo aveva suggerito l’artista Mino Maccari come omaggio a uno degli animali più longevi e adattabili, noto per la sua lentezza ma anche simbolo di saggezza e di sicuro approdo. Si era negli anni dell’euforia del dopoguerra; gli artisti, anche quelli più all’avanguardia, come Alberto Burri, facevano ancora quadri e Roma era una città cosmopolita in cui si fondevano il popolare e i prodromi del moderno: un centro di incontro di artisti, scrittori, registi, attori. La Tartaruga, che diventa subito un luogo di riferimento per l’avanguardia, debutta mostrando soprattutto la pittura della scuola romana. Poi, dal 1957, propone una programmazione dedicata agli artisti dell’astrattismo americano e dell’informale europeo. Dagli anni Sessanta è la volta di quei giovani (Mario Schifano, Tano Festa, Franco Angeli, Giosetta Fioroni, Cesare Tacchi, Ettore Innocente, …) che sarebbero stati il nucleo portante della cosiddetta scuola di Piazza del Popolo, proprio dove la galleria si sarebbe trasferita nel febbraio del 1963. Con l’ottobre del 1968 la sede di Piazza del Popolo chiude – oramai, secondo De Martiis, le gallerie hanno «esaurito la loro funzione» – e l’attività prosegue dal 1969, in una terza nuova sede, con spirito diverso. 

 

Ritratti di Plinio de Martiis.


Si chiude così un capitolo fondamentale della storia dello spazio espositivo ma anche un capitolo importante delle vicende dell’arte italiana di cui in effetti La Tartaruga è uno specchio fedele. A provarlo è il recente libro di Ilaria Bernardi La Tartaruga.Storia di una galleria (Postmedia 2018, 16,90, 141 pagine): un piccolo volume, illustrato dalle bellissime fotografie dello stesso De Martiis, in cui vengono ripercorse le vicende dello spazio espositivo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, e citati i relativi documenti attualmente conservati presso L’Archivio di Stato di Latina. Il libro è utile agli studiosi, come regesto degli eventi promossi da De Martiis, e ai curiosi per ripercorrere, attraverso le vicende della galleria, quelle dell’arte italiana di quel ventennio cruciale della nostra storia. A partire dal conflitto figurazione-astrazione, di cui Roma era il centro maggiore  (anche perché qui il partito comunista aveva la sua sede istituzionale), la programmazione di De Martiis testimonia quanto, nel tentativo comune di riallinearsi alla ricerca europea, le strade dell’arte italiana risultassero allora almeno due: quella di una ‘figurazione’ che in Guttuso aveva il suo principale modello, e quella più aderente all’astrazione, a una scoperta dell’informe e delle potenzialità insite a gesti e materie.

 

Con il nuovo decennio la programmazione ci mostra, e in buona parte conduce, lo sbarco dell’arte americana a Roma (e di quella italiana negli Stati Uniti) celebrato, tra l’altro, a livello nazionale dalla prima antologica europea dedicata a Jackson Pollock, ospitata nel marzo del 1958 (a neanche due anni dalla scomparsa dell’artista) alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma. Si prosegue con l’esordio dei giovani artisti afferenti a un nuovo realismo fatto di monocromo, reportage, oggetto e immagine, fino all’“invasione” americana della Biennale di Venezia del 1964 – un momento cruciale nel corso del quale De Martiis organizza un interessantissimo Premio La Tartaruga – fino a giungere all’evento conclusivo dell’attività di La Tartaruga a Piazza del Popolo, che coincide con il maggio del 1968. È allora che la galleria presenta “Il Teatro delle mostre. Festival Maggio 1968”, una successione di eventi singolari in cui De Martiis veste i panni del regista (curatore diremmo oggi) organizzando una mostra al giorno, per circa tre settimane, con lavori, installazioni, performance, azioni dei maggiori esponenti dell'avanguardia artistica italiana dell'epoca: “ogni giorno un artista in scena” recitano locandina e catalogo della manifestazione. 

 

Copertina volume teatro delle mostre.


Ebbene, nel leggere il libro di Ilaria Bernardi, oggi che di quel maggio ricorre il cinquantenario, proprio su quel festival (a cui tra l’altro Ilaria Bernardi ha dedicato nel 2014 un approfondimento) viene spontaneo concentrare l’attenzione: in una galleria privata si proponeva un evento capace di interpretare, e in parte anticipare, la spinta radicale di quegli anni e di quell’anno simbolo a partire dal quale, come dichiarava Edgar Morin, in un articolo su Le Monde, “Il mondo non sarà più come prima”. La programmazione di quel festival straordinario, la sua stessa concezione, dà un’immagine piuttosto vivida di un momento in cui nell’arte, come del resto in tutti gli ambiti, culturali e politici, si evidenziava un movimento spontaneo teso a rovesciare le strutture esistenti. Così gli happening del Teatro delle mostre invitavano il pubblico alla contemplazione attiva di un evento, un momento, un processo: sostanzialmente facevano vivere al pubblico un’esperienza e poi un’altra, e un’altra ancora, in un’orchestrazione ottimale (di De Martiis) di provocazioni, sorprese, sensazioni, ironia e poesia.

«Non è l’accadere, non è il succedere, non è l’happening, ma è il succedersi che interessa» – avvertiva Maurizio Calvesi dalle pagine del catalogo – «la successione non come flusso ma come processo, come ritmo, come verifica nel tempo e del tempo».

 

Nanni Balestrini, I muri della Sorbona, 1968.


E, difatti, a colpire ancora oggi della programmazione di quel Festival è l’idea di un’arte calata nell’esperienza, nel tempo dell’esperienza e della sua intimità in una catena capace di trasportare l’individuale nel collettivo. Quattro eventi per tutti che sono quattro meravigliose cartoline di quel 1968 a questo 2018: Renato Mambor che in Dovendo imballare un uomo imballa Claudio Previtera e mima di fatto le celebri fotografie del Che ucciso; Alighiero Boetti che, appena arrivato da Torino, monta un grosso telaio ricoperto di carta blu che invita il pubblico a bucare con dei chiodi, creando così, in una successione di segni, una costellazione personale e comune (Un cielo); Fabio Mauri che crea un allunaggio ambientale, una stanza in cui si entra come in un’astronave, con il pavimento ricoperto di polistirolo in cui si affonda, ci si siede, ci si sdraia, si gioca (Luna); e Nanni Balestrini che appena rientrato da Parigi, telefona dall’aeroporto in galleria e detta le frasi scritte sui muri della capitale francese perché vengano riportate su quelle delle spazio di De Martiis (I muri della Sorbona). “Chi fa la rivoluzione a metà si scava la tomba”, “proibito proibire”, “è meraviglioso sentirsi liberi” “dite sempre di no per primi” esortano i muri della galleria d’arte di concerto con quelli parigini, in una stupefacente alternanza di grafie, corsivi e stampatelli capace di incarnare istantaneamente il clima pulsante di quei giorni e di mostrarci oggi la sostanza del Sessantotto. Plinio De Martiis con il Teatro delle mostre ha scansato il pericolo di trasformare la pratica artistica in mestiere offrendo al pubblico di allora (e a quello di oggi attraverso libri come questo di Ilaria Bernardi) esperienze capaci di decostruire e confondere le categorie perseguendo nuovi orizzonti di senso e portando, in momenti al contempo effimeri e immortali, l’immaginazione al potere.  

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Cartoline dal 1968
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Lo spirito dell’alveare

$
0
0

A Berlino, in contemporanea, due mostre si misurano con due questioni cruciali per la cultura della nostra epoca. La prima riguarda l’eredità storica dell’arte moderna e la sua rivendicazione di autonomia estetica, tradizionali capisaldi i cui presupposti sociali e culturali e le cui pretese di universalità appaiono assediati sia dall’affermarsi di una visione policentrica, multiculturale, del mondo attuale sia dalla crescente erosione della stessa categoria di “arte” a vantaggio di quella ben più elastica e accogliente di cultura visiva. La seconda tocca invece le istituzioni-simbolo del “mondo dell’arte”: il museo e la mostra. In che modo aprire – “rendere inclusivi”, come si dice – questi luoghi a pubblici eterogenei, portatori di istanze culturali, di identità spesso mutuamente conflittuali?

 

Nonostante le differenze – la prima è un allestimento tematico di una grande collezione di arte del XX e XXI secolo, la seconda una stratigrafia multidisciplinare di un singolo momento della vicenda novecentesca – sia Hello World (Hamburger Bahnhof – Museum für Gegenwart, fino al 26 agosto), che Neolithische Kindheit. Kunst in einer falschen Gegenwart, ca. 1930 (“Infanzia neolitica. Arte in un falso presente, 1930 ca.”, Haus der Kulturen der Welt, fino al 9 luglio), entrambe le esposizioni si oppongono alla trasformazione dell’esperienza dell’arte in qualcosa al tempo stesso, e perversamente, di sempre più irrilevante e sempre più monetizzabile. Ma come inscrivere una indispensabile revisione critica della vicenda moderna in una cultura in cui l’estensione globale delle comunicazioni, la tirannica aspirazione al consumo, la reificazione delle relazioni sociali, il livellamento midcult del gusto, la fine dell’autosufficienza estetica, hanno eroso l’idea di arte come luogo di sperimentazione audace, complessa, scomoda, irriducibile al presente?

 

Hello World, Hamburger Banhof, Berlino, vista dell'allestimento

 

La risposta di Hello World potrebbe essere riassunta così: rendiamo leggibili anzitutto i conflitti rimossi, le narrazioni cancellate o emarginate, gli scenari politici e sociali remoti o invisibili nel museo tradizionalmente inteso come “deposito”, come immacolato riparo dallo sporco della Storia. Per una collezione le cui vicende riflettono la tragedia tedesca – dall’epoca guglielmina al nazismo, dalla partizione Est/Ovest alla riunificazione post-1989 – questa esigenza di nuova storicità si traduce nella sistematica contestazione delle tradizionali gerarchie di valori, dei concetti di “periferia” e “centro”, di high e low, nella sottolineatura di ibridazioni e scambi inediti tra culture.

 

Sono esempi di questa attitudine le sezioni allineate nella lunga “manica” della Hamburger Bahnhof, a partire da quella dedicata all’Arte Popular messicana e all’originale  rapporto tra folklore, sensibilità modernista, sguardo antropologico e programmi rivoluzionari che in Messico, tra anni Venti e Quaranta del secolo scorso, alimentò al tempo stesso esperimenti di radice surrealista e imprese monumentali del muralismo, così come il lavoro di artisti di profilo diverso come Dr. Atl (Gerardo Murillo), tra i propugnatori del ritorno alle radici precolombiane, e Tina Modotti, con inserti contemporanei come il video Xilitla (2010) di Melanie Smith, dedicato alla allucinatoria stravaganza architettonica di Las Pozas, realizzata in piena giungla dall’eccentrico mecenate inglese Edward James.

 

Stesso discorso può valere per la sala dedicata alle culture indigene dell’America del Nordovest e al loro impatto sulla pittura americana o per gli ampi insiemi dedicati alle esperienze artistiche di opposizione nei paesi dell’Europa orientale e in Unione Sovietica nel periodo della Guerra fredda, in cui le difficoltà e i rischi di un dissenso tanto culturale che politico trovava spesso forme alternative e complementari alla produzione di opere, come azioni collettive, pubblicazioni o forme di scambio internazionale. In un’altra sezione, le connessioni tra il gruppo dada giapponese Mavo e la scena artistica berlinese dei primi anni Venti vengono indagate come un caso di precoce e originale appropriazione delle strategie più radicali dell’avanguardia in un contesto culturale remoto.

 

Hello World, Hamburger Banhof, Berlino, vista dell'allestimento della collezione Marx

 

In tutti questi casi il punto di vista adottato dai curatori di Hello World rappresenta un necessario correttivo alle narrazioni convenzionali dell’arte novecentesca, tipicamente incentrate su pochi, selezionati centri europei e nordamericani, e insieme un’inevitabile presa di rischio. Annettendo il contesto artistico alle metodologie e alla prospettiva dei cultural studies e delle indagini postcoloniali, ed esaltando, come reiterano i testi di sala, il valore politico di tali scelte, non può infatti che attenuarsi o diventare irrilevante la differenza, il dissidio, tra opera e testimonianza, tra documento e fiction: quanto si guadagna come estensione della visuale, come più precisa misurazione della mutua interferenza tra sfera simbolica e sfera sociale, si perde in termini di profondità di lettura storica e critica dei fatti artistici.

 

Il problema è che la contestazione del “canone occidentale” e la simultanea necessità di una nuova teoria mondiale dell’arte finiscono nella mostra per basarsi su una sostanziale incomprensione dei meccanismi di competizione, sovversione e costante riscrittura con cui lo stesso canone si è venuto formando, nonché su una fatale quanto non percepita restrizione del perdurante scarto di portata, complessità e novità prodotto proprio dalle opere e dal loro eccedere l’epoca e il contesto, dalla loro capacità di incubare altri potenziali di senso, che rimangono integri anche dismettendo – come argomenta su “Current Affairs” Daniel Walden– lo stesso deformante e ormai inservibile concetto di “Occidente”. Sullo sfondo, inconfessata, accanto alla salutare apertura multidisciplinare, si profila un’ideologia della pratica curatoriale come unico rimedio alla condizione indebolita o degradata dell’opera d’arte, resa tuttavia in questo modo ancor più dipendente da un sistema istituzionale che la assoggetta alla sua drammaturgia, al suo disegno di autoperpetuazione.

 

Non è credo difficile notare quanto questa radicale sfiducia non tanto nel concetto, già in abbondanza screditato, di autonomia estetica, quanto nell'idea stessa di opera in quanto evento che altera in permanenza il proprio campo di osservazione, che si mostra irriducibile alla rete concettuale che lo ha catturato, sia molto più che il risultato finale di un processo di consapevole decostruzione dei procedimenti discorsivi dell'autorialità. Essa è in effetti la prova di una già avvenuta, tacita adesione a un sistema di valori coincidente di fatto con il “paradigma tollerante” neoliberista, con una disposizione cioè che rende tutto egualmente accessibile e consumabile a patto che le differenze potenzialmente eversive, i conflitti latenti, l'energia distruttiva e anarchica di quegli “oggetti” speciali che sono le opere rimangano o silenti o vengano preventivamente espunti dal campo dell'esperienza.

 

Diversi sono i punti in cui Hello World subisce le conseguenze impreviste di questa agenda. Ancor più della sezione Agora che accoglie i visitatori all’ingresso con una vacua, scontata retorica del dialogo e dell’accoglienza (e ciò nonostante la presenza di lavori interessanti come Pavilion for International Institute of Intellectual Co-operation, 2016, di Goshka Macuga), è nelle sale in cui è riunita una notevole selezione di sculture del XX secolo che si possono misurare i limiti della pedagogia espositiva adottata dai curatori. L’essenziale e intricata relazione tra ricerche moderne e arti “primitive”, l’arcaico, l’inc0nscio (la sezione è convenientemente intitolata Woher kommen wir?, “da dove veniamo?”), viene qui ricondotta a un semplicistico ridimensionamento del valore antiautoritario delle esperienze d’avanguardia, epitomizzato, con involontaria comicità, nell’accostamento tra Le Penseur (1880) di Auguste Rodin e il Ritratto dello scimpanzé “Missie” (1916-17) di Anton Puchegger. Molto più interessante osservare da vicino i lavori, tra cui spiccano ad esempio, accanto a nomi celebri (Brâncuși, Giacometti, Ersnt, ecc.), figure meno note come Hans Josephsohn, sua una impressionante “massa” vagamente antropomorfa (Senza titolo, 2002), o i molli volumi neri di Thomas Schütte (Senza titolo, nn. 4 e 10, 2001).

 

Hello World, Hamburger Banhof, Berlino, vista dell'allestimento

                                    

Forse il colmo di questa urgenza di giustificazione lo si misura nel trattamento riservato alla collezione Marx, un importante insieme di opere di artisti del secondo Novecento come Warhol, Beuys, Rauschenberg, Twombly ecc. Qui l’ortopedia istituzionale – in una sezione intitolata addirittura “diritti umani dell’occhio” – è esplicita: com’è possibile rettificare una donazione irrimediabilmente marchiata dal puro arbitrio del collezionista? In mancanza di soluzioni definitive ci si affida alla intraprendenza del duo cyan (Daniela Haufe e Detlef Fiedler), pedanti lettori di Aby Warburg e Georges Didi-Huberman che collocano sulle pareti “tavole” a sfondo color pastello con riproduzioni di fotografie e documenti incaricati di rieducare, mostrando loro i non-detti e i non-visti della contigua, ingombrante high art, gli inconsapevoli spettatori. Anziché un effetto ironico o critico qui è l’inconscia infantilizzazione del pubblico a rivelarsi il vero significato dell’operazione.

 

Joseph Beuys, Das Ende des 20. Jahrhunderts (“La fine del XX secolo”), 1982–83, particolare dell'installazione

 

I momenti migliori di Hello World restano così quelli in cui più difficile si dimostra la costruzione di un frame ideologico generale: la sezione dedicata all’uso degli strumenti di comunicazione come medium artistici tra anni ’60 e ’70, a partire dal progetto Three Country Happening (1966) di Marta Minujín, Allan Kaprow e Wolf Vostell, o gli Interludes con opere maggiori di On Kawara (il grande ciclo Date Paintings) o Bruce Nauman (l’installazione My Soul Left Out, Room That Does Not Care, 1984), e il sempre straordinario insieme di opere e installazioni di Joseph Beuys, e in particolare Das Ende des 20. Jahrhunderts (“La fine del XX secolo”) (1982–83), con i suoi grandi monoliti di basalto posati sul pavimento, la cui minerale, misteriosa impassibilità continua a turbare i nostri tentativi di scioglierci finalmente dai legacci con l’oscurità novecentesca.

 

Neolitische Kindheit, Haus der Kulturen der Welt, vista dell'allestimento

 

Pur con premesse simili, assai diversa appare la strada percorsa alla Haus der Kulturen der Welt dalla mostra che prende il titolo da un’espressione dello storico e teorico tedesco Carl Einstein, figura essenziale del panorama culturale tedesco tra le due guerre, per il quale quella dell’“infanzia neolitica” è la condizione di un’arte che si misura con un mondo sempre più ostile e frammentato e ricerca una possibile rifondazione dell’umano guardando alle forme di vita collettiva e all’immaginario della preistoria. La mostra esplora così le connessioni e gli intensi scambi tra arti visive e discipline diverse (etnologia, psicoanalisi, filosofia, ecc.) tra anni Venti e Trenta del Novecento come forme di inquieta ricerca di vie di uscita dalla spirale imperialista, totalitaria e razzista, dalla vera e propria crisi di civiltà che attanaglia l’Europa. Su questo sfondo, le esperienze artistiche, in particolare quelle legate al surrealismo, vanno alla ricerca di un orizzonte alternativo, ritrovandolo nelle culture premoderne, “primitive”, negli strati profondi della psiche e del linguaggio, nell’“animismo” – come lo chiamò ancora Einstein rovesciando di segno un classico termine dell’etnologia evoluzionista ottocentesca – cioè una forma di percezione sensibile a una pluralità di forze prive di un riferimento “centrale”, di un fondamento identitario, in senso tanto estetico che politico.

 

Neolitische Kindheit, Haus der Kulturen der Welt, vista dell'allestimento

 

Nel solco di altre mostre enciclopediche tenutesi nello spazio diretto da Anselm Franke, anche Neolithische Kindheit organizza il suo percorso come una fitta trama di riferimenti alla cultura visiva, alla storia e alla teoria dell’arte, accostando opere e materiali eterogenei, libri, film, fotografie, documenti. Lo spettatore è chiamato a un lavoro di autonomo montaggio all’interno di un percorso policentrico che connette opere di artisti di profilo e notorietà assai diverse, come il belga Frits van den Berghe, idiosincratico pittore di sensibilità surrealista, Max Ernst, Paul Klee (con alcuni straordinari disegni degli anni Trenta), Toyen, fotografie di esponenti di primo piano del surrealismo parigino come Brassaï, Florence Henri, Eli Lotar e Raoul Ubac, film di Jean Painlevé, Sergei Eisenstein (con un frammento inedito del mai terminato film sul Messico) e Jean Renoir (sorprendente il suo cortometraggio Sur un air de Charleston del 1926), a una prospezione del paesaggio intellettuale degli stessi anni, i cui diversi filoni e discipline sono testimoniate da una cospicua presentazione di pubblicazioni e altri materiali. La scommessa, ambiziosa, è “decolonizzare” etnologia, antropologia, pensiero filosofico e arte modernista, senza però evacuarne il potenziale dialettico, il valore di critica radicale tanto dell’eurocentrismo che della razionalità strumentale e dei meccanismi di assoggettamento e dominio consustanziali alla forma di vita capitalista.

 

Gli anni Trenta giungono così a interrogare la nostra epoca. Se di fronte a conflitti e ineguaglianze intrattabili, alla crisi della democrazia e dello stesso progetto utopico moderno, sorse irresistibile in Germania e in Europa un progetto di sottomissione a un Ordine imposto violentemente come orizzonte escatologico collettivo, emerge dall’atomizzata società contemporanea l’immagine inconcepibile dello sciame e con essa una logica dell’alveare, una proiezione del soggetto a scala collettiva non per mezzo dei tradizionali strumenti della religione e dell’ideologia o attraverso il conflitto, ma piuttosto grazie un potente, pulsionale ed estatico movimento verso il gruppo, verso l’abbraccio sincronizzato con gli altri. In questo paesaggio postumano, l’arte, anziché dissolversi, appare al contrario come uno strano quantum energetico singolarmente durevole, al cui interno, ha scritto Edward Said, l’identità umana si mostra proteiforme, instabile e indifferenziata nella sua ambivalenza come qualsiasi altra cosa esistente al mondo.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Due mostre a Berlino
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Alik Cavaliere: un artista concettuale?

$
0
0

Ingresso dell’aula 45, Accademia di Belle Arti di Brera, Milano.


Com’erano le aule del corso di scultura a Brera alla fine degli anni Settanta? Quella del professore Alik Cavaliere era vuota ad eccezione di un tavolo. Niente copie in gesso tratte da esemplari greci e romani, niente modelli viventi in posa, solo un tavolo intorno al quale discutere. Per noi studenti, che per la prima volta dopo gli studi liceali iniziavamo a visitare le gallerie di arte contemporanea, il tavolo era una struttura primaria della Minimal Art, caratterizzata da una riduzione della forma all’essenziale, una struttura intorno alla quale discutere su arte, politica e società. Nel minimalismo l’analisi del fare arte prevaleva sul fare, spingendo la ricerca verso un grado zero della pittura e della scultura, ma l’impossibilità di raggiungere l’inafferrabile e sfuggente minimum sensibile teorizzato dagli artisti minimalisti provocò uno spostamento verso il concetto, favorendo la nascita della Conceptual Art nella quale ogni aspetto materiale venne espulso totalmente dall’opera. Il rifiuto dell’oggetto costituiva l’asse portante della Conceptual Art, un’arte che “non ha un oggetto come residuo” (Douglas Huebler) e quindi non è mercificabile. 

“Oggetto, nasconditi” si leggeva sui muri di Parigi nel ’68. Un’altra scritta diceva: “ho qualcosa da dire ma non so cosa”. Qualcosa di aperto e indeterminato, intuitivo, animava tanto il ’68 quanto il tentativo in arte di cogliere l’inafferrabile minimum fino a ridurlo al concetto. Le Sentences on Conceptual Art pubblicate nel 1969, due anni dopo i Paragraphs on Conceptual Art che rappresentano l’atto di nascita dell’idea come opera artistica senza residuo materiale, si aprono con questa dichiarazione di Sol LeWitt:  “Gli artisti concettuali sono mistici piuttosto che razionalisti. Saltano a conclusioni cui la logica non può arrivare”.

 

Art-Language, the journal of conceptual art, 1969, volume 1, numero 1, maggio 1969, pubblicato da Art & Language Press, Coventry, Gran Bretagna. A pagina 11 le Sentences on Conceptual Art di Sol LeWitt.


L’indeterminatezza del concetto (nell’Arte Concettuale) e del ’68, alla quale il regista João Moreira Salles ha dedicato il bellissimo film No Intenso Agora del 2017, era ormai lontana, sepolta in un dogmatismo delle idee, ma intorno a quel tavolo avevamo l’impressione che qualcosa potesse ancora nascere in modo inaspettato nell’arte e nella società. La Conceptual Art, così come è annunciata nella prima delle Sentences on Conceptual Art di LeWitt, esercitava ancora una certa influenza su di noi, mentre si stava preparando il ritorno al disegno, alla pittura e alla scultura, alla forma e alla materia: stava per farsi strada la Transavanguardia. Il fenomeno artistico della Transavanguardia non ha lasciato in me traccia alcuna mentre ne ha lasciata una profonda il tavolo nell’aula di Alik. Il tavolo intorno al quale si discuteva di arte, politica e società costituiva per noi il simbolo di un progetto sociale oltre che artistico, giunto però a una catastrofica conclusione. 

 

Giuseppe Memeo punta una pistola contro la polizia durante una manifestazione di protesta in via De Amicis a Milano il 14 maggio 1977. Foto di Paolo Pedrizzetti.


Nel saggio Settanta, (Einaudi, Torino 2001) Marco Belpoliti indaga sul legame tra ricerca letteraria e progetto politico nel decennio che chiude con largo anticipo il secolo XX, il cosiddetto secolo breve.  Sono gli anni di piombo, dal titolo del film girato nel 1981 da Margarethe von Trotta sugli analoghi avvenimenti in corso negli stessi anni in Germania, quando il progetto sociale e politico in cui molti avevano riposto le loro speranze perde la sua creativa indeterminatezza e si radicalizza ideologicamente giungendo alla sua tragica parabola finale.

 

Sol LeWitt. Between the Lines. Veduta dell’installazione alla Fondazione Carriero, Milano 2017, con 8 x 8 x 1 del 1989 e Wall Drawing #1104: All combinations of lines in four directions. Lines do not have to be drawn straight (with a ruler) del 2003. Foto Agostino Osio - Francesco Arena, 3,24 mq, 2004. Collezione Raffaella e Stefano Sciarretta, Roma. Ricostruzione in scala 1:1 della cella di Aldo Moro nella quale appare evidente il riferimento alla scultura minimalista.


Alla Fondazione Carriero si è da poco conclusa la mostra Sol LeWitt.Between the Lines dedicata all’opera dell’artista delle Sentences on Conceptual Art. La griglia-gabbia disegnata a pennarello su uno specchio che nasconde uno spazio mostrandone un altro (Wall Drawing #1104: All combinations of lines in four directions. Lines do not have to be drawn straight - with a ruler – del 2003) e le forme geometriche cubicolari incastrate le une nelle altre (8 x 8 x 1 del 1989) mi hanno ricordato il cubicolo, la stanza nella stanza dove le Brigate Rosse rinchiusero Aldo Moro per tutta la durata della trattativa con lo Stato, prima di assassinarlo. Esito funesto della radicalizzazione del progetto sociale in cui avevamo creduto, mentre quello artistico, con la sua vocazione anti-oggettuale e anti-mercantile, non approdò a nulla: il mercato trionfò trasformando in merce ciò che non avrebbe dovuto esserlo. Lo constata anche Rem Koolhaas co-curatore della mostra di LeWitt alla Fondazione Carriero: “Negli ultimi vent’anni il mercato economico è diventata la forza preponderante dietro ogni interazione tra la gente e gli altri sistemi di riferimento. Quindi la parola concettualeè diventata quasi impossibile da utilizzare in ogni circostanza, perché suggerisce una certa purezza che pochi elementi possono ancora vantare” (dall’intervista di Ginevra Bria a Rem Koolhaas pubblicata in Artribune, 10 febbraio 2018). L’allestimento alla Fondazione Carriero, con le Structures di LeWitt che attraversano gli spazi in continuità con l’architettura per dare forma a un nuovo spazio ideale al di là di quello architettonico, sembra un esercizio di stile applicato a un’estetica dell’idea: un fatto estetico piuttosto che artistico. In questa mostra le sue opere non sembrano avere più la forza del tavolo, che noi studenti consideravamo la forma artistica del “qualcosa [che ho] da dire ma non so cosa”. 

 

Nell’aula 45 un tavolo, solo un tavolo, parole e concetti. Eppure Alik aveva interesse per i materiali e le tecniche della scultura, alcune delle quali antiche. Nel saggio Werke aus Kupfer, Bronze und Messing (Siegl, München 2014, p.171) lo storico del restauro Hermann Kühn scrive che Alik utilizzò una tecnica che usavano i Romani e poi, prima che Alik la riscoprisse, mai più. Di questo non sapevo nulla prima che Carla Pellegrini, che conosceva Alik e lo stesso Kühn (Carla è direttrice artistica della Galleria Milano, una di quelle gallerie che tra anni Sessanta e Settanta resero Milano un centro dell’arte europea e internazionale), me lo spiegasse con dovizia di particolari traducendo la pagina dal tedesco.

 

Maschera in cera proveniente da una tomba cumana. Fine del III – inizio del IV secolo d.C. Museo archeologico nazionale di Napoli – Togato Barberini. I secolo a.C. Centrale Montemartini, Musei Capitolini, Roma, già Collezione Barberini (il personaggio in toga regge le imagines di due suoi antenati).


In quella stessa aula, Alik mi insegnò anche la tecnica del calco dal vivo, mi insegnò come ricavare un’impronta in gesso da modello vivente di un particolare anatomico e anche del corpo intero. In particolare mi spiegò molto bene la tecnica del calco del viso, che poi ho avuto modo di eseguire su corpi vivi e morti per alcuni ritratti. È una tecnica antica che Plinio fa risalire a Lisistrato di Sicione: “Primo di tutti a riprodurre il ritratto umano in gesso derivandolo dalla faccia stessa e, versata della cera nello stampo in gesso, a correggere poi l’immagine fu Lisistrato di Sicione, fratello di Lisippo” (Storia naturale, XXXV, 153). Sappiamo quindi che questa tecnica era nota ai Greci in epoca ellenistica con il nome di ceroplastica, ma solo con i Romani raggiunse il suo vertice passando attraverso la ritrattistica etrusca. Nell’atrio di ogni casa romana patrizia, racchiuse in nicchie che recavano iscrizioni, si trovavano le maschere in cera degli antenati defunti ottenute attraverso la suddetta tecnica. Nel corso delle esequie gentilizie venivano portate in processione: “ad ogni nuovo morto era sempre presente la folla dei familiari vissuti in un tempo prima di lui” (Plinio, Storia naturale, XXXV, 6). Nel saggio Storia del ritratto in cera (Quodlibet, Macerata 2011) Julius von Schlosser tratta in modo esaustivo l’argomento.

Così, negli anni della mia formazione, il grado zero della scultura rappresentato dal tavolo, attraverso la tecnica dei calchi funerari in gesso, si coniugò all’assoluto della morte che si avverte nelle mele, nelle pere e nei corpi viventi da Alik immortalati per mezzo della stessa tecnica nel bronzo o nella resina prima di marcire.  

 

Veduta della mostra a Palazzo Reale con l’opera di Alik Cavaliere Grande pianta. Dafne del 1991 (Archivio Cavaliere, Milano) che proietta la sua ombra sulle pareti della sala – Alik Cavaliere, Albero per Adriana, 1970. Collezione privata, Milano.


Elena Pontiggia, curatrice della mostra Alik Cavaliere. L’universo verde allestita a Palazzo Reale, Milano (fino al 9 settembre 2018), ha sottolineato in diversi suoi studi il fatto che “un’aspirazione all’infinito anima la sua ricerca”. A prima vista la mostra sembra portare l’attenzione su un Alik lucreziano in veste green, che nel 1962 trasforma l’area incolta intorno al suo studio in via Bocconi 15 a Milano in una fattoria domestica con animali, fiori e alberi da frutto, ma a un esame più attento emerge anche un Alik romantico, che vede la natura come un ciclo senza fine di nascita e di morte, vale a dire come un infinito.

In Romantic Conceptualism (BAWAG Foundation, Vienna 2007) Jörg Heiser sostiene che il romantico riaffiora nella Conceptual Art come ineffabilità, frammentarietà, emotività e sentimento. Tra questi aspetti del romantico si potrebbe senz’altro aggiungere anche la tensione verso l'illimitato, verso ciò che non ha fine e perciò è infinito. Gli studi di Heiser sull’Arte Concettuale riscoprono in chiave romantica il carattere di indeterminatezza che l’impossibilità di raggiungere il minumum trasferì al concetto. Consiglio la lettura del capitolo 9 del saggio Infrasottile. L’arte contemporanea ai limiti (Postmedia, Milano 2018) nel quale Elio Grazioli riassume la questione nei suoi tratti essenziali. 

 

Vincenzo Ferrari e Alik Cavaliere, Attraversare il tempo, 1978. Acquaforte. Archivio Galleria Milano – Veduta della retrospettiva dedicata all’opera di Vincenzo Ferrari allestita presso la Sala Ristorante Università Bocconi. Forse Vincenzo avrebbe apprezzato l’accostamento della sua opera Verità del 1971 (Archivio Galleria Milano) ai tavoli apparecchiati per il pranzo.


Alik, un artista concettuale? Bisogna ricordare che il suo sodalizio con l’artista Vincenzo Ferrari si tradusse in opere in cui l’aspetto concettuale era reso evidente per l’aderenza a quella che già si poteva definire la maniera del concettuale. Mi riferisco per esempio all’opera grafica Progetto per attraversare il tempo del 1978 esposta nella retrospettiva dedicata a Vincenzo Ferrari presso l’Università Bocconi – Sala ristorante (fino al 14 settembre), nella quale predomina la “pittura a caratteri mobili” combinatoria e permutativa di Vincenzo piuttosto che la “partecipazione alla realtà” sentita da Alik come il “centro del problema” dell’arte (Alik Cavaliere, Taccuini, 6.7.1964). 

Carla Pellegrini, che ha lavorato con entrambi gli artisti e organizzato alcune loro mostre, mi racconta che Alik e Vincenzo passavano interi giorni e notti a chiacchierare di arte, politica e società. Un concettuale di maniera si ravvisa anche in altre opere di Alik, ma attraverso la lettura romantica dell’arte concettuale di Heiser, nei frutti e nei corpi umani da lui immortalati nel bronzo o nella resina prima di marcire, prima di decomporsi per poi rinascere in un ciclo senza fine, potrebbe benissimo rivelarsi un concettuale per nulla di maniera, anzi originale, che spiegherebbe l’apparente incongruenza di quello che insegnava nella sua aula di scultura a Brera: la tecnica della ceroplastica e della discussione intorno a un tavolo. 

 

Piero Marabelli davanti all’opera di Alik Cavaliere Susi e l’albero del 1969. Archivio Cavaliere, Milano – Particolare dell’opera di Alik Cavaliere Albero per Adriana, 1970. Collezione privata, Milano.


La mostra a Palazzo Reale si estende presso altri musei, gallerie e fondazioni: Museo del Novecento, Palazzo Litta, Gallerie d’Italia, Università Bocconi e Centro Artistico Alik Cavaliere. In quest’ultimo vengo accolto da Piero Marabelli, operaio meccanico in pensione, negli anni Sessanta addetto alla riparazione di motori e differenziali presso l’officina della Yomo. Mi racconta che la sorella di Alik, proprietaria dell’azienda prima che venisse acquistata da Granarolo, un giorno del 1964 lo incaricò di portare una bombola di gas allo studio in via Bocconi. “Appena entrato sono rimasto colpito da un albero ai cui rami era appesa una mela. L’ho toccata piano piano credendola vera, ma non del tutto. Poi mi sono reso conto che era di bronzo”. Quel “credendola vera, ma non del tutto”  mi ha fatto pensare al naturalismo della scultura ellenistica nella quale la realtà conserva i caratteri della finzione. Nell’arte ellenistica, in particolare nel cosiddetto barocco antico dello stile pergameno, le figure retoriche si mescolano alla resa del dettaglio naturalistico con un virtuosismo che infonde alla retorica della narrazione plastica una carica patetica. Alik è sfaccettato: ellenistico, pop, liberty, concettuale, informale, surrealista, metafisico, realista esistenziale. “Mi racconto per frammenti” dichiara in un programma di Antonia Mulas trasmesso da RaiTre: Alik Cavaliere. La scultura e i luoghi.

In un appunto del 1961 Alik riflette sulla narrazione che può trovare espressione attraverso medium diversi, nella scrittura così come nella scultura: “Pensavo oggi allo scrivere. Finora ho solo scritto sculture… ho scritto un fatto e un personaggio. Oggi come scultore voglio giungere al racconto di più motivi” (Lorena Giuranna, Scrivere e vivere. La narrazione di Alik, in Alik Cavaliere, Taccuini 1960-1969, Abscondita, Milano 2015, p.180). Alik ha frequentato anche la facoltà di Lettere classiche all’Università Statale assecondando il suo interesse per gli studi umanistici, attratto sia dall’arte che dalla letteratura come Luciano di Samosata secoli addietro. Nell’Elogio della mosca, l’autore ellenistico descrive il petto dell’insetto con una sensibilità e una competenza da scultore. Incerto se dedicarsi alla scultura o all’eloquenza, Luciano di Samosata si decise infine per la seconda portando nella sua scrittura i modi della scultura, ma questi erano sin dall’inizio nella letteratura. Non è in fondo il naturalismo dell’ellenismo, che ravvisiamo nell’opera sfaccettata di Alik, un naturalismo nel quale la realtà conserva i caratteri della finzione letteraria prima ancora che plastica? Non è forse il suo un racconto continuo come quello ellenistico dell’altare di Pergamo? 

Negli anni in cui le Sentences on Conceptual Art esercitavano ancora a distanza di tempo una certa influenza, Alik mi ha insegnato l’arte di scolpire concetti attraverso la parola (la stessa arte alla quale qui ricorro per ricordarne l’opera di artista e di docente) insieme all’arte della ceroplastica ellenistica. Così ha fatto perché non poteva separarle.

 

La mostra Alik Cavaliere. L’universo verde, a cura di Elena Pontiggia, è allestita a Palazzo Reale, Milano, fino al 9 settembre 2018 

La mostra si estende anche ad altre sedi: Museo del Novecento, Palazzo Litta, Gallerie d'Italia - Piazza Scala, Università Bocconi, Centro Artistico Alik Cavaliere

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Palazzo Reale, Milano
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Il salto di scala da Rodin alla cultura Pop

$
0
0

 

È una delle esclamazioni dei visitatori alla vista del manichino Bonaveri, collocato nel cortile di Palazzo Pucci durante la mostra Bonaveri A fan of Pucci. La mostra è articolata in un percorso espositivo che comprende abiti, accessori e installazioni che legano la casa di moda Emilio Pucci a Bonaveri Artistic Mannequins. Il manichino Bonaveri alto 6 metri ha un aspetto Pop per il salto di scala rispetto al contesto e per i disegni della casa di moda trasferiti in scala ciclopica sui volumi del manichino. Visito le sale al primo piano, assisto anche ai laboratori sartoriali e decorativi allestiti al piano terra, ma l’impressione lasciata del gigante non mi abbandona e domina tutte le altre. Il salto di scala grafico e plastico messo in scena a Palazzo Pucci dal direttore creativo Emma Davidge per sorprendere gli addetti ai lavori non è solo un prodotto della cultura Pop.

 

Bonaveri - A fan of Pucci, veduta dell’installazione nel cortile di Palazzo Pucci a Firenze.

 

Bonaveri - A fan of Pucci, veduta dell’installazione nella sala grande al primo piano di Palazzo Pucci a Firenze.


Ho avuto modo di vedere le foto del manichino mentre l’artista Tiziano Colombo lo stava dipingendo aiutato da una proiezione dei motivi grafici sui volumi scomposti del colosso. Questi passaggi dal bidimensionale al tridimensionale e da un codice visivo all’altro, accompagnati da scomposizioni e ricomposizioni della forma, mi hanno ricordato la tecnica utilizzata da Auguste Rodin. Il celebre scultore trasferiva alle sue sculture le modifiche ottenute manipolando la loro riproduzione fotografica. I suoi assemblaggi in gesso realizzati attraverso sorprendenti salti di scala, sono un esempio del dialogo tra visione plastica e visione grafica, all’insegna delle tecniche di taglio, prelievo, riposizionamento e montaggio delle parti. 

 

Auguste Rodin, Calco della mano di Auguste Rodin che tiene un torso,1917. Gesso. Museo Rodin, Meudon.


Rodin non è il solo artista a concepire la scultura in rapporto alla manipolazione dell’immagine grafica e fotografica. Lo è stato anche Medardo Rosso che conosceva e frequentava Rodin. In tempi successivi anche Adolfo Wildt. 

Studiando la scultura antica sulla base delle riproduzioni fotografiche in circolazione ai suoi tempi, Wildt si era immaginato una forte presenza del taglio, talvolta associato al riposizionamento delle parti ritagliate, che tradurrà nella sua opera. È il caso della scultura I Parlatori del 1907 composta riposizionando con una rotazione oraria di 90 gradi una figura ritagliata da un gruppo scultoreo successivamente andato distrutto. Nel catalogo della mostra Wildt. L’anima e le forme, Paola Mola scrive: “le immagini sui libri o sulle cartoline, scontornate su fondo nero, apparivano estraniate dal contesto, e in assenza del colore tutte in qualche modo simili e componibili tra loro. In più la fotografia riprodotta sui libri esaltava il frammento […] nelle tavole sui libri, si trovavano giustapposti senza unità di proporzione, teste o mani isolate e figure intere, così che un senso di enorme e gigantesco usciva immaginoso nella pagina” (Wildt. L’anima e le forme, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, Milano 2012, p. 22).

 

Fotografia ai Sali d’argento di Antonio Paoletti o di Giovanni Scheiwiller dell’opera Sant’Ambrogio di Adolfo Wildt in corso di lavorazione, 1925. Archivio privato - Fotografia del manichino Bonaveri in corso d’opera con l’artista che l’ha dipinto.


Alcune fotografie scattate da Antonio Paoletti o più probabilmente da Giovanni Scheiwiller nel 1925, mostrano il Sant’Ambrogio di Wildt in corso d’opera. Quando ho visto le fotografie del manichino Bonaveri in lavorazione, la mia mente non è andata direttamente ai salti di scala di Rodin ma alle fotografie di Paoletti/Scheiwiller. Da lì ai tagli e ai riposizionamenti di Wildt e poi, solo dopo, agli assemblaggi di Rodin. Il pensiero per immagini non è lineare, procede anch’esso per spostamenti e improvvisi salti di scala, che sono penetrati a fondo nella nostra cultura visiva e nell’arte contemporanea.

 

Damien Hirst, Demon with Bowl (Treasures from the Wreck of the Unbelievable), 2017. Resina dipinta. Atrio di Palazzo Grassi, Venezia.


Non mi riferisco tanto al gigante collocato da Damien Hirst nell’atrio di Palazzo Grassi a Venezia l’estate scorsa, quanto ai video di Uri Aran nei quali l’artista divide le unità espressive in blocchi per poi ricomporle spostando l’asse narrativo, una tecnica che mostra impressionanti analogie con le tecniche di cui si è detto sopra. Si potrebbe dire che la sua visione dell’immagine in movimento, soprattutto cinematografica, si sia formata attraverso le tecniche scultoree di taglio, ricollocazione e montaggio delle parti accompagnate da rotture di simmetria e salti di scala. Agli scarti nelle grandezze spaziali e temporali Ruggero Pierantoni ha dedicato il saggio Salto di scala. Grandezze, misure, biografie delle immagini, Bollati Boringhieri, Torino 2012.

Il salto di scala è l’aspetto della mostra a Palazzo Pucci che più colpisce. Qui, a Firenze, tra le forme proporzionate del Rinascimento, il contrasto con il gigante Bonaveri è esplosivo, dirompente. Le due visioni sono tra loro incompatibili. Infatti lo scultore Medardo Rosso, che attraverso le operazioni di taglio, riposizionamento e “riscrittura” grafica dell’immagine fotografica della scultura aveva tra i primi conquistato questa visione, ogni volta che si trovava a passare in treno per Firenze accostava le tendine del finestrino per non vedere la città. L’aneddoto mi è stato raccontato dalla storica dell’arte Paola Mola, la maggiore esperta di Rosso e peraltro anche di Wildt. Da allora il finestrino è rimasto oscurato. Il Rinascimento è diventato un fatto storico-artistico capitalizzato e amministrato come bene. Quindi ben venga il gigante che involontariamente pone il problema della trasformazione della Rinascita del mondo antico greco e romano in un bene di consumo culturale e di Firenze in un parco a tema.  

La Rinascita del mondo antico teorizzata dagli Umanisti e dai letterati del Quattrocento, passata poi alla storiografia con il termine Rinascimento, diede impulso a un movimento culturale nel quale l’uomo divenne “modo et misura di tutte le cose”. Usiamo dire “a misura d’uomo” spesso dimenticando che questa espressione deriva dall’idea rinascimentale che l’uomo sia la misura di tutte le cose, e che questa misura sia riferita alla regolarità e alla simmetria che gli Umanisti ravvisarono nelle opere del mondo antico greco e romano. Una concezione lontana anni luce dalle giustapposizioni senza unità di proporzione che caratterizzano la nostra cultura visiva.

Il senso di ordine, misura, proporzione, equilibrio e armonia tra le parti che caratterizza il primo Rinascimento trovò esemplare espressione architettonica nella Sagrestia Vecchia progettata da Filippo Brunelleschi, il primo esempio di artista ideale del Rinascimento, e altrettanto esemplare espressione politica nel progetto amministrativo di Federico da Montefeltro duca di Urbino. Questa concezione umanistica della politica, come dell’arte, della moda e dello stile non è più la nostra e proprio qui, a Palazzo Pucci, lo si avverte chiaramente. Il contrasto tra il gigante Bonaveri e la Firenze rinascimentale impone una visita alla Sagrestia Vecchia che si trova poco lontano.

 

Questa magnifica opera di Brunelleschi costituisce il prototipo architettonico della forma rinascimentale nella quale ogni elemento che la compone è in una relazione armonica con l’altro. Una forma simmetrica, proporzionata pacifica e serena, quasi come quella della gemella Sagrestia Nuova di Michelangelo Buonarroti turbata dai profili ellittici dei “cassoni” che conservano le spoglie di Giuliano e Lorenzo de’ Medici. Mi sposto dalla Sagrestia Vecchia a quella Nuova pagando un secondo biglietto. Nella nicchia sopra il suo sarcofago Lorenzo de’ Medici, divenuto duca di Urbino alcuni decenni dopo la morte di Federico, medita sul tempo che separa lo spazio chiaro e sereno della Rinascita da quello inquieto nel quale già si trova. Non è ancora quello dei tagli, dei montaggi e dei salti di scala senza unità di proporzione, ma ormai il primo Rinascimento è alle spalle. 

Esco dalla Sagrestia Nuova passando dal bookshop, dove le bellezze di Firenze riprodotte in scala ridotta si possono acquistare a pochi euro, e penso al gigante Bonaveri che certamente è costato molto di più. La scala economica, dimensionale e sociale è diversa: l’ingresso alla Sagrestia Nuova costa 8 euro, quello a Palazzo Pucci è solo su invito.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
WOW!
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Mostre tra Parigi e Berlino

$
0
0

A Parigi, nelle continue minacce di attentati, i musei sono guardati a vista. Dappertutto, compare l’etichetta minacciosa del servizio Vigipirate, che da sistema antitaccheggio, è divenuto deterrente antiterrorismo. La stagione delle mostre parigine guarda a Oriente, dal mondo arabo alla Cina, al Giappone, come proponendo un’affascinante ricognizione nei nostri concetti di esotismo, così come essi stanno mutando nel mondo in cui la Cina ha sempre maggiore potere economico e politico, e gli emiri del Golfo finanziano esposizioni in tutto il mondo intorno all’eredità islamica nei suoi molteplici aspetti. Al Musée Maillol compare Foujita, magnifico pittore di eroticissimi nudi, e di non meno allusivi gatti, di tutte le taglie e dimensioni, che sono in braccio all’artista.

 

Noto per il suo comportamento eccentrico e trasgressivo (a certe sue gesta allude il personaggio di Bertram Stone nel film The Moderns di Alan Rudolph, dove il ruolo era interpretato da un magnetico John Lone), si incide come uno dei protagonisti delle années folles, anche per il notevole impegno profuso per definire un personaggio eccentrico, come dichiarano i magnifici ritratti fotografici firmati da Istvan Kertesz. Abile a modulare il proprio linguaggio espressivo con le necessità decorative dell’Art Dèco, venne catturato dallo spleen, con la sua compagna decise perciò di trasferirsi in Sud America, ed alla fine tornò in Giappone, dove il governo lo usò per tele di propaganda, sulla gloria dell’esercito giapponese, che non sono presenti in mostra. In bicicletta andando verso il Quai Branly, i soldati si moltiplicano e specialmente quando si arriva in vista della Torre Eiffel, presidiatissima, mentre lo chef Ducasse cerca il sostegno del suo amico Macron, per tenere la prestigiosa location, che spregiosamente è stata data a un marchio non stellato.

 

 

Tra gli alti lai del cuciniere, si accede alla notevolissima esposizione Enfers et Fantộmes d’Asie, memorabile esposizione su inferni e spettri, tra Buddismo e altre religioni. Spettri inquieti, demoni infernali, giudici dell’averno burocratici e maligni, vanno in scena nel cinema dei demoni, dove va in onda un estratto del cattivissimo Narok (ossia inferno) dei tre cineasti thai Jitnukul, Praditsarn e Thamnitayakul. Al piano di sopra si passa a vicende di blues con una mostra biografica dedicata al paradossale destino di Paul Robeson, cantante blues, attore, comunista dichiarato, che a lungo ebbe notevoli problemi nel suo paese natale, gli Stati Uniti.

 

Il filo orientale continua al vicino Musée Guimet, dove Mata Hari, per il titillamento dell’élite parigina iniziò la sua strepitosa carriera, dove è in scena Le monde vu d’Asie, capziosa rassegna di immagini (e in specie di magnifiche carte geografiche), in cui si assiste al mondo visto dall’Asia, tra pregiudizi, stereotipi e folgoranti invenzioni. Altrettanto notevole la mostra all’Institut du Monde Arabe dedicata al Canale di Suez, di cui si indagano nelle mille pieghe l’impatto nella vita egiziana ed europea, con non pochi legami con l’Italia, perfettamente incarnati dalla commissione a Giuseppe Verdi per Aida, che clamorosamente aprì la sua fortunata carriera al Teatro Khediviale del Cairo nel 1871: soldi e sogni si sono saldamente intrecciati nella creazione di questa colossale opera, che è costata molte vite umane. Poi, arrivati al crepuscolo, resta solo di prendere la bicicletta, per andare, tra vari controlli alle Bassin de la Villette, dove si può giocare a Seurat, facendo il bagno nelle grandi piscine a bordo Senna. Poi, di controllo in controllo, è il momento di andare a Berlino, dove la tappa principale è la notevole Wanderlust, alla Alte Pinakothek. Una riflessione polifonica sulla Wanderung polifonica, dove nel cuore del dispositivo è una presenza fortissima di Caspar David Friedrich, senza scordare la presenza inquietante di Heinz Thoma.

 

Una ricognizione articolata in area tedesco-francese, con alcune presenze importanti dal mondo anglosassone.  Come una scena dell’acclamata serie Babylon Berlin, si impone all’attenzione Jeanne Mammen alla Berlinische Galerie, maestra di un realismo acido negli anni ’20 berlinesi, poi censuratissima dai nazisti e mai tornata dopo la guerra alla stessa felicità del ritratto di Valeska Gert, regina del cabaret di Weimar poi immortalata come guru ermafrodito da Federico Fellini in Giulietta degli spiriti. Infine, un altro paio di pedalate, e per concludere, prima del consueto low cost da una affollatissimo aeroporto di Schonefeld, l’incantevole Oh, yeah!, al Museo delle Poste e Telecomunicazioni, ossia una immersione nel pop alla tedesca, dagli anni ’20 ad oggi, con video, musiche e racconti.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Cosa vedere
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Man Ray. Wonderful visions

$
0
0

Da sotto in su. Lo sguardo è proprio questo. La fotografia non mente: due bellissime gambe, una ha una calza e l’altra no, quasi con noncurante trascuratezza. La donna è sdraiata a terra con i piedi verso l’alto e li appoggia a una parete nera, il suo sguardo non si dirige verso l’obiettivo del fotografo e nemmeno verso di noi, ma in direzione del suo alluce destro, la punta estrema del suo corpo. Non si vede nemmeno il volto. È nascosto, misterioso, perso in chissà quali pensieri. Non esiste che in se stessa, solo per sé. Si direbbe un momento di estrema, compiaciuta solitudine.


Lo sguardo del fotografo non è dinnanzi alla modella, non si contrappongono, ma sono sulla stessa linea. Coincidono. Non si guardano, ma guardano entrambi lo stesso punto. Sembra che Man Ray, l’uomo raggio, stia fotografando l’istante prima dello scatto, quello dove l’aspetto della creazione non ha ancora una forma, ma di lì a poco l’acquisterà. Forse è il momento in cui la libertà è al suo apice, in cui tutto può ancora accadere. La modella non ha uno sguardo, o meglio, noi non lo possiamo vedere. Tutto deve essere inventato. La seduzione risiede in questo istante di pura distanza e di estrema vicinanza, come avviene nel mito di Narciso. Le immagini di Man Ray sono desideri. Idee impalpabili, come l’allevamento di polvere di Marcel Duchamp che egli ha fotografato: la polvere che si muove nell’aria mostra la libertà di una forma che si esprime nelle infinite possibilità combinatorie date dal caso. Cos’è la forma di un desiderio se non la sua mancanza? Desiderare e fotografare hanno la stessa natura: cercano di dare forma a ciò che è impossibile da fissare sia sul fotogramma che nella vita. Non è un caso che l’immagine delle due gambe elevate verso l’alto sia destinata a una pubblicità, luogo per antonomasia in cui si alimentano i desideri, come suggerisce il titolo Publicité pour les bas.

 

Man Ray, Publicité pour les bas, 1930 circa.


In questa immagine si materializza un’utopia, un sogno, la totale, libera, irrealizzabile autosufficienza, l’istante vuoto ovvero la forma stessa del desiderio: il buio prima della luce dell’immagine. La modella sta guardando il suo alluce, il suo sguardo si chiude in sé. “Desideri del soggetto, espressi da un’ascensione alata degli oggetti del desiderio”, direbbe Georges Bataille. Questo alluce rivolto verso l’alto come estrema propaggine di sé, non è poi così distante da quell’alluce evocato in Documents, immagine e feticcio in cui l’alto e il basso perdono i loro connotati. È la punta di uno spazio insolito, che confonde la nostra percezione, il cui movimento ricorda la fantasia ascensionale che Roland Barthes evocava a proposito della Tour Eiffel, euforica, poiché aiuta l’uomo a “vivere, a sognare, associandosi all’immagine della più felice delle grandi funzioni psicologiche, quella della respirazione”. Il desiderio non è forse un affanno: euforia, entropia e perdita di ogni punto di riferimento? 

 

È con questa immagine che si potrebbe guardare la mostra Wonderful visions, dedicata a Man Ray con la cura di Elio Grazioli. La si dovrebbe percorrere da sotto in su, da un punto di vista insolito, che lascia spazio a un capovolgimento, per dirla nuovamente con Bataille, non tanto con “i piedi nel fango” e la testa “quasi nella luce”, ma in un continuo cambio di prospettive e di spazi.

 

Più che i soggetti sono gli espedienti visivi elaborati del fotografo il vero punctum del suo lavoro. La solarizzazione non è solo una tecnica, ma un vero stravolgimento semantico: in sede di stampa vengono alleggerite le aree scure e scurite quelle chiare. Il risultato è un’immagine argentea ed eterea, il soggetto emerge dalla foto come una creatura fantastica: i ritratti solarizzati di Giorgio De Chirico, dello stesso Man Ray e di André Breton, paiono i riflessi provenienti da un’altra realtà: distanti, quasi intoccabili, inconcepibili anche allo sguardo. Qui fotografare significa spingersi oltre ciò che si vede, significa trovare l’invisibile nel visibile. Vuol dire entrare nell’immagine stessa, far parte della sua materia costitutiva. L’uomo raggio, che ha solarizzato anche se stesso, è riuscito a insinuarsi con la luce del suo sguardo nei profili delle cose, ne ha fissato sul fotogramma l’essenza nascosta, il suo stesso desiderio, “allo stesso modo di certe improvvise condensazioni atmosferiche, il cui effetto è di rendere conduttrici delle regioni che non lo erano e di produrre i lampi”, direbbe l’amico Breton. 

 

Ma non è tutto. Se la solarizzazione prevede un rivolgimento della nostra percezione, attraverso lo sguardo del fotografo, nei rayogrammi egli decide di scomparire per lasciare il posto alla luce. Queste immagini derivano dall’atto di appoggiare direttamente gli oggetti sulla lastra, emergono dalla loro materia, nascono dalla luce senza la fotocamera. Si trasformano in oggetti a funzionamento simbolico, o meglio paiono altrettanti “object trouvé”, direttamente estratti dalla luce. Sono simboli del vuoto: il fotografo cessa di esistere e forse anche la fotografia intesa come manufatto prodotto dall’uomo. La scena è orfana di un autore-creatore e chi osserva le immagini è disorientato, ma allo stesso tempo indotto a riappropriarsi di queste forme in bilico tra epifania e dissoluzione. Cosa significa creare: separare la materia, dare luce o lasciare che la luce stessa crei ogni oggetto? Chi è il vero artefice? Sfere, riflessi, ombre costituiscono la materia dei vari rayograph, che conservano l’embrione dell’indeterminatezza e delle sue possibili forme a venire, come una presenza spettrale o fantasmatica, di ciò che c’è senza davvero esserci. Esattamente come in una fotografia.

 

Man Ray, Dora Maar (Composition à la petite main), 1936

 

Tutto questo non avviene solo nei rayogrammi. In generale, nelle immagini di Man Ray, ciò che sta dinnanzi ai nostri occhi sono riflessi, ombre, sogni, meraviglie. Hanno le qualità di ciò che Breton definisce “bellezza convulsiva”, ovvero “magica-circostanziale”, “erotica-velata”, “esplodente-stabile”, una bellezza in perenne movimento e senza un senso univoco, “che lega l’oggetto considerato in movimento e nello stato di quiete”, scrive nell’Amour fou, sintetizzando con queste parole un programma estetico che riguarda anche i rapporti umani, e ogni genere di incontro capace di sprigionare la “scintilla poetica”. Una bellezza del tutto insolita, considerata da Breton, e dallo stesso Man Ray, “esclusivamente secondo fini passionali”, capace di generare “un turbamento fisico caratterizzato dalla sensazione di un alito di vento alle tempie capace di provocare un vero brivido”. 

E nelle foto di Man Ray questo brivido non si alimenta solo della bellezza dei corpi femminili da lui fotografati, ma soprattutto di ciò che di incongruo l’obiettivo riesce a produrre attraverso la materia di quei corpi. Le immagini che più ci interrogano sono quelle in cui niente è come appare. Dove si dirige lo sguardo di Lee Miller stesa a terra con gli occhi chiusi e i capelli sospesi? Dentro di sé? Cosa si cela dietro al fitto intreccio di linee che costituisce il volto della moglie Juliet Browner? Qual è il mistero che si sprigiona dallo sguardo solarizzato di Dora Maar? Enigmi visivi.

 

E quindi cosa ci insegna oggi lo sguardo di Man Ray? Non è facile rispondere. Forse ci mostra come si può rappresentare l’indice di una rottura, di una crisi, un’apertura che mostra la rappresentazione nel suo punto critico, ovvero là dove si manifesta il rifiuto della semplice imitazione.

 

E poiché non si è avverata la profezia di Wim Wenders, ovvero che la proliferazione delle immagini (digitali), tutte bellissime e straordinarie, simili al mondo della pubblicità, avrebbero finito per allontanarci dal mondo della verità, avvolgendoci con il loro potere seduttivo in una sterminata orgia visiva, che finirà per renderci ciechi (Fred Ritchin lo dimostra con molti esempi, nel suo saggio Dopo la fotografia), soffermarsi oggi sulle foto di Man Ray, significa non limitarsi ad essere puri consumatori di immagini. 

 

Man Ray, Rayograph, 1923


La fotografia può davvero divenire un “oggetto d’affezione”, che dovrebbe “dilettare, disturbare, disorientare o far riflettere”, poiché, suggerisce Elio Grazioli nell’introduzione al catalogo della mostra, “l’affezione è ciò che crea il mistero, è il sentimento segreto che resta enigmatico al di là dello svelamento simbolico, è una dimensione privata in più di cui si carica l’oggetto, fotografia compresa, e lo sguardo si fa incantato”. L’incanto è il desiderio di soffermarsi su ciò che appare più lontano dall’essere compreso: l’ambivalenza, le polarità, l’“enfasi antitetica” di una fotografia, ovvero la propensione a inglobare distorsioni e rovesciamenti semantici. Man Ray lo asseriva con ironia: “Dipingo quello che non può essere fotografato. Fotografo quello che non voglio dipingere. Dipingo l’invisibile. Fotografo il visibile”. 

 

Fotografare e rapportarsi alle immagini significa davvero celebrare la libertà che risiede in ogni nuova acquisizione di senso. Se il timore è che le immagini vincano perché troppo disponibili a trasformarsi in feticci e tali da distogliere lo sguardo da una realtà che invece si impone ai nostri sguardi in tutta la sua inafferrabile complessità, l’occhio, come il medium fotografico, è divenuto l’interminabile estensione artificiale della nostra sensorialità naturale, in grado di incarnare le due facce opposte dell’attualità: quella dei sistemi di controllo e quella della libertà di vedere dappertutto. Una libertà che se da un lato ha inevitabilmente esasperato l’incontenibile pulsione voyeuristica connessa alle potenzialità meccaniche dell’obiettivo fotografico, alla sua presunta capacità di rappresentare la flagranza del reale (e di condividerla online), dall’altro può rappresentare al tempo stesso, un antidoto allo stesso voyeurismo, impedendone la normalizzazione attraverso l’individuazione di elementi sovversivi, che interrompono il flusso illimitato di immagini in cui siamo immersi. Cos’è che impedisce al nostro sguardo di andare oltre ciò che guardiamo? Cosa ci costringe a fermarci dinnanzi a un’immagine? 

 

Se pensiamo a Man Ray si tratta della libertà di sperimentare, o meglio di trasformare l’esperienza in immagine, soprattutto, per paradosso, quando egli riesce a raffigurare ciò che non ci aspettiamo di trovare o vedere nell’immagine. Così scrive nel suo articolo “L’epoca della luce” pubblicato sulla rivista Minotaure nel 1933: “È nello spirito di un’esperienza, e non di un esperimento, che vengono presentate le immagini autobiografiche che seguono. Colte in momenti di distacco visivo, durante periodi di contatto emozionale, queste immagini sono residui ossidati, fissati dalla luce e da elementi chimici, di organismi viventi. Nessuna espressione plastica può mai essere qualcosa di più del residuo di un’esperienza. Il riconoscimento di un’immagine tragicamente sopravvissuta a un’esperienza, che ricorda più o meno nitidamente l’evento come le ceneri intatte di un oggetto consumato dalle fiamme, il riconoscimento di questo oggetto così scarsamente rappresentativo e così fragile, e la sua semplice identificazione da parte dell’osservatore che ha avuto un’analoga esperienza personale, vanificano ogni classificazione psicoanalitica, ogni assimilazione in un sistema decorativo arbitrario”.

Lo diceva a modo suo anche Breton: “Per chi sa condurre in porto la barca fotografica in mezzo all’incomprensibile mulinello delle immagini, c’è la vita da afferrare come un film da girare al contrario”. Forse non è così difficile.

 

Mostra: Wonderful visions, a cura di Elio Grazioli. Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, S. Gimignano, 8 aprile – 7 ottobre 2018.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, S. Gimignano
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

La mina di Matticchio

$
0
0

Franco Matticchio. La miniera di polvere è il titolo che Giovanna Durì ha scelto per la personale dell’artista che si tiene fino al 14 ottobre presso la Fondazione Benetton di Treviso. La curatrice, che i lettori di Doppiozero conoscono per i suoi disegni al tratto dei passeggeri delle ferrovie del Nord Est, ha utilizzato il termine miniera perché, oltre a rimandare a un racconto di Matticchio, allude sia alla mina, cioè alla grafite della matita, sia allo “sminamento” necessario per far conoscere l’autore a una cerchia più vasta di quella che già lo apprezza in Italia e nel mondo. Matticchio, con quella sua aria da eterno ragazzo, ha più di quarant’anni di lavoro alle spalle: il ‘Corriere della Sera’ dal 1979, il bel ‘Linus’ degli anni Ottanta, ‘Linea d’Ombra’ che, attraverso Goffredo Fofi, fece conoscere una generazione di grandi fumettisti (Mattotti, Giandelli, Toccafondo, Scarabottolo, Negrin), ‘L’Indice’, fino alla copertina del ‘New Yorker’.

 

Negli ultimi anni i non molti lettori che si soffermano sulle immagini possono trovare le ‘Matticchiate’ ogni domenica sul supplemento culturale del Sole 24 ore, mentre il lavoro più narrativo del fumettista è stato raccolto da Rizzoli Lizard in due grossi tomi: Jones e altri sogni e Ahi e altri guai. Il signor Jones non è un gatto, anche se molto gli somiglia, è comunque un solitario dotato di uno humour impassibile alla Buster Keaton; al massimo scambia qualche parola con l’amico Dog. Dai racconti trapela una metafisica del quotidiano che avviene in ambienti borghesi, all’apparenza rassicuranti, ed è colta attraverso la dilatazione dell’istante. Matticchio è un narratore beckettiano, che continua a raccontare storie in un’epoca in cui venne decretata la morte del romanzo (rinato poi in forma di feuilleton). Può essere cattivissimo, come nella vera storia di Cappuccetto rosso (capolavoro paratattico), ma fatica a nascondere il romanticismo del timido a cui piacciono le donne con le gambe lunghe ma non sa come attaccare bottone. Il signor Ahi ha per faccia una pupilla ed è ancora più disancorato dalla realtà, anzi vorrebbe proprio uscirne.  

 

Gatti.


In una vignetta Matticchio scrive: “Il critico non conosce i propri limiti, l’artista sì”. La Durì, pur essendo una profonda conoscitrice della storia dell’illustrazione e del fumetto, si pone a metà strada, e organizza il materiale come una quadreria, disponendo le opere una vicina all’altra, in modo che i confronti siano evidenti e che, aldilà del virtuosismo mai fine a sé stesso in cui si rende omaggio ad autori tra loro lontani come Jacovitti ed Edward Gorey, i diversi filoni dell’artista risaltino immediatamente. I critici migliori di Matticchio sono probabilmente i colleghi. Ha scritto Gabriella Giandelli, provando a definirne il ‘realismo magico’: “Per chi disegna esiste una linea sottile e fondamentale dove la realtà poco alla volta si trasforma e s’imbeve del nostro sogno, del desiderio che abbiamo di cambiarla, di renderla più vicina a noi e renderla carica di senso”. O di non senso, che ne è il rovesciamento. Senza senso è il titolo di un libro di Matticchio che, tra le altre cose, è un campione di acrobazie. Lorenzo Mattotti, dopo averlo accolto nella famiglia dei Matt (c’è anche Mattioli), afferma che: “non scrive con le parole ma scrive col disegno. Racconta con le immagini come se scrivesse”. In una tavola di Matticchio convivono un’infinità di storie, di storie in potenza, dove gli animali si antropizzano e gli uomini potrebbero prendere le fattezze di animali, senza per questo diventare bestie. Guido Scarabottolo ne ha offerto le istruzioni per l’uso

 

 

Passaggio segreto.

 

Il cognome del disegnatore sollecita giochi di parole. Il surrealismo quotidiano, un umorismo che può essere lieve ma anche puntuto, sono la sua cifra, anche se poi il mondo in grigio di Jones inquieta non poco (Edgar Allan Poe). Contagiato dai giochi di parole e per libere associazioni – il nucleo creativo del mondo di Matticchio – mi torna in mente il titolo di un film degli anni Cinquanta: L’uomo dal vestito grigio, con Gregory Peck. Mi pare che nel technicolor di quella Hollywood risieda un deposito di immagini che il disegnatore trasporta, scompaginandolo, nelle due dimensioni. Così in una tavola ci sentiamo contemporaneamente estranei e a casa nostra. Insomma, siamo da capo al sogno e ad Alice che attraversa lo specchio, ovvero all’atto di nascita delle avanguardie.

Sia lode a Matticchio e alla sua mina inesauribile e ben temperata!

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Fondazione Benetton, Treviso
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

A casa di Monet

$
0
0

Domenica mattina a Parigi le strade sono deserte nei dintorni della stazione Saint-Lazare. Ad attenderci dentro c’è Monet, che la stazione l’ha dipinta nel 1877 in quattro celebri quadri. Impossibile non pensare subito agli effetti di colore che la sua pittura ha colto quando entriamo. Dalla copertura sopra i binari la luce trapassa con dolcezza andando a toccare la solidità un po’ brutale delle travi in ferro e dei bulloni che la tengono su. Monet è già qui con noi, lui che, facendo della tecnica – non dei passanti o dei viaggiatori – il vero e unico soggetto del quadro, ne ha colto le sembianze più profonde e più dense unicamente in forza della sua visione. 

 

 

Ed eccola qua la domanda che questa volta non smetterà di imporsi durante tutto il viaggio e durante la visita: la pittura è la riproduzione della realtà, come abitualmente si crede, o non è forse vero che è quella che noi chiamiamo realtà a dipendere dalla pittura e, più ampiamente, dall’arte e dalle forme della sua riproducibilità? Esiste oggi per noi la stazione di Parigi Saint-Lazare senza passare da Monet? Queste domande pongono in dubbio uno dei capisaldi del nostro modo di guardare il mondo: la distinzione tra originale e copia. Ha ancora senso parlare di copia dove tutto è già copia? E l’originale esiste ancora se noi non lo conosciamo che in forza delle copie a cui ha dato vita? Se anche la stazione viene storicamente prima del quadro, noi potremmo vederla e addirittura viverla come tale se non ci fosse il quadro a testimoniarne in immagine? Vista da questo punto di vista, la stazione non è in un certo senso che la copia dei quadri dipinti da Monet, uno per uno, in una mattina di fine Ottocento.

 

 

Da Saint-Lazare saliamo sul treno che in meno di un’ora ci porta a Vernon. Da lì in un autobus stipato di gente raggiungiamo Giverny. È presto, ma lungo la strada principale del villaggio si è già creata una lunghissima coda che cerca riparo dalla calura estiva all’ombra del muro di casa Monet. Sembrano pellegrini venuti da lontano, in attesa di entrare in visita alla tomba di un profeta, ordinati e pazienti. Questa straordinaria affluenza fa della minuscola Giverny il secondo posto più visitato in Normandia, dopo Mont St. Michel, mi dirà poi l’autista che con il suo bus fa la spola tra qui e Vernon. 

Bisogna dire subito una cosa: la visita in casa di Monet è in realtà una visita al suo giardino. Qui le piante e i fiori sono i protagonisti assoluti: gli incroci, gli accostamenti, le tavolozze di colori riprodotte nelle aiuole... è un’arte della convivenza tra specie diversissime. Come nei quadri, anche qui i colori vengono affiancati, aumentando la luminosità del paesaggio. Si tratta con tutta evidenza di un’arte dei cambiamenti minimi, tra apparizioni e sparizioni lungo il corso delle stagioni. Si riflette in un ritmo di pieni e vuoti, leggerezze e gravità, che i fiori sembra non aspettino altro per interpretare. Tutto è qui riprodotto nel segno di Monet e del suo sogno di un grande giardino sperimentale.

Dentro il giardino la calma della folla è quasi surreale. È come se la fragilità dei fiori avesse il potere di rabbonire ogni tono di voce troppo alto. Dà la sensazione che tutto questo immenso concentrato di natura abbia un potere magico sulle persone per composizione, quantità di colori, varietà delle specie.

 

 

Si sa che i colori dell’impressionismo vivono della luce del sole. En plein air, a cielo aperto, è stato il motto che si è voluta dare questa rivoluzione, portando a dipingere nella natura, sotto i condizionamenti della luce del giorno, fuori dagli studi e dalle accademie. Rispetto a questo il giardino di Giverny ha tutto il valore di un manifesto programmatico. O, forse, di un messaggio ai posteri. Meglio sarebbe dire che prolunga la missione di quel movimento pittorico di cui Monet fu uno degli rappresentanti più illustri. Prima degli impressionisti la natura non è mai stata vista così: se la vediamo è grazie a loro, alla loro arte. Si potrebbe addirittura dire: prima degli impressionisti la natura non è mai stata così.

 

 

Qui tutto si fa impressione, tutto discende dall’intercessione di un’impressione fugace e di un’altra, e dal loro intreccio. Se è facile capire un’arte che nasce dall’osservazione della vita della natura, qui abbiamo l’opposto speculare di questo principio: tutto si offre come in un quadro. La natura si fa pittura. È come se, procedendo dalla natura, la pittura stessa avesse fatto della natura, sua alleata prediletta, un quadro. Ma allora è vero che l’arte procede dalla natura unicamente divenendone la misura. Come un quadro anche questo giardino è inventato e prodotto dall’artista. Non meno della pittura, anche il giardino è inventio. Per questo l’impressione non è mai una copia. È invece l’invenzione resa possibile dalle mescolanze cromatiche e dal movimento che si crea tra i colori. La pittura che copiava la natura, ha fatto della natura stessa il suo ultimo risultato. 

 

 

Questo effetto del giardino come dispositivo di rispecchiamento artistico della natura trova la sua perfezione nel secondo centro di questo luogo, il giardino giapponese che si sviluppa attorno al laghetto delle ninfee, subito dietro il boschetto di bambù. Le ninfee che spuntano dall’acqua appaiono raddoppiate sulla superficie, ma evidentemente noi le ricordavamo apparire raddoppiate già nel magnifico ciclo finale di un Monet che arriverà a dipingerle anche quando è ormai prossimo alla cecità. Oggi sono raddoppiate anche sugli schermi degli smartphone e delle macchine fotografiche che occupano la riva del laghetto, in un’orgia di riproduzione dell’immagine, che non trova pausa se non nell’occasionale spossatezza dei visitatori. L’unicità della luce di ogni singolo istante, che è stata la grande questione pittorica dell’impressionismo, s’incontra con l’effetto copia di un raddoppiamento del giardino, raddoppiamento che è sia naturale, che artistico, che tecnico.

 

 

Nella sua unicità ogni istante è costantemente raddoppiato nella pittura e anche nella fotografia, oltreché sullo specchio dell’acqua e nei nostri ricordi. La natura stessa discende dall’effetto segreto di questo raddoppiamento. Se non smette di essere unica, è perché trova nella pittura il suo doppio che se ne va in giro per il mondo, nei musei, nel nostro immaginario. E che ora ci porta a vedere questo laghetto come se fosse l’origine segreta della pittura di Monet, il suo “è stato qui!” segreto, mentre è vero piuttosto il contrario: che non ci sarebbe laghetto senza l’arte, senza la pittura, senza l’Oriente sognato, e senza la mano allenata a cogliere con i colori a olio le variazioni minime della luce. 

 


In questo raddoppiamento le cose si accostano le une alle altre per somiglianza, anche quando sono di materie diverse: pittura, natura, immagini varie, prodotti. Per mimesis si confondono. La luce, i giochi di luce e ombre, l’ottica come dimensione strutturale dei soggetti guardanti che noi siamo: tutto concorre a fare della visita al giardino di Giverny una rêverie. 

Della casa dirò poco. Ricorderò le magnifiche stampe giapponesi di cui Monet era raffinato collezionista (privilegiando soprattutto i paesaggi), i libri di orticoltura e giardini europei sugli scaffali, le copie dei suoi quadri in salone, le stanze al piano di sopra, la sala da pranzo che pare un tavolo impressionista e per finire la magnifica cucina di maioliche di Rouen di cui però una guardiana mi dice “c’est tout vide”, è tutto vuoto. Mi è sembrata la migliore confessione del fatto che siamo qui soprattutto per ammirare quella ricchezza sconfinata dei giardini che non si smetterebbe mai di guardare e di respirare. 

 

Il negozio merita un discorso a parte. Collocato nel grande padiglione che Monet si fece costruire per dipingere le ninfee, sembra oggi la sintesi perfetta del grande saggio che il filosofo tedesco Walter Benjamin ha dedicato negli anni ’30 al problema della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte. Tutto qui è riprodotto: i quadri di Monet, la sua effigie, il nome stesso: i modellini stessi delle stanze della casa sono in vendita. In un’altra forma di raddoppiamento vertiginoso, in cui il nome, i quadri, il ritratto, sembrano esistere unicamente come parte di questo gigantesco caleidoscopio in cui li si vede come tazze da caffè, calendari, saponette, borsette, puzzle, scialli, orecchini, cartoline, cioccolatini, profumi, miele… Riproducendosi e raddoppiandosi su tutto, senza fine. Qui tutto è copia, o meglio: ognuna delle cose che vediamo non è né copia né originale, ma solo l’originalità delle copie nelle quali viviamo definitivamente immersi.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Il giardino di Giverny
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

The last days in Galliate: Leonor Antunes

$
0
0

Sulla soglia dello Shed, la sezione dell’Hangar Bicocca che precede l’area delle navate, una serie di placche di ottone verniciato delimita l’ingresso dell’installazione site specific di Leonor Antunes. L’opera, ispirata da un rilievo di Mary Martin, si intitola alterated climbing form (I, II, III, 2017, IV, 2018) e come una cortina, invita lo sguardo dello spettatore a filtrare fino al campo di azione dell’intervento installativo. Antunes, pluripremiata scultrice portoghese, scompagina la vocazione industriale dello Shed e trasforma l’organismo architettonico in uno spazio familiare, raccolto, di ariosa eleganza, sfruttando la luce solare proveniente dai lucernari solitamente chiusi e organizzando una partitura di oggetti-opere autosufficiente, germinativa, sottilmente ammaliante.

 

Leonor Antunes, the last days in Galliate, veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2018. Courtesy dell’artista e Pirelli HangarBicocca. Foto: Nick Ash.

 

La familiarità delle sculture che modulano l’ambiente non è solo frutto di un’impressione passeggera: The last days in Galliate, l’opera site specific realizzata dall’artista per il polo Pirelli, si sviluppa a partire da una meticolosa ricerca sul lavoro di alcune tra le figure più significative dell’architettura e del design moderni: stiamo parlando di Gio Ponti, Franco Albini e Franca Helg, ma anche Lina Bo Bardi, Anni Albers, Clara Porset, Greta Magnusson Grossman, figure con le quali Antunes intrattiene un ideale dialogo e una relazione di affinità. Dopo l’intervento ospitato dallo spazio Barriera di Torino nel 2007, intitolato Dwelling Place e basato sul lavoro di Carlo Mollino, e l’installazione vista alla Biennale di Venezia nel 2017, dal titolo So then we raised the terrain so that I could see out, il progetto voluto per l’Hangar Bicocca e curato da Roberta Tenconi prosegue la linea di indagine dell’artista, che questa volta sceglie come fonte di ispirazione sia figure storicizzate dell’architettura e del design legate alla città di Milano – personalità che hanno concorso in maniera sostanziale a determinare le vicende artistiche del capoluogo lombardo, centro del modernismo italiano –, sia artiste il cui lavoro tocca temi cari ad Antunes, come il rapporto tra “expat” e culture locali nonché l’impiego di materiali e pratiche legati alla dimensione artigianale.

 

Leonor Antunes so then we raised the terrain so that I could see out, 2017 Veduta dell’installazione, 57a Esposizione Internazionale d'Arte, La Biennale di Venezia, 2017 Courtesy dell’artista; Air de Paris, Parigi; kurimanzutto, Città del Messico e Luisa Strina Gallery, San Paolo Foto: Nick Ash.


Dopo i moduli in ottone, la seconda opera che attende il visitatore è il pavimento in linoleum (modified double impression, 2018), che richiama il lavoro di stampa e incisione portato avanti da Anni Albers nell’ultima fase della sua attività artistica. I motivi decorativi sono ripresi da un lavoro datato 1978, intitolato Double Impression, titolo che indica una tecnica di stampa nella quale è previsto un doppio passaggio della carta, che acquisisce così una colorazione più satura. I rimandi si allargano fino a comprendere l’opera di Gio Ponti, e conducono al Grattacielo Pirelli, la cui costruzione terminò nel 1960. Dal progetto del pavimento del grattacielo, Antunes prende i colori: con il grigio, il nero e il “giallo fantastico” (così battezzato dallo stesso Ponti), costruisce una partitura visiva che dialoga con gli elementi plastici dell’allestimento, scandendo una dinamica di forme piene e di vuoti che si avvicina molto, per concezione, a una composizione musicale.

 

Osservando i separatori modulari, le corde, i pezzi in mostra si scopre che sono stati prodotti estrapolando elementi dai lavori degli artisti selezionati, studiati a fondo e riconcepiti in forma scultorea per assumere una nuova vita: è il caso di the last days in Galliate (2018) l’unica opera che riproduce in scala reale un frammento originale, in questo caso le curve del corrimano presente nella casa di Helg, tradotto successivamente in una forma in cuoio. Il legame indissolubile con le opere originali permane, come un cordone ombelicale da cui i pezzi di Antunes traggono nutrimento. La storia diventa un humus che rende fertile il presente e permette una forma di innovazione all’interno della tradizione, una via “dolce” che salda le storie artistiche e personali degli artisti ai luoghi che hanno abitato e in cui hanno operato. Il contesto in cui si inscrive l’intervento di Antunes è perciò sempre determinante rispetto all’opera finale: i suoi lavori sono frutto dello studio delle vicende industriali, sociali e culturali che costituiscono il tessuto dei luoghi prescelti. Per questo, le opere sono sempre legate in maniera inscindibile ai luoghi per cui vengono concepite, non ammettendo altra condizione di esistenza che la dimensione esclusiva del site-specific. 

 

Leonor Antunes, the last days in Galliate, veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2018. Courtesy dell’artista e Pirelli HangarBicocca. Foto: Nick Ash.


In questa relazione di esclusività risiede il calore che emanano questi lavori, così classici nell’impianto eppure indiscutibilmente contemporanei nelle istanze. Un modus operandi che avvicina Antunes alla sensibilità e alle pratiche di Lina Bo Bardi, architetta italiana naturalizzata brasiliana, interessata allo studio delle culture locali e all’artigianato come patrimonio di sapere applicato, ma anche alla cura maniacale per il dettaglio di Albini e alla “rarefazione” tipica di alcuni suoi progetti; a Gio Ponti, formidabile innovatore nel solco della tradizione di cui ricordiamo la passione per la pittura e la ceramica, che si concretizzò nella felice collaborazione con le manifatture Richard Ginori durante il periodo 1923-1930; ad Anni Albers, figura cardine del Bauhaus che seppe elevare la tessitura da semplice arte applicata a forma espressiva completa, al pari di scultura e pittura; o, ancora, a Eva Hesse, con le sue forme biomorfe sospese e l’utilizzo di materiali soggetti a degradazione naturale. Tra le figure più affascinanti, c’è la designer cubana Clara Porset, il cui lavoro era già stato oggetto di interesse da parte di Antunes, che le aveva dedicato due personali: discrepancias con C.P., al Museo Tamayo di Città del Messico, nel 2018, e the last days in chimalistas alla Kunsthalle di Basilea nel 2013, che si riferiva alla scelta di Porset di trascorrere l’ultimo periodo della sua vita nell’omonimo quartiere di Città del Messico. Anch’essa espatriata, la sua storia merita una breve digressione: nata a Cuba nel 1885 da una ricca famiglia, Porset studiò a Parigi, New York e al Black Mountain College in North Carolina, dove fece amicizia con Joseph Albers. In aperta polemica con la corruzione del governo cubano, si spostò in Messico nel 1936, dove incontrò Xavier Guerrero, artista ed esponente di spicco del Partito Comunista Messicano, che sposerà e con cui viaggerà in tutto il paese. In Messico Porset raggiungerà l’apice della sua carriera, studiando la cultura locale e subendone l’influenza: elaborerà uno stile molto personale, coniugando un gusto modernista di stampo europeo alla dimensione vernacolare della tradizione messicana e diventando una figura di spicco nel panorama culturale dell’epoca.

 

Altrettanto carismatica è la figura di Franca Helg, donna emancipata e straordinaria progettista, partner professionale di Franco Albini, a cui si lega in un sodalizio di totale collaborazione e fiducia, autrice di alcuni tra i più celebri complementi d’arredo prodotti dalla manifattura Vittorio Bonacina (ricordate la poltroncina in giunco Primavera?). Helg, come Porset, sceglie un luogo preciso, situato tra Varese e le Prealpi, per firmare uno dei pochi progetti a suo esclusivo nome di cui si ha notizia, ovvero la casa di famiglia dove trascorrerà gli ultimi anni della sua vita, luogo a cui allude il titolo della mostra. 

Vicende diverse nei luoghi e nel tempo che risuonano, una fitta rete di riferimenti, rimandi e consonanze, che dimostrano come l’arte che riflette su sé stessa non produca necessariamente tautologia, né sia un cul-de-sac da cui, esaurita l’indagine sul linguaggio, non rimanga che polvere. Antunes sa che le storie sono una materia viva in grado di iniettare sangue nel corpo (talvolta prossimo alla morte clinica) della scultura contemporanea e le utilizza come un mezzo per riflettere sulla pratica dell’arte, un mezzo da utilizzare per trascendere la dimensione narrativa e approdare a riflessione organica sulla forma.

 

Leonor Antunes Veduta della mostra, “the last days in chimalistac”, Kunsthalle Basel, Basilea, 2013 Courtesy dell’artista e Kunsthalle Basel Foto: Nick Ash.

 

Nel lavoro di Antunes ogni esperienza discende da un’altra e l’osservazione accurata dei processi è funzionale alla necessità di comprendere e assorbire, fino a fare propria, una esperienza artistica, da cui far emergere un nuovo soggetto. “I don’t believe in the idea of originality”, afferma, condensando la sua visione della storia dell’arte del XX secolo come territorio libero, fertile, da cui attingere con rigore, per restituire allo spettatore una forma che, persa la sua vocazione originale d’oggetto d’uso (Antunes parte sempre da un elemento concreto, un pavimento, un dettaglio architettonico, una sedia) possa essere libera, astratta, carica di un nuovo potenziale espressivo. Affascinata dal modernismo, interessata a figure femminili dell’arte rimaste nell’ombra, nella sua ricerca sfrutta la misurazione – un atto di matrice concettuale – come strumento conoscitivo, per dare vita a una pratica di appropriazione che non è mai citazionista, né si muove esclusivamente sul filo del canone ripetizione/differenza: si tratta piuttosto di una forma di prelievo del passato e di riformulazione del possibile, una sorta di “scultura nel tempo”. Tempo che si manifesta attraverso la naturale modificazione dei materiali impiegati per le opere – sughero, legno, corde, ottone, gomma – e nella luce, elemento espressivo fondamentale nel discorso plastico dell’artista.

 

Di fronte a un lavoro mai declamatorio, è interessante scoprire passo passo la stratificazione di tracce, segni, memorie industriali, vicende talvolta dimenticate, impresse e modellate nelle forme, come in enlarged rods (2018), una serie di elementi verticali cavi che collegano pavimento e soffitto e scandiscono lo spazio dell’installazione, moduli che richiamano i montanti in mogano creati dallo Studio Albini-Helg nel 1956 per l’iconico negozio Olivetti di Parigi, o shed (2018), una partizione realizzata a partire dai montanti della celebre libreria LB7 di Albini (1956), splendido esempio di razionalismo applicato all’interior design. Storie che si intrecciano con altre storie, attraverso un patrimonio di conoscenze che trova spazio nel coinvolgimento di artigiani sapienti in grado di dare vita alle visioni dell’artista. 

 

Il desiderio di interpretare la realtà attraverso la griglia severa della geometria non concede spazio al dogmatismo, e quello che ci viene restituito da Antunes è un lavoro specificamente scultoreo, di stratificazione formale e contenutistica, dove ogni elemento è connesso agli altri in un inesauribile gioco di rimandi, nel quale anche un elemento semplice come una corda, per definizione dell’artista, diviene un “conceptual device” e ogni dettaglio ha un valore fondante. Antunes si approccia in maniera scientifica al lavoro dei suoi predecessori, utilizzando la misurazione come strumento di studio e di appropriazione. Nel caso specifico si potrebbe parlare di “adozione”, riferendosi all’accezione di Joan Fontcuberta in relazione alla postfotografia, un’adozione qui intesa come pratica autoriale di scelta e sussunzione di un’immagine preesistente (in questo caso un oggetto o la porzione di un’opera), ricodificata secondo un processo di elaborazione, per poi essere condivisa pubblicamente. Un’accezione positiva, che sgombra il campo dall’ipotesi della sottrazione o della mera citazione e, chiarendo la dimensione concettuale dell’azione, evidenzia la natura di queste opere, il cui elemento costituente – il prelievo – rientra nell’iconosfera con nuova forma e significazione, in una versione sofisticata e ipercontemporanea del ready made. 

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Hangar Bicocca
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Sarah Moon

$
0
0

A Milano, inaugurate durante la settimana della moda, si possono vedere due mostre dedicate a Sarah Moon. L’una, presso la Fondazione Sozzani, “Sara Moon. Time at Work”, si snoda in un arco temporale che va dal 1995 al 2018. È composta da circa novanta opere, oltre al cortometraggio “Contacts” del 1995 e al documentario “There is something about Lillian”, del 2001, dedicato alla fotografa di moda Lillian Bassman. Contemporaneamente, presso Armani/Silos, sotto il titolo “From one season to another”, vengono esposte 170 opere a colori e in bianco e nero e due cortometraggi.

In entrambe le mostre il tema centrale è il tempo: un insieme di istanti che se ne vanno, perdono la loro consistenza, si trasformano. Il vuoto pare essere tanto il punto d’arrivo di ogni istante, quanto lo spazio da colmare perché tutto non vada perduto e dimenticato. Così accade nel video del 2013 che si può vedere alla galleria Carla Sozzani, vera sintesi di tutta la mostra. Si intitola “Ou va le blanc”, la storia del tempo che passa e cancella”, scrive Sarah Moon.

Vi appaiono immagini che avrebbero dovuto essere stampate per un libro. La fotografa racconta che sono polaroid in positivo che non ha terminato, alcune inaspettate, altre rovinate, molte sbiadite: lo scheletro di un uccello, un cane addormentato, un automa, il volto di una donna che sta svanendo, una ragazzina che si abbassa per raccogliere qualcosa. Nulla è davvero afferrabile in queste immagini.

 

Sarah Moon, Audrey, 1998.


Sarah Moon, L'avant-dernière, 2008.


Guardarle significa scoprire, come in uno scavo archeologico, altri strati del reale: le immagini sopravvivono come brandelli dimenticati dalla corsa del tempo. Fiori, alberi, corpi, oggetti sono testimoni silenziosi. Non vi è un vero buio e nemmeno una vera luce, ma una bicromia imprecisa. Sarah Moon fotografa tutto con una tonalità lattiginosa, vaga. Eppure si ha l’impressione di balzare in un mondo saldo nelle sue forme indefinite. Il suo universo visivo è lieve quanto magnetico: l’assenza di luce avvicina alla notte, a un mondo colmo di presenze in procinto di scomparire nel buio. Stare fermi dinnanzi a queste fotografie equivale a fare i conti con la realtà ma anche con le sue alternative, con i suoi vuoti e le storie rimosse, ma non del tutto cancellate. Lo sguardo è un dito che scorre le immagini come pagine di un libro, ne sfiora la superficie. Pellicola in italiano significa “piccola pelle”, Sarah Moon dice che è “sensibile e fragile come se fosse viva e si distruggesse poco per volta”.

 

Sarah Moon, Fashion 06, Gauthier, 1998.


Ed è proprio in questo moto verso la disgregazione che la realtà, spesso impenetrabile, d’improvviso si sfalda. Appare diversa. La morte si allontana dal vuoto e si avvicina al sogno. I soggetti vengono avvolti da un crepuscolo incerto, al tempo stesso luogo della mortalità di tutte le cose e dell’emergere di nuova vita. Il cielo carico di nubi, le tracce del vento, il viso impaurito di una bambina dinnanzi a qualcosa che non possiamo vedere, hanno la consistenza di fantasmi che restano immobili dinnanzi a noi, proprio come quei sogni che non vogliono abbandonarci. In questo spazio ambiguo lo spettatore si interroga sulle sue paure, sui suoi bisogni, sui suoi desideri. E scopre una verità, che dapprima appare latente: guardare queste immagini è insieme un viaggio nel tempo e contro il tempo.

È voler rifiutare che la morte giunga dinnanzi a noi, poiché ogni gesto, nelle fotografie di Sarah Moon, è sospeso a un passo prima dell’oblio. Così, camminando avanti e indietro, senza seguire percorsi obbligati, chi guarda si prende gioco della paura più oscura e profonda, lasciandosi attirare in un mondo abitato da ombre.

 

Sarah Moon, Cotinga du Pérou et Trichoglossus du Timor, 2000.


Anche gli animali sono presenze misteriose. Osservare i corpi sinuosi, abbandonati mollemente o addormentati, è compiere un viaggio alla ricerca della dimensione magica e sciamanica dell’uomo. Forse addirittura di una condizione edenica, prima che venisse sancita la separazione tra uomo e animale. Cani, gabbiani, coccodrilli, uccelli, presenze disseminate in entrambe le mostre, sono le tracce dell’animalità che ognuno di noi porta con sé, specchi per sondare l’inconscio di ciascuno. Basti solo ricordare il grande scarafaggio kafkiano. Per Sarah Moon il pappagallo verde che occupa tutta la superficie del fotogramma, è un essere prediletto, un daimon, potenza intermediaria tra uomini e dei, qui tra realtà e sogno. La natura, animali e alberi, diceva Anna Maria Ortese, “sono l’uomo senza tempo, l’uomo che sogna”.

La mostra presso l’Armani/Silos è diversa. Le immagini sono di piccolo e grande formato, a colori e in bianco e nero e, anche per il contesto in cui vengono esposte, fanno riferimento principalmente al mondo della moda, che la fotografa conosce, essendo stata anch’essa modella negli anni Settanta. “La moda è effimera come le stagioni… Come i giardini, come il tempo che passa” ricorda la Moon nell’introduzione al suo libro “Vrais semblants” del 1991.

In questa esposizione, che ha un tono meno intimo, i soggetti hanno la consistenza di residui provenienti da altre dimensioni, trascinati nelle immagini da correnti invisibili. Ed anche qui c’è un’opera che sembra svelare il nucleo profondo dell’intera mostra: la fotografia di una modella vestita con un immenso abito a pois. Forse sta giocando. Si copre gli occhi per non vedere, o per non essere guardata. Sembra ergersi sulla linea di una soglia, di un confine invisibile, quasi a suggerire la presenza di qualcosa di incerto. È una bambola o una donna?

 

Sarah Moon, Coney Island, 2016.


Anche qui la linea che separa la realtà dall’illusione si fa indistinta. Si ha l’impressione che le fotografie delle scene circensi, degli edifici industriali, dei grandi fiori colorati rappresentino ciò che esiste oltre il visibile ed implichino un’esistenza non esibita, e quindi da esplorare, uno spazio al tempo stesso pieno e vuoto, superficie e negazione della superficie. Viene da chiedersi: si tratta della rappresentazione di un “memento mori”, uno spettacolo barocco che teatralizza la lenta degradazione dei corpi e degli oggetti? O la fotografa cerca di allontanare l’orrore della decomposizione preservando ciò che va scomparendo in attitudini quasi familiari, mostrando i soggetti abbelliti dal tempo e dalla polvere?

 

Le immagini di Sarah Moon sono occasioni perdute, promesse future o semplici inganni percettivi? La risposta è probabilmente nelle parole di T. S. Eliot impresse su una parete: “Tutto ciò che può essere stato e tutto ciò che è stato conduce a un solo fine che è il presente”. Ed è vero. Le fotografie di entrambe le mostre tengono i nostri sguardi immersi nelle loro forme, in quella sospensione del tempo che si verifica quando ci si abbandona al suo scorrere lieve: “come una bottiglia in mare, (…) un messaggio che galleggia”, scrive la fotografa, nel libro “Coincidenze” del 2001. 

Sta in questo la forza di ogni immagine fotografica: mostrare il qui e ora ed evocare l’istante in cui appare chiaro che ogni conoscenza è transizione verso altro e altrove.

 

Mostra: Fondazione Sozzani e Armani/Silos, Milano, dal 19 settembre 2018 al 6 gennaio 2019

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
La fotografa degli istanti che se ne vanno
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Wilma, dammi la clava!

$
0
0

“Wilma, dammi la clava!”, urla Fred Flintstone a sua moglie. La frase divenuta celebre in Italia grazie alla pubblicità televisiva dell’insetticida Neocid Florale degli anni Sessanta, accompagna l’istante in cui il cavernicolo si dispone a far giustizia di nugoli di mosche aggressive.

 

Annuncio pubblicato nella rivista settimanale RADIOCORRIE TV riferito alla serie di animazioni pubblicitarie per Carosello andata in onda dal 1965 al 1971.


Il prototipo dell’eroe che impugna la clava per far giustizia in un modo che si presume buono e legittimo è Ercole. La mostra Ercole e il suo mito, in corso a La Venaria Reale (fino al 10 marzo 2019), ricostruisce il percorso del mito dalle sue origini micenee al suo disperdersi nella cultura di massa: nel genere cinematografico “peplum” inaugurato da Le fatiche di Ercole nel 1958 e negli “spaghetti western” di Sergio Leone, che traslocano la figura dell’eroe dai luoghi del mito alla frontiera del West. La pistola che Clint Eastwood impugna al posto della clava per far giustizia nel film Per un pugno di dollari del 1964 “fa fuori” il genere cinematografico “peplum”, spiega Angelo Bozzolini, curatore del progetto audiovisivo che correda la sezione Ercole nel ‘900.

 

Particolare dell’allestimento della sezione cinematografica Ercole nel ‘900.


Al western segue il cinema d’azione metropolitano (gangsteristico e noir) e il genere war movie di cui Sylvester Stallone diverrà uno dei maggiori protagonisti, racconta il critico cinematografico Bruno Fornara a un seminario sul cinema. Al posto della pistola impugnata da Eastwood e degli altri eroi cinematografici del genere gangsteristico e noir, Stallone impugnerà un mitragliatore. Il documentario Rocky IV: le coup de poing américain del 2014 diretto dal regista Dimitri Kourtchine analizza come Ronald Reagan sfruttò la cultura popolare per spianare la sua strada alla presidenza degli USA e veicolare un uso ideologico del mito della forza buona da usare contro i “cattivi”.

 

Poster della versione francese del film Rambo (First Blood) del 1982 diretto da Ted Kotcheff.


“Wilma, dammi la clava!”

A differenza di questi eroi cinematografici, Fred Flintstone impugna la clava in modo ironico e disincantato. L’allegoria cavernicola della società americana degli anni Sessanta, messa in scena da William Hanna e Joseph Barbera con la fortunata serie di cartoni animati The Flinstones, ha una forza ironica, e quindi critica, che è stata sottovalutata. “I Flintstones, ecco i Flintstones, gli antenati con radio e TV. Dentro le caverne hanno luce e frigo come hai tu”, recita la sigla italiana della serie di cartoons. Peccato che il povero Fred sia stato dimenticato dai curatori della mostra, perché oggi ne servirebbe di ironia sull’uso di una forza supposta buona e legittima, che trova appunto nel ruolo interpretato da Stallone così come da Eastwood un modello cinematografico. Non c’è ragione di prendersela con il trumpiano Eastwood perché è da tempo che l’uso ideologico e politico del mito della forza legittima è in uso. 

 

Anfora attica a figure nere attribuita al Pittore del Vaticano, 540 a.C. circa. Antikenmuseum Basel und Sammlung Ludwig.


Nella sezione Eracle nella cultura greca possiamo infatti ammirare una bellissima anfora attica dipinta a figure nere con la rappresentazione di Atena che stringe la mano a Ercole. La stretta di mano testimonia sul piano iconografico il tentativo di stabilire attraverso il mito un legame privilegiato della città ateniese con l’eroe panellenico, al fine di legittimare l’ambizione di Atene all’egemonia politica. 

 

Idria attica a figure rosse attribuita al Gruppo dei Pionieri, 510 a. C. circa. Antikenmuseum Basel und Sammlung Ludwig.


Bellissima anche l’idria dipinta a figure rosse sulla quale è rappresentato Eracle in lotta con il leone di Nemea.  Qui la linea dipinta dal ceramografo suggerisce non solo il movimento e la tensione nella lotta ma anche la plasticità dei corpi. È la linea di contorno che cambia spessore nel corso del suo svolgersi sinuoso, descritta da Plinio in Storia Naturale: “la linea di contorno deve come girare su se stessa e finire in modo da lasciare immaginare altri piani dietro di sé e da mostrare anche quelle parti che nasconde” (XXXV, 68). La sua invenzione, attribuita a Parrasio, è all’origine di una maniera diffusa nella pittura vascolare attica degli ultimi decenni del V secolo. Attraverso questa invenzione grafica, in alcuni casi particolari, è possibile vedere una figura alternativamente da un lato e dal lato opposto. 

 

Contorno di un militare che saluta.


Il soldato è di fronte o di spalle? Per convenzione il saluto militare si esegue con la mano destra, ma se fosse possibile eseguirlo anche con la sinistra? 

Il contorno è tratto da un’immagine della campagna militare condotta da George Bush contro l’Iraq di Saddam Hussein, accusato di essere in possesso di armi di distruzione di massa. Ora possiamo vederne anche l’altro lato: l’infondatezza delle supposizioni dell’amministrazione statunitense e constatare quale peso abbia avuto l’uso ideologico del mito della forza buona evocato da Bush. Per saggiare  lo spessore dei fatti è necessario osservarli da un lato e alternativamente da quello opposto. 

Alla rappresentazione dello spessore bastano due punti di vista contrapposti tra loro lungo uno stesso asse visivo. Sono quelli ai quali si riferisce Leonardo Da Vinci nel suo trattato: “Lo scultore nel fare una figura tonda fa solamente due figure, e non infinite per gl'infiniti aspetti donde essa può essere veduta, e di queste due figure l'una è veduta dinanzi e l'altra di dietro” (Trattato della Pittura, a cura di Rafaelle du Fresne, Parigi, Jacques Langlois 1651). Sono probabilmente gli stessi punti di vista di cui racconta Auguste Rodin in una conversazione con Dujardin-Beaumetz: "L'importante è guardare i profili dal di sopra e dal di sotto, dall'alto e dal basso, [...] cioè rendersi conto dello spessore del corpo umano" (Henry-Charles-Étienne Dujardin-Beaumetz, Entretiens avec Rodin, Paul Dupont, Parigi 1913). 

 

Sovrapponendo a un punto di vista quello diametralmente opposto assegniamo spessore non solo a ciò che vediamo attraverso il disegno ma anche a ciò che pensiamo attraverso il linguaggio: “E per prima cosa disse che ci sono due discorsi intorno ad ogni fatto, che si oppongono l’uno all’altro – Καὶ πρῶτος ἔφη δύο λόγους εἶναι περὶ παντὸς πράγματος ἀντικειμένους ἀλλήλοις·” scrive Diogene Laerzio (IX, 51) riferendosi al filosofo greco Protagora, il più insigne esponente della sofistica vissuto nel V secolo a.C.  Il termine “περὶ” usato da Laerzio suggerisce che per pensare attraverso due discorsi contrapposti tra loro sia necessario “girare attorno” al “fatto” preso in esame per mostrarne anche il lato opposto.

L’idea che il pensare attraverso il disegno alla maniera di Parrasio possa avere un rapporto con il pensare attraverso la parola alla maniera di Protagora, non deriva da un metodo ricostruttivo della storia dell’arte antica basato sulla convergenza delle fonti letterarie con l’analisi delle opere, ma da un’urgenza del presente per il quale il passato è un cumulo di macerie e frammenti in attesa di un prelievo. Sul prelevare dall’antichità ciò che meglio si presta “a essere giocato in parallelo o a stimolo del presente”, che caratterizza la modernità, consiglio la lettura del saggio Futuro del classico di Salvatore Settis (Einaudi, Torino 2004).

 

In questo saggio l’autore cita Le Corbusier, per il quale i templi dorici trasmettono una “impressione di acciaio filettato e polito, una meccanica delle forme plastiche realizzata nel marmo con lo stesso rigore che noi abbiamo imparato a praticare nelle macchine” (Le Corbusier, Vers une architecture, 1923). Come Le Corbusier, osservando lo stile dorico, pensa all’acciaio filettato, osservando la linea usata dal ceramografo che ha decorato l’idria esposta nella sala Eracle nella cultura greca, penso allo “spessore” che a noi manca. È lo “spessore” dei “fatti” che si ottiene opponendo due punti di vista sullo stesso asse per dar luogo a una dialettica di cui avvertiamo la mancanza, soprattutto in politica, dove le opposizioni sono false perché disposte su assi diversi, con la conseguenza di mostrare una serie di vedute indipendenti e perciò non confrontabili tra loro.

Con questi pensieri che mi ronzano in testa come i nugoli di mosche che tormentano Fred nella pubblicità Neocid, passo da una sala all’altra finché giungo alla sezione Ercole nei giardini dedicata al rapporto tra il mito di Ercole e il mondo vegetale.

 

Particolare dell’allestimento della sezione Ercole nei giardini.


Com’è possibile vedere attraverso la linea di contorno lo “spessore” che a noi manca è anche possibile vedere nel mito di Ercole il green dei nostri tempi, quello dei giardini sui balconi delle grandi città e della cura degli interstizi urbani, che trova nell’architettura dei giardini un importante capitolo della sua storia. 

Questa sezione della mostra mette in luce anche un interessante aspetto psicologico del mito connesso alle sensazioni. Citando lo psicanalista e filosofo James Hillman, l’architetto Darko Pandakovic ricorda che le divinità e gli eroi dell’antica Grecia non sono morti ma sono presenti in mezzo a noi in tutte le sensazioni che possiamo provare. In un video, che raccomando di non perdere, Pandakovic racconta che l’eroe, spossato dalla lotta con il leone di Nemea, dormì per trenta giorni. Al suo risveglio s’incoronò con il sedano. I vincitori dei Giochi Nemei istituiti da Ercole venivano incoronati con il sedano, una pianta pallida quando germoglia, pallida come Ercole affaticato e poi forte e vigorosa, con un sapore rivitalizzante. Se pur non si conoscono a fondo le implicazioni simboliche, conclude Pandakovic, d’ora in poi, ogni volta che assaporeremo il sapore forte e caratteristico del sedano, potremo ricordare la resurrezione di Ercole che ritorna con vigore alla vita. Sgranocchiando un gambo di sedano possiamo così entrare nel mito. 

Fantastico!

Giro lo sguardo verso la finestra alla mia destra, dalla quale si possono ammirare i Giardini della Reggia nella loro geometrica estensione. Il vagheggiato giardino delle Esperidi, dal quale Ercole prelevò i pomi ingannando Atlante, è il prototipo del giardino all’italiana. Fulcro del progetto secentesco dei Giardini è infatti la Fontana d’Ercole, un tempo dominata dalla Statua dell’Ercole Colosso realizzata nel 1670 da Bernardo Falconi, il cui restauro è l’occasione della mostra. 

 

 

Esco dall’ultima sala e mi inoltro nei giardini con la speranza di cogliere un aroma, una sensazione attraverso la quale incontrare eroi o divinità che, come sostiene Hillman, sono presenti in tutte le nostre sensazioni. Cerco tra le piante un passaggio per entrare nel mito, con la consapevolezza che questo ingresso sarà necessariamente accompagnato dallo “YABBA-DABBA-DOO" di Fred Flintstone, vale a dire con la consapevolezza che la clamorosa manifestazione di gioia provata incontrando un dio o un eroe ha assunto nuove forme mescolandosi all’ironia dei cartoons disegnati da Hanna & Barbera. Il mito di Ercole e la serie dei Flintstones si mescolano tra loro come nel XX secolo la severità dello stile dorico si mescolò alla meccanicità dell’acciaio filettato e polito.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Ercole e il suo mito
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Rafael Alberti: marinaio a terra

$
0
0

La terza edizione di Cremonaletteratura sarà interamente dedicata ad Antonio Tabucchi, e si  terrà sabato 27 e domenica 28 ottobre presso l’Archivio di Stato di Cremona dalle ore 16 alle ore 19,30 (a cura di Giovanni Catelli e del Lyceum Club Internazionale).

 

Una grande testa con una bianca criniera leonina, corpulento, il sorriso largo e un po’ stereotipato alla Vittorio de Sica, cordiale, estroverso, la voce forte: Rafael Alberti me lo ricordo così, quando lo conobbi in quella sua casa di Trastevere che era a metà fra lo studio del bohémien, il salotto intellettuale e il rifugio del poeta in esilio. Era la fine degli anni Sessanta, non ricordo esattamente l’anno, Franco sembrava non dovesse morire più (e infatti lo tennero ancora abbastanza in vita quando era già morto davvero), e il ritorno nella Spagna fascista forse era ormai per Alberti un sogno già abbandonato. Me lo fece conoscere Murilo Mendes, a suo modo un altro esule, anche se il suo era un esilio obliquo e reticente, una scelta più che una costrizione, e che principalmente non aveva alle spalle il trauma di una guerra civile, della scelta delle armi, della persecuzione poliziesca. Alberti e Murilo Mendes erano molto amici: a lungo ho pensato che li unisse la poesia e la complicità degli esuli, e forse lo abbiamo pensato in molti. In seguito credetti che fosse per un altro motivo.

 

Alberti era un uomo solare e spavaldo, vitale, con la consapevolezza di avere ragione; Murilo era timido e introverso, incline alla malinconia, crepuscolare, perseguitato dalla paura di avere paura. Alberti amava Picasso, il fandango, il Romancero e il cubismo di calce dell’Andalusia marinara; Murilo prediligeva l’arte astratta, Mozart e i campi di Castiglia. Nella penna di Murilo c’erano Pascal e Pessoa, forse anche Leopardi e Pirandello; in quella di Alberti c’erano Góngora, García Lorca, un surrealismo adolescente e forse anche un po’ di Hugo. Due persone così fortemente diverse possono diventare con facilità complementari. Pensai che per loro fosse successo così: avevano bisogno l’uno dell’altro.

 

 

La seconda patria

 

Alberti era arrivato in Italia nel 1963, dopo ventiquattro anni di esilio in Argentina. Non si era potuto sottrarre alla feroce diaspora cui il franquismo aveva obbligato una delle più belle generazioni poetiche del Novecento. Hernández era morto in un carcere di Alicante, Machado in una cittadina appena oltre la frontiera francese, Pedro Salinas e Jiménez a Puerto Rico, Moreno Villa, Emilio Prados e Cernuda in Messico. E ne ho rammentato solo alcuni. Lorca, come tutti sanno, era già stato trucidato nella sua Granada. Non mi stupisce che i franchisti non amassero i poeti, e stupisce ancora meno che i poeti non amassero il franchismo. Tutta la generazione di Alberti lo odiò con forza, con ripugnanza. Molti presero le armi. E Alberti era uno di questi.

 

A portarlo in Italia furono le sue origini, il ricordo dei nonni toscani. Forse c’era effettivamente della toscanità in lui, mi piace pensarlo anche se non sono molto incline a credere a queste categorie. Ma a volte si può anche semplificare. Mi riferisco alla sua schiettezza, che spesso si traduceva in una poesia di una sensualità quasi insolente, carnale, con qualcosa di Michelangiolesco; e poi alle sue girandole di fantasia: gli angeli stravaganti e misteriosi come le creature degli affreschi di Fra’ Angelico (Sobre los ángeles, 1927) e quei cavalli maestosi e impossibili come quelli di Paolo Uccello. E in mezzo a tutto questo, quando meno te lo aspetti, la grazia disarmante di un pastello, una vela azzurra, la dolcezza di uno sguardo o di una marina.  Alberti era un marinaio che era rimasto a terra: il bellissimo titolo di uno dei suoi primi e migliori libri di poesia (Marinero en tierra, 1925) lo dichiara con graziosa autoironia. Mi piace immaginarli di Livorno, i suoi nonni italiani, e anche se erano del Monte Amiata non ha nessuna importanza: lui aveva gli occhi chiari, e dentro ci leggevi il mare. Credo anche che fosse testardo, generoso e infantile. E mi piace pensare che anche in questo consistesse la sua toscanità, anche se probabilmente è solo una mia fantasia.

 

La vendetta della vita

 

Ma era proprio così, Rafael Alberti? Ci ripensai quando lo rividi qualche anno più tardi, proprio in Toscana, a Empoli, durante un omaggio che il premio Pozzale-Luigi Russo gli aveva tributato. Era con Maria Teresa León, sua compagna da sempre, con la quale aveva partecipato alla difesa di Madrid. Mi parvero tristi, sconfortati, vecchi. Sapevo che era loro accaduto un fatto crudele che non desidero riferire: una specie di tradimento della vita, come a volte la vita sa fare surrettiziamente, perché la vita a volte è proprio così, crudele e surrettizia. Vederlo in quell’auditorio, lui che un tempo aveva imbracciato il fucile e dichiarato di voler morire “con los sapatos puestos”, con le scarpe ai piedi, mi fece una strana impressione. Perché contro le ideologie si può combattere a viso aperto, ma contro la vita la cosa è più difficile. E ora lui era inchiodato a un ruolo: davanti a un pubblico che vedeva in lui il poeta resistente, che lo premiava soprattutto per il coraggio della sua vita e della sua opera, Alberti era costretto a recitare la sua parte. Mentre invece forse lui e sua moglie avrebbero avuto voglia di togliersi le scarpe, di schermare la luce e di piangere se lo desideravano.

 

Pensai al privilegio degli scrittori che possono farlo e rilessi le sue poesie dell’esilio, che nel frattempo erano uscite anche in traduzione italiana a cura di Sebastiano Grasso (Ritorni del vivo lontano, Guanda 1976). Con una certa meraviglia mi parve di scoprire che una cosa che gli sarebbe accaduta nella vita, una sua privatissima e non confessabile sconfitta, fosse già annunciata in quelle poesie così stoiche e struggenti, intrise di un dolore molto decoroso. E mi parve che quel decoro e quello stoicismo fossero un atteggiamento di riserbo, come quando a un funerale il volto di chi soffre molto assume un aspetto impassibile. Capii che c’erano molte corde nella chitarra di quel marinaio a terra che aveva saputo riprodurre in poesia la luce di Dufy e di Bonnard; c’erano ampie zone d’ombra visitate dal dubbio, e la sua parentela con Murilo era meno antagonica di quanto avevo pensato. Con i versi di Marinero en tierra e di Sobre los ángeles, credo che le poesie dell’esilio siano una delle sue prove migliori: il rovescio della medaglia di un poeta complesso nel quale l’azzurro marino del paesaggio andaluso si è fatto livido e violaceo come nei giorni d’inverno.

 

Recentemente [1983] Alberti ha ricevuto il premio Cervantes per la poesia, che nell’ambito delle lettere di lingua spagnola equivale a una sorta di Nobel. Ho letto sui giornali che nel riceverlo ha pronunciato una delle sue frasi disinvolte e un po’ guascone, per replicare a coloro che volevano attribuire il premio a scrittori più giovani. “Gli altri possono aspettare”, ha detto, “hanno la vita davanti a loro”. Molto saggio, il vecchio Rafael. Lui sapeva che la vita ci spia ad ogni momento e che scrivere, probabilmente, non è soltanto un dono di Dio.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Un inedito
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Disorientamento, illusioni e paradossi

$
0
0

L’indagine artistica di Lamberto Teotino si sviluppa principalmente sull’analisi e sulla natura dell'immagine, esaminandone i meccanismi percettivi. L’utilizzo della fotografia, gli interventi tecnico concettuali su immagini d’archivio, gli approcci filosofici dell’immagine in forma di comunicazione visivo-installativa sono le caratteristiche principali dell’opera. All’artista interessa la disseminazione del senso, del paradosso, le condizioni di alterazione percettiva e di un nuovo disegno concettuale, come una sorta di spostamento metafisico, una deviazione. Nel 2013 viene inserito nel volume The New Collectible Art Photography, di Susan Zadeh, edito da Thames & Hudson, tra gli artisti che nell’ultimo decennio hanno indagato in maniera più innovativa l’immagine fotografica. Nel 2012 la rivista Eyemazing, vincitrice del prestigioso premio “Lucie Awards”, pubblica per intero il progetto Sistema di riferimento monodimensionale, con il quale nel 2011 riceve la menzione speciale della giuria del Talent Prize. Nel 2016 vince il Premio Combat con l’opera Mary Shelley. In occasione della presentazione in anteprima della video-opera Surrendering – alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, nell’ambito di Videocittà (a Roma dal 19 al 28 Ottobre) – abbiamo intervistato Lamberto Teotino. Nei prossimi mesi faremo una ricognizione, attraverso una serie di interviste ad artisti nati tra la fine degli anni Settanta e gli anni Novanta, per approfondire le questioni aperte della post-fotografia e mostrare le diverse declinazioni all’interno della meta-fotografia italiana.

 

Sistema di riferimento monodimensionale SDRM07, 2011 Carbon pigment print on Hahnemuhle cotton paper mounted on aludibond in wood frame 102 x 86 cm Edition of 3 + 2 A.P. Courtesy of the artist and mc2gallery, Milano, private collection.

 

Mauro Zanchi: Cosa pensi a proposito dello spostamento verso un'altra vita della fotografia?

Lamberto Teotino: La morte della fotografia corrisponde al superamento del mezzo in sé. Nella sua seppur giovane età risulta essere lo strumento più facilmente accessibile. Ora tutti possono fare "scatti". Quindici anni fa era impensabile questa cosa. Anche i bambini possiedono una fotocamera inclusa nel loro telefonino. Probabilmente ogni giorno verranno scattate trecento milioni di foto e siamo sicuri che tra queste non ci siano almeno 3 scatti geniali? Questo è un motivo per cui la fotografia va ripensata. La sua nuova vita probabilmente non è più definibile con il termine fotografia, ma si potrebbe parlare di meta-fotografia, o addirittura di fotografia quantistica, dato che si sta spostando verso lo studio delle particelle o dell'invisibile.

 


Come utilizzi il medium fotografico per dare corpo alle tue immagini?

Non sono mai stato attratto dalla fotografia tradizionale. La fotografia del "reale" fissa un ricordo, vive tra le luci e le ombre di una scena spontanea o ricreata, ma in entrambi i casi la combinazione alchemica che si crea porta in sé una componente prettamente decorativa. Non la considero arte, ma semplicemente fotografia. Rappresenta un documento visivo storicamente utile. A me interessano i meccanismi percettivi di un’immagine, lo spostamento fisico mentale che può fornire un’immagine visiva. Mi interessa creare ambiguità, illusioni, paradossi, inglobare elementi filosofici, matematici, scientifici, mi piace viverla in maniera installativa. Alla fine quello che cerco è il superamento della fotografia con un'alterità enigmatica.

 

In cosa consiste secondo te andare oltre il medium fotografico?

Significa uscire fuori da un punto spaziale preciso, ci sono parecchie possibilità oltre la pellicola o il sensore.

 

Wormhole, 2012-13 Archival pigment print on Hahnemuhle cotton paper mounted on aludibond in wood frame 41.5 x 34.5 cm Edition of 3 + 2 A.P. + 1 P.P. Courtesy of the artist, private collection.


Nella dialettica tra casualità, programmazione, spontaneità, accumulo e anonimato, per te quanto è importante il ruolo del cortocircuito?

Molto importante direi, gran parte della mia ricerca si indirizza verso quella direzione. Lo spettatore diventa parte integrante dei meccanismi devianti che applico nel comporre un’immagine. C'è molto pensiero dietro le quinte, che poi mi porta a fare determinate scelte solo apparentemente ponderate. Ma in realtà persistono non rari e incontrollabili elementi, che nel loro DNA, attraverso la casualità e la magia, mi risolvono l'opera. Mi sento molto fortunato in questo.

 

Quali sono i soggetti della tua ricerca?  

Da anni recupero immagini d'archivio. Faccio parte di quella generazione definita “Archival impulse” da Hal Foster. La mia ricerca prende spunto dalla realtà, e fin qui non ci piove, e da tutto quello che c'è attorno, dagli odori ai suoni, alle sensazioni emotive ecc.. Poi la ricerca si sviluppa nei vari interessi, tra svariate letture e ossessioni. 

 

Atmospheric Particulate Matter, 2017- (from the series 1816) Archival pigment print on Hahnemuhle cotton paper mounted on aludibond, gold leaf frame. 127.5 x 152.7 cm Edition of 5 + 2 A.P. Courtesy of the artist and mc2gallery, Milano, private collection.

 

Detail.

 

Detail.


Lo sviluppo di qualcosa non si può esaurire con un’immagine ma ha bisogno di seguire un ulteriore svolgimento?

Io penso che se un’immagine è potente non ha bisogno di immagini satellite per sostenere un pensiero. La ricerca è fondamentale e il risultato finale di una sola immagine può essere il frutto di anni di studio. Credo nell'opera d'arte e non nella solita produzione in serie su cui un autore allunga il brodo.

 

Ci puoi parlare dei territori al confine tra reale, immaginario e straniamento, che ricrei nelle tue fotografie?

C'è un’opera che risponde precisamente a questa domanda, che la racchiude. L'ho realizzata quattro anni fa e si intitola èidolon, che in greco significa "immagine", e il suo concetto ha tre accezioni basilari: anzitutto le immagini fisiche prodotte da un oggetto, dunque i riflessi ad esso proiettati su superfici lisce o lucide; in un secondo senso l’èidolon è l’oggetto stesso reputato immagine imperfetta di altri oggetti ritenuti veri, interessato alla pura verosimiglianza non alla verità, e dunque tale da ingannare; la terza accezione è quella dell’immagine sensibile, appartenente al dominio dell’anima, come intendeva Platone, legato ai nostri desideri, inteso che il corpo ci riempie di immagini. L’èidolon quindi è il manifestare in modo tangibile della presenza di una seconda realtà, parallela a quella vivente ma non meno importante di quella reale.

 

Èidolon, 2014 Inkjet print on Hahnemuhle cotton paper Edition of 5 different formats + 2 A.P. Courtesy of the artist, private collection.


Quale metodo applichi per tradurre un’intuizione in forma?

Non ho un metodo preciso che mi porta a realizzare un’opera. Diciamo che sono in continua ricerca di idee, che poi metto da parte e quando raggiungo gli ingredienti adatti allora provo a unirli. Forse c'è molta più alchimia di quella che penso. Di sicuro però passa molto tempo dall'illuminazione avuta a quando prende vita l'opera; ci sono volte che ho realizzato opere partendo da un titolo, da canzoni, da film, da un colore trovato casualmente in giro. Non c'è una regola.   

 

 


Quale radice d'enigma si nasconde dietro la prima apparenza delle tue immagini?

La sensazione che manchi qualcosa ritengo sia più complicata come operazione. Secondo me togliere è più difficile. Prendi ad esempio la magia. Lo spettatore cerca sempre di capire dov’è l’inganno, proiettandosi così verso l’elemento addizionale, e con lo sguardo cerca sempre di individuare il trucco. Così facendo perde di vista la vera percezione e la forza della magia, cioè quella di vivere ciò che non è visibile. 

 

La tua è una fotografia che trova la propria collocazione nella produzione culturale che ripete all’infinito se stessa, con sottili variazioni e declinazioni, o è una sospensione di giudizio in rapporto col reale?

Le mie immagini nascono dalla realtà e pertanto ne fanno parte. Io sono una persona che giudica e sono fiero di trarre giudizi soprattutto dalle apparenze e non mi interessa se l'apparenza inganna. D'altronde sta a noi scoprirlo. E poi l'inganno mi piace, nello stesso modo in cui lo presento nelle mie opere. Molto tempo fa leggevo gli aforismi di Oscar Wilde e tra tutti mi ha incuriosito quello in cui dice: "solo le persone superficiali non giudicano dalle apparenze". 

 

Secondo Luigi Ghirri, “La fotografia è insieme il luogo dell’analogo e dell’unico, è l’immagine di un mondo possibile, scelto tra tanti mondi possibili, più vicina alla fantascienza che ad altri generi letterari o estetici”. Che ne pensi, in rapporto alla tua ricerca?

Non ci avevo pensato, ma in effetti ho sviluppato progetti unendo il mondo della fantascienza quello dell'immagine. Probabilmente il futuribile si propone più facilmente come sfera di studio da trasportare nella realtà e Ghirri era un grande in questo, uno degli utilizzatori dello strumento fotografico che più ha influenzato il contemporaneo. Ghirri ha inventato il photoshop prima della Adobe.

 

Sistema di riferimento monodimensionale SDRM19, 2011 Carbon pigment print on Hahnemuhle cotton paper mounted on aludibond in wood frame 92 x 115 cm Edition of 3 + 2 A.P. Courtesy of the artist and mc2gallery, Milano, private collection.


Mi interessano molto i meccanismi di percezione che evochi e inneschi nelle tue opere. Ce ne puoi parlare?

Un'immagine è impressa e vive su un’unica superficie. Nonostante possa avere una prospettiva compositiva, di per sé, nella sua fisicità, risulta piatta. Io invece la vivo come fosse un buco nero, una sorta di wormhole, un canale di passaggio cui ci si può passare attraverso, una finestra spazio-tempo. 

 

Chi è (o cosa è) per te “l’ultimo Dio”, termine che hai scelto come titolo di un tuo progetto? Potrebbe essere la rappresentazione del reale nella memoria eterna?

Sì, potrebbe. Quando penso all'ultimo Dio penso non al Dio ultimo, ma che ognuno di noi può essere un Dio. È un lavoro sulla collettività, quasi come se ognuno di noi dovesse rispondere all'ultima chiamata disponibile. È un lavoro improntato sulla coscienza degli individui e sul loro operato. Tutti noi possiamo cambiare le cose. Ogni persona è come una sorta di eroe contemporaneo.

 

Marsilio Ficino, Giulio Camillo Delminio e i neoplatonici rinascimentali parlavano di deificazione dell'uomo, ovvero della possibilità di ritrovare nella profondità del proprio essere una radice e natura divina, in grado di connettersi con le questioni universali. La tua visione è vicina a queste possibilità? 

Sì, è un punto di vista che mi appartiene. Nel progetto L'ultimo Dio la radice di cui parli è rappresentata dai frattali che ricoprono il volto dei soggetti come tramite tra interiorità ed esteriorità, tra la mente e l'anima; questo processo di auto-similarità crea un linguaggio che si ripete nella sua struttura e allo stesso modo su scale diverse. Studi recenti hanno estrapolato ed esplorato il genoma umano ad alta risoluzione e a tre dimensioni. Ne è derivata una scultura matematicamente armoniosa ed elegante, che ritroviamo in maniera ossessiva in natura in forma di codice. Si ritiene inoltre che i frattali abbiano delle corrispondenze con la struttura della mente umana, ed è per questo che la gente li trova così familiari.

 

L’ultimo Dio - 10, 2012-2013 Archival pigment print on Hahnemuhle cotton paper mounted on aludibond, oak frame 113 x 155 cm Edition of 3 + 2 A.P. Courtesy of the artist and mc2gallery, Milano, private collection .

 

Guardando i volti coperti da oggetti nella serie "L'ultimo Dio", ho collegato le tue opere con certi lavori di John Baldessari, quelli dove l'artista ha escluso le espressioni facciali delle figure, ponendo cerchi sopra i volti dei personaggi. Quale è l’ulteriore spostamento che hai messo in atto rispetto all’umanità e al futuro immaginato da Baldessari?

Il lavoro di Baldessari è più orientato verso la serigrafia e i suoi soggetti implicano più un'azione nella struttura compositiva, mentre le mie figure sono più asettiche, più algide, avide di emozioni. Nelle immagini di Baldessari anche se il soggetto non viene svelato è comunque il protagonista. Nelle mie immagini invece è l'esatto contrario: il soggetto è monolitico, deve risultare come una scultura, non ha l'intenzione di essere il protagonista, e lo spettatore nel guardare l'opera non dovrebbe cercare un legame con le figure.

 

Ci puoi sintetizzare quali sono gli ingredienti principali (o segreti) presenti nelle tue opere?

Ho passato molto tempo a studiare la composizione dello spazio visivo e questo mi ha aiutato a capire i pesi all'interno di una superficie. Il risultato così ottenuto, perché funzioni, deve risultare straniante per chi guarda, ma normale ai miei occhi, ed è a questo punto che ritengo il mio intento riuscito. 

 

Attraverso quale prospettiva rielabori le immagini degli archivi e della storia?

Attraverso la voglia di rigenerare il passato, fornire uno spostamento di senso al preesistente, per azionare un ribaltamento compositivo e trasformativo con lo scopo di alterare il pensiero di chi guarda. 

 

Mi interessa molto sapere qualcosa di più rispetto al tuo lavoro sulle immagini di opere pittoriche screpolate dal tempo.

Ho rielaborato dei ritratti a olio di tele pittoriche antiche recuperati dal web. Ho poi analizzato ed estrapolato i dettagli dalle parti rovinate e li ho presentati sotto forma di stampa, fondendo così la pittura con la stampa artistica. Il risultato finale risulta un dipinto senza materia e una fotografia senza scatto. Il progetto analizza l’anno 1816, da cui prende il titolo, un anno in cui s’intrecciano fatti e avvenimenti rilevanti, che determinarono la storia contemporanea in maniera significativa. Lo storico John D. Post lo ha battezzato “l’ultima grande crisi di sopravvivenza nel mondo occidentale”. Fu l’anno senza estate. Gli alti livelli di cenere nell’atmosfera, la diffusione di epidemie, la distruzione di raccolti, la morte di bestiame e le abbondanti nevicate dell’estate di quell’anno, in cui si moriva di freddo, costrinsero l’essere umano a non uscire dalle case. Questa estrema condizione di vita fu prolifica però per due tra i più grandi scrittori dell’epoca, e fu così che Mary Shelley e John Polidori, costretti a rimanere al chiuso, gareggiarono su chi avrebbe scritto la storia più spaventosa. Successivamente diedero alla luce due tra le opere letterarie più scure della storia: Frankenstein e Il Vampiro.

 

L’ultimo Dio - 12, 2012-2013 Archival pigment print on Hahnemuhle cotton paper mounted on aludibond, oak frame 130 x 190 cm Edition of 3 + 2 A.P. Courtesy of the artist and mc2gallery, Milano, private collection.

 

Ci puoi definire cosa intendi (nella tua ricerca) per “magico inatteso”, “enigma metafisico”, “suspense lynciana”?

Una combinazione di elementi inizialmente controllati, che successivamente scaturiscono in una dimensione rigenerante, fornendo così forme nuove appartenenti a uno stato gravitazionale.

 

Che valore dai alla parola "alchimia", nel senso di ingrediente che entra nel processo trasmutativo delle tue opere?

Per “alchimia” intendo generare il nuovo dalla mescolanza delle esperienze. Mi interessa che un’opera acquisti una nuova identità da una preesistente, che unisca i saperi accumulati nel tempo per produrre un disegno nuovo che mantenga l'intangibilità. Questa presenza purtroppo è andata persa nel tempo, a causa del declino dell'alchimia, che è stata sostituita dalla chimica moderna, incline a un disegno matematico e razionale, a sfavore dell'ermetismo che metteva in circolo la linfa filosofale.

 

Di fronte alle tue opere mi sembra che la ulteriore percezione del reale si sposti sul piano del non totalmente determinato, in direzione di una visione “altra” o di una serie di occultazioni, come quando si è pervasi dalla strana sensazione del non sapere se ciò che si è visto o udito è reale o immaginato, personale o condiviso. Ci puoi parlare della cancellazione dei volti nelle persone delle immagini prelevate dagli archivi della memoria?

La cancellazione dei volti che riguarda il progetto L'ultimo Dio avviene perché mi interessa annullare l'anima dei personaggi, che altrimenti emergerebbe dai tratti somatici e dal loro sguardo. Un volto ci comunica troppi elementi e potrebbe far sì che lo spettatore si possa immedesimare in ciò che guarda. A me tutto questo non interessa, voglio togliere punti di riferimento.

 

Come lavori sui meccanismi percettivi dell’immagine? Come ti addentri negli spazi evocativi delle tue visioni?

Cerco di contenere le mie visioni, nel senso che inizialmente non mi do limiti alle contaminazioni, ma quando poi mi occupo della pratica metto ordine alle idee per non uscire fuori da una logica.  Quello su cui tutt'oggi non ho controllo è la riuscita dell'opera. Inizialmente non so come potrà risultare, perché durante il percorso si creano delle dinamiche inaspettate, che la gran parte delle volte spingono l'opera stessa verso un cortocircuito, che crea a sua volta uno spostamento della percezione. Si aprono così degli elementi di lettura nuovi: formano una sorta di campo energetico, che non ti fa capire bene di cosa si tratti.

 

MDCCCXVI, 2017 - (from the series 1816) Archival pigment print on Hahnemuhle cotton paper mounted on aludibond, gold leaf frame. 66.5 x 80 cm Edition of 5 + 2 A.P. Courtesy of the artist and mc2gallery, Milano, private collection.


Oltre ai motori di ricerca per immagini e agli archivi d’immagini d’epoca, immagino che tu attinga (consciamente o inconsciamente) alla memoria universale che sta dentro alla memoria del tuo corpo e del tuo pensiero. Mi evocheresti qualche passaggio del tuo viaggio in te mentre stai immaginando le tue visioni?

Attingo molto dalla vita reale, a ciò che può capitarmi durante la giornata. Per quanto riguarda le mie passioni ho un forte interesse per il cinema, perché mi piace osservare le inquadrature, le luci e persino gli errori commessi dalla catena regia montaggio-produzione, i cosiddetti "Goof". Prendo spunto dalla musica. Per esempio anni fa ho realizzato una mostra, iI cui concept del progetto espositivo, intitolato EP (extended play), si strutturava sul processo metodologico che si applica nella costruzione di un EP, per l'appunto, in ambito discografico. Tutto questo è una parte del mare magnum che mi circonda e che mi dà continui suggerimenti, al quale poi io devo mettere ordine.

 

Ci parleresti degli aspetti “grammaticali”, presenti in nuce nelle tue immagini, e di quegli elementi che sfuggono alla gestione nell’atto della creazione, e di quelli che inizialmente non vengono considerati e poi appaiono (con l’esercizio dello sguardo) successivamente?

Spesso sono elementi intangibili, composti da pensieri astratti, da interessi, sensazioni, gusti e stili di vita, ma in fin dei conti poco importa se durante la realizzazione di un’opera ci si lancia da una finestra, perché ciò che conta è il risultato finale. Purtroppo è così: quello che lo spettatore vede è solo la parte finale di un’opera. Io personalmente ritengo che tutto ciò che riguarda la gestazione di un’opera non abbia la stessa valenza della riuscita stessa di un’opera. L'artista ha un ruolo molto delicato, in cui il dovere e l'obbligo di fornire un contributo culturale risultano imprescindibili.

È interessante anche sapere qualcosa di più in riferimento alla resa scultorea dell’immagine fotografica (intendo anche l’allusione scultorea evocata dalle crepe delle immagini pittoriche, delle foto rovinate da pieghe, dai tuoi ripiegamenti dei supporti cartacei). E individueresti anche gli elementi di “disturbo” che inserisci nelle tue opere? 

La fisicità che io intendo nelle mie immagini è di natura mentale. L'aspetto scultoreo è il risultato di volumi mentali che lo spettatore avverte nell'analizzare la scena. Un'immagine è bidimensionale per natura. Introducendo un elemento di disturbo – che può essere una linea, una sparizione, un’apparizione, un buco, uno spostamento – ottengo un livello nuovo, che nella lettura si interpone tra il piano naturale e il punto di vista dello spettatore. Questo crea una telepatia volumetrica tridimensionale, che dona un volume più plastico. Si crea così lo spostamento percettivo di cui spesso parlo. La percezione di qualcosa, non necessariamente esistente, fa sì che quella cosa esista in maniera sensoriale e che la mente in tutto questo abbia un ruolo primario.   

 

Cosa è il “Sistema di riferimento monodimensionale”?

Il sistema di riferimento monodimensionale, che dà il nome al titolo del progetto, è un teorema ideato da René Descartes. Si definisce sistema di riferimento l'insieme dei riferimenti utilizzati per individuare la posizione di un oggetto nello spazio, costituito da una retta, sulla quale un oggetto è vincolato a muoversi. A seconda del numero di riferimenti usati si può parlare di Sistema di riferimento monodimensionale (1D), Sistemi di riferimento bidimensionale (2D), Sistemi di riferimento tridimensionale (3D), ma a me ciò che interessava analizzare era la monodimensione. In un’epoca in cui si parla di iperspazio mi affascina l'1D. La ricerca del progetto non si riferisce tanto all’analisi algebrica del teorema, ma cerca di riformulare l’antitesi tra scienza e fenomeno paranormale, in cui, per mezzo di un chiaro intervento digitale definibile come una falla dell’immagine, prende forma lo spostamento nello spazio dell’asse cartesiano; si determina così un risultato visivo dove solo in una specifica porzione (lungo una retta) l’immagine sparisce, mentre il resto dello spazio, in questo caso uno spazio fotografico, rimane immutato.

 

Qual è la domanda che pongono le tue opere e la tua ricerca? 

Non c'è una domanda che pongono le mie opere o la mia ricerca, semmai lasciano a una libera interpretazione. Io non voglio dire nulla attraverso le mie immagini, non voglio insegnare nulla e non voglio fare nessun tipo di propaganda d'attualità, sociale o politica. Spero che diano un senso di disorientamento. Tutto qua.

 

Tutte le immagini per gentile concessione di Lamberto Teotino e mc2gallery, Milano .

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Intervista a Lamberto Teotino
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Una donna di potere nell’Italia fascista

$
0
0
Sottotitolo: 
Margherita Sarfatti

Poco prima della fine del percorso espositivo della mostra dedicata a Margherita Sarfatti al Mart di Rovereto i curatori hanno esposto la gigantografia di una foto scattata alla Biennale di Venezia del 1930.

 

Mart, Sala «Mostre in Italia».


Margherita Sarfatti è ritratta al centro dell’immagine, unica donna accanto a sei uomini. Di fotografie simili se ne trovano parecchie, sui tavoli documentari della mostra del MART come in quelli della mostra gemella al Museo del Novecento di Milano: foto di gruppo di comitati responsabili di mostre e manifestazioni culturali, ritratti istituzionali del sistema di gestione delle arti in Italia negli anni Venti e Trenta. Sarfatti vi appare regolarmente come la sola donna, e a ognuna di queste immagini si potrebbe accompagnare come didascalia una definizione tratta dall’incipit della biografia intellettuale che Simona Urso le ha dedicato: «l’unica donna, forse, cui nel periodo fascista fu permesso di avere peso politico e intellettuale pari a quello degli uomini». In effetti, solo cinque anni prima che fosse scattata quella fotografia alla Biennale, Sarfatti era stata la sola donna “parlante”, cioè invitata a tenere una relazione, al Convegno per le istituzioni fasciste di cultura di Bologna (29-30 marzo 1925): uno degli atti fondativi dell’organizzazione culturale fascista, dal quale sarebbe uscito il Manifesto di Gentile. 

 

In quel 1925 Sarfatti si trova all’apice del proprio potere culturale e politico. Le due mostre si occupano soprattutto del primo, dettagliando le fasi ascendente e discendente della sua influenza nel campo dell’arte, sia attraverso le opere degli artisti da lei fiancheggiati come critica e curatrice di mostre (oltre che come acquirente e mediatrice di acquisti per collezioni pubbliche e private), sia attraverso un ricchissimo apparato documentario proveniente dagli archivi di cui le due istituzioni sono depositarie (il Fondo Sarfatti, che insieme a una parte della sua biblioteca privata è conservato all’Archivio del ’900 del Mart, e il Fondo «Archivi del Novecento», conservato al Museo del Novecento di Milano). Sarfatti è la prima «critica d’arte donna» italiana (come recita la scheda informativa nella sala «Artisti allo specchio» della mostra del Mart): la ricostruzione dettagliata della sua traiettoria biografica è pertanto di estremo interesse, come lo sono tutte le vicende di rottura del “tetto di cristallo” che impedisce l’accesso al vertice delle gerarchie sociali ai dominati per genere, etnia o scarsità di capitali economici e culturali. E si tratta per di più di una donna che riesce a conquistarsi e a conservare potere per circa un decennio in un contesto all’apparenza ben poco favorevole: gli anni dell’ascesa e consolidamento del fascismo, un regime tutt’altro che disposto a concedere spazio alle donne al di fuori del loro ruolo tradizionale di vestali del focolare domestico. 

Quali sono le condizioni che permettono questa rottura del tetto di cristallo? Quali sono le “doti”, i “capitali” sociali che consentono a Sarfatti di occupare ruoli e posizioni ancora mai occupati da una donna? Innanzitutto, un notevole capitale economico e culturale: nata a Venezia da una ricca famiglia ebraica, i Grassini, in ottime relazioni con l’amministrazione e il patriarcato cittadini, Sarfatti riceve un’istruzione eccezionale per una ragazza della sua epoca. Grazie a una serie di governanti e istitutori privati (tra i quali il fondatore della Biennale di Venezia, Antonio Fredeletto) parla, legge e scrive inglese, francese e tedesco, e riceve una formazione letteraria, filosofica e artistica aggiornata ed estranea ai canoni e agli habitus mentali delle istituzioni scolastiche. 

 

Sposatasi diciottenne con un avvocato socialista, Cesare Sarfatti, di cui condivide la fede politica – anche se per entrambi si tratta di una scelta dettata più dall’ambizione che da un’effettiva condivisione dell’interpretazione marxista della società – si trasferisce nel 1902 a Milano, capitale del socialismo italiano, la città più pienamente moderna d’Italia, trampolino di lancio, di lì a pochi anni, del futurismo di Marinetti. Milano è la base su cui Sarfatti costruisce un capitale suo proprio, dopo quelli culturale ed economico ereditati dalla famiglia: un capitale di relazioni sociali che affonda le radici sia nel mondo dell’arte e della letteratura, sia nella politica – socialismo turatiano ed emancipazionismo femminile prima, socialismo mussoliniano, interventismo e fascismo poi. 

 

Museo del Novecento, Sala IV: «Il salotto di corso Venezia». Da sinistra a destra: Gian Emilio Malerba, L’attesa, 1916; abito Zuckerman, Milano 1924-26; Pompeo Borra, La composizione (Le amiche), 1924.


Al centro di questa rete di relazioni che da Turati Kuliscioff e Majno (presidente della Lega Femminile) si espande progressivamente a Notari (scrittore scandaloso ed editore intraprendente) Marinetti Boccioni e Mussolini, sta il salotto di Margherita, aperto ogni mercoledì dal 1909 in avanti: uno dei «più rinomati e frequentati» di Milano, secondo il giornalista Adolfo Franci, autore nel ’22 di un viaggio in Italia alla scoperta dei centri letterari e artistici della penisola. «La signora Sarfatti s’intende un po’ di tutto – le donne son terribili quando s’intendono di tutto –: pittura e scultura, critica e poesia. Possiede – dicono – una bella raccolta di quadri moderni, è valorosa scrittrice, delicata poetessa, traduttrice geniale e molte altre cose ancora. Per giunta ha tenuto a battesimo tutti i giovani promettenti. Nella sua casa ospitale si può sorseggiare una tazza di tè quasi caldo con crostini quasi imburrati e conoscere le più chiare personalità del mondo politico, letterario e artistico milanese» (A. Franci, Il servitore di piazza, Vallecchi, Firenze 1922, pp. 120-121). 

 

La descrizione di Franci, sotto il paternalismo e una punta di misoginia contro le intellettuali (e forse già di antisemitismo, nell’allusione alla tirchieria della padrona di casa), ci lascia intravedere il soft power dell’istituzione salotto, che all’inizio del ’900 già da più di due secoli è lo strumento con cui le donne della nobiltà e dell’alta borghesia – le dominate della classe dominante – si sono ricavate spazio e potere nel mondo delle arti, della cultura e della politica. Per Sarfatti, però, il salotto non è un punto d’arrivo ma di partenza, per accedere a posizioni intellettuali più moderne e istituzionalmente riconosciute: la critica d’arte e di letteratura sui quotidiani (dapprima su quelli più provinciali della sua città d’origine, poi su «L’Avanti!» e «Il Popolo d’Italia»); la cura di mostre, di cui firma l’introduzione ai cataloghi; la partecipazione a comitati organizzativi e giurie di premi d’arte in Italia e all’estero. Sarfatti incarna però soprattutto la figura moderna del critico d’arte che promuove e fiancheggia – e in larga misura crea– un movimento artistico: il «Novecento», dal 1926 «Novecento Italiano». 

 

Museo del Novecento, Sala IX: «Il “Novecento italiano” e la sua organizzazione». Mario Sironi, Prima Mostra d’Arte del Novecento italiano, 1926, manifesto.


Nel corso degli anni Dieci Sarfatti aveva avuto stretti contatti con i futuristi, pur manifestando una diffidenza per gli esiti più estremi delle avanguardie: in un articolo del 1913 aveva parlato, a proposito del cubismo, di un’arte destinata a rimanere senza pubblico in quanto «senza freni e senza misura nel desiderio incomposto del nuovo» (cit. in A. Negri, Margherita Sarfatti e Milano 1902-1923. Alcune osservazioni, nel catalogo unico delle due mostre). Negli anni dell’immediato dopoguerra, perciò, forte del capitale acquisito in relazioni sociali e legittimità intellettuale, e del capitale politico che le deriva dal legame amoroso e intellettuale con un Mussolini divenuto Presidente del Consiglio, Sarfatti si lancia nell’impresa di promuovere un proprio movimento artistico, legandolo al nome di sette pittori attivi a Milano – tra i quali il maggiore è, a suo parere, Mario Sironi – e inquadrandolo in quel “ritorno all’ordine” che caratterizza l’intero panorama artistico postbellico europeo. 

 

A contendere la primazia al Novecento di Sarfatti nel campo dell’arte, e, in particolare, nel campo dell’arte più prossima al nuovo potere politico, ci sono altri gruppi, altri movimenti – come quello, similmente orientato al “ritorno all’ordine”, ma non per questo meno antagonistico nei confronti di Novecento, radunato intorno alla rivista «Valori plastici» (1918-22) e che ha in Carrà il proprio leader; o i futuristi di Marinetti, forti anch’essi di un notevole capitale politico che deriva al movimento dall’interventismo, dai numerosi artisti caduti e feriti in guerra, dalla prossimità all’impresa fiumana e al sansepolcrismo; o infine i “toscani” supportati da riviste come «Il Selvaggio» e «L’Italiano» e raccolti intorno ad Ardengo Soffici, “rinsavito” dall’avanguardismo degli anni Dieci e fascista della prima ora. 

Il conflitto che negli anni Venti divampa per l’egemonia nel campo delle arti è ben inquadrato dai due biografi statunitensi di Sarfatti, Philip V. Cannistraro e Brian Sullivan: «Alla metà degli anni Venti Marinetti, Ojetti e Margherita erano i leader delle tre principali correnti artistiche del tempo, in competizione fra loro per affermarsi e conquistarsi il riconoscimento del Partito fascista. Quando il Novecento di Margherita cominciò ad assumere un’aura ufficiale, la seconda generazione di futuristi marinettiani si pone come una sorta di “opposizione di sinistra”, mentre Ojetti divenne il portatore dei classicisti accademici, ossia dell’“opposizione di destra”». Sebbene Mussolini partecipi, tenendo anche un discorso, alle prime due mostre di Novecento e Novecento Italiano nel 1923 e nel 1926, già alla Biennale di Venezia del 1924 Ojetti sottrae a Sarfatti uno dei sette pittori originari del gruppo, Ubaldo Oppi, che ottiene una propria sala personale con catalogo curato da Ojetti, mentre la sala dove espongono i «Sei pittori del Novecento» viene aspramente criticata, tanto che il gruppo finirà per sciogliersi nei mesi successivi. Sarfatti cambia allora strategia, allargando l’etichetta di «Novecento» (divenuto «Novecento Italiano») a comprendere un centinaio di artisti che espongono in due mostre alla Permanente di Milano nel 1926 e nel 1929 – tra questi, anche Carrà e Soffici, o altri pittori estranei al circuito sarfattiano come Casorati. Nel comitato d’onore di «Novecento italiano», oltre a Mussolini come Presidente, compaiono anche Marinetti e Ojetti, che, secondo Cannistraro e Sullivan, «avevano aderito al comitato, con riluttanza, per ragioni di opportunismo politico», mentre «Margherita li voleva nel suo gruppo per via di quella sua ambizione a diventare l’“impresario” indiscusso della cultura artistica italiana» (p. 345). 

La strategia non risulta però vincente. Per l’opposizione dei suoi rivali – tra cui sta acquistando potere il pittore Cipriano Efisio Oppo – Sarfatti non riesce a tenere a Roma, come avrebbe desiderato, la seconda mostra di «Novecento Italiano» del 1929; in quello stesso anno, Mussolini ripudia la connessione, suggerita a più riprese da Sarfatti, tra fascismo e Novecento.

 

Mart, Sala «Da Dux a Acqua passata». Lettera di Mussolini a Margherita Sarfatti, Roma, 9 luglio 1929: «Gentile Signora, […] Questo vostro tentativo di far credere che la proiezione artistica del Fascismo sia il vostro ’900, è ormai inutile ed è un trucco!».


Privata di legittimità in Italia, Sarfatti concentra le sue energie sull’organizzazione di mostre di arte italiana all’estero, ma non per questo cessano le campagne contro di lei, che fin al 1928-29, all’epoca dei primi rigurgiti di antisemitismo in concomitanza con i Patti Lateranensi, avevano cominciato a sottolinearne le origini ebraiche. Dopo la lettera di Mussolini del ’29, gli atti di ripudio e di esclusione si moltiplicano: nel 1932 non viene invitata all’inaugurazione della Mostra del Decennale della Rivoluzione fascista, le viene impedito di continuare a scrivere sul «Popolo d’Italia», le viene sottratto il controllo dell’organizzazione delle mostre di arte italiana all’estero; nel 1933 viene estromessa dal comitato organizzativo della Triennale di Milano; nel 1934 viene sostituita dal figlio di Mussolini Vito nella direzione di «Gerarchia», il mensile ufficiale del regime di cui era stata direttrice responsabile – ma in realtà vera direttrice –  fin dal 1922. Nel 1938 verranno le leggi razziali, che la spingeranno a lasciare l’Italia per Parigi e il Sudamerica, dove rimarrà fino al 1947. 

 

I germi della parabola discendente del potere culturale e politico di Sarfatti sono, quasi paradossalmente, contenuti nei presupposti che le avevano consentito di occupare posizioni di potere fin’allora impensabili per una donna. Come scrive Urso, Sarfatti «commette […] l’errore di non comprendere che in una società di massa il rituale va governato da istituzioni, non da singoli individui illuminati, sopravvalutando così il proprio ruolo» (Urso, cit., p. 14). Il percorso di Sarfatti, in altre parole, essendo costruito a partire da privilegi eccezionali, fondato su un indubbio merito personale ma estraneo ai percorsi legittimanti delle istituzioni scolastiche e culturali, era difficilmente compatibile con un contesto radicalmente mutato all’inizio degli anni Trenta, quando il sistema espositivo e del mercato d’arte italiano si struttura in una rigida gerarchia fondata sui Sindacati artistici e diretta da uno dei suoi nemici, Cipriano Efisio Oppo. È significativo che negli stessi anni in cui si svolge la parabola discendente di Sarfatti si avvii un altro percorso di “rottura del tetto di cristallo”, quello di Palma Bucarelli, di una generazione più giovane, prima direttrice donna di un museo italiano, la Galleria nazionale d’arte moderna di Roma. A differenza di quella di Sarfatti, la traiettoria di Bucarelli è completamente interna alle istituzioni: dopo una laurea regolarmente conseguita, Bucarelli entra come funzionario nella burocrazia statale delle arti grazie a un concorso pubblico. Proprio a Bucarelli toccherà il compito di liquidare ufficialmente il «Novecento», con la stesura della voce dedicata nell’Enciclopedia italiana (1934): «in breve perfino la parola Novecento divenne anacronistica per essere caduta nella spicciola moda commerciale, così che si ebbero i tappeti novecento, i caffè novecento, i mobili novecento». 

 

Ma quanto ha contato, nella perdita d’influenza di Sarfatti, la fine della sua relazione con il capo del governo Mussolini, che i biografi collocano tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta? Di questa relazione, cominciata poco prima o durante la prima guerra mondiale, di questo rapporto che costituisce uno degli elementi chiave del soft power di Sarfatti, ho appena accennato, seguendo, in questo, la linea adottata dai curatori delle due mostre, che ne parlano pochissimo: nella mostra milanese ne rende conto soltanto la cronologia posta all’inizio del percorso espositivo; in quella di Rovereto si parla di un «legame intimo» con Mussolini soltanto nella scheda informativa presente nella sala «Da Dux a Acqua passata».

 

Mart. Sala «Da Dux a Acqua passata». Renato Bertelli, Testa di Mussolini (Profilo di continuo), 1933; Thayat, Condottiero (Dux con pietra miliare), 1929.


Benché finora abbia seguito i curatori delle due mostre, non sono convinta che il passar quasi sotto silenzio un elemento biografico così importante renda un buon servizio alla ricostruzione della figura storica e del ruolo culturale di Sarfatti. È vero che, come scrive un’altra delle sue biografe, Rachele Ferrario, in un intervento pubblicato in catalogo, «è tempo di rileggere la sua figura di intellettuale che inizia il suo proprio percorso ben prima di affiancarsi a Mussolini» (p. 34) – è importante, insomma, far uscire Sarfatti dal cono d’ombra di Mussolini. 

Ma è anche vero che sminuire l’importanza della relazione tra i due comporta il rischio di non mettere in giusto rilievo il fondamentale ruolo svolto da Sarfatti nella genesi del fascismo, la sua funzione di «assistente modesta ma appassionata del nostro capo», come afferma lei stessa in un’intervista all’NBC del 1934. L’influenza politica di Sarfatti su Mussolini è importante sia a livello ideologico, e questo fin dagli anni Dieci (già nel 1913 Sarfatti condivide con Mussolini l’impianto della rivista «Utopia»), sia nella costruzione della mitologia mussoliniana in Italia e all’estero con la redazione della biografia Dux (pubblicata a Londra nel 1925, in Italia da Mondadori nel 1926), la cura dell’ufficio stampa estera della presidenza del consiglio, la redazione come ghost writer degli articoli firmati da Mussolini per i periodici statunitensi di Hearst. Le stesse mostre all’estero sono da leggere all’interno di un programma di «colonialismo estetico» e di legittimazione fuori dai confini del regime mussoliniano. 

 

Mart, Sala «Da Dux a Acqua passata». Margherita Sarfatti, Dux, Mondadori, Milano 1926.


Ad annebbiare, nelle due mostre, la relazione amorosa tra Sarfatti e Mussolini, non è tanto, credo, la discrezione nei confronti di un gossip, quanto una difficoltà maggiore. È possibile portare all’attenzione del pubblico contemporaneo un personaggio così fondamentale nella storia delle arti e nella storia delle donne, e insieme così implicato con il regime fascista? È necessario nascondere l’eccezionale importanza di una donna nella genesi del fascismo, per poterne riproporre la figura ai visitatori di una mostra nel 2018? 

Le risposte a queste domande non sono facili – anche quando, come fa il direttore del Mart Gianfranco Maraniello nella sua pagina d’introduzione al catalogo, si affermi decisamente che «le istituzioni museali in Italia hanno oggi il compito di mettere in prospettiva tali eventi e, soprattutto, le opere che ne sono testimonianza e opportunità per non proseguire nella più frequentemente adottata censoria latenza che, forse, ha significato anche diffusa incapacità di elaborazione del trauma» (p. 19). Un’affermazione così netta è però preceduta da una premessa che sembra deresponsabilizzare la protagonista dei due percorsi espositivi: «Come una falena che ha corteggiato pericolosamente il fuoco, il rapporto al fascismo e la vicinanza a Benito Mussolini sono stati – per usare un suo stesso titolo – la “colpa” che le ha però garantito di esercitare i propri talenti e di rimanere al centro della scena politica e culturale del Paese in un’epoca dove difficilmente si è potuto distinguere una dimensione dall’altra». Sarfatti la falena, Mussolini il fuoco. Non siamo ancora pronti – e pronte – per pensare che il fuoco, sotto certi aspetti, abbia potuto anche essere lei?

 

Per saperne di più

  • Margherita Sarfatti. Il Novecento Italiano nel mondo, a cura di D. Ferrari, con la collaborazione di I. Cimonetti e Archivio del ‘900, Mart, Rovereto, 22 settembre 2018-24 febbraio 2019
  • Margherita Sarfatti. Segni, colori e luci a Milano, Museo del Novecento, Milano, a cura di A.M. Montaldo, D. Giacon, con la collaborazione di A. Negri, 21 settembre 2018-24 febbraio 2019
  • Il Catalogo unico per le due mostre, a cura di D. Ferrari D. Giacon, A.M. Montaldo, con la collaborazione di A. Negri, è edito da Electa, Milano 2018
  • Simona Urso, Margherita Sarfatti: dal mito del «Dux»al mito americano, Marsilio, Venezia 2003
  • P.V. Cannistraro, B. Sullivan, Margherita Sarfatti. L’altra donna del duce, Mondadori, Milano 1993, p. 345
negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Margherita Sarfatti
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Il centenario di Achille Castiglioni in Triennale

$
0
0
Sottotitolo: 

Circa il costume antico di celebrare il dì natalizio o genetliaco delle persone insigni per letteratura ec. anche dopo la loro morte” (Leopardi), ecco che Milano, la sua città, rende omaggio al centenario della nascita di Achille Castiglioni (1918 - 2002). E lo fa in una delle sue sedi espositive più prestigiose, la Triennale, dove, dal 6 ottobre 2018 al 20 gennaio 2019 è possibile visitare la mostra A Castiglioni, curata da Patricia Urquiola – che di Achille è stata dapprima allieva e quindi assistente al Polimi – in team con Federica Sala e con il progetto grafico di Dallas (Francesco Valtolina & Kevin Pedron). Catalogo Electa (pagg.288; euro 39,00).

 

Il 16 febbraio di quest'anno, giorno del suo compleanno, Doppiozero aveva già trattato delle celebrazioni in onore del maestro, iniziate con la mostra 100 x 100 Achille, (si legga qui) organizzata dalla Fondazione che reca il suo nome e ci si era lasciati con la promessa di tornare ad occuparci di lui quando la preannunciata mostra presso la Triennale avesse aperto i battenti.

 

A Castiglioni, uno scorcio della mostra allestita in Triennale (ph. MLG).


Una mostra giocosa

 

Quella allestita in Triennale è una rassegna godibilissima, gioiosa e giocosa, così come era giocoso e ludico lo spirito di Achille Castiglioni, che si divertiva sempre moltissimo nel suo incessante sperimentare e nel suo progettare cose serie e belle perché semplici e spesso addirittura geniali.

Chi si aspettasse però di poterne ammirare le creazioni nella sequenza cronologica in cui egli (e Pier Giacomo) le ha (hanno) concepite, progettate o eseguite, resterebbe deluso. Il percorso espositivo, si articola, infatti, in sezioni tematiche, in sintonia con il trend milanese del momento, cui aveva soggiaciuto anche la mostra dedicata al centenario di Ettore Sottsass allestita lo scorso anno in questa stessa sede. A differenza di quella, le sezioni tematiche qui volute dalle curatrici sono dette cluster, termine con cui in informatica si intende un insieme di computer connessi in rete.

Nella sua presentazione della mostra, per evidenziare i nessi esistenti tra le varie parti, Patricia Urquiola dichiara di essersi ispirata alla rete e al suo universo multirelazionale, prendendo spunto dal rizoma.

Il rizoma è una figura geometrica “impossibile” che Gilles Deleuze e Félix Guattari, i suoi teorizzatori, così hanno motivato quasi dieci anni prima della nascita di internet: «il rizoma collega un punto qualsiasi con un altro punto qualsiasi, e ciascuno dei suoi tratti non rimanda necessariamente a tratti dello stesso genere, mettendo in gioco regimi di segni molto differenti ed anche stati di non-segni. (…). Rispetto ai sistemi centrici (anche policentrici), a comunicazione gerarchica e collegamenti prestabiliti, il rizoma è un sistema acentrico, non gerarchico e non significante (Gilles Deleuze e Félix Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, 1980).

 

E di fatto i venti cluster tematici, più tre, che compongono la rassegna (comunicare; costruzioni; dislivelli; forse non tutti sanno che; fumo; geometrie; in moto; innovazioni; keep it simple; l’è un gran Milan; mappa mentale; morfismi; playfulness; raccontare il progresso; ready making; redesigning; regesto; reiterare; se telefonando; serviti e serventi; specchio/riflesso; testi; traParentesi; vuoto) e che spaziano dal design all’architettura del maestro, dai suoi allestimenti alle mostre da lui curate, pur essendo distinti, non sono circoscritti ma si offrono invece, in un vasto open space, sito al secondo piano, a una “rete" di collegamenti da tessersi secondo l'estro del visitatore, invitato, in alcuni casi, anche a interagire con i pezzi esposti.

È spesso la voce registrata di Achille, che fuoriesce dai numerosi schermi proiettanti suoi video e filmati, a guidare il pubblico nel far funzionare un pezzo o a illustrargliene la genesi creativa, cosicché egli viene avvinto e coinvolto non soltanto attraverso la vista ma anche per il tramite dell'udito. Si tratta in vero di una mostra piuttosto sonora, il cui acme è rappresentato senza dubbio dall'installazione TraParentesi, posta al piano primo, attraversando la quale si accede poi alla bella scala elicoidale muziana che conduce al clou dell'esposizione.

 

A Castiglioni, la scala di Giovanni Muzio in Triennale; gigantografia di Achille Castiglioni sulla scala che conduce al secondo piano dove prosegue la mostra.


TraParentesi

 

TraParentesi, o delle cento candeline, costituisce l'omaggio di Flos-Urquiola al centenario del maestro. Oltrepassando una grande tenda, che riproduce una bella gigantografia di Achille e Pier Giacomo al lavoro nel loro studio, si entra in una stanza buia, abitata da cento lampade spente che si accendono random guidate da stimoli sonori. A volte è la voce di Achille ad azionarle. Altre è un rumore, un twit, una sirena o il rombo di un motore (e allora ad accendersi sono due Parentesi, simulanti i fari di un'automobile). Il ronzio di una zanzara in volo ne fa accendere parecchie che tracciano una scia luminosa lungo il suo percorso. Al canto di Maramao, poi, per le mitiche voci del Trio Lescano, se ne illumina un insieme, come se si fosse su un proscenio. E molto, molto altro ancora. Insomma, la sensazione è quella di trovarsi in una selva oscura costituita da cento Parentesi/albero in cui, a tratti, se ne riescono a intravvedere alcune spente, fiocamente illuminate da quelle accese ad esse contigue e dove l’attenzione è costantemente sollecitata da nuovi stimoli uditivi, alla Jacques Tati, contrappuntati dai milanesissimi accenti del maestro con i suoi spiritosi “Urca!” esclamativi, che inducono a girare per istinto la testa, ora di qua, ora di là, verso la direzione da cui provengono.

E la subitanea inquietudine che si era provata nel trovarsi all'improvviso al buio è immediatamente fugata da questi rassicuranti e divertenti stimoli sonori.

 

A Castiglioni, il cluster TraParentesi della mostra allestita in Triennale (ph. MLG).


Geometrie

 

In Geometrieè la mise en page ad avvincere il visitatore: la parete è stata infatti trattata come un’enorme pagina bianca, su cui sono stati proiettati, con marcati tratti grigi, i profili degli oggetti esposti ai suoi piedi o appesi su di essa, come fossero le ombre delle loro forme generatrici. Per la lampada Arco è disegnato infatti un arco a tutto sesto, mentre per il lampadario Taraxacum, ad esservi stata tracciata è la sequenza dei venti triangoli equilateri che lo compone, tra loro connessi a formare lo sviluppo sul piano di un icosaedro, il poliedro a venti facce che rappresenta la forma platonica più vicina alla sfera. Accogliendo ciascun triangolo tre globi luminosi, è il totale di sessanta a generare la sfera che simula l'inflorescenza del Taraxacum, da cui il lampadario mutua sia la forma che il nome.

Progettato nel 1988, in occasione della fiera milanese Euroluce, così lo descrive lo stesso Castiglioni:

«È un colpo basso per il risparmio energetico, ma un grande lampadario destinato ad ampi spazi comunitari, atri e stanze che necessitano di molta luce per occasioni speciali, e deve dunque essere decorativo». 

E decorativo lo è di sicuro, oltre che di una disarmante semplicità da “uovo di Colombo", che ci fa esclamare, come al cospetto di molte delle creazioni di Castiglioni: “Ah, ad averci pensato!”

Ma a pensarle tutte è stato lui per primo e lo ha fatto con una capacità intuitiva ed immaginifica senza eguali. 

 

 

 

A Castiglioni, alcuni scorci della mostra allestita in Triennale (ph. MLG), sopra il cluster Geometrie, sotto Serviti e riveriti. (ph. MLG).


Achille Castiglioni e il suo studio, tra i più prestigiosi al mondo, hanno allestito più di 400 mostre temporanee e fiere e hanno progettato oggetti per importanti aziende di settore, tra cui Alessi, Brionvega, B&B Italia, BBB Bonacina, Cimbali, Danese, Driade, De Padova, Flos, Cassina, Moroso, Knoll International, Kartell, Zanotta.

Il materiale esposto in mostra, dagli oggetti alle foto, ai disegni e ai documenti, proviene in gran parte dall'archivio della Fondazione Achille Castiglioni, ma è anche stato messo a disposizione da istituzioni, fondazioni e archivi pubblici e privati dove sono conservate molte delle creazioni dei Castiglioni, tutte concepite secondo un linguaggio progettuale assolutamente privo di retorica, consistente nel togliere all'oggetto il non indispensabile, fino a raggiungere la pura essenza formale e l'esatta efficacia funzionale, nel più assoluto rispetto dell'utilizzatore finale, quel linguaggio che è diventato famoso come ‘metodo Castiglioni' e che ha fatto scuola nel mondo del design internazionale generando innumerevoli epigoni.

 

Achille, Pier Giacomo e Livio Castiglioni al lavoro nel loro studio (1952).


Una riflessione

 

Achille Castiglioni era un gentleman d'altri tempi e, si sa, oltre che per la sua bravura e correttezza professionale, era rinomato anche per la sua levatura morale. Di sicuro avrebbe preferito (e con lui quelli che tra noi hanno a cuore il rispetto della realtà storica, o per averla vissuta, o semplicemente per non volerla tradire) che la preposizione semplice “A" presente nel titolo della mostra allestita in Triennale – dunque in uno spazio pubblico e non nel luogo in fondo privato della Fondazione a lui dedicata – fosse invece una preposizione articolata e plurale, di modo che il titolo suonasse: “Ai Castiglioni", se non per il tutto, almeno per la parte relativa ai progetti fino al 1968.

Perché è indubbio che Achille avrebbe ritenuto giusto (e con lui i soliti tra noi) che si fosse fatto riferimento in qualche modo anche nel titolo, oltre che, ovviamente all’interno del percorso espositivo (e non solo, come accade invece qui, nelle didascalie alle opere – siglate A. + P.G. – e, en passant, nei testi di commento e in rare fotografie, se pure gigantesche), al sodalizio intellettuale e progettuale, all’assoluta simbiosi creativa durata più di vent'anni con suo fratello Pier Giacomo (1913 - 1968). Pier Giacomo ha purtroppo avuto la sfortuna di morire troppo giovane ma con lui Achille ha condiviso lo studio, le idee, i progetti, i successi e i riconoscimenti internazionali ed è insieme a lui che in quegli anni cruciali, ha scritto fondamentali pagine della storia del design, non soltanto italiana. 

Tobia Scarpa, in una recente intervista, ha ricordato: “Ho visto sempre lavorare in coppia i due Castiglioni: uno cominciava la frase, l'altro la finiva. Quando li ho conosciuti era esattamente così: Popo (Pier Giacomo) partiva e il Cicci (Achille) finiva la frase."

Ad Achille (e a quelli di noi) sarebbe sicuramente molto piaciuto che in mostra fosse stato documentato anche il suo rapporto con Livio (1911-1979), anch'egli architetto geniale, con un coté più indipendente, almeno a partire dal 1952, quando, lasciato lo studio che condivideva con i fratelli, preferì occuparsi di suoni e di luci, e anch'egli, ovviamente, uscito fuori dai lombi di quel cotanto padre, quel Giannino Castiglioni che, fra le molte sue opere, nel 1950 ha firmato anche la Porta bronzea del Duomo di Milano dedicata nientemeno che a Sant'Ambrogio, il nume tutelare della città, di cui la triade castiglionicaè illustre progenie e inscindibile trinomico vanto. 

Perché, come di loro ebbe mirabilmente a dire Dino Buzzati, Livio, Pier Giacomo e Achille furono "tre corpi con una testa sola".

 

Multa paucis.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Una mostra giocosa
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Magritte Berger, storia di un nome

$
0
0

Dal nove ottobre è in corso alla Fabbrica del Vapore di Milano “Inside Magritte”, un percorso espositivo multimediale, curato dalla storica dell’arte belga Julie Waseige, di centosessanta immagini di opere di René Magritte (1898-1967), dagli esordi fino agli ultimi capolavori. L’undici ottobre, il Palazzo Blu di Pisa, ha inaugurato la mostra “da Magritte a Duchamp.1929: il Grande Surrealismo dal Centre Pompidou”, curata da Didier Ottinger, che ospita circa centocinquanta opere – dipinti, sculture, disegni, collage, installazioni e fotografie – dei maggiori esponenti dell’avanguardia surrealista, tra cui: René Magritte, Salvador Dalí, Marcel Duchamp, Max Ernst, Giorgio De Chirico, Alberto Giacometti, Man Ray, Joan Miró, Yves Tanguy, Pablo Picasso. 

La presenza di Magritte sia a Milano che a Pisa, mi ha fatto ripensare alla vita del pittore belga e all’esortazione «Vieni a fare un giro!», che il quindicenne René rivolse alla dodicenne Georgette Berger, figlia del macellaio di Charleroi. In questa città, dove dal 1913 andò a vivere la famiglia Magritte, si svolgeva una fiera che ospitava una giostra. Il primo gesto che avvicinò René alla sua futura moglie Georgette fu l’invito a un giro di giostra, come le parole di quest’ultima testimoniano.

 

A Charleroi, dove ho trascorso la mia infanzia, c’era una fiera… Sulla piazza, nella parte alta della città, c’era una giostra. «Vieni a fare un giro!», mi disse un ragazzo. (Magritte - his work his museum, Ed. Musée Magritte Museum/Hazan, Vanves Cedex, 2009, catalogo del Museo Magritte di Bruxelles.)

 

Il giovane artista belga e Georgette si sposarono nel 1922. In quello stesso anno, René espose sei quadri in una mostra internazionale organizzata ad Anversa, sotto il nome di “Magritte Berger”. 

Magritte amava accostare immagini e nomi apparentemente inappropriati. Anche per questo dedicava molto tempo al collage. Gli consentiva di creare composizioni libere, inusuali. Lo considerava un ottimo esercizio per separare gli oggetti dai loro contesti funzionali. Era per lui un principio poetico le cui possibilità si prestavano a venire esplorate e trasferite sulla tela. 

La sua passione per il collage, nata dalla scoperta delle opere di Max Ernst, non spiega tuttavia perché Magritte si presentò spesso al mondo sotto un’identità fittizia che includeva quella di sua moglie. Nel 1925 firmò “René Georges” la canzone Norine Blues che scrisse assieme a Georgette e che compose suo fratello Paul Magritte in occasione dell’evento “Gala des choses en vogue”, organizzato dalla casa di moda Norine. Nel 1936 firmò col nome di “Florent Berger” gli articoli che pubblicava per il quotidiano comunista “La Voix du peuple”.

 

Opera di René Magritte.


“Magritte Berger”, “René Georges” e “Florent Berger” sembravano essere un gioco di René e Georgette, il loro giro di giostra.

Chi era Norine? Norine era Honorine Deshrijver che, insieme al marito Paul-Gustave van Hecke, aprì la casa di moda per cui lavorò Magritte realizzando pubblicità legate a eventi e attività affini. Magritte fu disegnatore di copertine di dischi, di poster, di riviste. La sua attività fu varia, come le sue firme. 

La fusione divertita del pittore con sua moglie è rintracciabile anche nelle foto Love e The Shadow and Its Shadow, rispettivamente del 1928 e del 1932, che ritraggono i due coniugi. Nella prima, l’artista poggia un pennello sul corpo della moglie come se lo posasse su una tela. La dipinge, la crea. Nella seconda i ruoli si capovolgono. Georgette è in primo piano e René è dietro di lei, è la sua ombra. È Georgette a creare Magritte, assieme alla luce, poiché ogni ombra è creata da un corpo e dalla sua posizione rispetto a una fonte luminosa.

 

Nell’universo fantastico delle fiabe, così come nei miti, molti sono i casi in cui un essere viene creato da un altro a partire da elementi semplici: acqua, terra, farina, sale, vento. 

La foto di Magritte e Georgette, Love, può rimandare alla fiaba Re Pepe, presente nella raccolta di fiabe e novelle calabresi di Letterio Di Francia, pubblicata da Donzelli e curata da Bianca Lazzaro. In Re Pepe è la figlia del re a creare il suo sposo con farina e zucchero:

 

Una volta c’era un re; la moglie era morta lasciandogli una sola figlia. Siccome era in età da maritarsi, arrivarono proposte da figli di re, marchesi e conti; ma lei le rifiutava tutte e non si voleva maritare. Un giorno il padre la chiamò e le disse: «Figlia mia, perché non ti vuoi maritare?». «Papà –  rispose lei – se voi mi volete maritare, mi dovete dare un quintale di farina e un quintale di zucchero, perché lo sposo me lo voglio fare con le mie mani».

 

 Il pittore belga e sua moglie si crearono a vicenda, e forse è dalla peculiarità del loro incontro che nel 1988 nacque la stanza “René e Georgette Magritte” all’interno del Museo Magritte di Bruxelles.

Le opere dell’artista ci raccontano di sogni e visioni provenienti da una lucida e ferma osservazione del reale. Il modo in cui Magritte riuscì a guardare e a raffigurare le cose è simile a quello di Funes, protagonista del racconto di Borges “Funes, o della memoria” della raccolta Finzioni edita da Einaudi. Funes può essere letto come una caricatura della poetica magrittiana. Di Funes ci viene raccontato che fu travolto da un cavallo selvaggio e che, in seguito a questo incidente, rimase paralizzato ma si scoprì dotato di una memoria e una percezione straordinarie. Sappiamo che, dopo l’incidente, trascorse il suo tempo su una branda fissando dettagli, una ragnatela, un albero di fico dalla finestra. 

Il presente di Funes era denso di particolari, scorci, angolazioni, elementi. Era un presente ricco anche di ricordi, poiché la sua memoria era incredibilmente estesa. 

 

Cadendo, perdette i sensi; quando li riacquistò, il presente era quasi intollerabile tanto era ricco e nitido, e così pure i ricordi più antichi e banali. Poco dopo s’accorse della paralisi; la cosa appena l’interessò; ragionò (sentì) che l’immobilità era un prezzo minimo; ora la sua percezione e la sua memoria erano infallibili.

 

 La percezione di Magritte era nitida come quella di Funes. Vedeva gli oggetti assieme a tutte le parti di cui erano fatti, per questo poteva scomporli, muoverli, ricomporli e dare loro nuove e inedite collocazioni. A questo invitava il collage. 

 L’opera d’arte diventava così un nuovo e sorprendente ordine nato dal disordine e dal gioco. 

Magritte non viaggiò molto, come Funes. La sua vita, fatta eccezione per il periodo parigino e qualche viaggio, si svolse a Bruxelles. 

Forse il segreto per sviluppare una buona memoria e una percezione attenta risiede nel coltivare una vita stabile, di pochi spostamenti, nell’avere quel tempo che erroneamente viene definito “morto” e che permetterebbe ai nostri occhi di aprirsi al dettaglio, alle piccole e grandi narrazioni che sa offrirci la realtà.

Le diverse firme che uniscono il pittore belga alla moglie sono il risultato della medesima poetica che scompone e ricompone le parti. Sono un ibrido di realtà e finzione, come i quadri di Magritte. Appartengono a personalità immaginate, possibili. L’artista belga era ossessionato dalle infinite possibilità che porta con sé ogni presente e che spesso rimangono celate nelle sue pieghe. 

Le distinte firme ideate dal pittore, probabilmente insieme alla moglie, possono essere intese come un tentativo di esplorare le possibilità ignorate della vita o come un’esortazione a giocare e a invitare chi ci è più prossimo a un giro di giostra.

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Due mostre
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 
Viewing all 655 articles
Browse latest View live