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Gerda Taro e Vivian Maier

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“Cosa mi fa sentire forte?” si domandava Susan Sontag in un’annotazione del suo diario. “Essere innamorata e lavorare”. E, ancora, descriveva la “vita della mente”, con le parole: “avidità, appetito, desiderio, voluttà, insaziabilità, estasi, inclinazione”. Ci sono analogie tra amare e conoscere, “tra il modo in cui l’Eros agisce nella mente di chi ama e quello in cui la conoscenza agisce nella mente di chi pensa”, scriveva la poetessa e grecista Anne Carson.

È, questo, a mio parere, il punto di vista che hanno scelto Helena Janeczek e Francesca Diotallevi per raccontare le vite di Gerda Taro e Vivian Maier. La prima con il romanzo La ragazza con la Leica (Guanda, 2017), la seconda con l’altro romanzo Dai tuoi occhi solamente, (Neri Pozza, 2018). Entrambe le fotografe prestano attenzione al mondo e al loro tempo, ma il loro sguardo si pone a distanze diverse dalla realtà che rappresentano.

 

Per Gerda la fotografia ha origine nel centro delle cose, della sua vita e degli avvenimenti storici e politici. Gerta Pohorylle, nata nel 1910 a Stoccarda da una famiglia di ebrei polacchi, si trasferisce a Lipsia nel 1929 per frequentare la Gaudig Schule. Nel 1933 viene arrestata per aver frequentato attivisti antinazisti. Si trasferisce quindi a Parigi, dove incontra l’ungherese Endre Ernö Friedmann, di cui diviene la compagna, che le insegna a fotografare. Insieme, su Endre costruiranno il personaggio di un famoso fotografo americano, Robert Capa, mentre per sé adotterà il nome di Gerda Taro. Il 18 luglio del 1936 inizia la guerra civile in Spagna. Il 5 agosto i due arrivano a Barcellona, la città dove ha avuto inizio l’insurrezione popolare, e subito Gerda realizza una serie di immagini di donne della milizia che si addestrano sulla spiaggia fuori città. 

 

Le immagini delle volontarie in armi e non nelle retrovie a cucire e a cucinare, mostrano al mondo la cesura rispetto al vecchio ordine patriarcale e la svolta rivoluzionaria e libertaria in atto in Spagna e in Catalogna in particolare. Nel marzo 1937 comincia a firmare i suoi lavori “Photo Taro” e le sue foto vengono pubblicate da “Regards”, “Ce Soir” e “Volks-Illustrierte”. Il 26 luglio del 1937, al ritorno dal fronte di Brunete, un carro armato “amico”, sotto attacco aereo tedesco, urta la macchina a cui è aggrappata. Viene travolta e muore. Ai suoi funerali, il primo agosto 1937, nelle strade di Parigi, una sfilata di bandiere rosse attraversa la città.

Nella Spagna rivoluzionaria si ha la consapevolezza che la posta in gioco è tra libertà e fascismo, ben oltre i confini spagnoli; la lotta non è per un nuovo potere ma per un’utopia. “Noi portiamo un mondo nuovo qui, nei nostri cuori. Quel mondo sta crescendo in questo istante” dice Buenaventura Durruti, l’eroe indiscusso di questa tragica rivoluzione che vuole realizzare una nuova umanità, senza padroni, certo, ma anche senza politici, patriarchi e pregiudizi.

 

Gerda Taro, Miliziana repubblicana in addestramento sulla spiaggia nei pressi di Barcellona, agosto 1936.


Gerda Taro, Miliziane repubblicane in addestramento sulla spiaggia nei pressi di Barcellona, agosto 1936.


Le foto di Gerda restituiscono la forza di questo particolare momento. Le sue miliziane ne sono un evidente esempio. La fotografa sta ai loro piedi: cinque donne tagliano l’immagine in diagonale, quasi come uno sfregio. E lo stesso accade con la bella miliziana in ginocchio mentre si sta addestrando: lo sguardo deciso rivolto dinnanzi a sé, in mano una pistola che pare un’estensione del suo corpo, pronta all’inevitabile durezza di uno scontro frontale. Il profilo scuro, che si staglia contro un cielo opaco, la trasforma nel simbolo di un istante indimenticabile ed eroico. 

Intelligenza ed eros si incontrano nel momento in cui il desiderio esige la rivoluzione e la rivoluzione libera il desiderio. Non importa se la morte è vicina. Quale mezzo migliore per testimoniare questa esperienza se non una macchina fotografica?

 

Con le sue immagini Gerda riesce ad elevare il gesto al di sopra del contesto, in uno stadio estremo di consapevolezza. La forza delle sue fotografie non risiede nella loro qualità estetica, ma nel tentativo di voler anticipare il futuro, quasi come se immaginasse la vittoria dei rivoluzionari. Gerda vive con le persone che combattono, fotografa bambini e contadini, ma anche scene di vita quotidiana, con il loro contenuto prosaico ed il tono dimesso. Non è semplicemente solidale con il soggetto, ma ciò che mette in immagine diventa parte di sé, come lei stessa è parte dell’evento che sta fotografando. Il celebre motto di Capa: “se le foto non ti sono venute bene vuol dire che non sei abbastanza vicino”, è indice del suo essere partecipe a un destino comune, manifesta una forma di responsabilità che coincide con il suo bisogno di autonomia e audacia, che si origina da una libertà di coscienza e azione possibile solo in certe situazioni eccezionali.

 

Gerda Taro, Soldati repubblicani, La Granjuela, fronte di Cordoba, Spagna, giugno 1937.


Gerda Taro, Vittime di un raid aereo all’obitorio, Valencia, maggio 1937.


Tre settimane dopo Guernica, nel maggio del 1937, fotografa le conseguenze delle incursioni notturne sulla popolazione civile di Valencia. Scatta in un obitorio: inquadra le ferite, i morti che non smettono di sanguinare, i sopravvissuti. Alcuni cadaveri di donne stese sui tavoli, con aria quasi serena, pare dialoghino a distanza con l’immagine delle miliziane. Questi morti, travolti apparentemente da un destino incontrollabile, sfuggono ad ogni ordine temporale, paiono non voler morire. Sono il volto in cui il tempo delle passioni e quello del pensiero possono coincidere. Fotografare significa non credere che la morte vinca sulla vita. Per questo le sue immagini riescono a conservare l’integrità di quel momento storico, tanto negli istanti euforici, quanto in quelli drammatici. Gerda è sempre presente a se stessa, ma le sue fotografie esprimono idealità che trascendono il suo particolare presente e riescono a farsi strada, ancora oggi, negli occhi di chi vuole e sa guardarle.

Se per Gerda, dunque, fotografare significa gettarsi a capofitto negli eventi ed aprirsi ad un mondo nuovo, per Vivian Maier ciò che conta è stare a una certa distanza. Per lei la verità è legata al silenzio, alla riflessione, alla solitudine.

 

Tutti conoscono la sua storia. Nasce a New York nel 1926 da madre francese e padre austriaco. Il suo primo contatto con la fotografia avviene nel 1930, in tenera età, poiché la madre divide l’appartamento con la ritrattista Jeanne Bertrand. In seguito trascorre l’infanzia in Francia e nel 1951 torna negli Stati Uniti dove lavora tutta la vita come baby sitter. “Disse che fin da giovane aveva scelto di diventare bambinaia perché le sembrava che le potesse garantire una certa libertà e perché qualcuno le dava un tetto sopra la testa”, ricorda Chuck Swisher, membro di una famiglia presso la quale lavorò negli anni Novanta.

 

Essere soli per Vivian Maier significa muoversi in continuazione. Solitudine e movimento coincidono. Camminare e guardare non sono disgiunti, fanno parte del medesimo gesto. Nella sua Rolleiflex entra ciò che vede per strada a New York e Chicago: un uomo raggomitolato su un marciapiede, due bambine che si abbracciano guardandosi negli occhi, un uomo che dorme sulla spiaggia. E molto altro: volti, strade, edifici. 

 

Vivian Maier, New York, 27 luglio 1954.


Vivian Maier, New York, 1952-1959.


Eppure Vivian non sviluppa che poche immagini. Sta qui il mistero del suo lavoro. Forse nell’idea la fotografia possa rappresentare la perfezione del gesto rubata a un mondo che la disconosce. “Ho scattato così tante foto per riuscire a trovare il mio posto nel mondo”, scrive Vivian. Eppure non è affatto ambiziosa. Non intende toccare alcuna vetta, bensì esprimere il desiderio di preservare, prima di tutto per se stessa, lo spazio di un altrove nel cuore del presente, lasciandosi sconvolgere fino in fondo dal suo silenzio. 

 

E se per gli altri le sue immagini sono il segno di una lontananza, di un segreto intraducibile, per se stessa costituiscono la forma di un’esperienza interiore, in una relazione così stretta con la vita, da poter essere talvolta lette come un profilo autobiografico. La solitudine non comporta paradossalmente un’esposizione di sé e della propria vulnerabilità? Il silenzio non può forse divenire spazio per un nuovo sguardo, che si lascia attraversare proprio in virtù della sua estraneità? Vivian fotografa per essere raggiunta, ma anche per marcare una distanza. Forse per lei è davvero l’unica possibilità di vivere, di far dialogare il mondo esterno e le voci che abitano dentro di lei. Vivian lascia parlare dentro di sé i soggetti che fotografa e nel contempo dà modo agli stessi di divenire il suo corpo, il suo sguardo, il principio della sua identità. Con un movimento analogo a quello dell’autobiografia, si preoccupa di comporre la frammentarietà degli istanti che va conservando senza mostrarli, in un tutto omogeneo. Ogni immagine diventa anche un momento della sua vita, non è importante che gli altri vedano. Fotografare è stare all’ombra dell’originale, ma è anche accogliere l’originale in una zona d’ombra, come se guardare fosse una sorta di appropriazione silenziosa.

 

Entrare in contatto con il mondo, desiderare di possederlo, per Vivian è conoscere se stessa. Scattare incessantemente per lei è amare ciò che guarda, non mostrarlo è un segreto che solo la fotografa può conoscere. Conoscenza ed eros per Vivian si consumano nel rifiuto di rendere pubbliche le sue foto. Non stamparle significa sottrarle ad una sfera economica e riproduttiva aperta ad un pubblico o ad un altro da sé, è la scelta consapevole di chi compie un atto autoerotico votato alla sterilità. Forse è per questo che in un’epoca che fa del mercato un elemento naturale e della riproducibilità un ideale imprescindibile, ci seduce la scelta spiazzante di conservare tutto in un posto segreto.

Il silenzio delle immagini, direbbe Erling Kagge, contiene in sé “lo stupore, ma anche una specie di violenza, un po’ come l’oceano o una distesa sconfinata di neve”. Così se per Gerda la fotografia è un occhio gettato nella tempesta, un’appassionata, disperata risposta che si spinge oltre ogni orrore e desolazione, per Vivian è un’isola in cui preservare la risposta al silenzio della sua vita. Per entrambe significa pensare e sentire l’esperienza immediata di ciò che le circonda; ognuna giunge a un contatto diretto con ciò che le sovrasta e le opprime. Eppure fotografare vuol dire generare occasioni di libertà da situazioni di costrizione.

 

Va sottolineato, infine, che i libri considerati non sono saggi, ma romanzi. Il loro merito, prescindendo dal giudizio della critica o da quello che il pubblico ha già accordato o potrà accordare, è quello di riproporre, all’attenzione di chi si interessa di fotografia, le storie di due donne così diverse, ma in fondo accomunate dal medesimo profondo bisogno di esprimere se stesse.

Per questo, le fotografe, mostrandoci due diversi modelli di formazione, possono ancora suggerirci sentieri mentali da imitare o da evitare, costringendoci comunque a riflettere.

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Aforismi per una sceneggiatura di guerra

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"Uomini contro" (1970) di Francesco Rosi
"Orizzonti di gloria" ( (“Paths of Glory”, 1957) di Stanley Kubrick
Illustrazione di Jacques Tardi

Il 4 novembre 1918, l'armistizio siglato da Italia e Austria-Ungheria poneva fine alle ostilità fra i due Paesi. Una settimana dopo, la Prima Guerra Mondiale era finita. 

Evento cardine della modernità novecentesca, la Grande guerra poneva le basi per un equilibrio fragile, destinato a sfociare in un altro e ancora più sanguinoso conflitto. A un secolo esatto di distanza, che cosa rimane di quella terribile esperienza? Siamo stati davvero capaci di elaborare il trauma, o stiamo nuovamente cadendo preda di pulsioni revansciste, militariste e xenofobe? 

Con l'aiuto di storici, scrittori e studiosi, cerchiamo con una serie di interventi - oggi il primo - di ricostruire l'impatto del primo conflitto mondiale sulla coscienza collettiva. Un modo per ripensare la memoria della Grande guerra, con un occhio al futuro.


Se dovessi scrivere una sceneggiatura per un fumetto o per un film sulla prima guerra mondiale sarei subito costretto a stringere il campo per non perdermi in una infinita bibliografia-filmografia. Inizio facendo il primo nome che mi viene in mente, e che terrei come punto di riferimento: Emilio Lussu. Il suo Un anno sull’altipianoè sempre stato per me IL libro sulla prima guerra mondiale. In rappresentanza dei tantissimi film sulla grande guerra sceglierei senza esitare Kubrick e il suo Orizzonti di gloria e lo rivedrei due o tre volte. Ma non mancherei di frequentare a lungo anche le trincee di Tardi e rileggerei il Voyage di Céline.

 

Per riuscire a scrivere una sceneggiatura del genere non ci si può accontentare di quel che si sa, bisogna sapere di più: documenti e testimonianze dirette, giornali di trincea, un manuale di storia. Lo sceneggiatore non è uno storico, d’accordo, ma neppure un cialtrone: dovrebbe superare un esame universitario sull’argomento, tutto qui. È la guerra di un secolo fa, combattuta da mio nonno. E la sua storia di artigliere potrebbe servirmi. Sceso dal Gran Sasso per risalire le Alpi con il pesante fardello degli artiglieri. Per riuscire a far vivere dei personaggi bisogna essere loro, come è stato stabilito ben prima della grande guerra. La mimesis è divina oppure non è, e purtroppo non è da tutti. 

 

Mio nonno artigliere che perde i cannoni dopo Caporetto e non può più sparare. Aveva una grande manualità, sapeva lavorare la pelle e realizzava borse, bauli e soprattutto stivali molto apprezzati dai signori ufficiali. Tornato dalla guerra sarebbe diventato Mastro Biagio. La guerra l’aveva indurito, parlava poco e non era simpatico. A volte si infuriava con freddezza e infilzava con un grosso ago le gambe di figli e lavoranti indisciplinati.  Forse mio nonno, da monarchico che era, si era trasformato in nichilista come Céline? Quando fai il callo agli sventramenti e ai cadaveri in decomposizione il male diventa banalità e niente ha più senso. L’orrore e il grottesco vanno a braccetto. Per rendere giustizia a mio nonno devo aggiungere che in seguito, pur restando incredibilmente monarchico, appoggiò la resistenza e fu sempre antifascista.

 

Nel fumetto la parola è più libera: puoi scrivere “Nave”, puoi far apparire Baracca con l’intera squadriglia degli assi e farli combattere nel cielo azzurro o se preferisci nuvoloso. Flotte, trincee a perdita d’occhio, esplosioni. Nel fumetto non ci sono limiti. Le stesse parole scritte in una sceneggiatura per il cinema si trasformano in cifre spaventose. Le trincee vanno un tanto al metro. Sono queste le coordinate di base. In fondo si tratterebbe delle stesse storie, ma con strumenti addirittura non comparabili: il cinema è industria, il fumetto si può fare a casa.

 

 

L’essenziale è trovare uno stile, e per trovarlo bisogna lavorare sui dettagli. Il libro di Lussu è pieno di dettagli preziosi, sensazioni olfattive, termiche. Riesce a descrivere anche le misteriose onde emotive che si estendevano tra le trincee, le rabbiose ribellioni troppo a lungo soffocate. I suoi ritratti sono altrettanto precisi e tutti insieme costituiscono una folla. Dobbiamo cominciare a ascoltare, a distinguere tra tutte quelle voci. Il capitano è nervoso. Bestemmia furiosamente, il battaglione tace e lavora. È nervoso per i fatti suoi, l’imbecille, e scarica i nervi sui sottoposti. Respiriamo questo rancore che cresce attorno a lui. Anche se raccontassi altri episodi della stessa guerra, con personaggi diversi, non potrei fare a meno in alcun modo di queste pagine. 

 

La solita illusione ottica ci propone Lussu come nostro rappresentante ma non è così, Lussu non ci rappresenta. Nella sua lunga militanza culturale e politica è sempre stato minoranza trascurabile. Anche dopo la seconda guerra e dopo la Resistenza. Come scherzava Saba, si preferiva Togliatti, dopo aver amato il Dux. Il futuro politico di Lussu era già scritto in questo libro. Sembra fatto apposta per essere rimosso.

 

Mi piacerebbe raccontare il momento in cui Lussu comunica a Salvemini che non aveva voglia di scrivere della guerra appena finita ma pensava a un saggio su Machiavelli. Per fortuna cambia idea. In questa svolta si gioca la testimonianza più importante sulla linea del fronte. Scrive un libro straordinario, con oggettività e senza artifici retorici. Un anno sull’altipianoè una magnifica opera non-fiction. Prima di andare in stampa dovranno passare molti anni. Identico destino per il film di Kubrick (che peraltro potrebbe aver letto il libro di Lussu, uscito in Francia prima che in Italia, dove fu a lungo ignorato): ambientato in Francia, ne fu proibita la proiezione per anni. Come è noto il libro di Lussu è all’origine di un noto film di Rosi, Uomini contro. Il film di Rosi si beccò le reprimende di qualche parruccone militare e pure qualche denuncia. In fondo raccontano le stesse dinamiche, la stessa storia da punti di vista diversi.

 

Mimesis: in tutte le storie che leggo o vedo mi identifico sempre con il soldato che spara o sogna di sparare al suo superiore fetente. Chissà se fa parte del processo di costruzione dello spirito nazionale…

 

Personalmente avrei seguito le emozioni e le illusioni del libro di Lussu così come si presentavano. Le voci di trincea, le leggende, i miti, e appunto le illusioni.  Perché sulle guerre non scorrono i titoli di coda e i tempi delle comunicazioni sono lunghi. Nell’antica Grecia si contavano i guerrieri alla fine: i vivi avevano vinto. Niente a che vedere con le guerre di massa, che costringono al combattimento intere generazioni, rappresentando al loro interno le stesse divisioni della società che li manda. Ci sono gli aristocratici ufficiali, c’è la carne da macello. Enea potrebbe saltare il reticolato e impugnare la lancia, lo stesso potrebbe fare Ettore, con forza ancora maggiore, ma verrebbero spappolati dalle mitragliatrici come tutti gli altri. Non più eroi, ma poveri cristi. 

 

Quando gli austriaci attaccano e sono vicini si sente l’alito folle del loro cognac d’ordinanza… Che grande descrizione questo ammirevole non-scrittore! La guerra in fondo è un delirio alcolico. Truppe e ufficiali di tutti gli eserciti sono sempre ubriachi. Probabilmente Lussu era l’unico astemio del suo battaglione, anche a questo dobbiamo la sua lucida testimonianza.

 

“Uomini contro” (1970) di Francesco Rosi.


Rispetto al film di Rosi avrei fatto sentire il sollievo illusorio dei soldati che abbandonavano la pianura carsica e le trincee per approdare al combattimento di montagna, immaginando boschi e ruscelli. Il sogno della “manovra” risolutiva, che in un sol giorno avrebbe portato “duecento, trecentomila” crucchi alla resa. Sogni, chiacchiere, voci di trincea, delirio. Ogni storia, nessuna esclusa, è fatta di pieni ma anche di vuoti.

 

Céline e Tardi sono un’accoppiata che fa scintille tanto sono diversi, ma in fondo la guerra è il cuore della loro narrativa. Come lo è in Omero e come è sempre. Guerra e pace. Questi pochi decenni di pace relativa (quasi continentale) ci hanno alterato la visione profonda della storia.  Se l’impollinazione rappresenta la vita di piante e insetti la guerra rappresenta la vita degli uomini. Mio nonno ha partecipato alla prima guerra mondiale. Mio padre alla seconda. A me (a questo punto si può dire) è stata risparmiata la terza. Straordinariamente oggi non sappiamo apprezzare la nostra piccola pace. La guerra sembra una volgarità periferica dei paesi poveri. Esaltati che sputano sul marciapiede e pisciano sui muri indossando cinture esplosive. Schegge che ci raggiungono sfacciatamente da guerre lontane. Guerre senza eroi, guerre di numeri e di uffici stampa.

 

In realtà di dettagli si occupano in pochi, in generale nessuno sa più niente. Un popolo (forse globale) completamente smemorato che in fondo ha sempre scelto il peggio, in pace e in guerra. Vorrei che nella sceneggiatura si avvertisse un sentore del presente: nessuno sa cosa ci aspetta. I segni inquietanti non mancano. La guerra non appare nei discorsi, ma in silenzio produciamo quantità impressionanti di armi. Le vendiamo anche a quelli che le useranno contro di noi. Perdere il ricordo delle guerre recenti è come affidare un’automobile sportiva a un bambino. 

 

Un caro amico regista che non c’è più, Carlo Mazzacurati, disse a qualcuno che lo spingeva a fare un film di guerra: “Mi piacerebbe, il problema è che vedere uno con l’elmetto che entra nel mio set mi fa cadere le braccia…”

Anche Tarantino regista di guerra fa cadere le braccia.

Perché è così difficile? Pensiamo alle modeste fiction di guerra prodotte attorno al centenario dalle tivù. Recite scolastiche con elmetti presi a porta Portese.

Secondo me Carlo aveva questa paura.

Vorrei aggiungere: ne aveva paura anche perché era grande amico di Rigoni Stern.

 

Un capitolo inquietante: scrittori-non-scrittori che raccontano le guerre. L’immenso Levi, Mario Rigoni Stern il galantuomo delle montagne, Emilio Lussu il testimone anti-eroe, l’eroe-non-eroe e scrittore-non scrittore. Mi chiedo cosa significhino oggi questi nomi per le persone che mi circondano, e la risposta è: niente.  Nomi da specialisti. Vuoi mettere un bel commissario o una bella banda di giovani imbecilli che si sparano tra loro? Non è troppo paradossale considerare anche Kubrick un corpo estraneo nel cinema, essendo però cinema lui stesso…

 

Mario Rigoni Stern ha ragione quando dice che il film di Rosi non ha molto a che fare con il libro. Riferisce il commento di Lussu dopo la prima proiezione: “Tu lo sai, in guerra qualche volta abbiamo anche cantato…”. (Kubrick era in piena sintonia con lui: Orizzonti di gloria si conclude con un coro a bocca chiusa straziante). In realtà La Capria e Rosi hanno sceneggiato nell’unico modo in cui è possibile sceneggiare un libro: dimenticandolo. Legittima quindi l’osservazione di Stern, altrettanto legittima la scelta degli sceneggiatori, che hanno realizzato il film in cui credevano. Convincente la prova di Gian Maria Volonté, accostabile in alcune scene al perfetto (non so quale aggettivo usare: pazzesco? incredibile?) Kirk Douglas scelto da Kubrick. Rosi deve necessariamente toccare le corde dell’assurdo, del limite estremo, quasi della pazzia. Le stesse corde toccate da Kubrick, che però aggiunge qualcosa in più. Uno spettatore partecipe ha certamente un travaso di bile nel corso della proiezione di Orizzonti di gloria, credo rilevabile anche scientificamente. È il nostro stesso corpo in gioco, la nostra dignità. Siamo noi quella carne da macello. Infatti il plotone d’esecuzione prende di mira il pubblico: uno dei fotogrammi più potenti della storia del cinema. Quelli sono i nemici, crucchi e ufficiali nostrani, entrambi degni di un nostro proiettile. Un proiettile che attraverserà le epoche e che colpirà ancora anni dopo, in Kubrick, con lo sconvolgente Full Metal Jacket.  I nemici sono di qua (e li vedi e li odi) e di là, oltre il filo spinato, e in fondo li odi un po’ meno perché non li vedi.

 

“Orizzonti di gloria” (“Paths of Glory”, 1957) di Stanley Kubrick.

 

Non ci sono regole. Rosi e La Capria interpretano a loro modo un libro bellissimo, facendone un’altra cosa. Kubrick trasporrà ottimamente Nabokov ma farà film straordinari partendo quasi sempre da opere letterarie minori. Huston invece ne fa solo di stupendi tratti da libri stupendi, da Kipling a Melville, concludendo con Joyce. Spesso tradendoli, a volte aggiungendo con grande e delicata maestria solo una cinepresa.

Quando scrivi una sceneggiatura tratta da un libro a un certo punto, dopo averlo metabolizzato e appuntato, il libro non può più stare sulla stessa scrivania: altrimenti si fa un compitino. Del resto un romanzo medio avrebbe bisogno di una trasposizione di almeno ventiquattro ore… Soltanto il racconto breve ha la dimensione naturale del film, Carlo Mazzacurati lo ricordava sempre ai giovani sceneggiatori. Il resto è violenza. Da questo punto di vista il problema si pone anche per la trasposizione in fumetto (che come si sarà capito non amo chiamare Graphic Novel… ho già scritto, malvolentieri, la parola “fiction”!).

 

È il cinema che ha bisogno della letteratura, non il contrario.

 

Ogni tanto apparivano i futuristi, facevano un po’ di musica-caciara e poi se ne andavano in bici. Va beh, le nostre avanguardie di regime… le avanguardie delle avanguardie. Come definirle: un po’ stupidine? Ininfluenti lo furono di sicuro. I soldati cantavano “quel mazzolin di fiori…”

 

Il brulichio di poesia tra le trincee… filosofi poeti pittori in prima linea. Penso a un grande incisore che della prima guerra fece una sorta di fumetto ante-litteram: si chiamava Anselmo Bucci ed era anche un bravo scrittore. Un soldato sfinito che si arrotola una sigaretta al sole accanto a un cane spelacchiato che dorme acciambellato… disegni straordinari anch’essi dimenticati completamente essendo bellissimi.

Anche queste immagini vorrei, in un mio fumetto-film sulla prima guerra mondiale.

Un editore potrebbe addirittura scoprire che esiste un vero fumetto italiano della prima guerra mondiale, e ristampare la serie delle trincee nella sua interezza. 

 

La dimensione industriale del cinema invade il contenuto: puoi fare un film di guerra ma avrai al massimo cento comparse per tre giorni e quattro metri di trincea. Un film non si fa in due, ci sono molte, troppe mani invisibili che lo scrivono insieme a te. E quelle lunghe mani sono attaccate a cervelli che non vogliono sapere niente di questo Bucci e di tutti i suoi amici. Molto meglio pensare a un fumetto, mi sento subito più leggero.

 

Illustrazione di Jacques Tardi


Infatti ecco una nuova idea: non potrebbe essere tutto visto dal cane spelacchiato ritratto da Bucci? Quanto può essere sbandato un cane che si stabilisce in trincea, tra morti e fucilate? Che arriva lì, si accontenta di qualche crosta di formaggio e finalmente si sente a casa sua.

Un cane potrebbe essere protagonista di una storia di guerra?

Sì, potrebbe, l’idea mi entusiasma. Perché così tutto avverrebbe nella più totale confusione come sicuramente avveniva in realtà. Il punto di vista di un cane che assiste al grande macello, il suo stupore. Naturalmente esiste la strategia militare, è vero che Alessandro Magno sconfisse Dario che aveva un esercito molto più grande, ma la guerra di massa non si lascia facilmente plasmare dalla strategia e dalle frecce tracciate su una lavagna. Sarebbe come giocare a scacchi con centomila pezzi a disposizione. Le guerre, come i romanzi, hanno una loro impressionante autonomia.

 

La guerra, che è tragedia allo stato puro, ci mostra come siamo. La realtà scompagina le carte. L’ufficiale tutto d’un pezzo alto due metri sviene dalla paura, un mezz’uomo di campagna combatte come un mastino. Le classi si mescolano, i non-scrittori diventano i veri scrittori, i non-eroi diventano eroi. I cambiamenti sono la materia prima del narratore. Per questo poeti e scrittori hanno sempre raccontato le guerre. La guerra è cambiamento per definizione. Divide in due l’esistenza di chi sopravvive: prima della guerra, dopo la guerra. 

 

I cani sono coraggiosi. Lo vedi anche in strada: certi botoli vagabondi con la coda arricciata abbaiano a cani padronali grandi come vitelli. In un assalto alla baionetta il nostro eroe potrebbe anche difendere il suo capo branco. Ma percepire che il tuo capo branco odia più alcuni del suo stesso branco che quelli del branco nemico deve creare confusione. Forse si allontanerebbe dal campo di battaglia, spaventato dal frastuono, forse se ne andrebbe da qualche parte a guardare lo spettacolo da lontano, o più probabilmente si infilerebbe in una grotta. Dev’essere un cane abituato alla caccia ma qui le esplosioni non finiscono mai. Quando tutto è finito lo rivediamo camminare tra brandelli di cadaveri, annusando qua e là. Come alla fine di un mercato. Il cane registra la realtà, non la critica. I cani mangiano le galline, i serpenti ingoiano i topi, gli uomini ammazzano tutti gli altri animali e soprattutto si ammazzano tra loro facendosi a pezzi ma senza mangiarsi. Infatti i corvi pasteggiano indisturbati già da ore. Dovunque, a vista d’occhio, la terra è coperta di ottima carne abbandonata agli uccelli. In una padella c’è della sbobba che nessuno mangerà ed è la sua colazione. Attorno un’esplosione di odori che sale al cielo. Il suo padrone è ancora vivo, finalmente lo trova, gli lecca la faccia coperta di melma e sangue. Si riforma un piccolo gruppo, si accende un fuoco e ci scappa una bella dormita. All’improvviso alcuni del gruppo vengono fucilati dai loro compagni, come se non bastasse. Il cane osserva, Dio solo sa cosa può pensare, poi riprende a dormire. Forse nel corso della storia si alterneranno diversi capo branco: un giovane ufficiale, un soldato, un cuoco, una crocerossina…

 

Non bisogna cercare molto per rendersi conto che nell’iconografia della prima guerra mondiale il cane appare in tutte le latitudini come protagonista di guerra. Sbandati nel loro territorio cani da pastore e da pagliaio ritrovano un nuovo branco: appaiono cuccioli negli elmetti, cani di varie taglie e dalle storie misteriose si muovono nei reparti.

 

Un fumetto è un racconto a tutti gli effetti, scrivi e non sai ancora dove ti sta portando la scrittura. Non sapere cosa farà esattamente questo cane è eccitante, in fondo scrivo delle storie proprio per sapere io stesso come andranno a finire. A volte si va avanti perché il disegnatore si inventa una faccia, altre volte è lo sceneggiatore che propone un’immagine. A un certo punto è come se stessi disegnando anch’io che so fare soltanto casette di campagna stile quinta elementare. I disegnatori che conosco sono tutti molto bravi a disegnare (anche) dei cani, sanno dare spessore al loro sguardo. In certi momenti raggiungo con loro una vera simbiosi, e dopo qualche giorno di lavoro quasi non c’è più bisogno di dirsi niente.

 

La credibilità di una storia è tutto. Sarebbe lungo e arduo affrontare questo concetto in profondità, che include il rapporto stesso tra autore e lettore, il loro patto misterioso. Scegliendo il punto di vista di un animale la credibilità è in pericolo: i lettori penserebbero ai poveri cani di città tormentati dagli stupidi botti di fine anno. Come spostare l’asse della credibilità? Affrontandola direttamente. Per esempio: un soldato guarda il cane che dorme, e che non reagisce alle sporadiche fucilate qua e là, esattamente come loro, che infatti stanno facendo bollire sul fuoco l’acqua per il caffè. E lo dice: “guardate quel cane pulcioso, non fa una grinza, sembra un vecchio combattente…”. Neanche per i soldati inesperti è normale trovarsi in mezzo a quell’inferno. Dopo qualche settimana si crea una sorta di normalità. C’è l’ora degli attacchi, l’ora dei cecchini, l’ora del rancio, viene anche il momento di una improvvisa canzone da cantare a squarciagola… Sempre, in ogni tragedia, i testimoni descrivono sbalorditi l’enorme capacità di adattamento degli esseri umani e di tutte le creature viventi. 

 

In certi momenti cane e soldati si rilassano spidocchiandosi al sole, ognuno alla sua maniera. Sono momenti di grande silenzio. Eliminata la parola, cane e uomini diventano uguali. I soldati sfiniti di Bucci, il suo cane, gli asini, il tenente colonnello Abbati, il generale Leone, il profilo delle montagne, tutto si fonde assieme.

 

Questo testo è apparso per la prima volta ne L’offensiva di carta. La Grande Guerra illustrata, dalla collezione Luxardo al fumetto contemporaneo (Silvana Editoriale, 2018), catalogo della mostra a cura di Giovanna Durì, Luca Giuliani, Anna Villari (Castello di Udine, 1° aprile 2017 - 7 gennaio 2018). Lo ripubblichiamo per gentile concessione dell’autore.

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Phoebe Unwin

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Riapre la stagione espositiva presso la Collezione Maramotti, che inaugura le attività autunnali presentando la prima personale italiana di Phoebe Unwin. Per l’occasione, la Pattern Room ospita il lavoro della pittrice nata a Cambridge, già in shortlist per il Max Mara Prize 2015, i cui lavori sono presenti anche nella collezione della Tate Modern. La Collezione Maramotti può essere considerata un osservatorio privilegiato sulla scena delle artiste inglesi contemporanee, grazie alla sinergia con la White Chapel Gallery e alle attività dell’omonimo premio, che dal 2005 seleziona e premia con residenze e progetti espositivi le artiste anglosassoni più meritevoli. Tra i nomi premiati ricordiamo Laure Prouvost, vincitrice del prestigioso Turner Prize nel 2013 e autrice del progetto GDM - Gran Dad’s Visitator Centre presso l’Hangar Bicocca di Milano nel 2016, ed Helen Cammock, vincitrice dell’edizione 2018.

Confermando l’interesse specifico verso la pittura, evidente anche dalla formidabile selezione di tele di livello museale esposte nelle sale della permanente, la Collezione sceglie un’artista che formalizza una sensibilità estremamente contemporanea, pur rimanendo fuori da ogni discorso cronachistico e da ogni volontà di commento della realtà contingente. 

 

Phoebe Unwin Approach, 2017 olio su tela / oil on canvas 183 x 153 cm © the artist Courtesy Amanda Wilkinson Gallery, London.

 

Unwin non lavora con fotografie o copiando dal vero. La sua ricerca si sviluppa partendo sempre da memorie personali, frammenti di ricordi, appunti, schizzi, sensazioni, che compongono una personale grammatica di forme, luci, volumi. Non mancano però tracce di figurazione, che rendono in parte riconoscibili i soggetti rappresentati, e che giungono a concludere un percorso creativo che nasce dall’astrazione per sfociare in una parziale figuratività, e che non si esaurisce in  forme di carattere realistico. Le campiture ampie (anche nei piccoli formati), la vibrazione del colore e il soft focus che caratterizzano le pitture dell’artista inglese evocano uno stato percettivo sospeso, dove gli oggetti vanno lentamente definendosi e il loro esistere travalica la dimensione temporale del dipinto. Viene da scomodare Henry Bergson, in questa esperienza percettiva dove la realtà materiale delle cose e la dimensione emotiva (in questo caso più che spirituale) della memoria si incontrano. In questa sensibilità senza frizioni, fluida, ovattata, c’è una piacevolezza estetica che si esprime nell’impalpabilità delle superfici, nel godimento del colore che pulsa e rende vive le forme: un muro di oscurità che incombe e di cui sembra di sentire il rombo in lontananza (Nightfall, 2017), una composizione dominata dal giallo (Field, 2018), un abbraccio (Approach, 2017). Un lavoro scandito da movimenti lenti, piccoli fremiti, improvvisi squarci luminosi, dove il conflitto sembra placarsi nel godimento pittorico e le figure si fanno tutt’uno con l’ambiente. Tele che producono un flusso avvolgente, nelle quali le composizioni restituiscono allo spettatore la percezione di un tempo dilatato, di quiete. Come aprendo gli occhi dopo il sonno notturno, ancora avvolti dalla sensazione di spaesamento, nel fugace lasso di tempo in cui le cose appaiono in una veste sconosciuta, prima che il mondo riacquisti connotati familiari. 

 

Phoebe Unwin Field, 2018 olio su tela / oil on canvas 183 x 153 cm © the artist Courtesy Amanda Wilkinson Gallery, London.


Unwin dichiara di essere interessata più all’emozione che la pittura può suscitare rispetto alla rappresentazione delle cose. Forma e contenuto sono posti sullo stesso piano e agiscono insieme, equiparati per importanza. L’impronta del lavoro è indubbiamente minimalista ma senza il ricorso alla ripetizione di forme e segni: ogni lavoro è un’occasione di esplorazione a sé, che si inserisce in un percorso coerente e irripetibile. Lo spazio esteriore ritrova le coordinate attraverso l’esplorazione delle geografie interiori, e acquista una nuova vita sulla tela attraverso un viaggio à rebours. Questo “inner landscape” produce una forma di sublime privata, che discende da quell’espressionismo astratto di matrice statunitense, meravigliosa intuizione che ripulì le visioni di ogni orpello lasciandole nude ed estatiche. Il sublime racchiuso nelle opere di Phoebe Unwin è un sublime intimo, fatto di momenti che fluttuano nel tempo e nello spazio di una vita e vengono prelevati dal flusso indistinto dell’esistente per brillare attraverso la luce della pittura. L’esterno e l’interno dissolvono i confini e disegnano una mappatura psichica dove spazio vissuto e lo spazio pensato si proiettano (e prolungano) l’uno nell’altro, dove la microstoria quotidiana costituisce l’archivio da cui attingere per rigenerare l’infinito discorso della pittura.

 

Phoebe Unwin Almost Transparent Pink, 2018 olio su tela / oil on canvas 51 x 41 cm © the artist Courtesy Amanda Wilkinson Gallery, London.


Nel lavoro di Unwind emerge l’idea che lo spazio possa essere vissuto appieno, dal punto di vista dell’esperienza, solo attraverso l’ausilio della memoria. Lo sguardo da solo non consente la comprensione dei fenomeni, quindi un approccio puramente ottico risulta fallimentare. L’azione dei sensi concorre a creare quell’insieme di frammenti che compongono l’esperienza della realtà e che ci restituiscono il mondo nella sua interezza. Riguardo al tema dello spazio e della visione, Unwin afferma: “Il campo del paesaggio è per me esso stesso un soggetto che oscilla tra un luogo osservato o ricordato e un luogo di energia o visione. Si tratta di un punto di partenza per l’astrazione e la figurazione in egual misura. Questi paesaggi riguardano dei luoghi ma anche l’atto stesso del dipingere: sono la registrazione di una risposta al colore e alla forma.”  Paesaggio inteso perciò anche con l’accezione di “field”, come campo di colore e come inquadratura, struttura visiva che organizza la visione, soggetto esso stesso di una metapittura.

 

Phoebe Unwin Headway, 2018 olio su tela / oil on canvas 51 x 41 cm © the artist Courtesy Amanda Wilkinson Gallery, London.


A far da contraltare alla partitura cromatica delle opere pittoriche ci sono le carte, disegni in bianco e nero dal tratto libero e aggressivo. Nei disegni la figura umana si palesa, pur rimanendo forma tra le forme. In assenza di colore, il dialogo tra profondità o superficie scarta verso la bidimensionalità del segno e la scala dei grigi, dei neri e dei bianchi determina le forme: “esplorare, dare forma attraverso il bianco e nero del carboncino (in passato ho lavorato spesso con il colore sulla carta) a contrasti di contenimento e aree selvagge, punti di vista oscurati, occultamento contro rivelazione”. Levità e freschezza rimangono intatte, la matrice figurativa si fa più chiara, quasi che la nettezza del segno grafico la costringesse a emergere dal biancore della carta, appare un urgenza del segno che si fa largo nello spazio del foglio. Un ritmo più alto rispetto alle tele, dove l’artista può lasciare che il colore a olio rivendichi il tempo che gli è necessario per tradursi in pittura, scegliendo il ritmo della propria andatura, dove la dicotomia tra solidità e trasparenza può dispiegarsi e la materia può esprimersi compiutamente, tra velature e blocchi di colore, minute epifanie, immagini che affiorano dalla corsa placida del pennello e galleggiano, come animate da una nuova vita ed emancipate, infine, dal giogo della memoria. 

 

Phoebe Unwin Diverted Pedestrian, 2018 olio su tela / oil on canvas 72 x 50 cm © the artist Courtesy Amanda Wilkinson Gallery, London.

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Idolatria e culto dell’arte

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“Ti prego, non fare più scendere bambini dal quadro” implorava Pina all’età di nove anni, inginocchiata ai piedi di una riproduzione oleografica della Vergine con Bambino appesa in camera dei genitori. Sua madre le aveva raccontato che i bambini scendevano giù dal quel quadro e che non poteva farci nulla se il loro numero era già arrivato a otto, costringendo Pina ad occuparsi dei più piccoli quando i genitori lavoravano i campi. Nella campagna piemontese degli anni ’30, l’immagine della Vergine con Bambino stampata su carta telata era miracolosa: trasformava la cornice nell’infisso di una finestra aperta sull’al di là, attraverso la quale cadevano sulla terra creature in fasce. L’immagine aveva un potere sovrannaturale. 

 

 

Idoli. Il potere delle immaginiè il titolo di una mostra in corso a Venezia organizzata dalla Fondazione Giancarlo Ligabue, presieduta dal figlio Inti che l'ha fortemente voluta anche come omaggio agli studi compiuti dal padre (Palazzo Loredan, fino al 20 gennaio). Nelle bellissime sale dell’Istituto Veneto di Scienze Lettere e Arti sono esposte cento (esattamente cento) statuette che risalgono a un periodo compreso tra il 4000 e il 2000 avanti Cristo. Sul valore cultuale, politico, celebrativo, funerario o anche solo espressivo di queste immagini non c’è certezza. Di fatto non tutte le statuette in mostra sono “idoli”. Nel saggio Uno sguardo sul passato: gli idoli della penisola iberica pubblicato nel catalogo della mostra (Skira, Milano 2018, p. 69), Ruth Maicos Ramos spiega che il termine “idoli” si riferisce a un insieme eterogeneo di piccole statuette antropomorfe e che il suo utilizzo è una convenzione, null’altro. 

 

Sala d’ingresso alla mostra.


La curatrice della mostra Annie Caubet invece invita ad approfondire il significato del termine “idolo” sottolineando che deriva “dal greco eidolon che significa immagine” (Un mondo in transizione: 4000-2000 a.C., p. 21). In Nascita di immagini e altri scritti su religione, storia, ragione (Il Saggiatore, Milano 1982, pp. 119-128) Jean-Pierre Vernant analizza il termine “εἴδωλον – eidōlon” in riferimento a una concezione arcaica dell’immagine intesa “come un doppio piuttosto che nel senso in cui noi l’intendiamo oggi”. Tra il nostro modo di concepire un’immagine e quella di un Greco dei tempi di Omero c’è un abisso e peraltro già nel pensiero filosofico di Platone il termine assume un significato diverso: l’eidōlon, associato all’eikōn e al phantasma, diventa falsa apparenza, inganno, illusione priva di sostanza e realtà.

Forse è in questa accezione del termine, tratta dal ventaglio dei significati espressi da eidōlon, che l’ostilità nei confronti dell’immagine cultuale trova una sua radice. Il termine viene introdotto con la traduzione greca dell’Antico Testamento avvenuta tra il III e il II secolo a.C. per indicare gli dèi falsi, contrapposti a quello vero d’Israele. Il termine è poi ripreso nella letteratura cristiana dei primi secoli, in particolare da Prudenzio e da Tertulliano, nel contesto di un Cristianesimo che assume il vocabolario e le categorie concettuali dell’ellenismo. 

 

Veduta della sala 3 con prospettiva sulla sala 2.


Dobbiamo dunque partire da qui per una lettura dei reperti in mostra, da una condanna veterotestamentaria del culto delle immagini, che prende per sé il termine “εἴδωλον eidōlon” estendendone il significato? Sembrerebbe proprio così perché i visitatori si aggirano tra le vetrine espositive con un atteggiamento di rispettoso raccoglimento, quasi religioso. 

“Oibò! Saranno degli idolatri?”, mi scappa da dire sottovoce.

Il tizio alla mia destra deve aver udito qualcosa perché si è voltato e mi guarda perplesso. Faccio finta di nulla e distendo lo sguardo sull’intera sala e gli altri visitatori in adorazione, ma non degli idoli. Sono in adorazione dell’arte. 

L’estetizzazione delle immagini cultuali, iniziata in Europa nel XV secolo, ha formato una nuova categoria di adoratori. Ne parla Régis Debray nel suo saggio Vita e morte dell’immagine. Una storia dello sguardo in Occidente (Il Castoro, Milano 2001), riferendosi all’arte che si è emancipata dal religioso per diventare essa stessa una religione, una religione e un culto dell’arte che si sviluppa in rapporto alla nozione di proprietà intellettuale e artistica. Questa nozione nasce “quando il committente di un quadro o di un affresco non vuole più una Crocifissione o una Natività, ma un Bellini o un Raffaello”, scrive Debray nel suo saggio (p.193). Ecco come i visitatori guardano le figure nelle vetrine: attraverso lo sguardo del primo capitalismo, ma come le avranno viste gli uomini del 4000-2000 a.C.? 

Non lo sapremo mai.

 

Suonatore di arpa cicladico. Antico Cicladico II (2700-2300 a.C.). Proveniente da Thera (Santorini). Badisches Landesmuseum, Karlsruhe.


Nella terza sala della mostra è possibile ammirare il Suonatore di arpa cicladico proveniente da Thera. Le forme che restituiscono all’angolo la piega che è alla radice del suo concetto (l’etimologia del termine risale al significato di “curvare”, “piegare”) sono bellissime. Osservo incantato la geometria della statuetta. Rappresenta un uomo, una persona divinizzata o un dio? 

Il significato e la funzione di queste statuette ci sfuggono. Anche per quelle rinvenute in contesti funerari, che sono quelle in maggior numero, non possiamo dare per scontato che fossero ideate e realizzate appositamente per questo tipo di pratiche, sostiene Eftychia Zachariou nel suo saggio L’antica e la media Età del Bronzo a Cipro (p.131). Esprimono l’identità sociale? Il potere politico? I ruoli di genere? Sono oggetti utilizzati con finalità didattiche durante le cerimonie di iniziazione? Rappresentano esseri umani o creature sovrannaturali? Sono amuleti propiziatori o segnacoli territoriali? Svolgono una funzione rituale? Politica? Araldica? Sono immagini totemiche? 

 

Figura plank-shaped in red polished. Bronzo Antico III (2100-2000 a.C.). Cipro, Bellapais Vounous. Department of Antiquities Cyprus, Nicosia.


Le statuette plank-shaped rinvenute a Cipro attirano la mia attenzione per i motivi decorativi geometrici che rappresentano indumenti e ornamenti. 

 

Idolo-placca. Neolitico tardo (IV millennio a.C.). Penisola iberica, Granja de Céspedes, Badajoz. Museo Arqueológico Nacional, Madrid).


Interessanti anche gli Idoli-placca in ardesia ricoperti da incisioni geometriche che si suppone rappresentino decorazioni tessili. Sembra che i motivi tessili non fossero solo decorativi ma svolgessero anche la funzione di registrare dati importanti della vita comunitaria, scrive Pedro Azara nel suo saggio L’occhio era nella tomba e guardava (p.67). Per questa ragione lo studioso sostiene che siano una sorta di pre-scrittura. Mi piace pensare che lo sferruzzare a maglia delle nostre nonne conservi una forma di scrittura non alfabetica che interseca il fluire del racconto con il quale la nonna intrattiene i nipoti mentre confeziona calzini, maglioni e berretti. Osservo incuriosito una delle placche in ardesia. Vista da dietro ricorda un tablet. I segni alfabetici che digitiamo rapidamente sui nostri dispositivi mobili non si mescolano anche loro facilmente alle immagini, alle faccine tristi o sorridenti, all’onnipresente segno logografico @ e a una varietà di altri segni non linguistici? Gli idoli-placca pongono alcune domande al nostro presente, in un certo senso lo interrogano da lontano.

Chissà cosa mai avranno significato queste incisioni geometriche, mi chiedo aggirandomi nelle sale deIl’Istituto Veneto di Scienze Lettere e Arti. Le stanze sono invase dal pungente ma piacevole e aromatico odore dei vecchi libri stipati negli armadi addossati alle pareti. Attraverso l’olfatto percepisco il peso delle parole sulle immagini esposte. Quali saranno state le narrazioni che accompagnavano queste statuette? 

 

Figura seduta con copricapo del V millennio a.C. rinvenuta a Cuccuru d’Arriu (Carras) in Sardegna. Polo Museale della Sardegna – Museo Archeologico Nazionale, Cagliari (veduta laterale-anteriore e veduta laterale-posteriore) - Testa di figura femminile distesa. Antico Cicladico II (2700-2300 a.C.). Collezione privata, Parigi.


Senza le parole le immagini sono mute e forse per questa ragione ne ammiriamo le forme senza porci il problema del racconto al quale si riferivano. Ammiriamo i volumi geometrici della Figura seduta con copricapo del V millennio a.C. e quelli della Testa di figura femminile distesa dell’Antico Cicladico II perché ci ricordano le sculture di Constantin Brancusi e di Amedeo Modigliani.

 

“Guarda, guarda, qui c’è anche un Henry Moore!” esclama un visitatore indicando al suo amico la Figura steatopigia seduta del IV millennio a.C. esposta nella sala 4. Molti visitatori si fermano davanti a queste statuette prendendo appunti o disegnando: sono attratti dal moderno che vedono nell’antico, sono attratti dall’arte, al culto della quale è dedicata anche questa mostra. 

Dalla cornice della stampa ai piedi della quale pregava la povera Pina non cadono più creature in fasce. Ah! Come sarebbe stata contenta.

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La Coop sono io?

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Coop 70. Valori in scatola inaugura il 16 novembre alla Triennale di Milano. Sarà possibile visitare la mostra sino al 13 gennaio 2019.

 

Un padre entra nella cameretta del figlio e lo apostrofa: «Mi aiuti anche oggi a lavorare per la Coop». Padre e figlio si mettono al lavoro per cercare delle vecchie foto delle filatrici d’inizio secolo. Siamo nel 1974 e Ugo Gregoretti gira il primo spot pubblicitario per la catena Coop destinato alla televisione. Rigorosamente in bianco e nero, con un messaggio politico: «La Coop non mira al profitto, è al servizio del consumatore, vende prodotti di qualità al prezzo giusto». Sono le immagini che parlano. 

Seduti in quello che sembra un salotto, Gregoretti e il figlio ascoltano i canti delle filatrici trasmesse da un grande registratore a nastro magnetico, mentre cercano sui libri le loro immagini: «Quaranta lazzaroni mi comandano…». Cantano le voci. Il figlio domanda: «Quaranta?». Possibile? Il padre risponde che hanno detto proprio così. Siamo alla metà degli anni Settanta, nel bel mezzo della crisi sociale e politica dell’Italia, ed il messaggio comunicato dal filmato del regista data almeno un decennio o due prima. Vuole comunicare le radici del movimento cooperativo da cui nasce la catena di vendita Coop. 

 

 

Il figlio domanda ancora: «Ma cosa c’entrano le filatrici con la Coop?». Il padre risponde: «C’entrano, c’entrano. Sono gente che lavora». Questa è la gente che sostiene il movimento cooperativo. Poi il figlio trova la fotografia che cercavano, la strappa dal libro e la porge al padre. Un gesto inatteso, che corrisponde a un movimento analogo che compiranno entrambi, padre e figlio, nello spot dedicato invece alle mondine: strappano le piante dal vaso della madre per imitare il gesto con cui le mondine sradicano una delle erbe infestanti delle risaie; il coro delle mondine canta «Siur padrùn dalle belle braghe bianche…». La radice popolare delle Coop è in questi gesti che il pedagogo Gregoretti, guardando in macchina, conferma con i suoi slogan: «Gente che lavora, che ha creato la Coop».

Il tenente Colombo, magnificamente interpretato da Peter Falk, dieci anni dopo è invece già entrato nella favola del consumo. Arrivando in ritardo, come suo solito, per comprare un dono natalizio ai bambini, trova ancora aperto il supermercato. Dentro c’è Babbo Natale che sta facendo incetta dei doni da consegnare quella notte. Colombo con la sua svagatezza non lo riconosce subito («Ma ci siamo già visti?») o almeno finge. Siamo già entrati nell’epoca del grande consumo. 

 

Il giro di boa degli anni Settanta si è compiuto e l’Italia marcia verso la società affluente. Pasolini con la sua mutazione antropologica è scomparso da tempo e l’investigatore americano, seppur pop, ha preso il posto del pedagogo Gregoretti con i suoi occhiali grandi, la fronte spaziosa e il tono da maestro. Siamo entrati nel regno del colore, la televisione è non solo più il focolare degli italiani, ma la fonte principale dell’istruzione al consumo. 

La scelta del tenente Colombo è a suo modo delicata. Con i suoi modi ironici e comici, Colombo si rivolge a due consumatrici per capire il segreto del marchio Coop: «Vorrei capire», è la sua frase con cui abborda le due signore nel negozio. Sulla falsariga dell’indagine si intrufola dappertutto con il taccuino o con il giornale in mano. Fa domande, ma i protagonisti sono le consumatrici e il supermercato. 

Per quanto il consumo sia ancora soprattutto prerogativa femminile – «Lo devo dire a mia moglie», dice Colombo – un uomo si è infilato dentro i supermercati Coop. Con la scusa di aver perduto il cane entra dall’ingresso dei fornitori e assaggia una mela. La mela rossa sarà poi la protagonista di uno degli spot girati da Woody Allen otto anni dopo, nel 1993. Intanto l’attenzione si è spostata sul marchio Coop, il logo, inquadrato in primo piano: «Cosa vuol dire Coop?», chiede Colombo. Siamo entrati nell’epoca dei brand, se anche la regia del filmato punta sul logo. 

 

 

Esce allo scoperto il più efficace e longevo slogan Coop: «La Coop sei tu». Non è più nell’epoca del «noi», come faceva capire il filmato di Gregoretti, ma in quella del «tu». Un cambio di accento fondamentale che l’efficace slogan pubblicitario coglie perfettamente. Le filatrici e le mondine sono il «noi», anche se non è facile nel salotto di casa capire che il «noi» arriva sino al padre intellettuale e al figlio provvisto di enciclopedia ed aspirante pedagogo anche lui. Il cambio di passo avviene con il «tu», seconda persona singolare – singolare! Nel 1985 siamo in piena epoca del singolare. La televisione commerciale ha preso piede e il cittadino, il cooperatore che lavora, è ora un consumatore: un «tu». Non è ancora l’Io dei decenni seguenti, ma ci si è staccati dal collettivo. La Coop scopre il consumatore e cerca di convincerlo di appartenere a qualcosa di più ampio. 

 

Con i cinque minifilm girati a New York nel 1993 dal regista americano il cambiamento è già avvenuto. Woody Allen fa uno spot film, con tanto di sceneggiatura e ironie del caso. Fa il verso a se stesso, ed è paradossale. Sono cinque schegge cinematografiche dell’universo Allen: la mela gioca con l’ambientazione pseudosiciliana, ma è anche uno spot pseudopsicoanalitico, con tanto di seduta dall’analista e conseguente scena primaria. La mela rossa tiene il posto del sesso, rivelando ironicamente la chiave segreta del consumo. Lo dice senza dirlo, lo fa solo intuire – spot subliminare? La Coop mele così, mele di cui ci s’innamora, le ha nei suoi supermercati. 

Il secondo minifilm si svolge in una galleria o museo newyorkese a metà strada tra Jeff Koons e Maurizio Cattelan: in mostra pezzi di carne su cui i tre personaggi emblema discettano. «Costolette postmoderne!», esclama uno dei critici d’arte (due uomini e una donna). Postmoderna è anche la sceneggiatura dei cinque film. Ci sono gli extraterrestri che cercano un posto dove mangiare bene, e hanno la dritta del supermercato Coop, e poi un party dove ogni persona ha qualcosa di rifatto (parrucchino, naso, seni al silicone, eccetera), ovvero il non autentico. 

 

 

La ricerca dell’autenticità cominciata già a metà del decennio precedente diventa impellente. Dei cinque spot il più rivelatore è però quello di Giacomo Vitali, l’uomo spaventato dal mondo esterno, che dopo aver conosciuto Coop si rifugia lì dentro, si sposa, ha figli e li cresce tra un banco e l’altro dell’esposizione merci. Allen ha colto uno dei temi che poi saranno dominanti nei due decenni seguenti: l’insicurezza nel vivere. Se il modello pedagogico-Gregoretti era fondato sul mondo esterno, sul lavoro, se quello del tenente Colombo era spostato verso il consumo, ora è il supermercato stesso a diventare una «casa»; non solo nel senso della «casa-degli-italiani», come nello slogan della catena Standa durante la gestione berlusconiana, da cui entrare e uscire, ma nel senso del rifugio e protezione. La domanda di salvezza si sposta dall’universo sociale e politico a quello del consumo. Si identifica, seppur nel paradosso allestito da Woody Allen, sulla questione della sicurezza, non solo alimentare – tema su cui si insisterà negli anni seguenti – bensì totale. Oppresso dalla società Giacomo Vitali si trasferisce alla Coop e chiede asilo.

Nell’anno seguente – 1994 – il regista Paul Meyer realizza alcuni raffinati spot che vogliono riaffermare i valori della Coop. Sono brevi film che contengono già una dose di estetica vintage, una sorta di retrotopia musicale: Donovan, Frank Zappa, Velvet Underground.

 

La colonna sonora anni Settanta si rivolge agli ex giovani di vent’anni prima, i nuovi protagonisti del consumo postpasoliniano. Ma al tempo stesso, in modo forse inconsapevole, rivelano alcuni temi e problemi degli anni Novanta giunti alla loro metà. Coltivare sul balcone, l’utopia ecologista pre-chilometro zero, non è agevole, meglio rivolgersi alle verdure della Coop; il campeggiatore fai da te accende il fuoco sfregando un bastoncino, mentre la donna pratica ha comprato tutto alla Coop, che ama come lei la vita sana e naturale; il papà riempie la lavastoviglie mentre la figlia passa e ripassa sulla sua testa in sella a una altalena, mostra la difficoltà a vivere in città senza parchi giochi (la Coop li ha offerti alle città italiane nel suo compito sociale); i due innamorati che mettono il gomito nel piatto e versano il vino senza guardare il bicchiere, tutti presi dai loro sentimenti, sono l’avanguardia dei «distratti» di quel decennio. Per fortuna, come dice lo spot, che c’è la Coop: i consumatori possono distrarsi perché ci pensa Coop. Lo slogan rivela anche i problemi dei consumatori che ora sono costretti a essere informati, adulti e consenzienti, a tenersi aggiornati davanti alla valanga di notizie e contro notizie che affollano i mass media: chi non s’informa è perduto. 

 

 

Andando a zig zag in questo universo sempre più complesso, arriva la serie di minispot «Evitare le sorprese» costruite intorno a giochi di parole e figurativi: dalla scatoletta di pomodori pelati esce un uomo calvo, la faraona nel forno non è un pennuto ma la moglie del faraone dentro il suo sarcofago, e altro ancora. Siamo entrati nell’epoca dell’inganno possibile, della adulterazione, del vero falso. Il cibo è diventato centrale nella vita quotidiana, il cibo di qualità. E insieme a questo tutti i problemi che la complessità dell’inganno comporta. 

 

 

Coop si propone come un garante collettivo, ma non rinuncia a giocare con questi temi, con i paradossi e le ironie del caso. Interessante la scatoletta cellulare che trilla dentro la borsa della spesa e la donna risponde, poi compare il marito guardingo per controllare. La rivoluzione del «telefonino» è iniziata, con i cambiamenti di costume che porta con sé; e Coop propone anche il suo marchio nel mercato della telefonia mobile. 

Tra gli spot di quel periodo – anno 2005 – anche quello con i carrelli che corrono e finiscono schiantati contro il muro mandando all’aria i prodotti alimentari che contengono, mentre quello con il brand Coop si ferma di colpo ed evita il disastro. In modo indiretto anche questo spot introduce il tema del disastro, da quello di Černobyl′ al disastro ecologico, e persino quello economico incombente: la grande gelata del 2008 arriverà di lì a poco. 

 

 

Le pubblicità con protagonista Luciana Littizzetto mirano a sdrammatizzare con la comicità questo clima di timore imperante e giocano di nuovo con situazioni paradossali. Entra il tema degli animali, che occuperà il decennio seguente, con la scena dei polli che guardano la partita in televisione, la mucca in salotto come rassicurante presenza durante una visione di un film horror. La casa è tornata a essere il centro della comunicazione, la cucina di casa e il salotto, per quanto uno degli spot si svolge nel supermercato, per evidenziare la funzione calmante dello shopping – certificata dagli stessi psicologi. Comprare ha una funzione calmante e rassicurante contro lo stress della vita quotidiana: «Mi calma», dice la Littizzetto. 

Siamo all’inizio degli anni Dieci del secondo millennio. Le paure sono quelle dell’inquinamento e del consumo del pianeta, in ogni caso paure non più del «noi», ma dell’«io». Il giro di boa è compiuto. Ma la Coop sei sempre tu. O io?

 

Tratto da Coop 70. Valori in scatola, Rubettino Editore.

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The Black Image Corporation

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Nel novembre 1942, l’uomo d’affari John H. Johnson fonda a Chicago, insieme alla moglie Eunice, la Johnson Publishing Company. Gli inverni della città sono noti per essere tra i più implacabili degli States e quell’anno non fa eccezione: signori e signore afroamericani, elegantemente vestiti, con cappelli abbinati e tailleur impeccabili, vanno e vengono dal quartier generale dell’editore, circondati da automobili cromate e sigarette al mentolo. Una scena tipica della vita urbana cittadina, se non fosse che Johnson ha un’idea imprenditoriale molto precisa e piuttosto rivoluzionaria: creare delle riviste dedicate esclusivamente alla borghesia nera americana che, per la prima volta, avrà un modello di lifestyle a cui ispirarsi e una narrazione, e potrà finalmente trovare legittimazione attraverso i media.

 

La Johnson Publishing Company inaugura le pubblicazioni del patinato mensile Ebony, nel novembre del 1945, e prosegue con il settimanale Jet, nato nello stesso mese del 1951. Da allora, la storia editoriale del gruppo è continuata senza interruzioni fino al 2011, anno di ingresso di JP Morgan come socio di minoranza della compagnia, che coincide con una fase di crisi: oggi Ebony e Jet (ora solo digitale) sono state acquistate dalla società Clear View, che ne sta seguendo il rilancio. In quasi settant’anni, la compagnia ha prodotti riviste, progetti editoriali, format tv, sfilate di moda, una linea di cosmetici e si è massicciamente impegnata nell’advertising, come si vede nel filmato promozionale The Secret of Selling The Negro Market del 1954, pensato per spingere gli investitori a promuovere i loro prodotti verso il target afroamericano. Dopo essere divenuta il “black media empire” sotto la guida di John e successivamente dalla figlia Linda Johnson Rice, la società sta oggi affrontando una fase di ristrutturazione e rebranding, che ha previsto la liquidazione della splendida sede storica situata al numero 820 di St. Michigan Avenue, progettata dall’architetto John M. Moutoussamy, e la messa in vendita delle testate e dell’archivio della società, che raccoglie oltre quattro milioni di immagini. 

 

 

Proprio il patrimonio di immagini della Johnson Collection è il punto di partenza della mostra di Theaster Gates, artista e professore presso la University of Chicago, ospitata dall’Osservatorio della Fondazione Prada di Milano. Gates torna a lavorare sui materiali della JPC, come già fatto con My Labor is my Protest, esposizione tenutasi alla White Cube di Londra nel 2012, e Black Madonna (2018) progetto multidisciplinare ospitato presso il Kunstmuseum di Basilea. Stavolta Gates si concentra sul lavoro di Moneta Sleet Jr. e Isaac Sutton, due fotografi storici della JPC, selezionando una serie di scatti scelti tra l’immenso archivio fotografico della compagnia. Gates privilegia scatti iconici, su cui interviene in maniera pressoché impercettibile, alternandoli a una selezione di inediti che gettano uno sguardo sulla vita di persone comuni dell’epoca. L’archivio diventa uno strumento per sviluppare una riflessione estetica sulla rappresentazione e autorappresentazione della popolazione afroamericana: dall’enorme patrimonio fotografico a disposizione preleva immagini che evidenziano il tentativo sistematico di costruire un immaginario borghese da una prospettiva interna, che contrastasse gli stereotipi negativi associati alla popolazione afroamericana e nella quale sia la classe media, sia l’élite potessero rispecchiarsi.

 

In un’intervista rilasciata a Vulture nel 2012, Spike Lee (ospite di un talk alla Fondazione Prada insieme a Okwui Enwezor, alla regista Dee Rees e allo stesso Gates, in concomitanza dell’apertura della mostra) dichiarava: “People of color have a constant frustration of not being represented, or being misrepresented, and these images go around the world.” (Le persone di colore vivono la costante frustrazione di non essere rappresentate, o di essere rappresentate in maniera distorta, e queste immagini girano il mondo). Un tema cruciale, quello della rappresentazione, che riguarda tutte le minoranze e che è da tempo al centro del dibattito della comunità afroamericana e della società statunitense, dove la spinta delle forze conservatrici radicali, che hanno trovato nuova linfa e un sostanziale avallo grazie all’elezione del Presidente Donald Trump, ha riportato a galla tensioni mai risolte ed esacerbato il dibattito sulla natura multiculturale della società statunitense. 

 

 

Gates, artista interessato alle pratiche sociali e ai processi di riqualificazione urbana, prova a far emergere la dimensione politica insita nella proposta estetica formulata dalla Johnson Publishing, nello specifico il tentativo di veicolare una forma di empowerment attraverso la bellezza e la moda, fatta dalla comunità nera e rivolta a un pubblico nero. Un’idea che oggi suona quasi scontata, assimilata dal mainstream, all’interno della quale celebrities come Childish Gambino, Janelle Monae, Kendrick Lamar (che ha conquistare il Premio Pulitzer con i suoi pezzi rap), lo stesso Spike Lee, Rihanna, Beyoncé, hanno saputo utilizzare elementi dell’immaginario tradizionale afro e caraibico per infettare il pop con elementi critici fino ad allora appannaggio di figure dell’underground o appartenenti alla sfera dell’attivismo politico. In questo senso è esemplare il videoclip Apeshitdei The Carters (ovvero Beyoncé in coppia con il marito Jay-Z) interamente girato nelle sale del museo del Louvre: nel video, caratterizzato da una messa in scena sontuosa, le due star prendono ideale possesso dello spazio attraverso un’operazione estetica aggressiva, carica di divismo e orgoglio, che mescola liberamente riferimenti alle sottoculture, suggestioni post-coloniali e lusso sfrenato, come già accaduto nello show epico di Coachella 2018, in cui la stessa Beyoncé è apparsa nei panni della regina egizia Nefertiti. Il Louvre, summa della cultura visiva occidentale, diventa un luogo di riaffermazione della “blackness” e il Re Nero delle Natività, lo schiavo e la schiava, l'odalisca, le Madonne nere, ovvero i pochi personaggi di colore presenti nell’iconografia occidentale tradizionale vengono improvvisamente riscattati, si incarnano nei corpi plastici dei ballerini e nella coppia regale delle due superstar. Che scardinano la visione “bianca” dell’arte proponendoci un nuovo punto di vista, come si vede nelle sequenze con la Gioconda di Leonardo, dove il piano tra spettatore e oggetto dello sguardo si alterna e si confonde, cambiandone letteralmente e simbolicamente la prospettiva, per ricordarci come lo sguardo non possa mai essere neutro.

 

 

Tornando alle immagini e al loro intrinseco valore politico, il progetto di Theaster Gates, la cui ricerca si condensa in progetti complessi e pratiche di attivazione sociale, ha il pregio di portare alla luce un patrimonio di informazioni e di immagini di grande valore, in parte donato alla Stony Island Arts Bank Gallery, all’interno dell’ambiziosa Rebuild Foundation voluta da Gates stesso. La selezione di fotografie presentate in mostra non rende forse giustizia al capitale rappresentato dalla Johnson Collection e l’allestimento raffinato degli spazi dell’Osservatorio, dove si mescolano pezzi di arredamento provenienti dalla sede editoriale di Chicago, provini originali, copie delle riviste, gigantografie, in una certa misura offusca la percezione dello spettatore, blandito da una patina levigata e glamour che, a tratti, toglie mordente al progetto. La scelta di utilizzare dei supporti di legno su cui sono giustapposte le immagini, che riportano dati su luogo, data e autori degli scatti, inserite negli espositori disposti nella sala superiore, ha il pregio di invitare lo spettatore a interagire con le opere, dandogli la possibilità di maneggiarle e cambiando a proprio piacimento la selezione delle fotografie esposte; allo stesso tempo, la foto-oggetto così montata assume un valore decorativo che ne attenua la carica espressiva. Gates – la cui cifra espressiva appare forse più efficace nei progetti su vasta scala –, sottolinea il desiderio di celebrare la bellezza femminile attraverso gli scatti di modelle e donne comuni, ed è certo stimolante la possibilità, solitamente preclusa al pubblico, di accedere a materiali esclusivi come quelli in mostra, scoprendo come un intero lessico visivo sia stato costruito e quali siano le spinte culturali che lo hanno determinato.

 

Rispolverando la nozione di “cultural identity” come “a matter of becoming as well as of being” (una questione di diventare oltre che di essere) indicata da Stuart Hall, padre nobile dei cultural studies britannici, nelle immagini in mostra si coglie tutta la stratificazione di elementi che hanno concorso a tracciare il perimetro di una identità in costante evoluzione: il retaggio di una cultura dominante (in questo caso di matrice bianca, protestante, anglosassone), la relazione dialettica con le altre minoranze, il rapporto con le origini, il riconoscimento della molteplicità all’interno della cultura (nella differenza). Le domande che sorgono dinanzi agli scatti scelti da Gates sono percìò cruciali: cosa stiamo davvero osservando? Quanto ci raccontano gli scatti di Moneta Sleet Jr. e Isaac Sutton, al di là della loro immediata e apparente trasparenza? Qual è il rapporto tra istituzioni, comunità afroamericana, estetica e potere? In che termini la cultura della diaspora ha problematizzato e arricchito la cultura statunitense, e può essere considerata una forma di resistenza attiva al concetto sempre più rigido di appartenenza (riprendendo Paul Gilroy)?

 

Si tratta di riflessioni che nascono dalla constatazione che l’iconografia della classe media afroamericana sia ancora un “non-visto”, qualcosa a cui gli spettatori si affacciano in maniera organica per la prima volta. Un’iconografia dove il conflitto lascia spazio a una apparente normatività di valori e di forme, i cui singoli elementi compongono una storia visiva che necessita ancora di essere decifrata, con tutte le sue implicazioni. 

 

 

Dal Sidney Poitiers di Indovina chi viene a cena? del 1967 alla coppia presidenziale Michelle e Barack Obama, che hanno rappresentato la versione più alta dell’idea di una borghesia nera colta, moderata e democratica, molte cose sono cambiate, ma la complessità della questione inerente alla rappresentazione e al ruolo della comunità afroamericana nella società statunitense non appare diminuita, né sembrano essersi sciolti i nodi che sottendono alle riflessioni sulle società multiculturali. Di fronte alla crisi globale dei modelli liberali, la risposta di chiusura espressa dal governo ultraconservatore e ultraliberista degli USA e dalle forze populiste internazionali che bramano un ritorno a un mondo di stati nazionali, barricati contro lo spettro del globalismo, ripropongono con urgenza le questioni inerenti all’identità, alle migrazioni e ai modelli di convivenza. Appare significativo quindi che il Getty Research Institute di Los Angeles abbia annunciato il lancio del programma “The African American Art History Initiative” (AAAHI), dedicato interamente allo studio e la promozione dell’arte afroamericana, un programma reso possibile da un endowment di cinque milioni di dollari, che segna un passaggio importante nel riconoscimento da parte delle istituzioni del ruolo svolto dalla cultura “black” all’interno della storia culturale degli Stati Uniti, ruolo che necessita di essere indagato e definito in maniera esaustiva.

 

Sempre Spike Lee, nella conversazione tenutasi presso gli spazi di Prada, ha ricordato senza giri di parole “The foundation of United States of America was built upon genocide of the native people and slavery” (Le fondamenta degli Stati Uniti sono state costruite sul genocidio della popolazione nativa e sulla schiavitù), chiarendo come la schiavitù e la diaspora siano ferite ancora aperte nella storia americana e una parte dolorosamente fondante di essa, fatto che si riflette nello sguardo che gli americani hanno tutt’oggi nei confronti della popolazione nera e nel modo in cui essa stessa si rappresenta. Non è un caso se si è dovuto attendere il 2018 per assistere al debutto sul grande schermo del primo supereroe nero, Black Panther, protagonista del film di Ryan Coogler e creato dal genio di Stan Lee e Jack Kirby, un personaggio che fece la sua prima apparizione in un album del 1966 ma che ha dovuto attendere ben cinquantadue anni per avere spazio. Un clamoroso successo di pubblico nello stesso anno in cui Beyoncé ha riempito le cronache divenendo la prima star ad ottenere la possibilità di decidere foto e didascalie inerenti al servizio a lei dedicato sul “September Issue” di Vogue, il numero più importante dell’anno: un privilegio mai concesso prima, che la pop star ha voluto rivendicare scegliendo di essere ritratta da un giovanissimo fotografo, Tyler Mitchell, il primo fotografo afroamericano in oltre centoventi anni di storia della rivista: segnali visivi di una cultura la cui storia è ancora da scrivere. 

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Pendulum. Merci e persone in movimento

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Il titolo, innanzitutto: “Pendulum. Merci e persone in movimento”. Le immagini in mostra alla Fondazione Mast di Bologna insistono a ricordarci che tutto si muove, velocemente. Lo spazio è un reticolo di relazioni: scambi commerciali, flussi migratori, interazioni biologiche e ambientali, trasferimento di conoscenze al di là di oceani e continenti. La velocità è lo specchio di un mondo che richiede modelli interpretativi sempre nuovi, capaci di porsi come dispositivi dinamici, adattabili a condizioni strutturalmente instabili. L’uomo inventa nessi, partiture, operazioni spaziali. Se tutto si muove, tutto funziona. Non riusciamo a immaginare un mondo immobile se non per farne il fermo immagine di una qualche catastrofe. Immobilità è impotenza, movimento è potere. 

 

Però c’è qualcosa, nella sequenza delle immagini esposte, che lascia perplessi. Le fotografie che Robert Doisneau ha dedicato agli stabilimenti Renault, le auto da corsa di Ugo Mulas, l’immagine del bianchissimo aereo Eclipse realizzata da Floto+Warner, le automobili di Luciano Rigolini, la distesa di container di Sonja Braas, soddisfano ma non seducono. Ne ammiriamo la perfezione formale, le prospettive stranianti o seriali, ma qualcosa sembra fuggire insieme alla velocità evocata. Lo sguardo passa oltre anche la grande immagine di Richard Mosse, dove centinaia di container vengono usati sia per il trasporto di merci che come abitazioni per migranti. Troppo perfetta. Siamo assuefatti persino alle immagini della metropolitana di Helen Levitt, che dialogano con gli schermi in movimento a ritrarre i pendolari di un mondo globalizzato fotografati da Jacqueline Hassink.

 

Floto + Warner, Sala verniciatura dell’Eclipse Albuquerque, NM USA, 2007 © Floto + Warner.

 

Eppure questa mostra riesce a produrre un sovvertimento corrosivo all’interno del suo stesso percorso. Due fotografi, infatti, propongono lavori che segnano una netta linea di demarcazione rispetto al contesto e allo stesso tema espositivo. Sono Yto Barrada e Xavier Ribas. Le loro opere non recano alcuna traccia di movimento. Lo scarto appare talmente evidente che si è costretti ad interrogarsi sul senso della velocità proprio mentre se ne constata l’assenza.

Yto Barrada fotografa un’installazione. Si intitola “Plumbers” (2014) ed è composta da dieci immagini di tubi che alle loro estremità hanno rubinetti e soffioni. La fotografa, nata a Parigi ma di origini marocchine, li ha acquistati nella Grand Socco Square di Tangeri. Ricordano l’idea di “object trouvé” dei surrealisti, un incontro tra una causalità esterna e una finalità interna capace di produrre uno scarto tra oggetto e percezione, suggeriscono un “détournement” psicogeografico. 

 

Questi oggetti, sculture?, installazioni?, vengono usati dagli idraulici marocchini per segnalare la loro disponibilità a prendersi in carico un lavoro. Non hanno altro scopo. “Sono macchine inutili, ma assolutamente belle”, racconta la fotografa in un’intervista. Ed è innegabile. Hanno un potere magnetico: fragili e forti allo stesso tempo, polarizzano lo sguardo dello spettatore. Yto Barrada le fotografa togliendo ogni traccia di profondità, in modo da annullare la percezione delle distanze. Osservandole, si respira un’aria da cantiere e da atelier. I tubi di Yto Barrada passano dal mercato delle pulci di Tangeri allo spazio di una galleria. Si trasformano in opera d’arte. L’intervallo che si situa fra queste due esistenze è la condizione che rende possibile la metamorfosi dell’esilità in forza. La fotografia ne sancisce la bellezza e allo stesso tempo ne marca visivamente la coscienza di un’emarginazione. L’immagine tende a farsi presenza desolata. I tubi e i rubinetti di Yto Barrada sono una fragile architettura eretta per circoscrivere un buco, per immortalare una cavità, lo spazio che separa l’idea di utilità da quella della pura bellezza. Appaiono chiusi in se stessi e privi di qualsiasi valore d’uso. Sono belli e nient’altro. E se pensiamo alle immagini in mostra, dominate dalla velocità e dal movimento, queste fotografie esprimono assenze così grandi da sgretolare ogni tipo di retorica ed enfasi. “Plumbers” lascia dietro di sé l’inquietudine di una sospensione, una velocità trattenuta dal peso di una coscienza colta nell’attimo di sorprendersi.

 

Sonja Braas, Container, 2015, dalla serie “Un eccesso di prudenza” , 2014-2017 © Sonja Braas.


Le immagini dello spagnolo Xavier Ribas, “Nomads” (2008), nascono invece dalla testimonianza di un evento preciso. Tutto accade a Barcellona il 24 febbraio 2004. Circa sessanta famiglie nomadi occupano un’area industriale dismessa. Nel giro di qualche giorno due uomini, con degli escavatori, demoliscono la pavimentazione in cemento del sito, spaventando gli occupanti e riuscendo infine a cacciarli. Sul posto, per mantenere sgombro il sito, rimane una striscia contorta di macerie. Se il dominio sullo spazio è un dominio politico, e politica significa scelta, si arriva al paradosso che, in nome del profitto, l’economia della produzione si perverte nel suo negativo di economia della distruzione. È questo il senso della “dissuasione” che si vede nelle fotografie. Nelle trentatré immagini di “Nomads”, Ribas enfatizza i caratteri della realtà: non vi è alcuna presenza umana, si vedono solo macerie. Ne risulta una geografia di forme che tendono a un caos privato della sua naturale fecondità. Qui la violenza corrisponde alla negazione del movimento e della velocità. Queste immagini si impongono per la forza interna del loro stile: il soggetto occupa tutta l’immagine. La maceria coincide con il fotogramma. Non ci sono margini di fuga. È uno sguardo che porta dentro di sé un riflesso tragico da cui non ci si può distogliere. Xavier Ribas ci obbliga a guardare dritto dentro la distruzione. 

 

Come Yto Barrada, anche il fotografo spagnolo mostra oggetti situati nello spazio, ma, mentre nella prima prevale una muta fascinazione, nel secondo balena uno squarcio che apre alla possibilità di una critica radicale. Entrambi paiono quasi pervasi da un impeto documentario. Nell’uno come nell’altro, sembra che il compito della fotografia sia quello di smascherare le apparenze, senza generare alcun mito. Esporre queste fotografie significa attribuire loro una profondità abissale. Lo sguardo si sofferma sulla loro ostinata presenza. Sembra che queste immagini resistano a essere interpretate. Restano mute dinnanzi ai nostri occhi. Insieme alla crisi della velocità, mostrano una realtà indiscutibile, la cui sovranità non può essere piegata dalle forze del mercato o dell’utilità. Si ha l’impressione che dinnanzi alla loro forza anche la funzione comunicativa del linguaggio perda la sua efficacia. Si guardano “Plumbers” e “Nomads” e ci si chiede cosa significa spostarsi, muoversi, essere veloci. Ma non esiste una vera risposta.

 

Luciano Rigolini, Automobili americane del 1963, © Luciano Rigolini.


Le foto di Yto Barrada e Xavier Ribas ostentano uno scarto ulteriore rispetto al tema stesso della mostra. Ciò che domina è il sentimento di una soppressione, attraverso un procedimento creativo che mostra l’effetto prima della causa. Tubi e macerie diventano i residui di un interrogativo irrisolto, che si ripresenta con insistenza: quale prezzo dobbiamo pagare alla velocità a cui ci siamo condannati?

Potere dunque non è semplicemente potersi muovere, ma decidere come muoversi e soprattutto quando giunge il momento di fermarsi. La citazione dal poeta Saint-Pol-Roux, che Urs Stahel pone all’inizio del catalogo, come un avvertimento, si stende sulle immagini di motori e forze che trascinano uomini e merci, come un’ombra scura. “L’uomo non conquisterà l’infinito con le macchine ma con se stesso. […]. L’ingranaggio vero siamo noi”. Saper guardare certe immagini, direbbe Georges Bataille, può insegnarci a “vedere ciò che eccede la possibilità di vedere” e “pensare ciò che eccede la possibilità di pensare”. Yto Barrada e Xavier Ribas lo hanno fatto.

 

Mostra: Pendulum. Merci e persone in movimento, a cura di Urs Stahel 

Fondazione Mast di Bologna

Dal 4 settembre 2018 al 13 gennaio 2019

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Mantegna e Bellini a Londra

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Erano cognati: nel 1453 il poco più che ventenne padovano Andrea Mantegna aveva sposato a Venezia Nicolosia Bellini, la sorella maggiore di Giovanni, figli del grande pittore Jacopo. La famiglia Bellini era la più rinomata nel mondo della pittura italiana in quel momento, per cui Mantegna col matrimonio si garantiva l’accesso alla bottega più influente e al mercato più ricco del tempo. Per qualche anno lavorano a stretto contatto, Andrea e Giovanni, ma dal 1460 le loro strade si separano: Andrea al servizio dei potenti Duchi di Mantova, i Gonzaga, Giovanni sempre a Venezia nella splendida realtà repubblicana che durava da oltre sette secoli. Le radici comuni e la divaricazione successiva sono ora esplorate da una grandiosa esposizione alla National Gallery (a cura di Caroline Campbell: Mantegna and Bellini, fino al 27 gennaio 2019; e dal 1 marzo alla Gemäldegalerie di Berlino), che li presenta come i fondatori dell’arte rinascimentale, nel transito dal tardogotico quattrocentesco alla scoperta dell’antico e del paesaggio, proseguendo una serie di abbinamenti capitali che aveva avuto la sua prova più spettacolare nella mostra su Michelangelo e Sebastiano della scorsa primavera. 

 

La mostra attuale insiste soprattutto sull’opposizione, all’insegna del conflitto tra invention e poetry: Mantegna narrativo e Bellini sentimentale. Lo sfondo unificante è però quello del classicismo, che impone a entrambi una ricerca di soluzioni formali segnate dalla centralità dell’umano, dall’armonia della composizione e dalla valorizzazione del colore, sulla scia del comune maestro, Jacopo, e attraverso i contatti comuni, da Marco Zoppo agli stampatori, con lo sguardo rivolto soprattutto all’architettura e la prospettiva. Un confronto vis-à-vis rischia del resto d’isolare i protagonisti, perdendo un po’ di vista il contesto, la committenza politica, la localizzazione delle opere e i loro destinatari: prezzo da pagare, forse inevitabilmente, non solo al culto contemporaneo della celebrità, ma soprattutto all’obiettivo di valorizzare il paragone.

 

La mostra si apre comunque con un colpo d’occhio fenomenale, mettendo a confronto le due similissime presentazioni di Cristo al tempio di Mantegna (1454 ca) e Bellini (1470 ca), di solito rispettivamente a Berlino (Gemäldegalerie) e Venezia (Fondazione Querini Stampalia), già di recente esposte l’una accanto all’altra proprio a Venezia. A lanciare la sfida, oltre dieci e passa anni dopo, fu il più giovane veneziano, che sembra proporre un’attentissima copia corretta alla luce della propria poetica pittorica, rivolta all’eliminazione di ogni elemento decorativo a favore di una profonda umanizzazione, caratterizzata dall’abbigliamento borghese e dalle acconciature naturali in opposizione all’estrema sofisticazione del dettaglio mantegnesco, oltre all’allargamento dello sfondo e del contesto con l’aggiunta di due figure a destra e sinistra e la normalizzazione dello spazio attraverso una balconata anziché la più illusionistica cornice. Mantegna più interessato allo statuto sociale e Bellini alle relazioni umane? Chissà; ma il guanto di sfida era ormai lanciato. Tra il parvenu di provincia, figlio di un oscuro falegname, e il figlio di papà, che ereditava il lavoro in casa, la relazione potrebbe essere stata sottilmente più complicata di una pura fratellanza e rivalità pittorica. 

Fu certamente Mantegna a influenzare Bellini, comunque, per lungo tempo, come dimostrano i rispettivi Orazione nell’Orto (ora entrambi alla National Gallery: qui e qui), Discesa al Limbo e Crocifissione (ora al Louvre e al Museo Correr), dove Bellini risulta sempre più intimo e più delicato del cognato, ma forse anche meno plastico, meno teatrale e meno dinamico. Alle spalle avevano entrambi la lezione di uno scultore, il fiorentino Donatello, che lavorò a Padova dal 1443 al 1453 (e di cui sarebbe stato bello avere qualcosa in mostra qui), al punto che la spettacolare Pietà monocroma di Bellini della fine del secolo (1490-1500 circa), ora agli Uffizi (più nota come Compianto sul Cristo morto), potrebbe essere facilmente considerata “mantegnesca”.

 

 

La svolta si produce col trasferimento di Mantegna alla corte dei Gonzaga, come abbiamo detto. A quel punto Mantegna diventa l’interprete più convinto della rinascita dell’antico: scultoreo, maestoso, imperiale e allegorico, fino alla spettacolare serie dei Trionfi di Cesare, di cui qui sono in mostra tre pannelli da Hampton Court (anche se la Royal Academy a inizio anno era riuscita ad averli tutti); mentre Bellini, pittore ufficiale della Serenissima dal 1478, preferisce sviluppare la sua ricerca verso una poetica anziché un’estetica del classicismo, più attenta ai valori formali la prima, più rivolta al contenuto stesso la seconda. Più stilistico, poetico, naturalistico e atmosferico, Bellini; più d’impatto visivo, inventivo, monumentale e antico, Mantegna, secondo il paradigma suggerito da Andrea De Marchi nel catalogo. Forse, perciò, anche più inclusivo il primo e più impositivo il secondo, sulla base di un’inevitabile, e ancora poco esplorata, divaricazione politica.

 

Le ultime due sale, dedicate al paesaggio e al ritratto, dimostrano però che l’influenza fu reciproca, perché il Mantegna del Trionfo della Virtù conosce il colorismo e il luminismo del cognato come strumenti del messaggio simbolico: pur essendo Bellini raramente narrativo e allegorico, con la splendida eccezione dell’Uccisione di San Pietro martire e poche altre, è la sua tecnica a fornire a Mantegna delle possibilità in più in vista della narrazione e dell’allegoria, suggeriscono i curatori. Lo stesso rilancio di Mantegna pittore di soggetti cristiani oltre che pagani operato dalla mostra corrobora la tesi di una disponibilità allo scambio tra due personalità fortemente autonome. Bellini si sarebbe del resto “demantegnizzato” all’incontro con la pittura di Antonello da Messina e di Piero della Francesca, secondo la famosa, e molto discussa, tesi di Longhi che la mostra sembra infine rivalutare nel rivendicare la differenza più che la continuità tra i due artisti (anche se pure di questo sarebbe stato bello avere qualche evidenza, almeno collateralmente). 

 

A fronte di qualche rimpianto, la quantità e qualità delle opere, il disegno narrativo, i raffronti tematici e l’attenzione stilistica fanno di questa mostra un’introduzione straordinaria alla civiltà del Rinascimento italiano. Evitando la tradizionale, ormai piuttosto stantia, opposizione tra Firenze e Venezia nella lettura dell’arte rinascimentale e insistendo sulla dimensione dei contatti e delle influenze personali, la mostra propone di valorizzare insieme appartenenze comuni (con uno sguardo dall’alto) e percorsi individuali (ricorrendo al microscopio): il Rinascimento visto così, fatto di cornice e di pluralità, è un Rinascimento come di rado lo vediamo, senza troppe mitologie del genio universale e di ritorno degli dei pagani. Fu la gara, con gli antichi e fra loro, ad animare la stagione più vitale ed energetica sul piano produttivo della storia dell’arte occidentale: inventio ed aemulatio come cardini delle poetiche classicistiche, nella consapevolezza che inventare è soprattutto reinventare e che l’arte si nutre essenzialmente di agonismo. Quando Bellini, ben oltre la morte di Mantegna, comincia a dipingere il Festino degli dei per Alfonso d’Este a Ferrara, su una tela più avanti ripresa da Tiziano e da Dosso, stava insieme sfidando e omaggiando l’allegoria di Mantegna per lo studiolo d’Isabella d’Este a Mantova, quel Trionfo che proprio a partire dalla sua lezione formale aveva sviluppato la sua mirabile composizione. Se la partita termina con un pareggio, a vincere è l’arte.  

 

Mettendo a confronto due dei più grandi interpreti del Rinascimento italiano, la National Gallery decide anche, per la prima volta nella sua lunga storia, di mettere in dialogo la lingua dell’oggetto e quella dell’espositore, genesi e ricezione, con pannelli didascalici sia in inglese sia in italiano: sarebbe stato bello, anche qui, sentire un po’ di più la lingua del loro tempo, attraverso scritti e testimonianze coevi (a partire dal famoso confronto instaurato dal liutaio Lorenzo da Pavia tra l’«invenzione» di Mantegna e il «colore» di Bellini), ma la scelta è comunque significativa e promettente. Prova ulteriore che il Rinascimento va ormai riletto tanto in contesto, nella realtà del suo tempo, quanto nella durata, gurdandolo nell’oggi. Di buon auspicio a tanti altri dialoghi, tra antico e moderno, tra lingue diverse e tra artisti di varia provenienza: per preservare la differenza anziché favorire l’omologazione.

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L'atlante di Kassia St Clair

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La traduzione italiana del libro di Kassia St Clair The Secret Lives of Colour ha come titolo Atlante sentimentale dei colori. Da amaranto a zafferano 75 storie straordinarie (trad. it. di Claudia Durastanti, Utet, DeA Planeta Libri, Milano): il carattere classificatorio dell'atlante viene mitigato dall'accento sulle storie che appariva centrale nel titolo dell'originale.

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Marina Abramovic. The cleaner

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Nelle sale della Strozzina campeggia un curioso macchinario dall’aspetto antidiluviano: è The Cleaner, un vetusto modello di lavatrice acquistato dai genitori di una Marina Abramović ancora bambina, quando ben poche famiglie potevano permetterselo. Spinta dalla curiosità, la bambina mise una mano nella macchina, schiacciandosi prima un dito e poi l’intero braccio, in una prolessi che anticipò il suo futuro, costante sfidare i limiti fisici per comprendere le cose. L’oggetto si intitola The Cleaner, titolo della retrospettiva che Palazzo Strozzi dedica alla “nonna della performance” (come si è autodefinita Abramović) e che attesta la necessità di fare un bilancio di mezzo secolo di produzione, mettendo da parte ciò che non è più utile per fare spazio al nuovo. Un repulisti che si colloca tra il buonsenso della massaia e l’essenzialità buddista, in quell’equilibrio tra vocazione popolare e tensione trascendente che caratterizza tutto il suo lavoro.

Marina Abramović è la prima donna a cui viene dedicata una retrospettiva a Palazzo Strozzi. L’istituzione punta ai grandi numeri con una mostra blockbuster da oltre cento opere, curata da Arturo Galansino e Lena Essling, con la collaborazione attiva dell’artista. Si tratta di una mostra divulgativa, con un classico percorso espositivo ordinato cronologicamente, che ripercorre tutta la carriera dagli esordi come pittrice figurativa a Belgrado fino ai progetti più recenti, cercando di restituire al pubblico, attraverso una formula immersiva, l’avventura artistica per certi versi eccezionale della più celebre performer contemporanea. Una mostra interessante ma con evidenti limiti legati proprio a quello che dovrebbe essere il suo punto di forza, ossia le re-performance.

 

 

Abramović da sempre polarizza il pubblico, diviso tra fan devoti e detrattori feroci, come una vera diva. Anche nel caso della mostra di Firenze non sono mancate polemiche e colpi di scena: il 24 settembre Vaclav Pisvejc, un sedicente artista, è riuscito ad avvicinarla nel cortile di Palazzo Strozzi e le ha spaccato un quadro sulla testa, giustificando il gesto con improbabili motivazioni artistiche. Alcune settimane prima, Abramović era già stata al centro dell’attenzione per le polemiche scaturite dalla presentazione del manifesto realizzato per la Barcolana di Trieste, la storica regata velica. Riprendendo il tema del soldato-eroe, ha creato un poster che la raffigura nell’atto di sorreggere un vessillo che riporta la frase “We are all in the same boat”. Una grafica dal sapore suprematista e un messaggio ecumenico sono stati sufficienti per scatenare la censura del vicesindaco leghista di Trieste, che lo ha definito “un orrore” e oggetto per una “propaganda immorale”, nonché di altre voci che si sono levate accusando l’artista di avere un atteggiamento gauche caviar.

Da artista smaliziata qual è, Abramović ha imparato a cavalcare le querelle volgendo a proprio favore il chiacchiericcio mediatico e, anche in questo caso, le polemiche hanno solo accresciuto l’interesse verso la sua figura.

 

 

La mostra di Firenze intende fare il punto su cinquant’anni di attività, un lasso di tempo che abbraccia quasi tutta la storia della performing art, al centro della quale brilla la parabola incandescente di una “sciamana” che ha saputo incarnare molteplici archetipi del femminile (la santa, la puttana, la madre, la vittima sacrificale, la mentore, in un una vertigine psicanalitica in cui il pubblico si è felicemente proiettato), vivendo in piena consapevolezza tutte le contraddizioni che questo percorso ha comportato, anzi trasformandole in un combustibile per alimentare la fama e la mitologia che l’hanno accompagnata, trasformandola in una star planetaria. 

 

Impressiona pensare che Abramović abbia iniziato a sperimentare quando le arti performative avevano da poco trovato dei numi tutelari – pensiamo a Yves Klein e Joseph Beuys –, rimanendo in piena attività fino a oggi; con il suo lavoro ha contribuito a donare piena titolarità al linguaggio performativo, rendendolo popolare anche presso il grande pubblico. Se oggi la performance ha ampliato il proprio spazio d’azione fino ad abbracciare territori come l’economia e la sociologia (pensiamo ad esempio agli esperimenti del collettivo Norma Jean, ai Public Movement e alle “constructed situations” di Tino Sehgal), il mondo digitale (Alva Noto, Eva e Franco Mattes), l’ambiente (Hamish Fulton, Zheng Bo) è anche grazie al lavoro dell’artista serba che ha demolito con furia iconoclasta i confini di ciò che era lecito, ciò che era considerato praticabile all’interno di un’indagine artistica. Non è stata la sola, certo: accanto a lei hanno operato figure del calibro di Vito Acconci, Allan Kaprow, Valie Export, Chris Burden, Joan Jonas, Fluxus, Carolee Schneemann, Gina Pane, Otto Mühl, ma ciò che è riuscito solo ad Abramović è sfondare il perimetro dell’arte contemporanea per entrare a pieno titolo nella cultura popolare, come dimostra la profilerazione di meme a lei ispirati che hanno invaso la rete e le parodie nei programmi del prime time televisivo.

 

 

Seguendo il criterio cronologico che ordina il percorso, il pubblico fa conoscenza di un’Abramović pittrice, studentessa delle Belle Arti di Belgrado, figlia agiata di un militare e di una funzionaria statale della cultura, entrambi ex eroi della guerra partigiana. Le tele inedite esposte raffigurano nuvole e incidenti, due tòpoi ricorrenti della produzione degli esordi, pezzi che presentano un valore documentale più che un significativo spessore artistico, completate da numerose carte. Bambina timida e educata alla cultura da una madre severa e anaffettiva, risale ai suoi quattordici anni l’epifania che le aprirà la strada della performance, grazie a Filo Filipović, ex partigiano e pittore informale, incaricato dal padre di insegnarle i rudimenti della pittura. Vicende raccontate nella fondamentale biografia Quando Marina Abramovic morirà, scritta da James Westcott, giornalista e assistente dell’artista, che ricostruisce la genesi dei lavori partendo dai ricordi d’infanzia e attraversando le memorie personali di tutta una vita. 

Tornando agli anni della formazione, la dimensione della pittura risulta limitante per una giovane Abramović, alla ricerca di uno strumento che possa permetterle di esprimere compiutamente la sua tensione creativa. Una nocciolina le apre letteralmente la via all’impiego di oggetti in pittura, ma non basta. Sperimenta finchè sceglie l’azzardo, il salto dalla tela alla vita; si tratta di attraversare un crepaccio, di andare contro la famiglia e contro il Partito, tentare una scommessa inedita: utilizzare il corpo come esclusivo mezzo di indagine e strumento, fino alle estreme conseguenze.

 

 

La seconda sala della Strozzina illustra l’approdo di  Abramović al mondo performativo. Allestita con interessante materiale documentale, raccoglie alcune delle azioni più memorabili degli inizi degli anni ‘70, dove la posta in gioco appare subito alta. La serie Rhytm, che mantiene ancora oggi intatta la potenza originale, segna un punto nodale nella produzione. In Rhytm 2 (1974-1994), l’artista sperimenta sul proprio corpo l’effetto di alcuni farmaci utilizzati per trattare pazienti catatonici e schizofrenici, mentre in Rhytm 10 (1973-2017) cerca di far convivere passato e presente esplorando la dimensione del suono, eseguendo il famoso “gioco del coltello” e ferendosi ripetutamente le mani. Rischia la vita per la prima volta in Rhytm 5 (1974-2011), sdraiandosi all’interno di una stella di legno a cinque punte a cui dà fuoco (simbolo che ritornerà spesso nel lavoro di Abramović, sia come elemento iconografico della bandiera jugoslava, sia come simbolo esoterico, rappresentazione dell’accesso a un sapere frutto di iniziazione), con buona pace di Joseph Beuys che le sconsiglia di eseguire la performance. L’esperienza più sconvolgente che l’attende è però Rhytm 0 (1974-2011), che chiude il ciclo della serie. Durante le sei ore della performance, l’artista si mette letteralmente nelle mani del pubblico dello Studio Morra di Napoli, che ha a disposizione settantadue oggetti che può usare liberamente sul suo corpo. La cronaca dell’azione è nota: la performance inizia con gli spettatori che interagiscono timidamente e si sviluppa in un crescendo di violenza e umiliazioni, fino a quando un uomo le mette in mano la pistola carica e gliela punta alla gola. Abramović porterà a termine la performance ma ne uscirà scioccata e Rythm 0 passerà alla storia, rappresentando una sorta di catarsi e un punto di non ritorno per l’artista. Da lì, si può solo uscire di scena o procedere, spostando ancora più in là il limite del lecito: Abramović, naturalmente, sceglie la seconda ipotesi. Come ripete più volte, non c’è mai stata la possibilità di fare altro nella vita, l’arte è l’unico orizzonte possibile. Dal punto di vista della violenza percepita, Rythm 0 troverà un metro di comparazione solo in Role Exchange (1975-2015), azione nella quale l’artista mette in atto uno scambio di ruolo con una prostituta e che, per sua stessa ammissione, rappresenterà una delle esperienze più umilianti mai provate. 

 

Durante il decennio dei ‘70, Abramović conduce una sorta di doppia vita, continuando a esporre opere pittoriche in contesti istituzionali, a cui affianca l’elaborazione di azioni scioccanti, al limite dell’autolesionismo, come Art Must Be Beautiful (1975) e The Freeing Series (Memory, Voice, Body, 1975, proposta nel programma delle re-performance in mostra), inserendosi a pieno titolo nella ricerca della Body Art. Nella performance, Abramović trova la transustanziazione dello spirito concettuale, l’idea che diventa carne e sangue, e assume finalmente una immanenza che inchioda il pubblico a una verità incontrovertibile: il dono dell’artista allo spettatore, il suo farsi opera d’arte attraverso un metodo rigoroso che comporta anche il sacrificio di sé. Una strada influenzata dal concetto artaudiano di un teatro della crudeltà, un teatro “alchemico”, in grado di portare a galla forze profonde che sottendono alla realtà, superando la dimensione morale, attraverso lo shock, la paura, il dolore. Una strada che verrà battuta da tutti gli artisti della Body Art fino a giungere agli estremi dell’Orgien Mysterien Theater di Hermann Nitsch, per poi prendere la via delle sperimentazioni corporee e identitarie del post-human degli anni ‘80 e ‘90.

 

 

Nel cortile del palazzo staziona un furgone Citroën nero, che introduce gli spettatori alla seconda fase della vita artistica di Abramović, quella del sodalizio con Ulay (al secolo Frank Uwe Laysiepen): tedesco della Renania, Ulay è un giovane ancora incerto della propria carriera artista, bellissimo e con tendenze autodistruttive, specializzato nella fotografia Polaroid. Con lui condividerà vita e pratica artistica per tredici anni, anni di amore folle e di scontri quotidiani.

 

I due si incontrano nel 1975 ad Amsterdam (scoprendo di essere nati lo stesso giorno, il 30 novembre), si innamorano, vanno a vivere insieme – anche se Marina è sposata con un artista di Belgrado, Neša Paripović  – per poi scegliere un’esistenza nomade a bordo di un furgone senza riscaldamento. Risale a quel periodo la redazione del manifesto Art Vital, tre anni in cui i due attraversano l’Europa per presentare il loro lavoro al pubblico, vivendo praticamente di niente. Dalla loro relazione, talmente conflittuale da sfociare nella reciproca ossessione, nascono alcuni lavori celebri come la serie Nightsea Crossing (1982-1986), una performance definita “un calvario” che mette a dura prova la tenuta fisica e mentale dei due artisti. Impossibile condensare in poche sale la mole di lavoro prodotto in oltre un decennio di relazione e restituire la densità del rapporto che unisce i due artisti, un rapporto di potere, segnato dall’agonismo, talvolta crudele ma anche uno spericolato tentativo di completarsi reciprocamente attraverso un percorso di esplorazione che passa attraverso la pratica dell’arte. Tra le opere visibili in video ci sono Relation in Space (1976), nella quale i due percorrono nudi lo spazio della sala della galleria fino a scontrarsi, AAA-AAA (1978), dove si urlano addosso fino a perdere la voce, Rest Energy (1980), dove Abramović regge un arco mentre Ulay tende la corda e trattiene per quattro minuti una freccia puntata verso il cuore della donna: un lavoro palpitante, definitivo sui temi della fiducia e della vulnerabilità . 

 

Nessun posto fisso in cui vivere.

Movimento perenne.

Contatto diretto.

Rapporti locali.

Autoselezione.

Superare i limiti.

Rischiare.

Energia mobile.

Niente prove.

Nessuna fine prevedibile.

Niente ripetizioni.

Vulnerabilità estesa.

Apertura al caso.

Reazioni primarie.

 

Manifesto Art Vital, 1977 

 

 

Affacciandosi al Piano Nobile di Palazzo Strozzi, il regime della mostra si concentra sulle re-performance ed è qui che appaiono più evidenti i limiti intrinseci al progetto. Culminata nel 2005 con Seven Easy Pieces presso il Guggenheim Museum di New York, durante la retrospettiva The Artist is Present, la pratica di rimettere in scena le azioni rappresenta per Abramović lo spostamento del focus d’indagine dal corpo al processo (intervistata, dichiara che “il processo è più importante del risultato), la verifica della possibilità di superare l’effimerità che connota gli atti performativi. Un’idea in sé stimolante e problematica, che cerca di verificare l’ipotesi di ridare vita a un evento altrimenti cristallizzato negli apparati documentali, ma che si ferma di fronte alla proposta della mostra, dove le performance – selezionate con un criterio tutt’altro che limpido – appaiono come neutralizzate. 

Si prenda il caso di Imponderabilia: i due interpreti dell’azione sono collocati su una soglia all’interno di un allestimento che lascia la possibilità agli spettatori di evitare il passaggio forzato tra i due corpi. Evitando la sgradevolezza del contatto. Quindi, in definitiva, cosa rimane? Una re-performance che tradisce il senso originale dell’opera e la trasforma in una scena fittizia.

Non è secondario inoltre il peso dell’assenza in scena di Abramovic e Ulay: ciò che ancora oggi non è possibile riprodurre, malgrado la presenza pervasiva di intelligenze artificiali e simulacri digitali, che costituiscono una nuova nuova forma di realtà dove la vita biologica e la vita digitale sono ormai fuse, è l’unicità che la presenza di un essere umano restituisce allo spettatore in termini di relazione. Abramović, ancor più di Ulay, possiede un corpo tutt’altro che neutro, e la sua assenza dalla scena determina una perdita di quid. L’aura – se possiamo permetterci di traslare con una certa disinvoltura il concetto benjaminiano – che forse ancora per poco apparterrà al nostro essere individui irripetibili, organicamente e biologicamente determinati, è elevata all’ennesima potenza nel corpo performativo, un corpo sacralizzato. Nel caso specifico di Abramović, che ha soggettivizzato le sue azioni fino al limite, ciò appare ancora più imprescindibile e si ravvisa in tutte le re-performance in mostra, culminando in The Artist is Present: inutile dire che il teatrino proposto a Firenze sia superfluo, con le riprese fatte al Moma e il tavolo con le due sedie vuote. Vedere gli spettatori che si siedono uno di fronte all’altro e si guardano spaesati, alla ricerca di qualcosa che non c’è, fa quasi tenerezza.

 


“La materia è vicinanza e crisi. È il flusso molecolare dell’accadere del senso. Non è una massa omogenea, né una funzione logico-dialettica: è una linea, una traiettoria lungo le latitudini degli affetti. È una ininterrotta frontiera mobile che mette in comunicazione i corpi. Più membrana che barriera, è una variazione affettiva che si trasmette per travaso di contatto in contatto.” (Gilles Deleuze, Cosa può un corpo. Lezioni su Spinoza, 2013, pag. 28)

 

Proseguendo nel percorso, dai video emerge come la ricerca del duo si evolva nel tempo, spingendosi verso il tentativo di sondare i limiti della mente. In mostra sono visibili le ventidue sessioni di Nightsea Crossing, nate dopo un soggiorno nel Gran Deserto Victoria, in Australia, presso la tribù aborigena dei Pintupi. Le performances, della durata di sette ore ciascuna, tenutesi in varie città del mondo, racchiudono i prodromi di ciò che poi sarà The Artist is present (2010), svoltasi presso il Moma di New York e durata 736 ore. Le sessioni mettono a dura prova sia Ulay che Abramović, ma mentre il primo si vede costretto più volte a interrompere le performance, minato nel fisico e nelle mente dalle ore di immobilità forzata, Abramović affina la sua straordinaria capacità di autocontrollo e di concentrazione, che continuerà a sviluppare negli anni a venire, accrescendo un carisma già evidente: un’attitudine che origina nell’educazione ferrea ricevuta in famiglia e nell’ambiente in cui cresce, una Jugoslavia schiacciata dal soffocante regime di Tito.

Le prove a cui si sottopongono sono logoranti, la disparità evidente tra i due artisti acuisce conflitti latenti e la coppia vive una crisi che culminerà nella rottura del rapporto (con conseguenti, lunghe battaglie legali). Il sodalizio con Ulay si conclude nel 1988 con una delle performance più celebri di tutti i tempi, Great Wall Walk, che viene documentata in un film intitolato The Lovers: una performance nata nella mente di Abramović anni prima e che, nell’idea originale, doveva culminare con il loro matrimonio, nella realtà si trasforma nel rito funebre della loro relazione. I due artisti percorrono la Muraglia Cinese – luogo scelto per la valenza spirituale ed “energetica”, un aspetto primario nella ricerca soprattutto di Abramović –, camminando uno verso l’altro per tre mesi, fino a incontrarsi. Si danno l’addio tra le lacrime in un’impresa struggente, ammantata di spettacolarità, per poi riprendere da soli i rispettivi cammini. Ora sono di nuovo due artisti solisti.

 

 

Alla dolorosa rottura con Ulay fa seguito una produzione più cupa, legata alle riflessioni sulla morte, sulle origini e sulle vicende delle guerre balcaniche, nonché il ritorno al lavoro in solitaria. Impossibile restituire la violenza e l’impatto sconvolgente di Balkan Baroque, presentata alla Biennale d’Arte di Venezia del 1997 e che le vale il Leone d’Oro. Balkan Baroqueè concepita come un’azione che rappresenta un tentativo di purificazione a seguito degli orrori della guerra nell’ex Jugoslavia. Durante sei giorni consecutivi, Abramović rimane all’interno di una sala in cui vengono proiettati su tre pareti video che raffigurano la madre e il padre, eroi di guerra, e lei stessa. Al centro della sala sono posti due lavandini e una vasca di rame, riempiti d’acqua, e mille ossa di bovino fresche che l’artista sfrega con delle spazzole, nel tentativo impossibile di pulirle dal sangue, cantando canzoni serbe, assumendo il ruolo della narikača, la prefica tradizionalmente incaricata di piangere i morti. Via via che giorni passano, le ossa cominciano a imputridire, emanando un fetore insopportabile: l’artista porta avanti l’azione per quattro giorni finché, esausta per il lavoro stremante e per le condizioni terribili in cui versa la sala, rinuncia. La sottile traccia olfattiva presente nelle sale di Palazzo Strozzi, dove è presente un mucchio di ossa pulite, evoca la possanza del lavoro originale ma senza poterne restituire la forza dirompente. Nell’impossibilità di riproporre l’azione, si è optato  per Cleaning The Mirror (1995/2018), azione nella quale la performer cerca di spazzolare le ossa di uno scheletro umano che tiene in braccio. 

Balkan Baroque è probabilmente l’opera più importante della produzione che Abramović dedicata alla relazione con la propria terra e con la memoria, un rapporto conflittuale da cui emergono le ferite private scaturite da una complessa storia familiare, sempre romanzata, e il rapporto con la propria cultura d’origine, da cui emergono gli spettri del regime e l’orrore per le recenti guerre balcaniche. Per Abramović si tratta di un rapporto dialettico che prende la forma di un melodramma, come in Count on Us (2004), Balkan Erotic Epic (2006) o nello spettacolo teatrale Biography, e che troverà una risoluzione solo con la perdita dei genitori Vojo e Danica, avvenuti quando l’artista avrà già raggiunto la maturità.

 

 

Superata la parte “balcanica”, si approda alla sezione conclusiva della mostra, dove sono stati ricostruiti gli ambienti sopraelevati di The House with the Ocean View (2002/2017), performance andata in scena presso la Sean Kelly di New York e riproposta a Palazzo Strozzi, durante la quale l’artista vive senza mangiare né parlare per dodici giorni consecutivi nelle piattaforme presenti in galleria, instaurando un dialogo silenzioso con gli spettatori che assistono con religioso rispetto alla prova di resistenza. In questa sezione sono visibili alcuni dei Transitory Objects (1995-2015), manufatti prodotti con quarzo e altri minerali con cui il pubblico può interagire e che, nella recente visione “new age” di Abramović, sono funzionali alla canalizzazione dell’energia. Opinabili nella forma e nel contenuto, possono essere considerati il cascame della produzione degli anni Novanta/Duemila, un tentativo non riuscito di offrire al pubblico degli strumenti per sperimentare quell’energia che tanto interessa all’artista, ma che sembra avere più a che fare con il suo carisma che con ipotetiche forze intellegibili. In questa ultima fase della ricerca è ancora più evidente il tentativo di raggiungere “lo spirituale dell’arte”, per richiamare l’insegnamento di Kandinsky, sia attraverso i lavori che riflettono espressamente su figure sacre – come la fotografia della Anima Mundi (Pietà, 1983-2002) e il The Kitchen V. Holding the Milk (2009), omaggio alla mistica Santa Teresa d’Avila, entrambe esposte al Museo dell’Opera del Duomo – sia attraverso il tentativo di farsi da parte, diventare una sorta di specchio, fornendo agli spettatore gli strumenti per raggiungere autonomamente una maggiore consapevolezza spirituale, come in Counting the Rice (2015).

Il coinvolgimento crescente del pubblico, la condivisione di tecniche di meditazione e di autoconsapevolezza, il tentativo di attivare energie attraverso l’utilizzo di esercizi specifici e materiali come i cristalli, che caratterizza i lavori più recenti, ha fatto storcere il naso a molti. Questo approccio non ironico alla spiritualità, come segnala David Zubner nel catalogo della mostra, ha sollevato dubbi da parte del pubblico e della critica sulla limpidità delle intenzioni di Abramović, accusata di voler vestire i panni della guru o di proporre una versione edulcorata della religione in salsa performativa. In realtà si tratta di una dialettica di forze da sempre riscontrabile nel sue opere, che da un lato spinge il lavoro dell’Abramović verso l’alto, verso una smaterializzazione a favore di una pura dimensione relazionale, e dall’altro lo àncora a un livello di immanenza, gravato dal peso di un narcisismo ipertrofico. Un’attitudine che accomuna le pratiche di molti artisti performativi e che, nel caso di Abramović, come osserva Lea Vergine, inficia talvolta la qualità formale del lavoro.

 

 

La vicenda artistica condensata nelle sale di Palazzo Strozzi restituisce l’immagine di un’artista che negli anni ha saputo camminare sul crinale che separa sincerità e manipolazione, provocazione e ingenuità, banalità e capolavoro. Abramović parte da una condizione di outsider per diventare una pop star, la sua pratica artistica ricalca il ruolo arcaico della sciamana, che nella versione contemporanea e massmediatica si diluisce per incarnarsi nel corpo pubblico delle star dell’entertainment. Proprio come gli sciamani, “abreagisce” (Claude Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, pag 395, Il Saggiatore, 2015) nel tentativo di sanare ritualmente le proprie ferite, e per traslazione, quelle del pubblico, che è condizione essenziale del suo teatro. In quest’ottica si inserisce anche il percorso pedagogico formalizzato nel “metodo”, frutto di anni di esercizi e di lavoro con gli spettatori, oggi alla base del MAI (Marina Abramović Institute).

Al contrario di una figura come Gina Pane che, pur lavorando sul corpo e sul sacro, scelse un percorso di rarefazione e di separazione dallo spettatore, caratterizzando le azioni con una progettualità molto forte, Abramović ha abbattuto la distanza nei confronti del pubblico e ha rifiutato, per una parte consistente della propria carriera, l’idea di strutturare le azioni, provarle, assimilarle alla prassi al teatro. Il suo lavoro inoltre non è mai intellettuale: non è interessata alla storia dell’arte, fonda lei stessa la propria mitologia attingendo dal folklore balcanico, dalle filosofie orientali, dall’esoterismo e dall’antropologia, sperimentando esercizi spirituali che richiamano la pratica di Ignazio di Loyola ma anche il vipassana indiano o la meditazione trascendentale, come è documentato in Private Archaelogogy (1997-2015), installazione composta da quattro cassettiere con cinquantanove collage che raccolgono fonti di ispirazione e temi d’interesse. La sua è una forza che deriva dalla nudità, intesa come ostensione dell’io più profondo: le sue opere parlano di paura, di dolore, dei limiti del corpo, dei fantasmi familiari, della ricerca di pace e del desiderio incessante di sondare le soglie dell’Io. “Tutte queste azioni o performance, comunque le si voglia chiamare, non erano espressioni di una performer, ma di una superba creatrice di segni. Che usasse coltelli, una stufa elettrica o un blocco di ghiaccio, in realtà non faceva altro che produrre splendidi segni visivi.”, dichiarò  Richard Demarco, mecenate dell’arte performativa, a proposito dei suoi gesti, dotati di una capacità indiscutibile di penetrare l’immaginario collettivo (Quando Marina Abramovich morirà, Johan & Levi, 2014, pag 93). Lavori come Freeing the Voice (1975), l’angosciante Thomas Lips (1975), The Onion (1995) sono un tentativo di desoggettivazione attraverso il sé, un’aporia che non troverà mai soluzione, ma percorsi da una elettricità, una forza destabilizzante che nasce da un’urgenza personale in grado di farsi grido universale. Abramović è un’artista che ha saputo distillare la sua personale narrativa del corpo, arrivando all’assolutezza di The Artist is present, opera per certi versi scioccante nella sua capacità di far deflagrare tutta la forza del reale, riducendo ai minimi termini le componenti della messa in scena. 

Ingombrante, talvolta eccessiva, ambiziosa, ma anche candida, carismatica e profondamente umana, Abramović è la propria opera d’arte, l’evoluzione contemporanea della soggettività egotica ottocentesca. Se dovessimo indicare un ingrediente solo in tutta questa lunga parabola, un elemento in cui racchiudere il segreto del suo successo, forse potremmo cercarlo nello spazio vuoto tra una supplica d’amore, una richiesta incessante inviata allo spettatore, reiterata in ogni performance – guardami, perché soloattraverso il tuo sguardo io esisto– e il candore temerario di chi non ha paura di giocarsi tutto, anche la vita, per quello sguardo. In fondo, una storia molto romantica, che non ha bisogno di essere rimessa in scena. Vive già nella nostra memoria.

 

Dal Manifesto della vita dell’artista:

 

L’artista non dovrebbe mentire

a se stesso

o ad altri

L’artista non dovrebbe rubare

idee altrui

L’artista non dovrebbe scendere

a compromessi

con se stesso o

per il mercato dell’arte

L’artista non dovrebbe uccidere

un altro uomo

L’artista non dovrebbe fare

di se stesso un idolo

L’artista non dovrebbe fare

di se stesso un idolo

L’artista non dovrebbe fare

di se stesso un idolo

 

 

Per saperne di più:

 

Peggy Phelan, Unmarked: The Politics of Performance, Routledge, 1993

Antonin Artaud, Il teatro e il suo doppio, Piccola Biblioteca Einaudi, 2000

Lea Vergine, Body Art e storie simili. Il corpo come linguaggio, Skira, 2000

Tracy Warr, Amelia Jones, The Artist’s Body, Phaidon, 2000

Jean-Luc Nancy, Indizi sul corpo, Ananke, 2009

RoseLee Goldberg, Performance Art: From Futurism to the present, 2011, Thames & Hudson

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Courbet e la natura

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Passeggiare al Louvre con Barnett Newman: che esperienza fantastica deve essere stata. È capitato a Pierre Schneider. Leggiamo uno stralcio del testo, pubblicato all'interno del suo Louvre, mon amour (Johan and Levi, 2012). L'euforia è contagiosa. Ecco Newman davanti a una battaglia di Uccello: «Grandioso! La totalità assoluta. Un'unica immagine. Suppongo che sia così perché la luce è la stessa da un'estremità all'altra del quadro. Niente riflettori – proprio come Courbet. Monet, per esempio, ricorreva sempre a un'illuminazione teatrale, salvo nell'ultimo periodo. Da qui la sua popolarità. (Silenzio) Fisicamente, è una pittura moderna, una pittura piatta. La cogli subito. Che scala fantastica!» 

Nella traduzione italiana è saltato il riferimento a Pissarro («Courbet and Pissarro are like that», riporta l'originale). E non sarebbe stato meglio tradurre "senso di scala" al posto di "scala" (l'originale riporta "sense of scale")? Tradurre "spotlights" con "riflettori" lascia un margine di vaghezza. Ciò che Barnett Newman sottolinea è piuttosto una "luce della ribalta", da palcoscenico, da abbinare alla "teatralità" di Monet. Il termine rimanda chiaramente a Michael Fried. L'aveva utilizzato un anno prima nel suo Art and Objecthood (1967), vero e proprio grimaldello del modernismo in pittura. 

 

In una ipotetica diatriba tra teatralità e antiteatralità, Barnett Newman pone Uccello e Courbet tra i pittori antiteatrali, dunque modernisti. Sono pittori che non hanno bisogno di "luci della ribalta". In Courbet, come in Uccello, tutto è lì. Ed è come se la presenza dello spettatore si annullasse, assorbita da quella totalità che si pone di fronte a lui. Michael Fried dedicherà a Courbet un libro intero per spiegarne i motivi: Courbet's Realism (1990). Ma continuiamo a passeggiare con Newman. Arriviamo di fronte alla Zattera della medusa di Géricault. Dall'altra parte della galleria sta il Rifugio dei caprioli di Courbet: «È la cosa che più si avvicina a Paolo Uccello. Non c'è niente da dire davanti a un quadro così. O lo cogli al volo o non lo cogli affatto». Schneider aggiunge: «Oggi, comunque, Courbet è il suo pittore preferito». E Newman: «È per via della sua natura presuntamente statica, in contrasto con l'agitazione di Delacroix e Géricault. Loro sono imparentati con De Kooning, con Pollock; io con Courbet. Non ti stanchi mai di lui. È così calmo». Schneider domanda: «È per via dei suoi formati giganteschi?» «Il formato non è niente – risponde Newman – ciò che conta è la scala, le proporzioni». Qualche pagina prima aveva affermato: «La questione va molto al di là delle dimensioni. Il quadro sembra immenso. Forma e contenuto sono inseparabili: è questa, la scala».

 

Sarebbe stato uno spasso passeggiare con Barnett Newman a Ferrara, dentro Palazzo dei Diamanti, visitando insieme a lui la mostra Courbet e la natura (a cura di Dominique de Font-Réaulx, Barbara Guidi, Maria Luisa Pacelli, Isolde Pludermacher, Vincent Pomarède). Magnifica. E forse egli avrebbe di nuovo pronunciato quel termine che aveva pronunciato al Louvre davanti al famoso Atelier: nobiltà. «Talk about noblesse». C'è una specie di nobiltà in Courbet? Uno stile superiore. Me lo domando. E ci saremmo dilungati davanti all'Autoritratto con cane nero, dipinto da giovanissimo: un ritratto con paesaggio. Dandy caravaggesco con il suo spaniel nero, Courbet dipinge qui un sentito omaggio alla sua terra d'origine, la sua Franca Contea. Le rocce, l'altipiano, il verde sul fondo del quadro, il cielo, i monti: sono luoghi che percorrerà e dipingerà a lungo. E quelle rocce: che magnifica resa pittorica, ottenuta per strati di colore passati con il coltello. C'è lì, evidente, tutta quella materialità della pittura che lo accompagnerà negli anni. Passeggiare per le sale della mostra è un piacere: l'illuminazione e anche le pareti ci vengono in aiuto, indicandoci topograficamente le zone, i luoghi a cui i dipinti fanno riferimento, così come alcune stampe fotografiche più o meno coeve (utilizzate come aide-memoire?) Ci muoviamo tra alberi secolari dove corrono cani, e poi boschi, ruscelli, paesaggi marini, onde, nature morte, uomini feriti, rocce, scene di caccia, donne assopite sul greto del fiume, floride bagnanti, paesaggi nevosi svizzeri. 

 

G. Courbet, Autritratto con il cane.


Viene in mente una riflessione sottilmente perfida di Cesare Garboli, scritta dopo aver visitato la mostra Courbet a Villa Medici (1969-1970), ora in Falbalas (Garzanti, 1990): «Un pittore come Courbet aumenta di valore più ci si rassegna a guardarlo. Non bisogna farsi guidare dal suo occhio, ma dalla sua ottusità, rovesciando i termini di quel presupposto per il quale dipingere è soprattutto "vedere". Davanti alla pittura di Courbet bisogna mettersi dal punto di vista dell'oggetto, dimenticarsi di tutta la bellezza arbitraria e fantastica implicita anche nel più elementare dei linguaggi figurativi. Courbet non vede niente più di tutto quello che vedono gli altri». Baudelaire aveva coniato per lui l'espressione "esprit de sectaire", ma questo settarismo è, per Garboli, esente da ragioni politiche o rivoluzionarie, care a Proudhon; piuttosto è legato alla sua «ristrettezza della visione, la sua limitatezza ottica». Insomma, cosa vede Courbet? E come vede? C'è qualcosa di intimo e insieme romantico in questi dipinti. 

 

G. Courbet, Il ruscello del Puits Noir, valle della Loue.


Prendete Il ruscello del Puits Noirvalle della Loue (1855), prestato dalla Washington National Gallery: la gamma cromatica fa impressione. Il ruscello, la roccia in alto a destra, le foglie degli alberi. E guardate a sinistra quelle fronde che in diagonale sembrano perforare il quadro, e uscire fuori in una specie di effetto 3D. L'insieme è impressionante. (Per un attimo – qui, davanti a questo quadro – tutto il discorso modernista sulla teatralità-antiteatralità sembra sfumare, vacillare. Che direbbe Newman di questo dipinto? c'è qualcosa qui che mette a repentaglio la piattezza e la calma di cui parlava.) Il fatto è che liberato dalla figura, da quel che ancora restava del commento accademico, dipingendo i paesaggi Courbet fa quel che gli pare. La sua «fascinazione per la tecnica pittorica poteva regnare libera nel genere paesaggistico, più aperto alla sperimentazione – scrive Mary Morton, nel saggio intitolato "To create a living art. Rethinking Courbet's Landscape Painting", che apre il suo volume, scritto a quattro mani con Charlotte Eyerman, Courbet and the Modern Landscape (Getty Museum, 2006). Aggiungendo: «Molti artisti continuarono a dipingere paesaggi come mezzo per mantenere la freschezza nel loro lavoro in studio, ma Courbet lo portò al centro del suo discorso pittorico. Fu il suo genere ideale». 

 

Abbiamo sollevato questioni tecniche e di vista. Possibile che siano inscindibili? Prendete una pagina di Meyer Schapiro, dal suo libro L'impressionismo. Risponde a sua insaputa alle osservazioni sulla "limitatezza ottica" di Garboli. Leggiamola mentre passeggiamo lungo le stanze della mostra, mentre passiamo a fianco di una tela dove ci è capitato di non riconoscere un oggetto – doveva essere La roccia di Bayard, Dinant (1856-58). (Cos'è quella cosa che vediamo al centro, un ceppo? una figura umana piegata?) Scrive Schapiro: «Benché non inclini a teorizzare, gli impressionisti e i loro predecessori hanno lasciato alcune osservazioni istruttive riguardo alle loro procedure e considerazioni. Si dice che quando gli fu chiesto, alcuni anni prima della nascita del gruppo impressionista, quale oggetto avesse dipinto nell'angolo di un suo quadro di impronta realista, Gustave Courbet, artista contemporaneo ma più anziano, abbia risposto di non saperlo, perché dipingeva solo quello che vedeva». Schapiro riporta al proposito, in nota, la memoria inedita di Francis Wey:

 

G. Courbet, La roccia di Bayard, Dinant.


«Ricordo che un giorno, davanti al pendio di fronte al quale sorge la collina di Marcil, egli mi indicò un oggetto lontano e disse: "Guarda quell'oggetto che ho appena dipinto. Io non so cosa sia". Si trattava di una certa forma grigia che da quella distanza non potevo identificare, ma, gettando lo sguardo sulla tela, vidi che era un mucchio di fascine. "Io non ho bisogno di saperlo", replicò lui, "io dipingo quello che vedo senza comprendere di che cosa si tratti". Aggiunse poi, allontanandosi dalla tela: "Sì, è vero, sono fascine!"». 

 

Dunque la "limitatezza ottica"è legata alla distanza da ciò che si dipinge? La risposta di Courbet ci fa venire in mente un famoso motto di Cézanne, riportato da Joachim Gasquet: «Le dicevo prima che il cervello, libero, dell'artista, dev'essere come una lastra sensibile, un semplice apparecchio che registra, nel momento in cui opera». Non è un po' questo che fa Courbet? Si assenta mentre dipinge, tiene alla larga il proprio io. Ed è per questo che non riconosce le fascine troppo lontane, dipingendo una macchia grigia? Ma poi, saranno state davvero fascine? Insomma, vede come un obiettivo, una macchina. Fissa le cose come una lastra sensibile. Nota è la stima di Cézanne per Courbet. La "limitatezza ottica" di cui parlava Garboli, non è altro che il limite di fuoco di un obiettivo fisso, a cui manca uno zoom.

 

Ma tenere a distanza il proprio io, non è anche ciò che ha provocato il famoso realismo di Flaubert? La limitatezza corrisponderebbe in quel caso alla "banalità", all'assenza di commento, per far sì che l'autore resti assente dal testo. Per due studiosi come Charles Rosen e Henri Zerner, questo far parlare i fatti bruti nella Bovary, questa «ascesi stilistica che libera lo scrittore dalle catene della retorica» non era distante dall'opera dei grandi pittori realisti: Courbet, Manet e Degas fino agli impressionisti». Lo scrivono nel loro magnifico Romanticism and Realism: The Mythology of Nineteenth-Century Art (Viking Adult, 1984).

 

G. Courbet, I levrieri del conte di Choiseul.


Per i due, il realismo era già un elemento essenziale della tradizione romantica agli albori del XIX secolo. Ma se per Novalis si trattava di rendere il famigliare strano e lo strano famigliare (la sua definizione dell'arte romantica), per Flaubert, le cose famigliari dovevano restare famigliari. Di fatto egli intendeva così sabotare gli effetti romantici. Banalizzare i personaggi, assenza di commento, piattezza. Dunque? Da dove poteva emergere l'arte se non dalla tecnica e dalla virtuosità dei mezzi di rappresentazione? Come scrivono: «Se si doveva rappresentare la vita contemporanea senza deformarne né renderne romantica la banalità, la sporcizia e la mediocrità, l'interesse estetico doveva spostarsi dagli oggetti rappresentati verso i mezzi di rappresentazione. Da qui l'attaccamento indissolubile del realismo della metà del XIX secolo all'arte per l'arte; e, benché vi si possa cogliere a volte una strana contraddizione del realismo, è questa la condizione stessa della sua esistenza». 

 

In una lettera del 27 marzo 1853, Flaubert scrive: «Dunque, cerchiamo di vedere le cose come esse sono e non esigiamo più spirito del buon Dio. Una volta si credeva che solo la canna da zucchero desse lo zucchero. Ora lo si ricava un po' da tutto; la stessa cosa accade in poesia. Estraiamola da qualsiasi cosa, perché essa giace in tutto e dappertutto: non c'è atomo di materia che non contenga il pensiero; e abituiamoci a considerare il mondo come un'opera d'arte di cui bisogna riprodurre i procedimenti nelle nostre opere». Conoscete una dichiarazione più romantica di questa? Il realismo di Flaubert si avvicina qui a un'estetica dell'arte pura. Quando l'arte non è rinvenibile negli oggetti o nei personaggi fissati su carta, la troveremo allora nello stile, che, per Rosen e Zerner «deve raggiungere una bellezza astratta che le è propria, indipendente dal soggetto». Perché che cos'è in fondo il soggetto? Ciò che prolunga il pensiero dello spettatore oltre la rappresentazione. E sfocia in una morale, un'allegoria, magari un simbolismo. Ma non qui. Qui un cervo è un cervo. Un'onda è un'onda (e una rosa è una rosa è una rosa). Ciò che colpisce sono i mezzi con cui vengono raffigurati, i procedimenti tecnici, le masse cromatiche quasi astratte di un sottobosco, o l'abito bianco di una donna assopita nell'erba.

 

G. Courbet, Giovane bagnante.

 

Ha ragione Dominique de Font-Réaulx, che in uno dei saggi del catalogo sostiene: «Nonostante la sua adesione, più volte proclamata, alla realtà e benché si definisse con convinzione un realista, Courbet fu un erede del pensiero romantico. Innamorato della natura della sua terra d'origine, che per le sue caratteristiche geologiche, idrologiche e botaniche costituiva e costituisce un universo ecologico particolare, fin dagli anni della giovinezza affinò il suo sguardo d'artista durante le passeggiate, la caccia e la pesca che tanto amava. (...) Il legame che Courbet stabiliva con il paesaggio era fisico, sensoriale. Camminare, cercare la selvaggina o i pesci, poi fare un bagno in mare, erano tutte esperienze – ricorrenti, a giudicare dalle sue lettere – che gli consentivano di penetrare nell'ambiente naturale e di viverlo interiormente». Questo tortuoso excursus che oscilla tra romanticismo e realismo ci fa allora capire come i dipinti, quelli che vediamo nelle sale di Palazzo dei Diamanti, siano stati all'epoca tra le cose più eclatanti e quasi astratte, d'avanguardia oseremmo dire, realizzate da un uomo che amava la natura e aveva occhi grandi e dolci come quelli di un bue. Ma che cosa vede un bue? Questi paesaggi naturali, nella loro materialità, la loro virtuosità (i corpi delle Bagnanti, i cani: magnifici), il corpo della pittura sempre palpabile, crudo e tangibile sulla tela, gli strati, le linee fluide o le masse cromatiche a strati geologici, come quelli delle rocce, o la spuma delle onde, ci dicono la libertà, la rottura coi generi, lo spazio di sperimentazione in atto in ognuno dei dipinti esposti. «Courbet – scrivono Rosen e Zerner – ci obbliga a riconoscere che ci troviamo davanti a un oggetto d'arte materiale, una tela dipinta, una rappresentazione. L'immaginazione è diventata il potere di rendere il mondo reale visibile, bandendo qualsiasi fantasia. L'insistenza porta esclusivamente sulla rappresentazione, sulla pittura nella sua funzione di trascrizione dell'espressione delle cose». 

 

Tutto è lì, diceva Barnett Newman. Forma e contenuto insieme. Senza retorica idealizzante, potremmo aggiungere. Solo il gesto sulla superficie pittorica. Nobile, con stile superiore.   

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Firenze e i suoi pittori

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Saltuariamente siamo noi che influenziamo le nostre letture, volendoci trovare ciò che possiamo trovarci. Per uno storico dell'arte pare quasi necessario specchiarsi negli Antichi Maestri di Thomas Bernhard. E per me, metatestualmente ma non in maniera così divagante, nei miei pittori fiorentini.

 

“Florenz und seine Maler” (Firenze e i suoi pittori) si è inaugurata il 17 ottobre 2018 presso la Alte Pinakothek di Monaco di Baviera e, come già si preannuncia nel titolo, è una mostra blockbuster, costruita sulla collezione e su importanti prestiti da Londra, Firenze, Vienna e New York, e messa in scena secondo un'evidente motivazione didattica, come a voler ristabilire sì il primato della scientificità della mostra, ma anche l'attenzione sull'esperienza dell'opera. Perché è vero che il ritmo è cronologico e tematico, ma alcuni accostamenti e rimandi permettono al visitatore una riconsiderazione di ciò che è stato il Rinascimento fiorentino del secolo XV.

 

Filippo Lippi, 
Vergine col Bambino e due angeli
c.1435/40, 
Tempera su tavola
122,6 x 62,9 cm, 
The Metropolitan Museum of Arts, New York
© New York, The Metropolitan Museum of Arts, The Jules Bache Collection, 1949.


Troviamo un primo accostamento vertiginoso tra la Vergine col Bambino (1445/50) di Beato Angelico, dalla Galleria Sabauda di Torino, e la Vergine col Bambino e due angeli (1435/40) di Filippo Lippi, dal Metropolitan di New York: due modalità diversissime di concepire l'immagine. In Angelico coesistono due mondi – quelli, volgarmente detti, del Gotico e del Rinascimentale; piuttosto mi viene in mente la meta-pittura dell'Apparizione della Vergine e del Bambino aSan Filippo Neri (1675) di Carlo Maratta, presso la Palatina di Firenze, laddove i due mondi di rappresentazione rispondono a due concezioni pittoriche che differiscono. Le considerazioni tassonomiche non soddisfano in pieno lo sguardo di oggi: i due mondi che si incontrano non sono né “culturali in sé” né “estetici in sé”, quanto confluiscono nella possibilità di fondazione di una concezione di immagine (Bildbegriff), che reca in sé un certo grado di autosufficienza, che renda infine l'opera un fatto: non è che che il Beato non si decida per una visione precisa – che significa precisa? se vogliamo ideologica– dell'arte, quanto egli utilizzi gli strumenti a sua disposizione, per dare corpo a un'immagine in definire. Se da una parte c'è l'opera d'arte, dall'altra si dà, come supplemento, il fatto d'opera, un'opera autotelica che, allo stesso tempo, definisce un'epoca storica.

Sul proscenio la Madonna siede col Bambino non proprio in grembo; il gruppo è incorniciato da un mirabilissimo sipario aperto, a foglia d'oro punzonata a ricami virtuosi; anche le aureole rispondono alla tecnica “greca”, pur giocando con il senso prospettico (la lettera A è parzialmente eclissata dalla presenza lievemente plastica del volto di Maria). Nel mentre, la scena alle spalle, un'esedra profonda, testimonia un senso delicato dello spazio, laddove la luce dalla finestra sulla sinistra costruisce plasticamente, alla Vermeer, il suo passaggio lungo le colonne, le pareti, il pavimento.

 

Dialetticamente in antitesi è l'analogo soggetto affrontato da Filippo Lippi, pittore che si innesta sulla tradizione fortemente plastica della pittura, inaugurata da Masaccio – e l'assenza di quest'ultimo si fa sentire, egli è il meno, nell'economia della mostra. Una certa noia del quotidiano traspira dalla Madonna: le figure, che si presentano come sculture, locate nel teatro, in scena qui e ora, sono figure intente a un qualche pensiero, non necessariamente meditativo o contemplativo, ma malinconico o distratto. Altri tre soggetti analoghi (da Parma, Firenze, e dalla collezione) e l'Annunciazione (ca. 1443/45), sempre in collezione, testimoniano la varietà della costruzione lippiana nel corso degli anni e la sua inesausta ricerca di differenti procedimenti scenografici e psicologici.

 

Beato Angelico
, Il sogno del diacono Giustiniano
c. 1438/40
, Tempera su tavola
 38 x 46,7 cm
, Museo di San Marco, Firenze
© Firenze, Gabinetto Fotografico delle Gallerie degli Uffizi.


In mostra ci sono otto delle nove tavole della predella della Pala di San Marco, ancora di Angelico: in particolare l'ultima di destra, Il sogno di Giustiniano (ca. 1438/40), dal museo omonimo a Firenze, riecheggia il gusto astraente del pittore, nella trattazione del supplemento spaziale sulla destra, laddove una porta aperta rilascia, libero, il gioco di luce che introduce a un luogo non definibile, se non attraverso l'autosufficienza della pratica pittorica: un non-luogo.

 

Angelico stupisce ancora con un disegno di Crocifissione (c. 1425/30), dall'Albertina di Vienna, nell'economia dell'impianto allestitivo una risposta visuale allo stesso soggetto, trattato da Giotto nella sala post-introduttiva (ca. 1303/06-1312/13, Alte Pinakothek): laddove il naturalismo del secondo si muove all'interno di un codice, nel primo esso si trasforma in un tripudio splatter di sangue, sangue ovunque. Se il visitatore volesse investire il proprio tempo nella collezione al piano superiore, potrebbe completare un vertiginoso confronto con la Crocifissione di Rubens, laddove il Cristo è appeso come un ammasso suino di carne e sangue.

 

Si può notare nel percorso di mostra, come le direzioni date dall'Angelico e da Filippo siano quelle che domineranno la seconda metà del Quattrocento, attraverso opere che rimandano meta-pittorialmente alla loro inquieta e zigzagante ricerca nel riconsiderare il processo pittorico: si vedano, per esempio nella sala centrale, le ambiziose sceneries teatrali de L'adorazione dei Magi di Botticelli (ca. 1475, Uffizi) e della Pala Tornabuoni del Ghirlandaio (e bottega, ca. 1490/94, Alte Pinakothek). Il primo medierà la luce di Angelico – arrivando ad astrusità metafisiche, come nel Ritratto di donna (1470/75) dal Victoria and Albert di Londra, il cui impianto pur ricorda il Lippi di cui sopra – il secondo la plasticità, financo dellarobbiana, di Lippi, il cui conflitto di mondi di rappresentazione pur ricorda l'Angelico di cui sopra. Questo per fare della sintesi: in verità Botticelli e Ghirlandaio sono anche loro delle direzioni. Botticelli per una pittura “mentale” e ideologica, e per una “romanticizzazione” del ruolo d'artista. E, in particolare, il disegno del Ghirlandaio, per una pala d'altare in SS. Giusto e Clemente a Volterra (ca. 1492, Albertina), pare anticipare, se mai in arte si potesse anticipare qualcosa, gli impianti dell'Annibale Carracci romano.

 

Beato Angelico, 
Crocifissione
c. 1425/30
 Grafite, inchiostro e acquerello su carta
, 29,3 × 19 cm, 
Graphische Sammlung Albertina, Wien
© Wien, Albertina.


Nonostante la mostra sia incentrata sulla pittura, la scultura coeva deve entrare in gioco al di là: si hanno così due piccoli bronzi di Donatello – un Putto danzante a tutto tondo (1429, Bargello) e un Compianto sul Cristo morto (1455/60, Victoria and Albert) ad altorilievo, allestito significativamente vicino allo stesso soggetto del tardo Botticelli (ca. 1490/95, Alte Pinakothek) –, ma soprattutto un incredibile Ritratto di fanciullo (c. 1455/60, Bargello) di Desiderio da Settignano, un busto enigmatico e, potremmo osare definire oggi, post-identitario, laddove non è l'androginìa, ma proprio l'indeterminatezza del sesso, a rendere così presente questa scultura e così fuorviante l'antico adagio della scultura rinascimentale quale recupero dell'antico: questi scultori non fanno del postmodernismo ante-litteram, ma rimpastano le nuove suggestioni con caratteri propri e autotelici. 

 

Il pregio di questa mostra, soprattutto per i non-connoiseurs, è quello di mettere in scena supplementi e differenze di un secolo e di un luogo, dove – dice la vulgata: è nato il Rinascimento; di ricordarci che forse quest'etichetta sta un po' stretta, che non v'è unitarietà, ideologica o culturale in senso lato, e che ciò che rimane non sono i racconti, come questo, bensì i fatti d'opera che ci parlano ancora oggi. Quindi, se mai fosse ancora necessario testimoniare, che è la manifestazione artistica a sopravvivere, a divenire parabola, a uscire fuori dal tempo e “fuor di squadra”. 

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Ryoichi Kurokawa e l’unità naturale del tempo

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Nella teoria più accreditata sulla nascita dell’Universo si è definito che la sua espansione abbia avuto inizio subito dopo il Big Bang con la conseguente nascita dello spazio-tempo. La fisica moderna considera infatti l’era di Planck che si pone tra l’istante zero e quello dell’esplosione, quando le quattro forze fondamentali – elettromagnetica, nucleare debole, nucleare forte e gravità – avevano la stessa intensità ed erano unificate in una sola forza, come l’unità naturale del tempo. In origine dunque le quattro forze costituivano un Unico. L’universo aveva una determinata dimensione, era un concentrato di energia che successivamente avrebbe generato dei flussi.

Nella cultura dell’estremo oriente assistiamo da tempo a un processo di riflessione e di decifrazione dei flussi immateriali, come le realtà virtuali prepotentemente entrate nel nostro quotidiano, rapportati o meglio ricondotti al senso naturale delle cose, un senso primordiale. Ciò accade, per esempio, nell’ambito musicale con le contaminazioni tra suoni elettronici e naturali che danno vita a un nuovo suono sperimentando la possibilità di interazione tra quella che è la realtà fisica del mondo e la sua realtà virtuale.

 

Il maggiore esponente di questa visione musicale è senza dubbio il compositore giapponese Ryuichi Sakamoto, il quale ha portato all’attenzione di un pubblico più vasto una musica che per la prima volta amalgama naturalmente suoni diversi estratti sia dal mondo reale sia dagli oggetti costruiti dall’uomo unendoli al suono elettronico, un mix che Sakamoto ha elaborato nel tempo e in cui si è avvicinato sempre più alla collisione tra i suoni fino a giungere ad una armonia nuova.

Tali sperimentazioni sono andate di pari passo con riflessioni sempre più incisive su cosa significhi il tempo, il vuoto e lo spazio nell’immagine fotografica in relazione all’individuo e al suo esistere nel mondo, grazie ad autori che hanno messo in scena il “tempo come memoria tra passato e futuro” quali ad esempio i coreani Jungjin Lee e Koo Bohnchang, che soltanto apparentemente trattano il “paesaggio” o lo “still life” mentre, attraverso la rarefazione del soggetto ripreso, giungono invece all’essenza del vedere.

 

Ryoichi Kurokawa, unfold.alt, (2016). Installazione audiovisiva a singolo canale (videoproiezione 4K, audio 2 canali), 4 minuti, © L’artista. Courtesy University of Salford Art Collection.


Nel solco tra immagine naturale e immagine virtuale si colloca Ryoichi Kurokawa (Osaka, 1978) di cui è possibile visitare la mostra al-jabr (algebra) in corso a Modena presso la Galleria Civica. Kurokawa comincia negli anni Novanta a produrre installazioni audiovisive in cui coniuga suono e immagine sperimentando pionieristicamente l’esperienza della contaminazione dei sensi nella percezione (sinestesia). Il suo percorso artistico nasce con la musica, passa attraverso le installazioni multimediali per arrivare oggi a produrre sculture e stampe avvalendosi di sistemi creativi altamente tecnologici. Il suo metodo, pur giovandosi di collaborazioni scientifiche di alto profilo come quella dell’astrofisico Vincent Minier (Università Paris-Saclay e Università di Nantes), rimanda a una concezione fattuale della tradizione paragonabile a quella del kintsugi ovvero l’arte giapponese che utilizza l’oro per saldare oggetti di ceramica che hanno subìto danni evidenziandone così la fragilità sottolineandone, al tempo stesso, la forza riconquistata proprio grazie alla ricomposizione delle parti.

 

Il complesso delle opere esposte è la dimostrazione di come l’uomo può interagire e finanche maneggiare l’elemento virtuale portandolo su un piano che avvicina lo spettatore al fascino degli elementi scientifici senza esserne fagocitato o allontanato. Tuttavia questi due sentimenti appaiono qui “accettabili” in virtù del fatto che se ne scopre il reale senso, vale a dire: il gioco che si stabilisce tra fruitore e opera paradossalmente è proprio quello di cadere al suo interno per tornare ad emergere e osservarla dall’esterno con una consapevolezza nuova data dall’esperienza.

Siamo difronte a uno sguardo che si pulisce dalle contaminazioni, l’osservatore deve qui assumere un atteggiamento che va oltre la semplice fascinazione delle immagini e sforzarsi di entrare in una dimensione che, per quanto virtuale possa essere, diviene un esercizio di comprensione visiva.

 

Ryoichi Kurokawa, dalla serie “renature::bc-class” renature::insecta #1 [prototype], (2015). Scultura (Sinterizzazione laser, poliammide, rivestimento metallico) 174 x 170 x 166 mm, © L’artista. Courtesy Espacio Fundación Telefónica Lima.


Non vi è dunque in Kurokawa soltanto l’esibizione di un visuale generato da una serie di calcoli ma la rappresentazione di quella che l’autore definisce “sculture time-based”, cioè un’arte che si basa sullo scorrimento del tempo in relazione a immagine e suono.

Non a caso l’autore paragona l’osservazione della natura ad un’analisi scientifica tanto da collaborare abitualmente con realtà come il Laboratorio iberico internazionale di Nanotecnologia con il quale ha realizzato ad/ab Atom (2017). Sette schermi compongono l’opera, alla fine del tempo stabilito le immagini ricominciano a scorrere d’accapo, da uno schermo all’altro senza soluzione di continuità. Il tempo è un segmento ripetibile, a volte si ferma per qualche istante, l’immagine scompare – o siamo noi a non percepirla più? – Il flusso qui viaggia in due direzioni: avanti e indietro contemporaneamente, ogni schermo irradia immagini differenti o è la stessa immagine che, passando da uno schermo all’altro si trasforma? Ciò che vediamo è la realtà scientifica della materia osservata attraverso la meccanica quantistica, l’operazione svolta dall’autore mette in contatto le antiche elaborazioni algebriche, quando queste funzionavano osservando proprio la natura, con una interpretazione contemporanea del calcolo stesso che, mediante la moderna tecnologia, è in grado di mostrarci l’invisibile, il suo muoversi sottotraccia, il suo crescere e trasformarsi esattamente come ancora oggi accade all’Universo in cui viviamo.

 

Ryoichi Kurokawa, ad/ab Atom, (2017). Installazione audiovisiva (7 display, audio 4 canali), 8 minuti, © L’artista. Courtesy di GNRation. Foto: Hugo Sousa.


Già in unfold (2016), prima installazione audiovisiva che si incontra in mostra, il flusso di energia riempie le forme fino a farle scomparire. Se ne percepisce la concentrazione, il suo continuo trasformarsi è come una rete che collega e attraversa ogni cosa, destruttura e ristruttura la forma. Ma la memoria di ciò che è stato, come un occhio che sta per chiudersi per sempre (metafora della morte) ripercorre al contrario la forma stessa (metafora della vita). L’artista rende qui esplicito il processo di nascita e morte attraverso la rappresentazione del perpetuarsi della materia che rinasce ogni volta che si verifica una collisione tra sistemi stellari, in un continuum che possiamo definire eterno: si crea un’origine per finire con una memoria e ricominciare d’accapo.

 

Ryoichi Kurokawa, elementum #8, (2018). Tecnica mista (stampa digitale, fiori pressati, alluminio, vetro), 12 x 260 x 260 mm, © L’artista. Courtesy Takuro Someya Contemporary Art.


Anche in elementum (2018) il tema della rinascita attraverso la morte rappresenta il cuore dell’opera. Utilizzata in alcune discipline per alleviare il senso di oppressione negativa, la tecnica oshibana– l’arte di pressare elementi naturali quali i fiori – cui fa riferimento questa serie, si compone di tre proprietà che rendono esplicita la transitorietà delle cose. Un percorso in cui dall’abbandono della mente (mushin, letteralmente “senza mente”) ci si libera dall’accanimento nel ricercare la perfezione passando attraverso annicca (“impermanenza”) che porta a percepire l’accettazione della fine dell’esistenza – e dunque la morte – fino a giungere a mono no aware, un sentimento che ci permette di ottenere una maggiore consapevolezza difronte alla realtà che tutto finisce per rinascere e quindi alla scoperta che nella fine vi è la bellezza.

 

Ryoichi Kurokawa, oscillating continuum, (2013). Scultura audiovisiva (2 display quadrati, audio 2 canali), 924 x 800 x 422 mm, 8 minuti, © L’artista. Courtesy Fondation Boghossian.


oscillanting continuum (2013) mostra nuovamente una attraversabilità della materia che costituisce l’Universo. Di questa forza propulsivo-magnetica che permea ogni cosa, compreso l’individuo, l’autore ci fornisce una rappresentazione ancora una volta grafica che si basa su rilevazioni scientifiche. Una linea rossa orizzontale collega due video accostati facendo letteralmente saltare le oscillazioni rilevate da uno schermo all’altro come se non fossero separati. Tuttavia esse si trasformano poiché l’equilibrio che le attraversa è impalpabile, passano da uno schermo all’altro cambiando posizione e colore, ponendosi al di sopra o al di sotto della linea rossa centrale come se quest’ultima rappresentasse un virtuale equatore e le oscillazioni lo sconfinassero dall’alto al basso e viceversa mostrando al contempo una contaminazione che appare come metafora di uguaglianza interscambiabile. Una matrice di energia che viaggia attorno a noi, nei due emisferi dell’esistenza, esce e rientra, si addensa come uno sciame di insetti creando un nucleo, disegna forme dapprima chiare e semplici che diventano via via più complesse fino a giungere anche qui all’esplosione – il caos primordiale del Big Bang nella sua infinita replica – dalla quale rinasce un nuovo schema.

 

C’è nell’opera di Kurokawa un precipitare della materia in cui il tempo può essere osservato indistintamente da destra a sinistra e dall’alto verso il basso: ciò che ci appare diverso in realtà è uguale perché la materia rappresenta il Tutto non esiste un unico modo di osservarla e questo si può evincere soltanto osservandola scientificamente. La scienza, pare suggerirci Ryoichi Kurokawa, in fondo non è altro che natura in una differente forma.

 

Galleria Civica di Modena, dal 14 settembre 2018 al 24 febbraio 2019.

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Coop 70. Valori in scatola alla Triennale di Milano

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Storia di noialtri

Settant’anni e dimostrarli. No, non è un giudizio estetico, tanto meno una provocazione.

Eppure potrebbe essere questa una delle considerazioni che affiorano alla fine della mostra Coop 70_ Valori in scatola curata da Giulio Iacchetti e Francesca Picchi e aperta fino al 13 gennaio 2019 alla Triennale di Milano.

Si entra pensando a una mostra sulla Coop, si esce pensando a molto altro.

 

Settant’anni sono del resto un tempo significativo se rivolto alla storia e all’evoluzione dei consumi nel nostro paese, inevitabilmente anche la storia e l’evoluzione della nostra società, inevitabilmente di quello che siamo e che siamo diventati 

Lungo le sette stazioni in cui è suddivisa la mostra, che ci si immerga nell’evoluzione delle diverse pubblicità Coop come in quella dei prodotti a marchio, si ha l’impressione di percorrere parte di una storia che ci appartiene e in cui ci si può riconoscere, proprio come nelle sequenze fotografiche inventate nel 2000 da Noah Kalina, in cui la stessa foto e la stessa inquadratura ripetuta tutti i giorni evidenziava i mutamenti della persona e il trascorre del tempo. È un selfie dilatato per settant’anni quello che si percorre visitando la mostra. È la storia di una grande azienda cooperativa, ma è soprattutto un pezzo della storia di ognuno di noi. Noi (come società) siamo sempre stati qua, ma come siamo cambiati in questi settant’anni?

 

 

Forse in maniera inattesa, pur rispetto agli intenti dichiarati dei curatori, è come se si realizzasse in maniera imprevista e inaspettata la prima delle affermazioni di uno dei refrain pubblicitari più noti, La Coop sei tu... (chi può darti di più). Perché quel refrain alla lunga, nel corso del tempo, è diventato anche uno specchio che non si può evitare. Soprattutto considerando che dagli anni Cinquanta in poi nelle città si cominciava a interagire con quella parte di “ambiente che è il cibo” solo comprandolo... già solo comprandolo. Così stava andando il mondo: era semplicemente nato il consumatore.

 

Dunque, sette stazioni per altrettanti temi che si volevano evidenziare attraverso un percorso lungo appunto settant'anni. Uno spazio non enorme ma in cui la “dilatazione” del tempo è data dai “contenuti” e dall’intensità con cui ogni stazione è sfruttata. Così si comincia dai dati numerici ed economici che compongono l’universo cooperativo, e poi l’identità del marchio e dell’azienda attraverso l’estetica che l’ha resa riconoscibile. Il logo di Albe Steiner e la sua rivelazione negli anni 80 da parte Bob Noorda. Ma l’identità non è solo questione estetica e formale e allora è la dimensione dei “valori” del movimento cooperativo a costituire il tema della terza stazione. La dimensione e il valore della filiera produttiva, della sua sicurezza, elemento che Coop ha perseguito fin dall’inizio e che ha contribuito a rendere quei consumatori dagli anni Cinquanta in poi un po’ meno “consumatori”. Tre gli alimenti “simbolo” – olio, pomodoro, pasta raccontati all’interno di box interattivi – per esprimere i legami con la filiera produttiva e poi ancora i valori dell’ecologia, dell’etica, della tradizione, dell’educazione alimentare.

 

 

Così, insieme alla forza di un marchio e dei valori che la Coop ha cercato di perseguire nella sua attività, insieme alla storia delle pubblicità televisiva, a cominciare con quella in bianco e nero di Ugo Gregoretti negli anni Settanta, emerge progressivamente la nostra storia, storia di una società di consumatori, ma anche storia minuta, familiare, legata ai ricordi che vecchie immagini, prodotti o vecchi spot inevitabilmente fanno riaffiorare. Insieme, inevitabile l’idea di come abbiamo vissuto, almeno negli aspetti più concreti e materiali, quello legati al cibo e all’alimentazione, alla vita quotidiana, al crescere, al tirare su famiglia...

 

 

Non è cosa da poco...molti anni fa Beppe Grillo, già “politico ante litteram” recitava in un suo spettacolo spingendo un carrello del supermercato e riferendosi all’atto del comprare... “quando votiamo... quando votiamo veramente...”

Sì, oggi lo sappiamo in maniera sempre più diffusa e orizzontale, c’è responsabilità etica nel comprare. Ci sono conseguenze economiche, sociali, politiche ed educative nell’atto del comprare. Questo, Coop – è un merito che occorre riconoscere al confronto di ogni marchio della grande distribuzione – lo ha capito presto, lo ha capito forse subito, fino dalla fondazione delle prime cooperative di consumo (1854 Torino, 1926 Muggiò, 1945 Savona) che nel 1947 diventeranno Associazione nazionale delle cooperative di consumatori e che nel 1963 diventerà il marchio che tutti oggi conosciamo. La mostra nel suo rapido snodarsi, diventa così un percorso nelle sensibilità e nelle aspettative che, nel corso del tempo, sono state di noi “consumatori” ; quelle sensibilità e aspettative che la Coop, più o meno puntualmente, registra. Così è stato per l’attenzione al mondo del lavoro e al benessere legato alle scelte alimentari, così per l’attenzione agli sprechi alimentari in cui Coop è stata in prima fila anche in fase propositiva nella recente legge.

 

 

Una mostra certamente “da guardare”, perché costruita con grande attenzione sull’immagine e il design (inevitabile vista la collocazione all’interno della Triennale); una mostra con cui “giocare” per gli aspetti interattivi che presenta ma soprattutto una mostra su cui alla fine si riflette. Un percorso visivo per ragionare tra passato e presente, tra bisogni e desideri, tra consumi materiali e non, tra scelte personali e responsabilità collettive. 

Oggi la Coop, come tutti gli attori della Gdo (Grande distribuzione organizzata), sulla spinta delle trasformazioni tecnologiche, di nuovi player globali e di nuovi stili di vita, si trova ad affrontare un cambiamento che gli esperti giudicano epocale; difficilmente si può dire con certezza come e cosa sarà della grande distribuzione tra soli dieci anni... 

Un’incertezza legata anche alle numerose variabili su come – in una società in profonda trasformazione – noi stessi saremo consumatori.

Anche per questo Coop70, lungo il suo percorso, finisce per raccontarci un momento che è insieme passato e presente ma anche sul ciglio di un futuro comune ancora da descrivere, se non da immaginare.

Una mostra che parla di Coop ma soprattutto parla di noialtri; come un selfie dilatato in settant’anni, l’ultimo ancora da scattare.

 

Coop 70. Valori in scatola (16 nov 2018 - 13 gen 2019). Palazzo della Triennale. Ingresso libero.

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Storia di noialtri
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Le profezie di Andy Warhol

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È istruttivo osservare come Andy Warhol (1928-1987), con la sua oeuvre e persona pubblica, abbia anticipato lo stato attuale dell’arte contemporanea. Nel cogliere desideri, illusioni e angosce germane a modelli di vita tuttora influenti nelle società iper-moderne, egli ha introdotto visioni e strategie operative che di lì a poco verranno acquisite, deliberatamente oppure no, da una schiera di artisti che si collocano sulla sua scia. Il passare degli anni conferma, e probabilmente continuerà a confermare, la lungimiranza di Warhol, la sua capacità di approntare modalità idonee al confronto prima con la cultura di massa e in seguito con l’era dell’informazione e dell’imperialismo tecnologico globale.

Gli ultimi decenni sono stati segnati, in principio negli USA e poi a livello planetario, dal boom di un’arte disinibita rispetto al proprio carattere imprenditoriale e commerciale: una “market art”, come l’ha chiamata nel 2016 l’artista-sociologo Hervé Fischer. Quantunque il rapporto tra arte, denaro e potere sia consolidato da tempi immemorabili, di recente qualcosa è cambiato. Oggi, quel nesso costituisce un elemento profondamente saliente di ciò che un’opera d’arte è o fa, e si riflette talmente in essa da rivelarsi spesso come il suo soggetto e motivo ispiratore. Al riguardo, è sufficiente citare la vendita, reclamizzata sui media internazionali, di quasi 300 opere di Damien Hirst in un’unica tranche all’asta londinese di Sotheby’s del 15 e 16 settembre 2008. A dispetto dei pronostici sfavorevoli, Hirst incassa £ 92.730.000 (più £ 2.770.000 donati in beneficenza), mantenendo il primato di artista più facoltoso del mondo. L’arricchirsi di Hirst diviene così un motivo di stima parallela, se non superiore, e determinante rispetto a quella suscitata dalle sue opere. Anni prima, a New York, che l’accrescimento del capitale potesse rappresentare un criterio di giudizio in materia d’arte lo intuisce con tempestività Warhol, il quale in The Philosophy of Andy Warhol (1975, fig. 1) promuove questo irresistibile orientamento avvenire allorché dichiara che «la business art è il passo che viene dopo l’arte» e che «essere bravi negli affari è il tipo di arte più affascinante». 

Da lì a breve, saranno sempre più numerosi gli artisti ricettivi all’imperativo neoliberista del laissez-faire. Parrebbe addirittura che sia la finanza a dettarne l’agenda, e non viceversa: qualunque siano il linguaggio adottato o la problematica affrontata, spetta ai mercati selezionare, anche se indirettamente, i fenomeni dell’arte meritevoli di maggiore visibilità mediatica e incidenza sul gusto e sulle preferenze del grande pubblico che affolla musei e gallerie. A distanza, si è invogliati a supporre che Warhol non solo avesse previsto questa situazione coatta, ma in realtà ambisse a esercitare il controllo sul proprio lavoro rendendolo – almeno apparentemente – arrendevole, fruibile e compiacente rispetto alla norma.

Inoltre, mentre gli attuali mecenati appartengono a un’oligarchia finanziaria, spesso arricchitasi operando nell’industria del lusso, molti artisti contemporanei si dedicano sia alla produzione sia allo scambio di servizi e all’offerta di opportunità di accesso. La legittimazione delle loro opere dipende da una struttura transindividuale della quale essi sono spesso consci, partecipando a incontri, decisioni, patti e negoziazioni in cui l’energia e il tempo spesi nel sondaggio di uno stato di cose o nella diffusione e nel lancio di un prodotto creativo spesso equivalgono, laddove non eccedono, l’energia e il tempo spesi nella sua concezione e/o realizzazione. Anche qui Warhol precorre i tempi. Lo fa nelle guise di assiduo frequentatore di party e spensierato adepto del culto della notorietà, ma soprattutto trasformandosi in imprenditore di se stesso e guida carismatica di una comunità di operatori creativi. Nel maggio 1965, egli annuncia l’abbandono della pittura e il passaggio a un modus operandi post-mediale, slegato da un particolare mezzo espressivo, fuori dai perimetri del “mondo dell’arte” (un termine introdotto da Arthur Danto ispirandosi proprio ai Brillo Boxes di Warhol). Tra le priorità della nuova fase, figurano il maggiore coinvolgimento nella produzione cinematografica e il management dei Velvet Underground. Specialmente a partire dal 1968, l’anno in cui Warhol trasferisce lo studio o Factory downtown, nei pressi di Union Square, quel luogo diviene il rifugio di un entourage di personaggi mondani, drogati, attori porno, poeti, drag queens, musicisti e liberi pensatori. E laggiù si lavora 24/7, impegnandosi nella linea di assemblaggio delle famose serigrafie, girando un provino, allestendo il setting per un ritratto, o realizzando un rimarchevole libro d’artista come Index (Branden W. Joseph ne parla in un testo allegato al catalogo della mostra attualmente in corso al Withney).

Nell’epoca post-warholiana, alla frenesia del mercato si è accompagnato il trionfo del pluralismo e del relativismo: la vittoria di una mentalità “sofistica”, secondo cui il valore sarebbe null’altro che una profittabile convenzione sociale, mentre i pensieri, le elaborazioni critiche, i discorsi e le prese di posizione si ritrovano declassati a mere formalità funzionali. È importante dire – comunicare, pubblicizzare e farsi ascoltare – senza però intendere o significare quel che si dice; inneggiando alle capacità di prestazione e persuasione, il credo del sofista consiste in un paradossale diniego dell’atto di credere. Da una tale angolatura, è il mondo così come già precedentemente assodato a dover ricevere una conferma dalle opere d’arte, anziché venire da esse ricreato o negato, superato e trasformato. Ancora una volta, è Warhol a cogliere nel segno allorché, attualizzando il messaggio di I’ll Be Your Mirror, il titolo omonimo del brano musicale cantato da Nico e i Velvet, rivendica il carattere specchiante della propria pratica e persona, che non sono espressione di un’interiorità, bensì il riverbero fedele di stati di fatto acquisiti nel contesto della cultura di massa e dell’immaginario sociale. Come lui stesso raccomanda: «Se volete sapere tutto su Andy Warhol guardate solo la superficie dei miei dipinti, dei miei film e di me». Inoltre, l’insolito blend di impermeabilità e cortesia caratteristico della figura warholiana la rende antesignana dei comportamenti assunti da tutti quei soggetti esposti al rating altrui, pratica che ormai tiranneggia da Instagram ai luoghi di lavoro, come i call center e le aule di università.

L’immagine pubblica di Warhol invita a riflettere che, per trarre benefici dai meccanismi spersonalizzanti della commercializzazione, un artista deve accettare il ruolo di autore disponibile a incessanti proiezioni di senso e manipolazioni venute dall’esterno. Se la neutralità diviene il sigillo della pratica artistica, le opere migliori saranno quelle che rispondono con maggiore pregnanza alle esigenze contestuali, sia soddisfacendo i desideri altrui sia favorendo l’obiettivo di accumulazione finanziaria e di relativizzazione dei valori. Con il sopravvento della logica del consenso, lo scarto tra l’opera e il resto è minimo, e la riuscita o il successo della prima dimostra che si è raggiunta la competa de-differenziazione tra il sé e l’altro-da-sé. Quel che si è o si fa costituisce la generica riproposizione dell’innegabilità del dato della situazione (esistenziale, etica, politica etc.) che il proprio esserci e fare sono riusciti a divinare, emulare e rispecchiare senza provocare scompensi o disequilibri.

 

 

 

Lo strapotere del marketing, il credo del sofista e la hybris del consenso vanno di pari passo con una presunzione totalizzante. Carica di conseguenze per la cultura artistica contemporanea, essa si annida nella diffusa fiducia in una connettività pressoché smisurata tra persone e/o persone e macchine ottenibile grazie all’invenzione di sofisticati sistemi di comunicazione planetaria, come appunto è avvenuto con Internet. Più tale prospettiva attecchisce nell’immaginario della gente e più viene vagheggiata una coesività che supera ogni barriera. Non c’è sottrazione, bensì pura moltiplicazione di informazioni. Ci si aggira tra copie di copie, repliche senza originali. Si tende a dare tacitamente per scontata la traducibilità, circolazione e riconversione di una vasta gamma di elementi eterogenei: comportamenti, brand image, pensieri, emozioni e così via all’infinito. E di questa riproducibilità illimitata Warhol è un anticipatore. Un assunto cardine della sua filosofia è la positività della ripetizione, della quantità e della inarrestabile produzione in serie, che sovvertono le tradizionali nozioni di unicità e originalità dell’opera d’arte. Per esempio, nel 1963, l’artista realizza un dipinto, intitolato Thirty are Better Than One (fig. 2), che consiste in trenta immagini in bianco e nero della Monna Lisa di Leonardo (all’epoca esposta per un mese al MET) riprodotta con il metodo della serigrafia, un processo di stampa commerciale di cui lui si appropria l’anno prima al fine di produrre rapidamente versioni multiple, anche solo lievemente modificate, di immagini preesistenti.

 

***

 

Le analogie e i raffronti tra Warhol e i nostri giorni potrebbero continuare. Ma, seppure brevemente, è opportuno soffermarsi su un altro tipo di profezia warholiana. Essa è rimarchevole perché, in contrasto con quelle appena nominate, non è chiaro se sia rimasta incompiuta, se sia perennemente inattuale, o se si stia inavvertitamente avverando. Di più. In ragione del futuro che prefigura, può apparire tanto criticamente suggestiva quanto insopportabile, forse addirittura maligna.

 

 

L’ipotesi qui avanzata è che detta profezia sia decifrabile specialmente a partire da un’opera emblematica, alla quale fungerebbero da didascalie e pendant esplicativi due cogenti dichiarazioni dell’artista. Ci si riferisce a un dipinto del 1962, Coca-Cola (fig. 3). Il tema di questa bevanda arcipopolare affiora nell’oeuvre warholiana già nel 1961 e riceve una varietà di trattamenti (figg. 4, 5). Il quadro del 1962 ha la particolarità di offrire un’immagine dell’oggetto nella sua iconicità: c’è solo una bottiglia, raffigurata in nero con una sensibile variazione di scala rispetto a quella che si acquista nei supermercati. In alto a destra, compare il marchio del prodotto, con le ultime due lettere elise, mentre sullo sfondo della superficie dipinta si intravede, tra l’altro, la parola “standard”. Nel 1975, in The Philosophy, Warhol scrive:

 

Quel che c’è di grande in questo paese è che l’America ha dato il via alla tradizione per cui i consumatori più ricchi essenzialmente comprano le stesse cose dei più poveri. Puoi guardare la televisione e vedere la Coca-Cola e sai che il Presidente beve Coca-Cola, Lyz Taylor beve Coca-Cola, e anche tu puoi berla. Una Coca è una Coca e nessuna somma di denaro ti può permettere una Coca migliore di quella che si beve il barbone all’angolo della strada. Tutte le Coche sono uguali e tutte le Coche sono buone. Lyz Taylor lo sa, il Presidente lo sa, lo sa il barbone, e lo sai tu.

 

Da queste parole traspare la visione del mondo che Coca-Cola evoca. Non solo, il ragionamento dell’artista rivela come e perché, sebbene involontariamente, quel dipinto intrattenga con la storia delle arti visive un rapporto profondo. Infatti, la profezia che ci si accinge a discutere comporta vuoi un preciso intendimento del destino della specie umana vuoi il transfert di un credo di tipo religioso-artistico nella dimensione secolare.

   

 

 

Per cominciare, è degno di nota l’appello di Warhol alla grandiosità di una genuina tradizione americana grazie alla quale la distanza tra ricchi e poveri, individui e collettività, verrebbe azzerata ogniqualvolta si consuma un prodotto standardizzato come la Coca-Cola. Il suo carattere seriale e uniforme – la proprietà di rimanere sostanzialmente la stessa qui e altrove, per voi come per me – procede in tandem con il fatto che la bevanda sia good o buona. Coca-Colaè il ritratto di questa singolarità: di una differenza che c’è, eppure paradossalmente facilita il riconoscimento e l’auto-riconoscimento identitario. La democrazia è inestricabile dal marketing che efficacemente crea una solidarietà tra produttori e utenti, e fa sì che la comunità sorga nella condivisione attuatasi nel momento dell’offerta come in quello dell’acquisto della stessa cosa. Ma il processo, epitomizzato al livello materiale dall’oggetto Coca-Cola, conduce verso un livellamento di esperienze e conoscenze molto più pervasivo. E si direbbe che Coca-Cola lo implichi, se non incensi. Warhol allude a questa omogeneità totale in una celebre intervista del 1963 con Gene Swenson. La sua argomentazione offre la seconda traccia utile a spiegare la profezia:

 

Qualcuno ha detto che Brecht voleva che tutti pensassero allo stesso modo. Voglio che tutti pensino allo stesso modo. Ma Brecht voleva realizzarlo mediante il Comunismo, in un certo senso, la Russia lo sta facendo sotto la guida del governo. Sta succedendo qui da sé senza un governo severo; quindi se funziona senza provarci, perché non potrebbe funzionare senza essere comunista? Tutti si assomigliano e si comportano in maniera uguale, e stiamo sempre di più diventando così. Penso che tutti dovrebbero essere delle macchine. Penso che tutti dovrebbero piacere a tutti.

 

L’America capitalista e la Russia socialista sono affini in quanto aspirano entrambe all’assimilazione globale. Per Warhol, la deregulation tipica del sistema neoliberista occidentale favorisce il realizzarsi di tale ambizione senza dover dipendere da un potere accentratore. Anzi, è quasi come se il diventare esattamente uguali agli altri occorra in maniera spontanea e conduca a un finale e diffuso piacersi reciproco. L’agognato passaggio dall’umano alla macchina è parte dello sviluppo. Consegue all’emergenza di forme di identificazione oggettive e superiori alla corruttibilità della materia, della natura e di una mente o corpo mortale. Essere una macchina significa ripetersi: restare tali e quali in ogni circostanza, proprio come nel caso della Coca-Cola descritta da Warhol. Egli immagina quindi un mondo di simbiosi perfetta in cui stare assieme vuol dire accedere a un’unica sostanza, al punto che essa coincide con noi stessi nel mentre apprezziamo, consumiamo, pensiamo e siamo la stessa cosa. Un tale mondo può dispensare delle dinamiche dell’antropogenesi o ri-originazione di sé caratteristiche delle precedenti forme di vita radicate a nozioni quali il vissuto personale. Avviatasi verso l’era dello standard puro, la specie umana trova in esso il garante di una millenaria promessa di unificazione planetaria.

 

 

Tornando a Coca-Cola, il dipinto è interpretabile come veicolo di un messaggio di unità totale. L’artista ha scelto la bottiglia e il suo logo inconfondibile in quanto blasoni di una cultura, nonché significanti di un apogeo dell’umanità che si ritroverebbe affrancata dalle lacerazioni che la affliggono nella sua Storia. Se nella vecchia Europa ottocentesca, il poeta Hölderlin percepisce con dolore che gli dei hanno abbandonato la Terra, e il filosofo Nietzsche si confronta con lo scioccante annuncio della morte di Dio, un secolo dopo, nella giovane America vincente e proiettata nel futuro, Warhol indica che ci si può risollevare dal trauma. Coca-Cola lascia presagire che l’armonia terrestre è di nuovo raggiungibile a dispetto della dipartita degli esseri celesti: in altre parole, che siamo tutti fratelli e sorelle non necessariamente perché discendenti da un unico Dio Padre. Viene in mente l’apostolo Paolo, il quale con la sua asserzione radicale che non ci sono né ebrei né greci, né maschi né femmine (Gal 3.28), delinea i fondamenti di un universalismo volto a superare ogni barriera e ritrovarsi congiunti in Dio come suoi figli. La profezia warholiana è parimenti universalizzante. Tuttavia, stavolta l’indivisibilità della nostra specie viene argomentata alla luce dei prodotti di massa e della loro fruizione generalizzata. Perciò, forse, Warhol preferiva al termine di Pop Art quello di “Common Art”. Esprime meglio non solo l’inclinazione folclorica della sua pratica – il suo desiderio di lasciarsi alle spalle le rigide specializzazioni e soddisfare le aspettative di ogni “volgo” –, ma anche la natura comunistica e salvifica del capitalismo che, come comprese Walter Benjamin, mira all’appagamento delle stesse preoccupazioni, tormenti e inquietudini a cui in passato davano risposta le religioni.

Warhol è notoriamente complicato, ironico, elusivo e sfuggente. Le sue opere e asserzioni sul mondo oscillano tra utopia e distopia, per cui non è chiaro da che parte sia schierato nel suo profetizzare. Sarebbe inoltre azzardato proporre che avesse una piena coscienza di dette implicazioni. È plausibile, d’altro canto, che non fosse ateo: famigliari e persone a lui prossime lo descrivono come vicino alla chiesa ortodossa e poi a quella cattolica romana; nei suoi diari ricorrono i riferimenti religiosi; autori quali John Richardson e Jane D. Dillenberger hanno provato a esplicare alcuni aspetti della sua fede. Di certo, la carica aggregante della religione deve averlo affascinato. Lo si evince, per esempio, da Crowds (1963, fig. 6 ), dove rielabora una foto del 1955 che ritrae l’impressionante adunata di circa mezzo milione di persone in piazza San Pietro a Roma nell’attesa della comparsa di Pio XII il giorno di Pasqua. La religione del capitalismo, stando a Benjamin, è inestricabile dal culto e dalla possibilità della sua durata permanente. E la continuità cultuale è appunto prospettata in Coca-Cola come nelle citate parole di Warhol sull’identità costante della bevanda. Inoltre, l’oggetto di devozione è ritenuto capace di “agentività” o influenza nel reale: legittima la nostra co-appartenenza e contribuisce a farci sentire uguali agli altri. Se, come rileva Leo Steinberg nel 1963, la Pop Art rende il soggetto rappresentato talmente preminente da eliminare ogni considerazione estetica o formale delle opere, Warhol si spinge molto più oltre. Nel suo caso, il rito del consumo tende a soppiantare quello dell’eucarestia o di analoghi protocolli ricorrenti in altre religioni. Un tratto condiviso di queste pratiche è il tentativo di ricondurre la contingenza e la precarietà dell’esistenza all’ordine del simbolico. In particolare, la Messa cattolica celebra la perennità della presenza divina nel mondo rinnovando il mistero dell’incarnazione di Cristo che i fedeli condividono ogniqualvolta partecipano alla cerimonia e ricevono l’ostia consacrata. Coca-Cola e la dichiarazione del suo autore prospettano per la bibita una simile funzione di transustanziazione senza appellarsi a un dio. La conversione della sostanza avviene mediante la deificazione della medesima: di un quid che, né materiale né spirituale, costituisce la quintessenza imperitura che ritornerà tra noi a ogni nuovo uso della bibita assieme alla promessa di uguaglianza e di riassorbimento del contingente nel simbolico.

 

 

L’inedita possibilità di comunione universale annunciata da Warhol reinterpreta l’idea di incarnazione confermandone la pregnanza tanto teologica quanto artistica. Già nell’antichità, artisti e sacerdoti erano associati nell’assolvere il compito di conferire forma, sacralità e verosimiglianza agli dei. Nell’ambito dell’Occidente cristiano, buona parte dell’arte e della letteratura a essa ispirata orbita intorno al concetto di Dio che assume sembianze umane. Prima del Rinascimento e della Riforma, le immagini sacre erano venerate poiché recanti in sé una traccia tangibile del divino: dal vero volto di Cristo e della Vergine a quello dei santi, convalidavano la venuta di Dio sulla terra. In epoca moderna, il legame tra immagini e culto si allenta, e dipinti, edifici e sculture vengono apprezzati soprattutto per le loro proprietà artistiche, ossia riguardanti un dominio a metà strada tra autore e natura, fantasia e perizia tecnico-espressiva. Sarebbe fuorviante, tuttavia, demarcare troppo nettamente un’era del culto da una susseguente era dell’arte. Più giusto, forse, è figurarsi un continuum di diversi modelli dell’incarnazione di cui arte, critica e storia dell’arte sono stati di volta in volta le assertrici. Anche nei periodi di secolarizzazione o di ibridizzazione della matrice cristiana, il diniego che lo spirito si faccia carne è interpretabile come l’altra faccia della medaglia. Ancora una volta, cioè, l’attività artistica appare comunque inclinata a rappresentare qualcosa di incorporeo, inteso in termini non più di divino, bensì di stile, bellezza, significato, impressioni della natura, sfera sociale, grandiosità e qualità.    

Coca-Cola non commemora una venuta extraterrestre né i salti creativi del genio. Anzi, viene in mente come, dalle obiezioni della patristica sull’efficacia delle raffigurazioni sacre al verdetto hegeliano della morte dell’arte, dal divieto biblico e dalle successive dottrine iconoclaste alla decostruzione post-strutturalista della metafisica della presenza, si sia più volte dibattuto se la pratica degli artisti possa davvero coadiuvare la religione o addirittura assorbirla e superarla trasferendo i principi dell’incarnazione in una dimensione significante autonoma. Sarebbe riduttivo, tuttavia, supporre che Coca-Cola tematizzi l’assenza. Si registra piuttosto un rovesciamento prospettico: a compiere il miracolo non è più l’uomo né il dio, bensì il prodotto seriale. Nel mondo di Warhol, l’iconofilia è chiave. La bottiglia assurge a uno status reminiscente di quello della vera icona: laicamente acheropita, o “non fatta da mano (umana)”, è prodigiosa in virtù del suo essere la stessa cosa ora e ancora, dentro e oltre il tempo. Questo probabilmente è il segreto che la rende tanto ubiqua quanto gradita a Lyz, al Presidente, al senzacasa e a noi tutti. La dinamica dell’incarnazione diviene biunivoca, tocca i due fronti di oggetto e soggetto annullando entrambi. Mentre il primo si scopre per il vessillo di una deità vuota, visibile ai mortali solo in quanto medium astratto e stereotipo di identificazione collettiva, il secondo è catatonico, privo di espressività, e si palesa a sé e agli altri allorché asseconda la sua volitività di recipiente della sostanza. Nell’inequivocabile icona di massa della Coca-Cola confluiscono i registri temporali dell’individuo e della specie, del simbolico e della contingenza, dell’eternità e dell’istante.

Michel Foucault (nel 1970) accenna al “grandeur” di Warhol in un saggio dedicato alla filosofia di Gilles Deleuze. Ottuse, banali e reiterative, le opere dell’artista avrebbero il merito di mostrare come la “stupidità” resista alle categorizzazioni, sovverta l’ordine dominante e liberi il pensiero. L’arte visiva si avvale della modalità indeterminata dell’infinitivo che nel linguaggio introduce e dissemina il senso in quanto elemento neutro, pari alla morte. Nell’illimitata monotonia warholiana spunta così la molteplicità pura, dal fondo dell’inerte equivalenza può di colpo scaturire l’emozione intensa dell’evento. Benché acuta, l’indicazione foucaultiana è tuttavia di poco aiuto appena si prova a dare conto del mondo preconizzato da Warhol. I suoi abitanti migrano dalla realtà verso il vuoto della pura esteriorità e si sentono pienamente appagati dal senso comune, che tende a sancire anziché sfidare lo status quo. Essi vivono e convivono nella misura in cui credono (inconsciamente o meno) nel reincarnarsi del noto che esorcizza lo spettro dell’ignoto e dell’inatteso al punto da eliminarne ogni traccia o sentore. Il che vuol dire non solo che la ripetizione è sovrana rispetto alla differenza ma che quel mondo si dissolverebbe se i suoi soggetti non credessero nel prodigio della replicazione. In caso di dubbio, qualora venissero folgorati dalla comparsa di una novità incondizionata, verrebbero meno i presupposti per il loro esserci: essi esistono a patto di non accorgersi della propria inesistenza.

Incompiuta, inattuale, o in procinto di avverarsi, la profezia totalizzante di Warhol inquieta comunque la si interpreti. E non soltanto perché tocca indifferentemente la storia dell’arte, della religione e dell’umanità. Mentre le altre profezie qui citate disturbano ma stimolano l’intelligenza a coglierne la portata, stavolta è diverso. Se si crede nella mutazione antropologica contemplata dall’artista, allora più essa sembrerà concretizzarsi e meno si sarà in grado di capire che cosa stia accadendo: uno dei momenti cardine previsti è, appunto, l’abdicazione dell’autoriflessività e dell’introspezione a favore del gradimento passivo e della somiglianza superficiali. L’egemonia spetta alla dimensione pubblica. Non a caso, nel 1962, subito dopo la tragica morte dell’attrice, Warhol realizza il ritratto di Marylin Monroe su fondo oro (fig. 7) scegliendo una foto appartenente a una pubblicità del film Niagara (1953), in cui la neonata star aveva recitato. Come sottolinea Thomas Crow in un saggio del 1996, Warhol immortala Monroe nel suo apparire in posa per gli altri. A morire e a risorgere incessantemente è l’icona pubblica, vera e identica a se stessa, al pari della Coca-Cola. E ancora. È come se, anticipando alcune tesi del mediologo Friedrich Kittler, l’artista dicesse che della gente resta quel che i media tecnologici comunicano e preservano. Vengono meno la specificità di pensiero, le emozioni, la percezione interna e finanche le chance di coevoluzione tra tecnologie e corpi. A definirci sono dei residui di informazioni conservati attraverso una varietà di mezzi, artistici e non. È pertinente chiedersi se l’hardware dell’organismo umano non venga alimentato dal compulsivo bisogno di agganciarsi a degli archetipi dell’identità affatto casuali – che potrebbero includere da un dio disceso dall’alto dei cieli alle merci esposte in un supermercato – che provocano dipendenza e assuefazione e sono riproducibili in un’infinità di scale. Rispecchiandosi in questo insieme, confluendo in esso, si possono apprendere sia dei mantra utili per la sussistenza sia le direttive volte all’autoannientamento. 

Forse Warhol non voleva che lo si prendesse troppo sul serio, forse le sue opere e parole invogliano a facili voli di fantasia. Eppure la sua formidabile lungimiranza e perspicacia a livello tanto tematico quanto formale sono innegabili. Quando, nel 1962, in occasione della sua prima mostra a New York, esibisce le Campbell’s Soup Cans (fig. 8) già si avvertono i segnali dalla incipiente commercializzazione della pratica artistica (negli anni Cinquanta, Ad Reinhardt, un profeta di stampo diverso, captava il fenomeno e ne denunciava le conseguenze). Warhol, però, marca una discontinuità di cruciale importanza nella storia dell’arte novecentesca. Dopo di lui, le cose non saranno più come prima. Gli emulatori abbondano e se ne incontrano non solo di sfacciatamente tali, ma anche di travestiti da oppositori delle disparità sociali causate dal capitalismo e da benevoli paladini di differenze e minorità. Entrambe le tipologie di artista accettano i diktat di un sistema dell’arte strutturato in vista dell’interesse e del profitto. Che questa compiacente adattabilità sia appunto una delle indirette conferme della profezia? Di sicuro, è difficile trovare una via d’uscita dal mondo annunciato da Warhol, al punto che suona lecito domandarsi perché mai lo si debba percepire negativamente, quasi fosse una prigione, e se invece il destino della specie non possa essere quello di assomigliarsi gli uni agli altri nel nome di uno standard onnicomprensivo. 

Nello svelare alcuni scorci dell’Eden della riproducibilità e della ripetizione senza fine né inizio, il genio di Andy Warhol è riuscito a far perdere di vista un’altra inflessione dell’idea del ‘medesimo’ per sé, quella di un’umanità che sarebbe la stessa, apparirebbe unica e salda, esattamente nel condividere in più momenti e luoghi l’attitudine al dare il via alla propria vita planetaria mediante l’esercizio della libertà tanto di sottrarsi alle condizioni di un determinato stato di cose quanto di trasformarlo o cominciare daccapo. Se e in che misura, con quali mezzi e sotto quale insegna, l’attività degli artisti riuscirà a dimostrare la tenuta di questa visione alternativa dell’umano rimane una questione aperta dopo Warhol.

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Whytney Museum, New York
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Sergio Leone, macchina dell’immaginario

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In uno dei video che arricchiscono il percorso della grande mostra alla Cinémathèque di Parigi, realizzata in collaborazione con la Fondazione Cineteca di Bologna (fino al 27 gennaio 2019), un Sergio Leone già pingue ma senza barba, e quindi meno prototipico dell’immagine di lui che siamo soliti richiamare alla memoria, impartisce indicazioni al rumorista incaricato di dare spessore al tappeto sonoro di uno dei suoi film.

“Ecco, ora anche con i ferri, bravo”, gli raccomanda mentre spazza via le briciole di brioche dal suo tavolo e tamburella sul tavolo il ritmo esatto della corsa dei cavalli, intento come un direttore d’orchestra a far fare, e rifare, anche la più piccola battuta. Per chi esegue, con delle apposite scodelle e dei movimenti secchi e rapidi, gli occhi incollati allo schermo che proietta la scena, si tratta più di tradurre che di interpretare. Il regista ascolta e pondera, immerso al contempo nel film e nel suo cappuccino.

Sempre all’interno della sezione “Laboratorio Leone”, strutturata a spezzoni video e a gallerie di fotogrammi, ecco il regista, in tenuta da lavoro, ora mostrare a Clint Eastwood come impugnare l’arma, ora cingere alla vita la bellissima Claudia Cardinale proprio come l’avventore di turno avrebbe dovuto stringerla a sé in C’era una volta il West.

Un diario minimo di lavoro, fatto di particolari quasi insignificanti, eppure emblematico – e magnetico per il pubblico che si ferma a guardare e commentare, anche rumorosamente, le scene e le fotografie che girano in loop (questa mostra, in effetti, non richiede di essere esplorata in religioso silenzio, semmai il contrario).

 

Sergio Leone sul set di “Giù la testa” (© Fondazione Cineteca di Bologna / Fondo Angelo Novi).


Nella testa di Leone, un film è questione di dettagli – di molti, moltissimi dettagli.

In Lector in fabula, Umberto Eco ha parlato del testo narrativo come di una “macchina per produrre mondi possibili” – chiarendo che un mondo possibile non è affatto un mondo vuoto, ma un mondo ammobiliato di personaggi e contesti, di oggetti e situazioni, ognuno con le sue caratteristiche. 

Un universo perfettamente arredato in cui accomodarsi, aggirarsi con circospezione, e da cui ascoltare una di quelle “favole per grandi” del suo cinema: è questa l’impressione, più o meno consapevole, che si ha passeggiando per le sale della mostra e osservando oggetti e immagini che non solo conosciamo, ma riconosciamo benissimo.

Ed ecco il poncho di Eastwood, certo, ecco il vestito della Cardinale, e senti in sottofondo il tema del cattivo del film (come è che si chiamava?), e poi il telefono di C’era una volta in America– dicono gli sguardi, complici, degli avventori della mostra. Tutti noi, chi più chi meno, nel buio di un vecchio cinema oppure in streaming su uno schermo, nell’universo di Leone ci siamo già accomodati mille volte.

Quello che fa in più questa mostra – intitolata, non a caso, Il était une fois Sergio Leone – è accompagnarci, passo dopo passo, anche nel suo immaginario – alla scoperta del regista e dell’uomo che di queste “favole per grandi” è all’origine. Definizione che, confessa Leone, portando avanti la metafora, “mi ha, a volte, fatto affermare di avere l’impressione di essere, rispetto al cinema, come un burattinaio con i suoi burattini”. E la mostra della Cinémathèque tiene insieme tutto questo, il creatore e il suo universo, il progetto e i dettagli, le idee e la realizzazione tecnica.

 

Jennifer Connelly e Sergio Leone sul set di “C’era una volta in America” (© Fondazione Cineteca di Bologna).


Un testo narrativo, per descrittivo che sia, non richiede mai lo stesso livello di dettaglio di un’immagine, che è obbligata a chiedersi come mostrare, e a quale scopo, quello che vuol far vedere. Se l’immagine poi non è un’immagine solitaria, ma è la costellazione di fotogrammi, ordinata e invisibile nelle sue giunture, che è il cinema, le cose si complicano. E se chi sta dietro la macchina da presa è uno che si dichiara affetto da “sindrome del neorealismo”, come dichiara lui stesso, beh, le cose si complicano ancor di più.

Di tutto questo Leone è totalmente consapevole, concentrato in un modo che molti hanno definito maniacale sulla consistency di ogni singolo dettaglio dei suoi film (in questo senso è “neorealista”, anche se non alla De Sica o alla Rossellini) e che lui stesso ha amato rimarcare, più e più volte.

 

Nelle dense interviste con Noël Simsolo, per esempio, in C’era una volta il cinema (Il Saggiatore), pubblicate per la prima volta in italiano e da poco in libreria, la sua passione per i mondi narrativi ben ammobiliati emerge in modo gustoso attraverso una miriade di aneddoti, come questo su Per qualche dollaro in più (1965): “Non potevo inventare oggetti immaginari, serviva una grande precisione sul piano tecnico. Per cui mi sono documentato. A Washington, nella più grande biblioteca del mondo, la Library of Congress, si può ottenere una copia di qualsiasi libro raro. […] Così ho richiesto tutti i volumi disponibili che parlavano del West e della guerra di Secessione. Leggevo solo libri di quel genere. Devo aver consultato più opere io sul quel periodo di quanto non abbiano fatto gli storici! Tra le altre cose, ho trovato delle descrizioni dettagliate di tutti i tipi di armi dell’epoca. […] E ho scoperto con mia grande sorpresa che esisteva ancora una fabbrica di quelle armi, a Brescia, in cui si tramandava la costruzione di pistole e di rivoltelle del secolo scorso. E riforniva il mercato americano. […] Ma l’autenticità di quelle armi non mi bastava, le volevo precise anche per quanto riguardava la balistica, il raggio di tiro… La mia storia doveva partire da un realismo documentario basato sulla tecnica”. 

 

© Stéphane Dabrowski-Cinémathèque Française.

 

Molte delle armi commissionate alla Uberti di Brescia a partire dal 1965 – ovvero, grazie ai mezzi molto più cospicui ottenuti dai produttori dopo il successo del primo film della Trilogia del dollaro, Per un pugno di dollari (1964) – sono in mostra, insieme ai costumi di scena della Cardinale e di Henry Fonda. Di altri oggetti, apparentemente insignificanti per la narrazione ma per Leone necessari alla sospensione d’incredulità del suo spettatore – meglio ancora, alla resa incondizionata alla potenza della sua immaginazione – si legge tra le interviste con Simsolo e nel ricco catalogo della mostra, La révolution Sergio Leone, a cura di Gian Luca Farinelli e Christopher Frayling, che raccoglie saggi, contributi critici, testimonianze e interviste.

 

Tonino Delli Colli, collage di foto documentarie di New York utilizzato per la lavorazione di "C’era una volta in America".


C’era una volta in America, per esempio: la “cattedrale”, così la chiamavano i collaboratori di Leone – uscito nel 1984, tredici anni dopo Giù la testa, ma in gestazione da molti anni prima – è un oggetto narrativo delicato e complesso, in cui nulla è lasciato al caso. La documentazione di Tonino Delli Colli, direttore della fotografia, esposta in mostra lo racconta bene, dai collage di vecchie foto per ricostruire un panorama più ampio possibile alle minuziose scalette di lavorazione.

 

Più che l’autentico, Leone vuole l’esatto, l’aderenza alla realtà della New York dell’epoca, e, se la realtà non esiste più, alla sua idea originaria.

“Diciamola tutta: in un sogno del genere serve il realismo”, racconta a Simsolo. “È necessario che sia credibile! Ed è per questo che tutti i luoghi sono reali. Sono andato a cercarli. […] La stazione centrale di New York di quell’epoca non esiste più, è stata distrutta. Ma sapevo che si trattava solo di una replica della Gare du Nord di Parigi, e così ho girato quelle scene alla Gare du Nord di Parigi. Le stesse vetrate, le stesse colonne di cemento e di pietra: gli stessi materiali. Stessa cosa per l’hotel di Long Island, dove Noodles porta Deborah. Quel luogo non esisteva più, ma assomigliava molto ad alcuni palazzi di Venezia. […] Seguendo il mio intuito, ho girato all’interno di modelli originali. […] Tutto è perduto, dimenticato, distrutto… E io, per fare un film sui ricordi e sulla memoria, dovevo ritrovare delle vestigia della realtà”.

 

Elizabeth McGovern e Robert De Niro in “C’era una volta in America” (© Fondazione Cineteca di Bologna / Fondo Angelo Novi).


E, naturalmente, a essere ammobiliati, ricostruiti, ripensati non sono solo oggetti e luoghi, ma anche gli attori – impolverati e imperlati di sudore per la Trilogia del Dollaro, per esempio. (“Gli ho messo un cappello e un poncho per renderlo un po’ più grosso”, dice di Eastwood, e alla Cinémathèque si può toccare con mano questa trasformazione, con i volti dei suoi attori prima e dopo il “trattamento” Leone).

Dettagli, dettagli, dettagli, ma mai fini a loro stessi. Dettagli, ma sempre al servizio di un universo ben preciso. Il riverbero – quello che vediamo luccicare, e che istintivamente ci attira – di un pensiero per immagini, cui arriviamo soltanto un attimo dopo.

È grazie a questa chiave che quella che sarebbe potuta diventare una mostra sul dietro le quinte dei film di Leone diventa una mostra sull’immaginario di Leone, meglio ancora su Sergio Leone come grande macchina dell’immaginario, oltre che sulla sua presenza nel nostro immaginario collettivo, sulla sua mitologia. Per questo Leone stesso è il primo protagonista della mostra, a partire dalla grande sala che lo proclama direttamente “cittadino del cinema” per diritto di nascita, allevato fin da subito in una mangiatoia di celluloide, con una madre attrice del muto (Bice Waleran, al secolo Edvige Valcarenghi) e un padre regista (Vincenzo Leone, ma nei titoli di testa sempre Roberto Roberti).

Bambino prima e adolescente poi sempre sul set, a sbirciare dietro la macchina da presa del padre, il piccolo Leone non può che cercare la sua strada nel mondo del cinema, ed eccolo assistente alla regia, giovanissimo, per De Sica in Ladri di biciclette ma anche per Aldrich e Wise: “nel 1945 ero stato il più giovane assistente alla regia d’Italia”, ricorda, e per più di dieci anni continuerà a essere conteso per la sua capacità di dirigere attori e maestranze sul set, di esaudire le richieste più improbabili, e di stare all’occorrenza, e molto bene, anche dietro la macchina da presa.

 

Quando finalmente, nel 1964, si dedica al progetto del Magnifico straniero, che poi sarebbe diventato Per un pugno di dollari e il primo film della sua prima Trilogia (altro sintomo di un immaginario molto consapevole è questo raccontarsi in prospettiva, snodando il proprio percorso tappa per tappa) dietro l’obiettivo di Leone si sono già srotolati – e sedimentati – metri e metri di peplum, film d’avventura, in costume, e western.

La macchina dell’immaginario si mette in moto ancora prima della macchina da presa, e afferrata ben salda la storia – l’uomo tra due bande in guerra tra loro che finisce per sgominarle entrambe, proprio come l’Arlecchino servitore di due padroni di Goldoni – dalla Sfida del samurai di Kurosawa prende la decisione di farne un western, ma a modo suo, sui generis e fuori dal genere. Niente folclore, niente indiani, ma Omero e la commedia dell’arte come riferimento. “Attraverso il filtro di Goldoni, avevo intenzione di lavorare sul gioco delle maschere”: e così procede, anche con l’aiuto dell’accompagnamento musicale di Ennio Morricone, i cui temi si rincorrono anche alla Cinémathèque, tra una sala e l’altra.

(In uno dei montaggi video più di successo della mostra, a giudicare dalla quantità di persone che ci sostava davanti, il personaggio Leone racconta Per un pugno di dollari tra una forchettata di fettuccine e l’altra, subito di seguito all’intervista in cui definisce Omero il primo e il più grande scrittore western, e Achille, Ettore e gli altri – sporchi, sudati e diritti al loro obiettivo – come i primi modelli del suo cinema).

 

Sergio Leone e Robert De Niro sul set di “C’era una volta in America” (© Fondazione Cineteca di Bologna).


Film dopo film, e sala dopo sala, l’immaginario Leone prende sempre più corpo e consapevolezza: si svelano riferimenti incrociati tra cinema e pittura, da Goya a De Chirico passando per Hopper, che mostrano una cultura visiva ampia e coraggiosa, per non dire sfrontata; esaurita la prima trilogia se ne apre una seconda, la Trilogia del tempo, con C’era una volta il West (1968), Giù la testa (1971) e C’era una volta in America (1984); la collaborazione con Morricone si fa così stretta e fondante da chiedergli di scrivere la colonna sonora a partire dal solo soggetto e da far recitare gli attori sul set con in diffusione la musica – e così è anche per il percorso in mostra, contrappuntato e costruito anche dall’accompagnamento musicale, che da una sala spesso si riverbera nelle altre. A completare l’immaginario, a saldare il racconto in una mitologia, la fusione esplicita tra aderenza al reale e anti-verismo che si fa sempre più forte.

 

Leone vuole un mondo credibile, verosimile, sporco e impolverato, ma anche grandemente simbolico: un mondo continuamente sull’orlo dell’anacronismo, in cui i massacri della guerra civile messicana possano farci tornare alla mente le Fosse Ardeatine, con la mediazione di Goya; un mondo in cui dietro ai Buoni, ai Brutti e ai Cattivi del genere possano intravedersi gli archetipi che si portano dietro. 

Alla Cinémathèque, un’intera parete di Il était une fois Sergio Leoneè dedicata a riassumere il culmine della scena finale, il celebre duello a tre, di Ilbuono, il brutto e il cattivo.

Di fronte alla parete, quando ho avuto occasione di visitare la mostra, a fine ottobre, un padre giocava con i tre figli, due maschi e una femmina, a fargli impersonare le espressioni di quelle facce enormi, tagliate così strette, che forse vedevano per la prima volta. C’era una volta Sergio Leone, ed ecco che c’è ancora.

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Il regista italiano in mostra a Parigi
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Parole e immagini per Salvare l’ora

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Per anni, da Giovanni Chiaramonte mi sono arrivate molte splendide immagini, nelle quali mi sono di volta in volta immerso e direi sprofondato, per cercare le parole che in loro fermentavano, e produrre quelle che chiamo descritture. Di recente, invece di una nuova serie di fotografie, ho cominciato a ricevere da lui un’affascinante sfilata di brevissime, fulminee poesie. La cosa mi ha sorpreso, ma non più di tanto: sapevo bene, per esperienza diretta, che la visione di Giovanni è segretamente, direi pudicamente animata di parole. 

 

Con la loro misura metrica, le poesie di Salvare l’ora rinviano alla forma giapponese dell’haiku (già ripresa in Italia tra Ottocento e Novecento da diversi poeti; un nome per tutti: Andrea Zanzotto). Negli haiku giapponesi, però, a dominare sono in genere gli elementi del mondo, presentati con distacco turbato, con palpitante ritegno. A dispetto di quello che la sua caratteristica tripartizione potrebbe far pensare, lo haiku giapponese rifugge dal ragionamento. Montagne, fiumi, fiori, animali, stagioni vi si presentano come enigmi “naturali”, che sfidano la parola. In questi brevissimi componimenti di Chiaramonte, invece, a prevalere (soprattutto nei primi testi della serie presentata insieme alle sue polaroid nella mostra Salvare l’ora) è la riflessione, la meditazione in forma di aforisma. I termini ricorrenti sono tempo, spazio, universo, abisso, nulla, Dio, infinito, silenzio. E poi ancora cuore, anima, ombra, pensiero, respiro, luce. E, naturalmente, sguardo:

 

 

Lo sguardo chiama

L’infinito ci ascolta

Si fa trovare

 

Qui si ha l’impressione di avere di fronte un’esposizione lampante della poetica del fotografo. Lo sguardo non è passiva ricezione dei dati del mondo, loro fredda registrazione: lo sguardo chiama, è una voce. L’infinito (sul quale Giovanni ha a lungo meditato e scritto) non è un elemento tecnico, ottico, della visione: è ascolto di quella voce che lo sguardo è; anche qui, non un ascolto passivo, un meccanico udire, ma un accogliere, un farsi trovare. L’occhio cerca, chiama; l’infinito gli risponde, gli corrisponde per sua benevolente, misteriosa, altissima disposizione. 

 

 

A poco a poco, nella raccolta, affiorano (come nell’haiku giapponese) le parvenze del mondo: ecco la pioggia, le nuvole, l’azzurro, la neve, un sentiero, degli alberi, un gelsomino, un merlo (unica presenza animale), case, vetri, gocce, asfalto, brezza, mare, sabbia, conchiglie… Ma noi ora sappiamo, sentiamo, che queste figure nascono dall’ascolto che l’infinito dà allo sguardo. Come nella fotografia di Giovanni. Qui però il visibile – il visibilio – ha trovato una lingua; la voce dello sguardo parla italiano. È come se Chiaramonte ci rivelasse la parola che tace al fondo delle sue immagini. Una parola che chiama, che invoca, che si sporge oltre se stessa, cercando il proprio limite. Cosa c’è, oltre quel limite? 

 

Dove il pensiero

Si interrompe in frantumi

Inizia l’altro. 

 

Le foto della serie Salvare l’ora, in mostra alla galleria ExpoWall di Milano dal 15 novembre al 20 dicembre 2018, si discostano per molti aspetti da quelle a cui Chiaramonte ci ha abituati. 

Molti anni fa, visitando non so che mostra alla Triennale, quando ancora non conoscevo Giovanni come fotografo (ci eravamo incontrati durante il servizio militare, e poi persi di vista), ricordo di essere stato attratto da una grande foto esposta tra molte altre (non sapevo che l’autore fosse lui): in quell’immagine, il “soggetto” quasi non c’era: quel poco che poteva svolgere la sua funzione (un personaggio di spalle, seduto su un parapetto, due batterie di fari spenti, una città in lontananza) era relegato nel margine inferiore; protagonista era il cielo, un cielo smisurato rispetto a quello che di solito si vede nelle fotografie (“Quanto cielo!”, pensavo tra me). Quel vuoto, quell’aria, quella luce, quell’etere, sembravano il vero centro dell’immagine. 

 

 

In Salvare l’ora, questo effetto di vertiginosa apertura non c’è: le polaroid faticherebbero, per loro natura, a reggere tanto spazio. Questo limite –programmaticamente accettato e anzi ricercato dal fotografo – genera un inusuale avvicinamento al visibile, una drammatica concentrazione. Spesso, come nella foto datata Milano 2011, è persino difficile identificare gli oggetti rappresentati; più che a un gioco di astrazione formale, questo conduce a uno smarrimento. In questo interno, non c’è niente di domestico. La macchina ha puntualmente registrato le cose, il mondo, qui e ora, ma la loro rassicurante familiarità si sottrae allo sguardo, che è sfidato a ritrovarla. 

Lo smarrimento è sottilmente enfatizzato dal rapporto che si stabilisce tra immagini e “titoli” (o per meglio dire datazioni): quella che in altri contesti costituirebbe una didascalia, un’informazione su luoghi e circostanze, una “spiegazione” intorno a ciò che si vede, risulta qui del tutto incongruente con l’oggetto che ci viene mostrato. L’effetto è quasi comico: a rappresentare la città di Milano in un certo anno è una scena tanto indecifrabile quanto fungibile. Date e luoghi vengono come vanificati, da un lato, ma dall’altro la loro natura, la loro problematica relazione con il vedere, emerge clamorosamente. L’ora si salva e si trasfigura nell’immagine. 

 

In altre immagini – Berlino 2011, Potsdam 2011– il centro– tipicamente sfuggente nella produzione precedente di Chiaramonte – riaffiora, lampante ma depotenziato: una piccola foglia gialla su uno sfondo di pietrisco, a Berlino; a Potsdam, una piuma bianca posata su un prato verdissimo. 

In un’altra foto – anch’essa datata Berlino 2011 – ad attrarre lo sguardo è una sorta di flabello sulla destra, un ventaglio chiaro che però – con la sua vistosità – non fa che rinviare al vero fuoco della scena, il tronco d’albero che si erge in ombra nel mezzo di un bosco allettante e pauroso come quello delle favole. 

 

 

 

Ancora un bosco appare nell’immagine datata come altre Berlino 2011, ma col sottotitolo Sole nero, dove sotto un cielo crepuscolare (in realtà in pieno giorno) si affaccia, tra le fronde scure, un disco puntiforme, se possibile ancora più scuro, nerissimo, circondato da un’aureola stellante. Il sole, appunto. 

L’effetto ottico – di per sé spettacolare – si carica di senso: la fonte di ogni luce è il punto più profondamente buio dell’immagine; sole e sguardo – sorgenti simmetriche del visibile – si fondono in un solo occhio, cieco e raggiante.  

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Giovanni Chiaramonte
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Mario Merz. Igloos

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La stagione espositiva dell’Hangar Bicocca di Milano si chiude con una mostra di grande rilievo, dedicata alla figura di Mario Merz. Igloos, aperta fino al 24 febbraio 2019, a cura di Vicente Todolì in collaborazione con la Fondazione Merz di Torino, raccoglie trentuno installazioni di Mario Merz, figura centrale dell’Arte Povera, il più importante movimento artistico che l’Italia abbia prodotto nel dopoguerra. Frutto di importanti prestiti museali, tra cui il Reina Sofía di Madrid, la Tate di Londra e la Nationalgalerie di Berlino, la mostra si sviluppa nello spettacolare spazio industriale delle navate e ha un precedente nell’antologica voluta da Harold Szeemann nel 1985, presso la Kunsthaus di Zurigo, dove trovarono spazio una ventina di igloo. Todolì aveva già avuto modo di lavorare con Merz nel 1999, quando chiamò l’artista a sviluppare il tema della “Casa Fibonacci” per la Fundação Serralves di Porto e propone ora una spettacolare operazione di raccolta degli igloo, forse le opere più note dell’artista.

 

Mario Merz a Schaffhausen (CH) © Mario Merz, by SIAE 2018.


La faccia di Mario Merz è una faccia tragica, antica. Guardando le sue foto, si possono facilmente rintracciare in quei lineamenti rocciosi l’energia che corre nelle sue opere, una forza originaria che ha a che fare con l’acqua, il fulmine, la zolla di terra che si spacca. È il viso di uno scienziato che ha scelto l’arte come forma di interpretazione del mondo, pur mantenendo un approccio fenomenologico all’esistente. Figlio di un ingegnere e di una insegnante di musica, Merz è un artista votato al fare, se vogliamo di ascendenza leonardesca, che costruisce una piattaforma linguistica attraverso la quale far incontrare lo spazio antropologico e lo spazio architettonico.

 

Di primo acchito, l’insieme degli igloo disseminati nell’Hangar appare come un insediamento abitativo, un luogo fuori dal tempo segnato da una precarietà che non è solo forma della mancanza, ma anche possibilità dinamica dell’esistere. Sono forme che hanno molto da dire al nostro presente, e pur avendo una chiara connotazione legata a un gusto formale specificamente ascrivibile agli anni ‘70, sono al contempo estremamente attuali, come se potessero vivere in più dimensioni temporali senza incorrere in contraddizione alcuna. 

 

Per inquadrare il frame in cui gli igloo vengono alla luce, torniamo al novembre del 1967, quando Germano Celant pubblica su Flash Art un articolo dal titolo Arte povera, appunti per una guerriglia: due mesi prima, il 27 settembre, ha dato vita alla prima mostra del movimento, Arte povera – Im Spazio, alla Galleria La Bertesca di Genova, mentre nel ‘68 della contestazione consolida il perimetro della riflessione con esposizioni come Arte Povera alla Galleria de’ Foscherari a Bologna e Arte Povera + Azioni Povere, presso gli Arsenali dell’Antica Repubblica di Amalfi (fortemente voluta dal mecenate Marcello Rumma). Segnali di una nuova, nascente sensibilità sono già arrivati da Roma, ad esempio con Fuoco Immagine Acqua Terra presso la galleria l’Attico di Piazza di Spagna, intercettati da Celant che assumerà, con tempismo rapace, la paternità del movimento. Ne consegue che Torino, con la galleria di Gian Enzo Sperone e di Christian Stein, Il Punto di Remo Pastori e la galleria Notizie, si attesterà come scena primaria del teatro poverista, tallonata da Roma, attiva attraverso il lavoro di gallerie come la già menzionata L’Attico (dove Kounellis esporrà i suoi dodici cavalli vivi), La Salita, La Tartaruga; fondamentale l’apporto di Carla Lonzi, a cui va il merito, attraverso una rigogliosa produzione intellettuale, di aver contribuito a far dialogare le due città del poverismo. Il 1969 sarà anche l’anno di due mostre essenziali per la ricognizione della scena dei nuovi artisti e del poverismo: When attitude become form, disegnata da Harold Szeemann, Op Losse Schroeven situaties en cryptostructuren allo Stedelijk Museum Amsterdam, a cura di Wim Beeren, a cui si aggiunge Conceptual Art Arte Povera Land Art curata da Celant alla Galleria d’Arte Moderna di Torino nel 1970.

 

Mario Merz Senza titolo, 1991 Veduta dell’installazione, Fondazione Merz, Torino, 2005 Courtesy Fondazione Merz, Torino Foto: © Paolo Pellion © Mario Merz, by SIAE 2018.


L’Arte Povera si concretizza agli inizi dei ‘60 e ha la forza di un’onda che si ingrossa di colpo per schiantarsi sulla battigia, ma nasce in mare aperto, come frutto della sedimentazione di esperienze lontane – la tradizione italiana della grande pittura fino agli “irregolari” Burri e Fontana – innestate in un complesso quadro storico e politico postbellico. Giulio Paolini, Michelangelo Pistoletto, Giuseppe Penone, Jannis Kounellis, Giovanni Anselmo, Gilberto Zorio, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Pierpaolo Calzolari, Pino Pascali, Emilio Prini, Gianni Piacentino, Marisa Merz (moglie di Mario) sono figure eterogenee le cui pratiche muovono dalla progressiva perdita di mordente delle istanze dell’Informale verso una ricerca orientata alla relazione con la realtà contingente, tendenzialmente refrattaria alla nostalgia, e per questo volta a recuperare gli archetipi e la loro propria forza primigenia. In quest'ottica si è parlato di una tendenza “francescana”, una forma di “decultura” che si oppone all’egemonia di gusto e pensiero di area statunitense, e che ricorre a soluzioni che implicano la scelta di una materia fragile, incerta, organica, l’impiego di tecniche desunte dall'artigianato, la contaminazione tra linguaggi differenti, per rivendicare uno spazio sulla scena internazionale che, nel tempo, è andato sempre più assottigliandosi. Critici verso una società tecnocratica e improntata a un capitalismo disumanizzante, i poveristi inseriscono nella propria produzione riferimenti alla natura, lavorano sul tema dell’origine, ragionano sulla materia, segnano il passo con azzardi concettuali e performativi, risultando in realtà sovente recalcitranti ad essere assimilati a quell’agonismo politico agitato da Celant, e accomunati da una “povertà” che è attitudine al primitivo, rigore, “aspirazione a uno sguardo radicalmente diverso” (Stefano Chiodi, Politica dell’Arte Povera, in Flash Art. Si veda anche l’articolo di Nicholas Cullinan from Vietnam to Fiat-Nam. The Politics of Arte Povera, uscito su October 124, 2008).

 

Lo scenario che segue il dopoguerra, con il boom economico e lo gnommero delle relazioni tra Stati Uniti e Italia, è il terreno dove si combatte una vera guerriglia, dove “tentare una decomposizione del regime culturale imposto” e sfidare l’egemonia culturale atlantica. Gli Stati Uniti, rei di aver ingaggiato il sanguinoso conflitto in Vietnam, esportano intanto i campioni dell’Action Painting e della Pop Art, con un Robert Rauschenberg glorificato dalla Biennale del 1964. Il cono d’ombra in cui si trova l’Italia ospita un humus in grado di fertilizzare ricerche eterogenee, che vengono intercettate e raccolte sotto il cappello dell’Arte Povera: un contenitore che oggi, maliziosamente, possiamo dire essere stato funzionale al marketing dell’arte e che, a distanza di cinquant’anni, è stato rimesso in discussione, superando l’ortodossia critica che per lungo tempo ne ha indirizzato la lettura in maniera pressoché univoca (si veda in merito Michele Dantini su Artribune) e ridimensionandone il coinvolgimento politico (con buona pace dello stesso Celant). 

 

Mario Merz, “Igloos”, veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2018. Courtesy Pirelli HangarBicocca, Milano Foto: Renato Ghiazza © Mario Merz, by SIAE 2018


Nel vortice che investe il mondo culturale a metà degli anni ‘60, Mario Merz è l’autore più anziano e una delle figure di spicco della koinè dei poveristi (prendo a prestito una felice definizione di Bruno Corà). Merz arriva a Torino da Milano per studiare medicina ed entra nel gruppo antifascista Giustizia e Libertà nel 1945, alimentando la sua visione politica attraverso la lettura di Gramsci e Marx: partigiano, verrà condannato a un anno di detenzione nelle Carceri Nuove, un evento che segnerà un momento cruciale nella la sua esperienza artistica. Lì incontrerà Luciano Pistoi (che aprirà poi la galleria Notizie) e sfrutterà la parentesi carceraria per sperimentare disegni con la tecnica del tratto continuo, già approcciati durante la prima giovinezza. Si forma da autodidatta, concentrandosi in prima battuta sul disegno e aprendosi alla pittura anche grazie al confronto con Mattia Moreni e Luigi Spazzapan, due “outsider” della scena artistica dell’epoca, guardando poi all’informale, a Jackson Pollock, ma anche a Jean Dubuffet e Jean Fautrier. La sua pratica artistica è segnata da una visione critica della società consumistica contemporanea, ed è influenzata dal Situazionismo, presente nell’area torinese nella figura carismatica di Pinot Gallizio, ma anche dalla tradizione pittorica che arriva fino a Francis Bacon. Nel suo lavoro si rinvengono le impronte degli interessi scientifici che lo accompagneranno durante il corso di tutta la vita: si impegna in una ricerca approfondita sulle forme organiche della natura, affidandosi a una linea labirintica che compone composizioni dense e caotiche, una ricerca che si evolverà fino ad approdare da un lato alla tridimensionalità dell’installazione, e dall’altra a una pittura mai realista e mai pacificata. “Merz, using himself as a sensitive needle, tries to draw a map in which the archetypes of the individual’s feeling and living solidify as they move through differentiated territories.” (G. Celant, Mario Merz, catalogo della mostra, Solomon R. Guggenheim Museum, 1989, pag 19)

 

Nel suo tentativo di tracciare una “cartografia nomade”, Merz si imbatterà nella forma ancestrale dell’igloo, in cui individuerà il paradigma dell’abitare, la “casa archetipica”, secondo la sua stessa definizione, un forma primaria di assoluto interesse, un modulo su cui continuerà a investigare nel corso dei decenni; in pittura, porterà avanti una figurazione caratterizzata da un simbolismo selvaggio, dove animali, piante, oggetti, figure si susseguiranno in una vertigine metamorfica. Un flusso continuo la sua produzione, animata da una pulsione che nel lavoro installativo trova una regola e che nella pittura sfocia invece in un dramma rappresentativo che la rende esasperata e, in alcuni passaggi, titanica. 

 

Mario Merz, “Igloos”, veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2018. Courtesy Pirelli HangarBicocca, Milano Foto: Renato Ghiazza © Mario Merz, by SIAE 2018


Il complesso dei trentuno igloo installati presso l’Hangar Bicocca può essere letto a posteriori come un efficace compendio della ricerca di Merz. Pur non esaurendo la sua vasta produzione, ne rappresenta una porzione significativa, sia dal punto di vista contenutistico che formale. Come nel caso della mostra dedicata agli ambienti spaziali di Lucio Fontana, con cui mantiene un filo rosso. Del resto Merz guarda a Fontana e ne spinge alle estreme conseguenze alcuni portati, facendone propria l’intuizione dinamica, reinventando il neon che da gesto di luce si trasforma in una forza che attraversa la materia, la anima e agisce come un connettore tra le parti, riavvicinandola alla sua natura fenomenica. Due idee di luce diverse, quelle dei due artisti, una relazione con il tempo dissimile: Fontana proteso su un vuoto metafisico, spalancato oltre la materia, Merz signore di “due tempi che si incrociano”, oscillante tra una presenza arcaica, pre-umana e un alter-reale, una contingenza che si offre allo spettatore come ipotesi strettamente legata al presente ma ad esso affiancata, come un vita parallela: più astratta, carica di simboli, asciugata da ciò che è superfluo, è percorsa da una forza primordiale che la rende nevrile eppure includente, tesa ad accogliere piuttosto che a discriminare, germinale.

 

L’albero m’è penetrato nelle mani,

La sua linfa m’è ascesa nelle braccia,

L’albero m’è cresciuto nel seno

Profondo,

I rami spuntano da me come braccia.

 

Ezra Pound

 

Mario Merz, “Igloos”, veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2018. Courtesy Pirelli HangarBicocca, Milano Foto: Renato Ghiazza © Mario Merz, by SIAE 2018.


Il percorso espositivo si apre con Igloo di Giap, rifacimento del 1970 di un’opera concepita nel 1968. Si tratta di una variante del primo igloo realizzato dall’artista, che riecheggia nel nome quel Giap, icona dei movimenti studenteschi rivoluzionari, che proprio nel marzo del 1968 ingaggiavano gli scontri di Valle Giulia. La struttura metallica è ricoperta direttamente con argilla, sopra la quale campeggia la scritta al neon che riporta la celebre frase del generale vietnamita Võ Nguyên Giáp “Se il nemico si concentra perde terreno se si disperde perde forza Giap”. 

 

L’igloo apre una strada nuova, in cui finalmente concretizzare un’arte fatta di relazione con lo spazio, dove la provvisorietà diviene utopia tradotta in materia. Le forme spiraleggianti, che trovano corrispondenza nella morfologia naturale, abitano  l’immaginario di Merz e lo guidano dalla carta all’installazione, traghettando la sua ricerca verso un territorio di opportunità inesplorate. La spirale, che contiene in sé la progressione numerica di Fibonacci (oggetto di indagine che verrà introdotta nelle opere a partire dal 1970), si traduce nella circolarità dell’igloo, una forma abitativa che vive di una felice coincidenza degli opposti:“L’igloo stesso è una situazione in sospeso, in quanto come oggetto è in sospeso, i materiali stessi sono in sospeso”(G. Celant, Intervista, Genova, 10 marzo 1971, in Mario Merz, Mazzotta, Milano, 1983). Igloo come luogo che ripara ma si apre all’esterno, riparo stabile ma anche abitazione mobile, forma “leggera” ma architettonicamente perfetta e autoportante, monumento effimero. La scritta al neon, realizzata riproducendo la grafia dell’artista, invita lo spettatore a girare attorno all’asse dell’igloo, un esercizio di attenzione che richiama pratiche meditative e suggestioni orientali, un immaginario che dagli anni ‘60 aveva investito la cultura e la controcultura europee. 

 

Mario Merz, “Igloos”, veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2018. Courtesy Pirelli HangarBicocca, Milano Foto: Renato Ghiazza © Mario Merz, by SIAE 2018.


In questo primo igloo si rileva un’attitudine esistenziale più che politica, una cifra che investe tutta l’opera di Merz, intimamente legata alla relazione con l’umano. Non a caso la misura della scritta apposta sull’igloo è il passo, la forma quella della poesia visiva, un conclamato interesse di Merz, visibile ad esempio nell’igloo che riporta i versi dell’Ezra Pound dei Canti Pisani,Canto LXXXIV: «If the hoar frost grip thy tent / Thou wilt give thanks when night is spent – Se la brina afferra la tua tenda / Renderai grazie che la notte è consumata», e ancora nell’igloo del 1983 intitolato Hoarded centuries to pull up a mass of algae and pearlsSecoli ammucchiati per tirare su una massa di alghe e perle. L’invito rivolto allo spettatore è di fare esperienza di una parola che si materializza e partecipa a un processo di compenetrazione tra piani fisici diversi, dove l’idea diventa oggetto, poi azione, poi memoria e ancora oltre, in una concatenazione incessante. Dello stesso anno è anche Object cache-toi, dove Merz utilizza un altro slogan, stavolta proveniente dalle contestazioni studentesche della Sorbona, e utilizza dei “panetti” per ricoprire la struttura dell’igloo, come fossero mattoni.

 

Qui comincia a essere evidente quel tentativo di astrazione che è rintracciabile in gran parte del suo lavoro installativo e plastico, una tendenza a ragionare in termini di scomposizione rispetto alle forme e a mettere in dialogo forze antitetiche: “la pietra diventa più o meno pietra, il piombo diventa più meno piombo, la scrittura diventa elettricità”.

 

Si badi bene, Merz non è un’artista (puramente) concettuale, né indugia nel perseguimento di una linea analitica: la sua ricchezza risiede nel collocarsi in una posizione intermedia, tra figurazione e astrazione, dalla quale governa il caos agendolo attraverso la formulazione di un pensiero sintetico, nell’abbracciare la complessità, la molteplicità, l’impermanenza e la proliferazione cercando di inscriverle in un ordine generale. Pur essendo affascinato dai numeri, dalle leggi auree e dalle matrici, ne interpreta il senso alla luce di una cultura umanistica, trasformando il dato in uno strumento di indagine poetica della realtà, rifiutando la sublimazione dell’oggetto e la devozione al processo perseguita dal minimalismo con volontà eidetica. Un processo visibile in Igloo di Marisa (1972), dedicato alla moglie artista e presentato a documenta 5 a Kassel, dove all’igloo vengono apposte sette scatole di plexiglass, disposte a spirale, contenenti la sequenza di Fibonacci, ma anche in Auf dem Tisch, der hineinstösst in das Herz des Iglu (1974), in cui inserisce il tavolo, altro elemento che dal 1973 diverrà parte della sua poetica, sia in qualità di oggetto domestico e relazionale, sia per le sue qualità formali, elemento in grado di evidenziare le dinamiche spaziali delle opere, sfruttando l’evidenza bidimensionale e le traiettorie di penetrazione del piano per interrogare la sfericità della cupola e lo spazio architettonico in cui l’igloo è situato. 

 

Il tavolo, come il neon negli attraversamenti, e come la lancia, rompe gli equilibri e ingenera ulteriori processi dinamici in relazione agli igloo. Come nella pittura, nelle installazioni di Merz non esiste una condizione di stasi: tutto è in transito, in perenne movimento. Ecco allora la Tenda di Gheddafi (1981), una tenda “ventosa”, dipinta, dove la struttura regge la pittura e viceversa, dando vita a un vero e proprio dipinto tridimensionale, ma anche La casa del giardiniere (1983-84 + 1985), in cui le parti vengono modificate a seconda dell’esposizione. Un’opera alchemica quindi, dove trovano posto i numeri ma anche gli objects trouvés, le fascine, i rami, i giornali, la frutta, vetri rotti, sportelli di automobili, pietre: la natura di Merz è sempre culturale ed entra con prepotenza nelle opere, assecondando il tentativo di creare un teatro permanente, dove esterno e interno siano in continuo scambio e dove gli elementi provengano dal contesto in cui l’artista opera.

 

Mario Merz Senza titolo, 1985 Veduta dell’installazione, Fondazione Merz, Torino, 2009 Courtesy Fondazione Merz, Torino Foto: © Claudio Cravero © Mario Merz, by SIAE 2018


Sul rapporto tra Merz e l’architettura è stato scritto molto, ed è evidente, osservando la distesa degli igloo che punteggiano le navate altissime, quasi ecclesiali dell’Hangar, come il punto del suo operare non sia mai una riflessione sul linguaggio in sé, quanto piuttosto ciò che sta dentro un’architettura, un tentativo di porre di nuovo attenzione al contenuto rispetto al contenitore, come nel caso dell’installazione della serie di Fibonacci presso l’interno elicoidale del Guggenheim Museum di New York in occasione della mostra del 1971. Ventre, cupola celeste, struttura autoreferenziale, l’igloo è sempre significante, sia quando è in rapporto osmotico con l’ambiente in cui viene collocato, come nel caso dell’opera conclusiva della mostra La goccia d’acqua (datato 1987, è l’igloo più grande mai realizzato, esposto originariamente presso gli imponenti spazi del CAPC di Bordeaux), sia quando si chiude in sé, forma di separazione e raccoglimento, moltiplicandosi e compenetrandosi come in Spostamenti della terra e della luna su un asse (2003).

 

Oggi come non mai, la vista di questa “città irreale” ci riguarda da vicino, oggi che il nomadismo torna a noi non più in veste di sogno anarchico di un‘esistenza slegata dalle costrizioni borghesi, com’era nei '70, né come provocazione legata ai primi cybernauti di un web ancora agli albori, quei nuovi situazionisti che teorizzarono le TAZ (le zone temporaneamente autonome) degli ‘anni 90, sulla scia della cultura rave e di uno nuovo tribalismo tecnologico, ma piuttosto come evoluzione del nomadismo intrinseco alla società globale del nuovo millennio. Oggi è declinato nell’accezione di emergenza abitativa, e segna come un marchio di infamia le vite di chi è costretto alla precarietà, sia esso un migrante, un homeless, o semplicemente un individuo che si colloca sotto la soglia di povertà, incapace di soddisfare le richieste di un sistema economico che considera la casa un bene di lusso, contenitore dello status sociale più che dei bisogni essenziali dell’individuo.

 

Gli igloo di Merz sono architetture fondate nel tempo che sfondano il tempo e ci inducono a riflettere sui cambiamenti che hanno investito il nostro concetto di famiglia, di relazione, il rapporto con la natura e con la società, a partire dal nostro modo di abitare. Il cervo che si erge sulla cupola del maestoso Senza titolo (doppio igloo di Porto, 1998) sembra richiamarci a qualcosa che appare perduto, una coscienza di noi come parte di ecosistema in cui natura e cultura sono compenetrate e le cui leggi sembrano non appartenerci più. In questa smemoratezza, lo sguardo dell’animale, la sua tensione, raccontano una condizione di attenzione vigile, una capacità di essere nel flusso del vivere che l’opera di Merz ha indagato senza sosta, operando una mirabile sintesi fra linguaggi differenti, affidandosi con fede inscalfibile al potere dell’immaginazione. “Io devo fare delle operazioni per esistere”, dichiarava, e nella sua ostinata volontà di agire attraverso l’arte torna alla mente l’opera Che fare? (1968-73), composta da una scritta al neon che cita una frase di Lenin, inserita in una bacinella di metallo per cuocere il pesce. Forse lì, come negli igloo, è possibile rintracciare una domanda – non ha una risposta, attenzione – che può riportarci a qualcosa che si è offuscato e che è pienamente espresso nel lavoro di Merz: il valore della complessità, che scaturisce da qualcosa di piccolo e molto concreto. Una foglia, un animale, un gesto quotidiano come il sedersi a tavola e condividere il cibo, la scelta di un luogo dove abitare. Forme della concretezza che contengono spirali di senso, che ciclicamente dobbiamo tornare a interrogare. 

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Sarah Sze. Sovrapposizioni e opposti

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Ogni intervento di Sarah Sze (Boston, 1969) si colloca costantemente su una linea di confine, in perfetto equilibrio tra opposti. Anche nei lavori apparentemente più statici (come Blueprint for a Landscape, 2017, l’installazione realizzata nella stazione metropolitana 96th Street & 2nd Avenue di New York, dove sono presenti interventi anche di Vik Muniz, Chuck Close e Jaen Shin), simmetricamente coesistono le dicotomie interno-esterno, fragile-solido, effimero-permanente, leggerezza-consistenza. Nel 2003, Carolyn Christov-Bakargiev, per la collettiva “I Moderni” (Castello di Rivoli), individuò un gruppo di artisti delle ultime generazioni, tra cui Sarah Sze, perché accumunati dalla rimarcata sperimentazione formale, nonché dalla condivisione di quello stesso slancio che animò i Modernisti nella realizzazione di un’opera totale, e da uno sguardo rivolto sempre verso il futuro, per superare la disillusione del post-modernismo.

 

Sarah Sze.


Nel ricorrente tentativo di rispondere alle intime domande: “che cos’è una scultura? che cos’è un dipinto?”, le sue opere si collocano equamente tra scultura, pittura e architettura. L’artista costruisce le sue complicate installazioni, fondendo semplici elementi prelevati dalla vita quotidiana con oggetti industriali e urbani, attraverso la ponderata combinazione di diversi media. Costruzioni intricate, di cui ha dato titanica prova con Triple Point nel Padiglione Stati Uniti della 55^ Biennale di Venezia (2013), che ha occupato ogni ambiente, ogni angolo, travalicando i confini strutturali dell’architettura stessa, invadendo perfino lo spazio antistante il Padiglione. Un’apparente e ingannevole casualità camuffava il chirurgico rigore nella disposizione di oggetti diversi tra loro, quali libri, bottiglie, cartoline, foglie, sgabelli, decostruendo lo spazio per organizzare un ordinato microcosmo. Come lei stessa ha raccontato, nel corso di una conferenza, si è spesso domandata: “quale valore rimettiamo negli oggetti? Come possono questi accumulare valore? Come li valutiamo nelle nostre vite?”. Così, agli inizi della sua attività artistica, ha realizzato “cose” di uso comune con un rotolo di carta igienica: ciò ha definitivamente segnato il suo passaggio dall’architettura alla scultura. Perfino quando si confronta con la bidimensionalità di un quadro, per Sarah Sze esso non è mai una semplice stesura di colore, bensì un’attenta stratificazione di materiali e piani. Pratica adeguatamente replicata nei lavori presentati nella personale da Gagosian Gallery Roma. Composta da due distinte sezioni, tuttavia interdipendenti e l’una propedeutica all’altra. La prima con quadri, inondati di luce; l’altra con una grandiosa installazione, avvolta nel buio. Entrambe riferiscono non solo della ricerca d Sarah Sze, ma anche della sua attività artistica, nonché della sua consueta metodologia creativa. 

 

Opera di Sarah Sze.


Come abitudine della galleria, già all’ingresso è posto un lavoro Ghost Print (Half-life) che offre da subito le coordinate dell’intera esposizione. Un eccezionale “quadro” - le virgolette sono d’obbligo perché la stratificazione, anzi la concrezione di materiali (olio, acrilico, carta d’archivio, stabilizzatori UV, adesivo, nastro adesivo, inchiostro e polimeri acrilici, gommalacca, vernice ad acqua su legno), costruiscono una scultura a parete, che supera il collage tout court. Attraverso la giustapposizione di queste eterogenee materie, l’artista sembra attuare un procedimento simile e vicino ai Divisionisti e contrario agli Spazialisti. Solo una visione arretrata consente di vedere l’immagine completa, mentre, quella ravvicinata, fa cogliere solamente il singolo tratto, il singolo elemento; anziché scavare nella tela, per suggerire lo spazio che ingloba, compone uno spessore e una profondità che conquista lo spazio antistante. Un’intricata costruzione di cui è difficile identificare la successione, ma solo intuirne il passaggio temporale, seppure nella fissità di un’immagine astratta suggerita, cristallizzata, evocativa. Come per una scultura, anche per le sue sculture a parete, è necessaria l’osservazione pressoché circolare: la disposizione di più piani, invita a una visione non solo frontale, affinché si possano comprendere lo spessore e gli elementi aggettanti, per rintracciare e individuare i differenti strati e le varie modulazioni. Tecnica che si ripete anche negli altri quadri (White Light-Half life; First Time- Half life; Half Light- Half life; Pot of Fire- Half life e Dews Drews-Half life) allestiti negli ambienti del primo piano che precedono l’ampia sala ovale. È proprio questa forma che ha profondamente influenzato Flash Point (Timekeeper), l’estesa installazione immersiva che riempie completamente il vasto ambiente. Più che una lanterna magica, Sarah Sze crea un articolato daguerriano diorama, con il quale, come un suonatore di flauto, incanta e trattiene il visitatore.

 

Opera di Sarah Sze.


Delle tracce di vernice bianca gocciolata sul pavimento, fanno da cerniera tra i due spazi e segnano il passaggio tra le due dimensioni. Attraverso la sua forma, la larga sala immediatamente richiama alla mente dell’artista la struttura del Colosseo, organismo che per lei sorprendente perché presenta, nello stesso momento, sia l’interno che l’esterno. Al suo interno una delicatissima macchina crea un mondo fantastico, realizzato attraverso la somma di diversi piccoli microcosmi, una fantasmagoria di materiali e suggestioni. Una sapiente e raffinata meticolosità caratterizza le minuscole costruzioni che ricordano delicate sculture giapponesi, in parte illuminate da luci. Sono per l’appunto dei cenni, dei frammenti che costruiscono l’insieme, un insieme composto da elementi attinti dall’esterno fusi con quelli prelevati dalla sua vita privata, per un racconto generale e personale. Una macchina, simile a una giostra, gira su sé stessa illuminando di volta in volta particolari diversi, alcuni dei quali riflettono la propria sagoma sulle pareti, intrecciandosi con le immagini in movimento (come la superficie dell’acqua increspata o un volo di uccello), anche loro ruotanti sulle pareti. Quell’apparente caos è anche qui ordinato con estremo rigore, in cui ogni gerarchia è annullata con la creazione di diversi punti focali.

 

Opera di Sarah Sze.


Una relazione si instaura tra il visitatore e l’installazione, come parti di un ingranaggio, entrambi compiono una rotazione, o all’unisono o nel senso opposto: l’installazione, che ha definitivamente abbandonato la sua natura statica, avvicinandosi alle macchin’azioni tinguelyane, per compiere il suo giro temporale; il visitatore che, come un satellite, ruota per mirare la miriade di dettagli, offerti dai più disparati materiali (legno, acciaio, stampe a pigmento, ceramica, nastro adesivo) che, assemblati, danno vita a inediti marchingegni, in un apparente precario equilibrio che sfida costantemente la gravità, nel continuo tentativo di rendere eterno un istante. Almeno nel ricordo e nelle emozioni. Intento rintracciabile anche in Split Stone (7:34), l’opera esposta nella Crypta Balbi (fino al 27 gennaio 2019) dove, sulle superfici di un blocco di granito diviso a metà, simulando materialmente la fitta rete dei pixel, gli stessi che compongono la foto scattata col suo cellulare. Attraverso la sovrapposizione di strati di pigmenti, ha trasposto e fissato i colori di un tramonto, rendendo perenne un momento fuggevole.

 

La mostra di Sarah Sze resterà aperta fino al 12 gennaio 2019 presso la galleria Gagosian, Via Francesco Crispi, 16, Roma.

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