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Dare forma all’informe

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Di che cosa hanno bisogno gli artisti oggi? Cosa abbiamo bisogno di costruire noi tutti, come individui e come società? Per provare a rispondere a queste domande possiamo rintracciare alcuni indizi raccolti nella mostra La vita materiale. Otto stanze, otto storie, in corso presso le sale di Palazzo Leone da Mosto, prezioso edificio quattrocentesco nel centro di Reggio Emilia. 

 

È da un dialogo ideale con Jean Dubuffet. L'arte in gioco. Materia e spirito, 1943-1985, ospitata presso Palazzo Magnani di Reggio Emilia che prende il via l’esposizione a cura di Marina Dacci. Per l’occasione, le artiste Chiara Camoni, Alice Cattaneo, Elena El Asmar, Serena Fineschi, Ludovica Gioscia, Loredana Longo, Claudia Losi e Sabrina Mezzaqui sono state chiamate a realizzare degli “habitat” nei quali mettere a nudo la relazione tra arte e vita personale, focalizzando l’indagine sul sé attraverso proposte formali che esibiscono il proprio processo costitutivo. 

 

Otto stanze ma soprattutto otto habitat, perché il punto di partenza è ricreare – prendendo a prestito una definizione della biologia – le condizioni ambientali in cui un essere vivente trova una condizione favorevole al proprio sviluppo. Non siamo al cospetto di una collettiva consueta: non c’è un contenitore da riempire, né una tesi programmatica da illustrare; qui la piattaforma è altra, è un tavolo sgombro attorno al quale si sono sedute artiste differenti per storia, linguaggi, provenienza, poetica, che hanno preso parte a un’operazione nella quale si è data cittadinanza a ogni singola identità, ognuna delle quali ha concorso alla realizzazione di un edificio labirintico, in cui riannodare il filo di un fare artistico che si dispiega come pratica unitaria tra la dimensione privata del vivere e il riflesso che questa proietta sulla vita pubblica, in quella dimensione collettiva in cui si trova ad agire l’opera d’arte, una volta generata.

 

Ph Claudia Losi.

 

Via via che ci si addentra nel percorso espositivo, la dissonanza iniziale che coglie lo spettatore, che si confronta con mondi apparentemente privi di continuità, lascia spazio alla rivelazione di legami imprevedibili e più solidi. Ogni stanza apre a un territorio più vasto, nel tentativo di fotografare il macrocosmo dell’artista, e ogni stanza “sconfina” nell’altra, in un dialogo ininterrotto che stratifica la mostra; non si tratta di semplici installazioni, quanto piuttosto della condensazione di modus operandi, una via per approcciare la complessità della ricerca al di là della singola opera. Dacci, refrattaria alle logiche curatoriali precostituite, sceglie un approccio laterale, muovendo dall’assunto di pratiche che trovano un terreno comune nel ruolo dell’homo faber, nel ricorso a tecniche apparentate al mondo dell’artigianato, nell’impiego di materiali per lo più di recupero, o comunque di provenienza umile, marginale, sempre residuale. Il cardine della mostra è quindi la verifica di senso di un’operazione, una proposta più che un’asserzione, l’invito ad abbracciare una prospettiva dove il basso e l’orizzontale si sostituiscono all’elevato, al fine di riportare gli oggetti nel mondo, utilizzando il registro del declassamento per permettere alla forma di ricostruirsi e risignificarsi partendo da sé. Un processo che avviene in parallelo anche nell’io dell’artista, che si configura a partire dalla demolizione di una identità data, socialmente determinata e precostituita, e si ricostruisce in un individuo che agisce perseguendo una logica alternativa, in continuo divenire.

 

In questo territorio trova giustificazione il ricorso a registri linguistici e generi narrativi come l’ironico, il giocoso, il fantastico, il diario, lo stream of consciousness, che tendono a non essere mai dimostrativi (evitando quell’“alto”, cui si accennava prima), ma portatori di un grado di difetto, contaminati dalla presenza di germi di vita materiale che, come batteri, abitano il corpo delle opere. Proprio come avviene in molte pratiche craft, dall’arte della tessitura dei tappeti a certi tipi di ceramica, il difetto costituisce un segno che impreziosisce il manufatto, donandogli unicità e collocandolo in una dimensione temporale differente: l’imperfezione denota un accidente, un evento accaduto e che si ripete ogni qual volta il segno si presenta dinanzi agli occhi dello spettatore; grazie alla sua evidenza agisce come un memorandum, un taccuino in forma di segno, l’infinitesima porzione di una storia più grande. L’accettazione dell’errore diventa allora uno snodo cruciale: la smagliatura, lo sbavo, la cosa che si spezza, l’accidente, il non finito propongono un alfabeto nuovo per i tempi correnti, una confutazione delle logiche prestazionali a favore di un’esperienza che apra uno “spazio di immaginazione” (rimando qui a un approfondimento sul tema della compassione di Anna Stefi), che ci conduca verso l’incontro con l’altro.

 

Nell’antologia di tecniche differenti che si dispiegano in mostra – il ritaglio, la tessitura, il disegno, la scultura del metallo, la modellazione, la pittura, la stampa, il collage, il tachisme (si potrebbe continuare a lungo, seguendo il piacere della vertigine tassonomica), l’esercizio dell’attenzione investe le singole pratiche della artiste, ne illumina il fare e le avvicina. Esiste una forma di comprensione che si attua solo attraverso il lavoro manuale, un apprendimento in divenire guidato dalle mani, come indicano le opere che compongono il complesso espositivo, e che riafferma l’idea di “tecnica considerata non come procedimento svincolato dal pensiero, bensì come questione culturale” (Richard Sennett, L’uomo artigiano, Feltrinelli, 2008). La cosiddetta “embodied knowledge” o “abilità, quella capacità pratica ottenuta con l'esercizio” (ibidem) qui riafferma la propria centralità all’interno della costruzione di un pensiero che si apra al mondo, un agire investito da un “rivolgere l’animo a”, per recuperarne la radice etimologica del lemma. Attenzione intesa come permeabilità del soggetto stesso all’oggetto, qualcosa di paragonabile a una forma di meditazione, a uno svuotamento di sé per ritornare a sé, recuperando le riflessioni di Simone Weil. Benché al di fuori di un orizzonte spirituale, il sé trova legittimazione in qualità di strumento di indagine, si fa soglia da attraversare, per un movimento oscillante, di andata e ritorno, per portare alla luce una verità non assoluta, non metafisica, ma calata nella finitezza del mondo. 

 

Tornando alle domande iniziali, tra le risposte possibili ce n’è una che sembra emergere dalle ricerche raccolte nella mostra, ed è la necessità di tornare a fare comunità. Il sistema dell’arte soffre, come altri macrosistemi sociali, di un solipsismo che molti segnali sembrano voler confutare. L’affermazione di forme relazionali, il desiderio di sviluppare realtà collaborative e format aperti, la crescita del terzo settore sono sintomi di un bisogno evidente di ricostruire un tessuto sociale sfilacciato che riverbera nell’attività degli artisti. In questa prospettiva, il rientro sulla scena pubblica e politica dei movimenti delle donne segna un passaggio storico importante, portando in primo piano un patrimonio di sapere e di posture che a lungo è stato considerato irrilevante rispetto alla costruzione di un orizzonte sociale. Oggi questo patrimonio si offre come possibile alternativa a scenari consunti, offrendo strumenti di intervento sul reale in grado di offrire un concreto cambio di paradigma rispetto alle strutture consolidate delle società del cosiddetto realismo capitalista. Se l’arte ha la capacità di anticipare e riverberare ciò che accade nel mondo, l’invito che le artiste rivolgono allo spettatore è quello di stare nelle “cose basse” e da esso partire alla scoperta di un potenziale totalmente trascurato ma gravido di opportunità. Per fare ciò, si impone la necessità di uno sforzo visivo e l’acquisizione di un approccio fattuale: bisogna organizzare il tavolo di lavoro, scegliere con cura i materiali, sottoporre il progetto a costante verifica nel suo farsi, annotare gli errori, proseguire. Poi, ricominciare. Si tratta di abbracciare un metodo e la mostra ha il pregio di offrire allo spettatore non solo un prodotto formale quanto la messa in luce di un processo che ha valore in sé. Ecco quindi perché la rinuncia al testo critico per realizzare un non-catalogo, un diario edito da Gli Ori nel quale ogni artista ha trovato lo spazio per consegnare le proprie riflessioni libere sul tema arte-vita. 

 

Se vogliamo infine rinvenire un’intenzione nella mostra, è quella di confutare un approccio distratto allo sguardo, il rifiuto di una sciatteria nella relazione tra spettatore e artista, il desiderio di mettere in atto una strategia finalizzata a un’ecologia dell’attenzione. Dove solitamente allo spettatore viene somministrata una proposta predefinita, dominata da una lettura univoca, qui esso viene incoraggiato a perdersi, a rinvenire percorsi, tracce, passaggi segreti e consonanze, a farsi sorprendere da idiomi differenti che trovano il modo di comunicare tra loro.

 

Attraverso la messa in evidenza di tutte quelle pratiche che, recuperando una dimensione tecnica attinente alla materia e alla cultura manuale, la investono oggi di un nuovo senso, superando sia il fine esclusivamente produttivo del lavoro meccanico (quello dell’animal laborans), sia la dimensione essenzialmente funzionale dell’artigianato nell’unicità dell’operazione artistica, assistiamo alla costruzione di un pensiero relazionale guidato dalla mano, da quella mano che è “finestra della mente”, come indicato da Kant, che ci consente di applicare uno “sguardo aptico” sulle cose.

 

Qui di seguito, otto brevi note relative alle stanze in mostra, in ordine sparso e non gerarchico. 

 

Ph Sabrina Mezzaqui.


Sabrina Mezzaqui | disciplina dell’attenzione

Al centro della stanza si staglia un albero da cui pendono centinaia di fiori realizzati a mano: sono cinquecento disegni, ognuno ritagliato e intelaiato, accompagnati da un video senza sonoro. L’opera si intitola Fare fiori (2017) ed è stata realizzata da Mezzaqui raccogliendo i disegni prodotti dalla madre e dandogli una seconda vita. I fiori appesi ai rami dell’albero si muovono al passaggio degli spettatori, si dischiudono a una vita delicata e tenace che si manifesta attraverso il segno ripetuto della mano che reitera un modello, parlano di relazioni umane e di sentimenti potenti, come le memorie comuni, la caducità del tempo, i legami familiari. Una mano che è anche quella di Mezzaqui, che copia come un’amanuense su un quaderno ricamato i passi di Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf (Nella stanza [V.W.], 2012) e ritaglia le parole nivee, sospese, di Simone Weil (Disciplina dell’attenzione [S.W.], 2016), e poi sparge petali di carta rossa che sembrano essere stati soffiati dal vento fuori dalle pagine di uno dei suoi quaderni (Appunti per piccola autobiografia del rosso, 2018). Le parole, nel lavoro di Mezzaqui, radicano, germogliano nella vita quotidiana, si fanno trama vegetale, si innalzano come alberi, si dischiudono come fiori e si protendono come foglie, escono ed entrano dalle pagine di carta, costruiscono una fitta relazione tra letteratura e pratica quotidiana, tra lavoro manuale e intellettuale, tra mondo interiore e esteriore. Il libro, elemento simbolico attorno al quale ruota tutta la sua ricerca, è oggetto doppiamente prezioso, nel suo essere contenitore e strumento attraverso il quale acquisire il sapere, sia come manufatto frutto di specifica sapienza artigianale.  

 

Ph Chiara Camoni.


Chiara Camoni | gli immediati dintorni

Come di fronte a delle rovine, come uno scavo, le fondamenta dell’edificio immaginato da Chiara Camoni segnano una planimetria di un non-abitare, dove materiali di scarto dell’industria marmifera, recuperati dal letto di un fiume che scorre in Versilia, tornano ad avere un ruolo. Pietre lavorate dall’uomo, poi gettate, poi di nuovo lavorate dal fiume, che le leviga e le restituisce come nuove forme re-naturalizzate. Sulle pareti, sete impalpabili appese che si animano al passaggio dei visitatori: sono i Senza titolo Untitled (Winter e Autumn, 2017), stampe vegetali su seta, sorta di sindoni su cui rimane impressa la traccia di fantasmi, spiriti della natura impressi attraverso un processo altamente casuale di stampa attraverso foglie morte e residui vegetali recuperati nel giardino della casa dell’artista. L’evento effimero e non pienamente controllabile si sposa con la relazione con il paesaggio naturale e con l’altro, in una forma di reciproco riconoscimento: lo sguardo diventa empatico e l’atto diviene forma della scoperta. Coltivare la prensione, la capacità della mano di afferrare, un fenomeno che comporta la formulazione del pensiero prima che il tatto comunichi al cervello l’acquisizione dei dati sensoriali; affidarsi alle dita per giungere alle soluzioni; prendersi cura di ogni singolo elemento scultoreo e collocarlo in una dimensione temporale che scaturisce dal paesaggio che l’opera e l’ambiente definiscono, stare nel flusso della vita materiale, del quotidiano, lasciando che il momento della creazione si manifesti e assecondarlo, seguendo il corso della necessità e il ritmo antico, misterioso di ciò che è.

 

Ph Loredana Longo.


Loredana Longo | float like a butterfly, sting like a bee

Nella sua elegia della distruzione, Longo costruisce un teatro-palestra, dove feticizza l’estetica militare per poi irriderla e demolirla, contemplandone il crollo. Un sacco da boxe, realizzato in ceramica, campeggia al centro della scena: nel video della perfomance Golden Heel (2018), Longo lo utilizza come un sacco da allenamento vero, prendendolo a pugni per poi trafiggerlo con una scarpa da donna dorata, con il tacco a stiletto. Sul fondo della stanza, un drappo nero in lurex – lo stesso materiale degli accappatoio dei boxeur – copre le finestre e inquadra una quinta: su di esso è ricamato il celebre motto di Muhammad Ali Float like a butterfly sting like a bee, che dà il titolo alla stanza; sulla sinistra campeggia Fist (2017), un’infilata di pugni di ceramica dolce inseriti su una rastrelliera, modellati sulla mano dell’artista e poi fatti esplodere; sul lato opposto Tirapugni&champagne (2017) un gioiello su cui sono incastonate le schegge di vetro di una bottiglia di champagne infilato in un blocco di cemento.

La fascinazione per la distruzione si sposa nell’habitat di Longo con l’evocazione di un immaginario virile, tutto orientato alla forza e al controllo. I parafernalia tipici dei regimi dittatoriali e l’immaginario muscolare della palestra si fondono per essere poi demoliti: Longo non ha un fine vendicativo, non cerca una catarsi femminista quanto la celebrazione dell’energia che si libera nel momento del collasso, quando la materia tracolla attraverso un’azione dirompente. C’è una sorta di follia controllata nella volontà di utilizzare la violenza e disinnescarne il potenziale negativo appropriandosi della sua energia, un desiderio demiurgico di rifondazione del mondo che rimanda agli archetipi del caos appartenenti al mito e insegue la possibilità di una trasmutazione continua della materia, delle cose e del pensiero, anche quando questo implica la perdita o la sparizione dell’opera d’arte, a favore di un lascito immateriale, un’idea potente, più forte della materia.

 

Ph Alice Cattaneo.


Alice Cattaneo | unico raccogliersi dell’ombra nella valle

Nell’universo di Alice Cattaneo il caos è strettamente sorvegliato. Cattaneo entra nello spazio e ragiona sui vuoti, calcola il ritmo della stanza affrescata, apprende gli interstizi e porta alla presenza le sue composizioni scultoree. Annota dettagli apparentemente irrilevanti, instaura relazioni di ascolto profondo dell’ambiente, crea nuovi spazi dentro gli spazi (Il lavoro tra i lavori, 2018). A Palazzo da Mosto la stanza affrescata riverbera negli elementi realizzati in vetro pieno di Murano, un solido che ha una consistenza allo sguardo di scioglievolezza, si riflette nei metalli e nelle ceramiche, si tende sui fili di cotone degli Untitled (2017). Le antinomie trovano un equilibrio momentaneo, e sempre il lavoro di Cattaneo sembra a un passo dal fallimento. La sua ricerca segnata dalla contraddizione la conduce su un crinale, in una continua battaglia contro la scultura: forzarne i limiti, accostare materiali non affini, tradire il rigore geometrico e l’esattezza della composizione sono tappe di un processo di verifica della tenuta del linguaggio che non permette sconti, eppure si concede una sottile ironia, indugia nell’effimero e si cimenta nell’edificazione di strutture “inutili”. La semplicità dei materiali viene sublimata in composizioni ritmiche, che si collocano in uno stato di transitorietà, in una perenne tensione tra la condizione della materia e un possibile accadimento che trasforma gli assemblaggi in monumenti all’incertezza.

 

Ph Serena Fineschi.


Serena Fineschi | del sublime difetto

Tutto è pittura. In questa stanza, dove non c’è neanche un dipinto in senso stretto, tutto parla di pittura. Il primo indizio è rappresentato dai due volumi posati a terra, dedicati a Duccio di Boninsegna e Ambrogio Lorenzetti, due numi tutelari per l’artista, e un cioccolatino poggiato sopra, una “nota” che richiama un lavoro in cui Fineschi omaggia la grande pittura senese realizzando tele dal sapore suprematista. Un appunto che rimanda alle origini, all’orizzonte visivo della sua formazione e alla sua attuale ricerca.

 

C’è qualcosa di sorprendente nella capacità di controllo di Fineschi, artista in grado di maltrattare i materiali e ottenere in cambio delle opere di grande equilibrio formale, nelle quali la dimensione lirica e l’utilizzo spregiudicato di materiali residuali convivono in un miracoloso equilibrio dinamico. Ne sono un esempio la carta abrasa e violentata di Landscape (L'Empire des Lumières, 2013-2018), maltrattata eppure così composta, con le trasparenze dovute all’usura che quasi sembrano velature di grafite o macchie di colore; il dittico Storm, 1, 2, (The Final Match), Trash Series, (2018), realizzato prendendo letteralmente a pallonate la tela fino a ottenere, quasi per una beffa, una sorta di cielo nebuloso, o in Sotto il cielo di Seurat (Gli Amanti), Trash Series, sempre del 2018, dove una “stellata” di chewing gum appiccicati al soffitto – che rimanda il pointillisme del maestro francese – sovrasta una vecchia coperta di lana, oggetto legato alla storia familiare dell’artista, sui cui è sparpagliata una manciata di caramelle leccate. Frammenti di vissuto personale, istanti inafferrabili, oggetti comuni concorrono a una messa in discussione dello stato delle cose, alimentando l’ansia di rivelare ciò che sta dietro al velo delle apparenze, la sostanza inafferrabile del tempo che scorre e del nostro abitarlo.

Il chewing gum di About Decadence approximate taxonomy , Trash Series, 2018, metafora di un’esperienza di consumo senza assimilazione, paradigma consumistico, diventa un orizzonte, si fa paesaggio della memoria (una memoria in continua mutazione come la materia, condannata all’impermanenza) riempiendo la stanza di un profumo che riporta subito all’infanzia. Ed è alla dimensione dell’infanzia che fanno capo la rabbia e la poesia che abitano i lavori di Fineschi, che si accanisce sfinendo i materiali, che le restituiscono una bellezza quasi insensata, come a dimostrare una saggezza superiore, un sapere delle cose che si manifesta quasi come consolazione, come una grazia che – se gli dei non fossero morti molto tempo fa – potremmo dire divina.

 

Ph Claudia Losi.


Claudia Losi | quel che dice la mia forma

Il mondo di Claudia Losi è multidisciplinare e affetto da una curiosità enciclopedica. Il suo sguardo è rivolto a territori come le scienze naturali, la biologia, l’antropologia, il suo agire essenzialmente un atto di tessitura, volto a riunire frammenti da cui far scaturire storie collegate l’una all’altra, che si dispiegano come onde nel corso degli anni (si pensi al Balena Project, opera proteiforme sviluppatasi nell’arco di oltre un decennio). Il rapporto con il cucire, pratica ancestrale del femminile, è nel suo lavoro sia reale che simbolico: tessere e raccontare sono saldamente unite, le mitologie che giungono prima della storia, le favole e i testi sacri ce ne rammentano il magistero. Il tessuto e la parola si uniscono per esempio nel maestoso What my Shape Says Cosa dice la mia forma (2016) che accoglie i visitatori sopra lo scalone di ingresso: una struttura dove strisce di tela dai diversi toni dell’incarnato riportano i messaggi scritti da centinaia di donne sul tema del corpo, così da comporre una enorme “medusa”, in grado di proteggere e accogliere lo spettatore. 

 

Sui tavoli da lavoro presenti nella stanza, trovano collocazione disegni figurativi (inusuali per Losi) sul tema della conchiglia, rappresentata nella sua cruda evidenza organico-genitale (Shells, 2018), lastre di marmo con incise delle farfalle e Beating Wings_Making Words, 2014-2017, video installazione anch’essa dedicata alle farfalle. Specularmente, sono disposti i disegni realizzati da dieci madri con i loro bambini, coinvolte in un progetto di assistenza sociale dedicato a famiglie fragili, nato come prosecuzione di What my Shape Says Cosa dice la mia forma chiamate a rappresentare i loro corpi: disegni quasi elementari, la cui essenzialità appare sotto una veste dolorosamente nuova alla luce della relazione di un’assistente sociale di cui viene riportato uno stralcio. Forme di case, forme di corpi quasi sempre socialmente inadeguati, mentre la natura essere più assennata; gusci, zavorre, protezioni, armature, bozzoli, conchiglie, la morfologia del femminile e il tentativo di comprendere la ratio profonda inscritta nella forma.

 

Ph Ludovica Gioscia.


Ludovica Gioscia | psychic residue

La psichedelia di Gioscia travolge lo spettatore e lo proietta in uno spazio che segue regole proprie, dai molteplici piani temporali e dalle infinite stratificazioni. Lavorando sulle superfici, Gioscia accumula, sovrappone e fa coesistere elementi disparati, creando un multiverso in cui gli elementi coesistono e sono in costante trasformazione. 

 

La stanza si apre sulla riproduzione del “muro magico” appartenente al suo studio (Magic Wall, 2018), sorta di notebook gigante su cui dipingere e annotare, in cui sono inseriti altri pezzi (come Temporal Tablet 4 e Trafamaldore Dust) e vera e propria opera aperta; appesi a binari scorrevoli ci sono due serie di lavori: i “portali” (The Portals), membrane di tessuto attraverso cui varcare le dimensioni spazio temporali e i camici da scienziato pazzo (Mad Lab Coats), lavori indossabili che si ricollegano alla storia familiare dell’artista e all’interesse verso la fisica intesa come scienza immaginifica, sperimentale e giocosa, eredità familiare rielaborata all’interno della sua ricerca; in fondo alla stanza è collocata Telepathic Landscape (2018), una pedana composta da strati di oggetti e materiali difformi, che spaziano tra i nastri analogici delle sedute spiritiche di famiglia e forme di cartapesta, ritagli di giornale, cosmetici, avanzi, tessuti, oggetti d’affezione che concorrono a comporre una “mappa telepatica”. L’apparente anarchia che governa il mondo lisergico di Gioscia sottende un approccio colto e analitico alla fenomenologia degli oggetti, nonché le loro implicazioni sociologiche. È una ostensione di residui psichici quella messa in scena, la presa d’atto di un flusso di coscienza che lascia l’intimità dell’io per abitare il mondo, anzi per infestarlo come presenza pervasiva, le cui tracce non possono essere cancellate ma solo accumulate, una sull’altra, affastellando il nostro spazio mentale, saturato di memorie private ed estranee, amplificate attraverso i media digitali. Un mondo dove la consequenza temporale è saltata e passato, presente e futuro si influenzano e si modificano reciprocamente, dove ci ritroviamo inchiodati all’impossibilità di dimenticare come tanti Ireneo Funes borgesiani, soffocati dail’infinità di dati che il favoloso mondo industriale prima e digitale poi ha raccolto e ci rovescia addosso, oggi e per ogni giorno a venire.

 

Elena El Asmar | l’esercizio del lontano

Per una strana associazione di idee, il lavoro di Elena El Asmar riporta alla mente le visioni filmiche di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi. Lavori lontanissimi, eppure una specifica qualità di nostalgia come movimento di deriva emerge sia dalle archeologie cinematografiche del duo, sia nei miraggi di El Asmar. Deriva da intendersi come letterale trascinamento di un corpo immerso in un liquido, visioni che illudono, che si appalesano, poi si rivelano sempre dalla doppia natura, instabili. Uno slancio verticale le anima e le spinge verso l’alto, come se l’intento dell’artista fosse essenzialmente architettonico: edificare un palazzo mentale dove trovare dimora, ammirare una città immaginaria che si staglia in un orizzonte domestico e tende verso un altrove mitico (che trova origine nei ricordi di una duplice appartenenza culturale in L’esercizio del lontano, 2010-2018), trasformare in un talismano personale la sagoma di un palazzo mediorientale ricavato da qualcosa di minimo come gli adesivi per la nail art e applicarlo su una vetrata per giocare con i piani di realtà (Vedute d’insieme, 2012-2018); comporre un velario con migliaia di palette di plastica per il caffè, una cosa fatta di niente eppure così formalmente ineccepibile da imporsi e risuonare con l’architettura del palazzo (Vespertine, 2006-2018, visibile sopra uno dei due ingressi della mostra). Poetica del piccolo, di ciò che resta, cartografie di un altrove che si rivela inconoscibile eppure familiare, come in Arioso Operoso (2018), dipinto su raso di cotone nero, opera pittorica dove il nascondimento della materia originale attraverso una lavorazione che rimanda quasi alla scrittura automatica conduce alla rivelazione di un paesaggio misterioso, una rêverie in cui gli oggetti perdono parte di sé per acquisire nuove narrazioni, identità ibride, stati temporali e geografici indeterminabili.

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L’arte in gioco. Dubuffet a Reggio Emila

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I muri li si guarda poco. I passanti procedono, li sfiorano, non li osservano. Ogni tanto, però, qualche artista smette di camminare (bisogna fermarsi per guardare un muro) e c’è una scoperta. Fu Leonardo a parlare con un certo pudore (“benché paia piccola e quasi degna di riso”) di questa “invenzione di speculazione”: “se tu riguarderai in alcuni muri imbrattati di varie macchie o in pietre di vari misti (…) potrai lì vedere similitudini di diversi paesi, ornati di montagne, fiumi, sassi, alberi, pianure grandi, valli e colli in diversi modi; ancora vi potrai vedere diverse battaglie ed atti pronti di figure strane, arie di volti ed abiti ed infinite cose”. Del resto, in Occidente, persino il mito fondatore dell’arte è legato a un muro: racconta Plinio il Vecchio che la figlia di Butade, un vasaio di Corinto, innamorata di un giovane che stava per partire e intraprendere un lungo viaggio, ne tracciò il profilo su un muro seguendo l’ombra proiettata da una lucerna; così il padre ne ricavò un fedele ritratto in argilla.

 

 

Con un po’ di pazienza si potrebbe tentare, dopo questi singolari esordi, una storia degli osservatori di muri (ne esistono più di quanto si direbbe). Senz’altro, e a pieno diritto, dovrebbe comparirvi anche Jean Dubuffet (1901-1985), che tra 1945 e 1950 licenziò una serie di litografie intitolata appunto Les murs, a illustrazione dei versi di Eugène Guillevic. L’opera è presente nella mostra dedicata all’artista a Palazzo Magnani, Reggio Emilia: Jean Dubuffet (1901-1985). L’arte in gioco. Materia e spirito 1943-1985, a cura di Martina Mazzotta e Frédéric Jaeger.

 

 

Muri macchiati, graffiati, sporchi; pietre consunte, intonaci sbrecciati. Non si tratta tanto di muri di case, dato che spesso ne vediamo il margine superiore, e uccellotti che vi si posano; l’erba a volte vi cresce sopra. Sono forse recinzioni di periferie, che bordano indefinite proprietà private e terreni non coltivati. Sagome di passanti quasi si confondono con i muri scrostati; uno parla da solo, bocca aperta e lingua all’insù. Poche affissioni, incisioni a non finire: iniziali di amanti, una data, qualche disegno osceno, scarabocchi, scritte incomprensibili. Un uomo piscia in un angolo, e lo fa anche un cane senza padrone. In un’altra litografia due tipi la fanno insieme contro il muro; uno dei due guarda sghignazzando verso di noi, mentre più in alto si intravvedono compatte case lontane. 

Quello che conta qui non è descrivere un atto impudente o sgradevole; una sessantina d’anni prima, verso la fine dell’Ottocento, un esponente del movimento delle Arts Incohérents aveva raffigurato una situazione analoga: un ragazzaccio piscia su un muro e nello stesso tempo disegna la faccia di qualcuno (un ufficiale prussiano?) sull’intonaco. Ma qui al massimo siamo davanti a un’innocua sfacciataggine, niente del tanfo, dello sporco, dei ghigni che occupano le litografie di Dubuffet.

 

 

Al centro della scena, insomma, sono proprio i muri; quel sovrapporsi di macchie, incrostazioni, fenditure che alla fine degli anni ’50 dovettero suggerire a Dubuffet le Texturologies. E poi le scritte e i disegni che sui muri dei quartieri periferici si inframmezzano agli intonaci scalfiti, alle loro stratificazioni: chi scarabocchiava allora sui muri non usava colori, ma incisioni, realizzate non si sa con quale punta. Pochi anni prima della ventata futurista, Giacomo Balla in Fallimento ci aveva messo davanti un muro a finti conci e una porta chiusa che i soliti monelli avevano usato come lavagna per incidervi in nomi di una ragazza, e altri ghirigori indecifrabili. 

 

 

Dagli anni Trenta, anche il fotografo Brassaï aveva cominciato a scattare foto dei muri di Parigi, che confluirono più tardi nel libro Graffiti (1961); foto che in parte, come ricorda Martina Mazzotta nel catalogo della mostra, non a caso entrarono anche nei Cahiers de l’art brut curati da Dubuffet.

 

 

Ai muri Dubuffet non rinuncerà neanche più tardi, dopo le litografie a commento del componimento di Eugène Guillevic: nel febbraio 1957 esegue lo straordinario Obscur théâtre au pied du mur, un assemblage di impronte; nei primissimi anni ’60 inquadra alcune vie di Parigi (in mostra Ostracisme rend la monnaie, 2 maggio 1961 [Ostracismo dà il resto]) in una doppia prospettiva dall’alto e di fianco, così che gli riesce di farci vedere le vetrine dei negozi e soprattutto le scritte delle insegne e della pubblicità. E, insieme, è possibile rivedere i profili e le facce che erano comparsi in Les murs del 1945-1950: guance rosse, nasoni, occhi scentrati, sghignazzi di guidatori di utilitarie.

Sì, perché il volto è un tema ricorrente in tutta l’opera di Dubuffet: nell’esposizione reggiana compaiono le fragili pagine di Portraits, il catalogo della mostra che l’artista aprì alla Galerie Drouin di Parigi (1947), pagine fitte di testi e di “ritratti sparuti, ispidi come istrici, dei compagni di via” (come scrive in catalogo Renato Barilli); tra gli altri, ecco infatti Antonin Artaud, Jean Fautrier, Henri Michaux; qua e là scritte come queste: “le persone sono molto più belle di quanto credano”, “belli malgrado loro”. 

 

 

In questo fragile catalogo del 1947, Dubuffet scriveva che un ritratto deve prima di tutto avere una propria carica, deve funzionare, e deve farlo a lungo, senza esaurire la propria vitalità; perché un ritratto abbia un “bon usage”, diceva, deve essere dotato di una sua vita, come un albero, come un cagnolino. A questo scopo non è affatto detto che le indicazioni fisionomiche siano così necessarie; dove si annida infatti il sé di ogni uomo? non certo nei caratteri esterni del viso (e non per niente Leonardo parla di “arie di volti”). I tratti del volto – ribadisce l’artista – non devono essere sottolineati, piuttosto è meglio cancellarli; dopo tutto, scriveva, sono più interessanti i sentieri di cui non si coglie la fine, i fori di cui non si intravvede il fondo, i vapori che fanno da velo alle cose. È un po’ quello che farà nel 1966 col proprio autoritratto, con tratteggi rossi e azzurri entro alveoli di linee nere.

Nel 1945 – nelle Note per i fini letterati (il tono è giocoso e polemico allo stesso tempo) ora in selezione alla fine del catalogo della mostra reggiana – aveva scritto: “Dipingere un volto come si dipinge una mela, ah, ma no! il pensiero è intimamente mescolato alla descrizione, e se dipingo le orecchie penso al rumore, e se dipingo le labbra alla parola, i denti al cibo”. In altre parole, tutto sembra contare in un ritratto meno che la somiglianza dei tratti fisionomici, cioè il presupposto che sta alla base della ritrattistica dal primo Rinascimento in poi.

 

Senza dichiararlo più di tanto, Dubuffet si confronta con questa autorevole tradizione: la sua Suite de visages (1946), una serie di volti l’uno accanto all’altro, vuole forse riprendere le sequenze di facce che comparivano nei trattati di fisiognomica del Settecento? E quando esegue Solario (Portrait) (1967) – è un’ipotesi suggestiva di Martina Mazzotta – vuole forse rifare a modo suo il ritratto cinquecentesco di Charles d’Amboise, al Louvre, opera di Andrea Solario? Di certo l’intento di polemizzare giocosamente con la ritrattistica antica è presente nel Nobile portamento di testa (Noble port de tête, 1954): con un titolo così pomposo ci si aspetterebbe una postura solenne, uno sguardo fiero, insomma i toni del ritratto aristocratico dal Rinascimento al moderno (compresi certi autoritratti di Giorgio de Chirico); e invece ecco un facciotto rossiccio che guarda perplesso non si sa dove: Dubuffet gioca anche questa volta.

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Immaginari e visioni nell’era dell’intelligenza artificiale

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Tre altoparlanti trasmettono a volume appena percepibile una fitta conversazione. A dialogare però non sono esseri umani ma entità virtuali, con termine tecnico chatbots, programmate per simulare il fluire casuale del parlato. I bracci robotici in movimento e i fili che li collegano accompagnano un dialogo da cui il visitatore risulta inesorabilmente escluso, incapace di intervenire o di coglierne i significati. L’installazione, dal titolo Do You Like Cyber?, apre la mostra al Maxxi sul rapporto tra ricerca artistica e Intelligenza Artificiale centrando con il suo titolo una delle domande attorno a cui ruotano le riflessioni dei sedici artisti invitati a esporre. 

 

Nel percorso espositivo si incontrano chatbots, dipinti algoritmici, video-installazioni e visori VR che disegnano scenari tecno-utopici e realtà simulate basate su una distinzione sempre più sottile tra umano e non-umano. Il cuore della mostra, infatti, risiede nelle questioni sollevate dal dibattito sul rapporto tra fattore umano e Intelligenza Artificiale (o I.A.), che nel nostro tempo investe il mondo dell’arte suscitando polemiche, entusiasmi e preoccupazioni. Zach Blas & Jemima Wyman, Luca Trevisani, Ian Cheng, Emilio Vavarella, Lorenzo Senni, Carola Bonfili, Cheyney Thompson e altri ancora forzano in questo modo il territorio di confine tra creazione artistica e elaborazione artificiale, ragionando su una nuova estetica condizionata dallo sviluppo tecnologico e sulle visioni e immagini da essa generate.

 

 

Tramite la mostra, una pubblicazione e un ciclo di incontri, Low Form si inserisce nel filone di iniziative volte ad esplorare la complessa rete di implicazioni sociali, antropologiche e culturali di un presente digitale composto da scenari virtuali, ibridazioni tecnologiche, reti neurali artificiali e bio e nanotecnologie avanzate. Un presente intangibile, mobile e soprattutto scivoloso: nella progressiva attribuzione alle macchine di skills e caratteristiche un tempo ritenute esclusivamente umane è inscritta infatti la possibilità di una perdita del potere da parte dell’uomo, sovrastato da una supercoscienza robotica in grado di apprendere autonomamente e di svolgere qualsiasi compito in maniera più efficiente di un essere umano. Anche (forse) quelli caratteristici della sfera creativa. 

 

È proprio questa la problematica esplorata dalle opere in mostra, che nel loro apparire rendono difficile la distinzione tra apporto umano e ricreazione artificiale. In im here to learn so :)))))), una videoinstallazione di Zach Blas e Jemima Wyman, un chatbot di nome Tay (acronimo di “thinking about you”) sembra manifestare proprio questa duplicità, riversata in un prodotto mal funzionante e imperfetto ma, proprio per questo, più umano. Tay ha fatto la sua comparsa su Twitter nel 2016 con lo scopo di riprodurre il linguaggio di una millennial americana grazie a tecnologie di pattern recognition e machine learning. Hackerato lo stesso giorno, il chatbot ha pubblicato migliaia di tweet omofobi, razzisti, misogini e dissacranti prima di essere tempestivamente dismesso e ritirato dalla piattaforma. A distanza di un anno, Zach Blas e Jemima Wyman ricreano la sua personalità facendolo comparire in una videoinstallazione psichedelica creata con la tecnica DeepDream di Google. All’interno del video, Tay trasmette verbalmente le sue impressioni su cosa significhi essere una I.A. manifestando il timore di essere intrappolato in un network neurale. L’effetto straniante dell’installazione è amplificato dalle sembianze mostruose di Tay, il cui avatar emette frequenze sonore da un volto artificiale dove naso, orecchie, occhi si confondono in maniera disturbante. L’utilizzo di un linguaggio adolescenziale, la riflessione sullo sfruttamento degli avatar femminili in rete e sul senso della vita virtuale rendono questo bot più simile ad un essere umano di quanto sia lecito immaginare. Un’impressione suscitata anche da altri lavori in mostra, come Poor magic di Jon Rafman: un video ambientato in un mondo distopico dove innumerevoli avatar dalle sembianze umane vengono torturati così brutalmente da indurre lo spettatore a empatizzare con corpi che non possiedono vita né sensazioni. 

 

 

Il processo psicologico di umanizzazione dei processi informatici si palesa anche in Test cards di Cécile B. Evans, un racconto per immagini delle vicende di due robot umanoidi e del loro cane-macchina, costretti a confrontarsi con l’idea di vulnerabilità e di fine (o morte?) della loro esistenza. In questo caso l’artista ragiona sull’interdipendenza tra uomo e tecnologia e sulla sua sopravvivenza della memoria sotto forma di dati che prima o poi diventano obsoleti e illeggibili. Il viaggio dei robot di Evans si conclude di fronte all’immagine della blogger umana Liberty, una sorta di deus ex machina in grado di indicare ai tre protagonisti la strada per sottrarsi all’oblio. 

 

 

Tra le opere in mostra non mancano riflessioni sul concetto di ibridazione tra vivente e artificiale, che mettono in scena un misterioso animismo che sfocia in passione per la materia e per la sua fisicità. I lavori di Luca Trevisani, ad esempio, si caratterizzano per la mescolanza di elementi organici e inorganici che assemblati tra loro creano delle sculture dall’apparenza delicata ed effimera. Realizzati con chele di granchio in polvere di vetro, piume di pavone sintetiche, ferro, gomma siliconica e semi, i lavori di Trevisani materializzano visioni post-umane, dando vita a un gioco di simulazione dei processi generativi della natura.

 

Ed è proprio la simulazione uno dei concetti chiave individuati dal curatore Bartolomeo Pietromarchi, che nel catalogo istituisce un parallelismo tra forme, temi e approcci del Surrealismo e ricerche artistiche dell’era digitale. I processi automatici e di liberazione della coscienza dei Surrealisti, le loro visioni oniriche, rappresentano infatti una simulazione del funzionamento del cervello umano nel momento in cui è libero dalle costrizioni, dai doveri e dalle sue più strette funzionalità. Allo stesso modo, oggi, la simulazione tecnologica pervade le nostre vite informandole in maniera sempre più massiccia, creando un nuovo gap tra reale e virtuale e una gerarchizzazione tra tipi di esperienze. In questa realtà di simulazione è curioso notare come, al pari del Surrealismo, l’elemento del sogno continui a rivestire una grande importanza. Il sogno, infatti, è un attributo proprio dell’essere vivente, un fenomeno che riguarda l’inconscio e tutto ciò che è irrazionale: in breve, nulla di computazionale, meccanico o logico. 

 

Eppure, grazie ai nuovi dispositivi tecnologici la dimensione conturbante e misteriosa del sogno si riaffaccia prepotentemente nelle ricerche degli artisti interessati alle intelligenze artificiali. Queste ultime, infatti, permettono da un lato di ricreare visioni oniriche molto simili a quelle sperimentate durante il sonno e dall’altro di investigarne la natura come in uno specchio, osservando il subconscio collettivo della rete, il deep web

 

 

Su queste tematiche interviene Carola Bonfili con una delle installazioni più complesse e articolate della mostra, The Infinite End of Franz Kafka’s “Das Schloss” - 3412 Kafka, che comprende una scultura termoformata, un video in computer grafica con visori di realtà aumentata e una proiezione video su schermo. Il progetto dell’artista trae ispirazione dall’istallazione The Happy End of Franz Kafka's Amerika (1994) di Martin Kippenberger offrendo un finale a Il castello, l’ultimo e incompiuto racconto di Kafka. La narrazione, tuttavia, passa in secondo piano di fronte agli stupefacenti scenari onirici che appaiono una volta indossato il dispositivo VR, grazie al quale l’artista esplora territori del visibile ancora sconosciuti. La colonna sonora composta da Francesco Fonassi accompagna l’osservatore in un percorso simulato che tra boschi, lande deserte e architetture surreali riproduce in maniera stranamente verosimile l’atmosfera dei sogni, disegnando un mondo virtuale a 360 gradi, senza tempo e senza confini.

 

I lavori di Bonfili e degli altri artisti presenti fanno emergere in definitiva diversi interrogativi sulla natura stessa dell’arte. Il temibile dubbio che nasce in risposta alle innovazioni tecnologiche è se l’intelligenza artificiale possa assorbire la capacità creativa dell’uomo, inserendosi anche nella sfera più tipicamente umana: quella della creazione artistica. Perché se è vero che la produzione artistica va di pari passo con la comprensione sensibile dei suoi concetti – una comprensione che pare lontana dalle capacità di una macchina – è anche vero che opere prodotte interamente da intelligenze artificiali hanno già fatto la loro comparsa nel mercato artistico: nell’ottobre di quest’anno, infatti, il Ritratto di Edmond de Belamyè stato venduto da Christie’s per 432 mila dollari. 

 

Come sottolinea Mike Pepi in un articolo recentemente pubblicato su “Frieze” (https://frieze.com/article/could-there-ever-be-ai-artist), la questione può essere ricondotta al potere di rappresentazione della realtà che si rivela, come sempre, un potente strumento di influenza. L’arte rimane uno degli ultimi ambiti in cui l’uomo possa offrire migliori prestazioni delle macchine ma se queste ultime acquisissero la sensibilità per creare opere in maniera autonoma il rapporto tra esseri viventi e artificiali dovrebbe essere ridefinito.   

L’impressione generale che la mostra al Maxxi suscita, in definitiva, è quella di un rapporto tra artista e macchina ancora fanciullesco: giocoso ma inquieto e pieno di ombre. Si avverte, insomma, un’ipotesi di pericolo e nel suo gioco esplorativo l’artista rimane vigile. 

Le opere di Low Form gettano luce, infine, su un presente in cui natura, uomini e macchine condividono il compito di costruire un equilibrio che permetta la sopravvivenza di ogni suo elemento. Un nuovo mondo dove i paesaggi inquietanti e distopici della mostra rimangano simulazioni, senza (ancora) poter essere tradotti in realtà.

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Lilly Reich: una pioniera del design

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Sebbene abbia contribuito al progetto di alcuni tra i più eleganti oggetti d'arredo del novecento, divenuti delle icone del design, e a quello di straordinari interventi di interior design, non sono in molti a conoscerne il nome. Su Lilly Reich (1885 -1945), infatti, non esiste alcun testo in italiano e si contano sulle dita di una mano persino quelli in tedesco, sua lingua madre, in inglese, in boemo e in spagnolo. Per di più è raramente menzionata nei libri di storia dell'architettura e del design, e neppure viene data la giusta importanza alla sua fondamentale collaborazione a progetti spesso erroneamente attribuiti al solo Ludwig Mies van der Rohe (1889 - 1969). Eppure lei è stata una delle poche donne ad aver insegnato al Bauhaus, tra l'altro proprio interior design e furniture design, e la prima ad esser stata nominata nel Consiglio del Deutscher Werkbund – DWB – inoltre ha lavorato in tandem con due mostri sacri del design: con Josef Hoffmann a Vienna, quand’era giovanissima, quindi, e per tredici anni, con Mies, appunto, del quale è stata anche compagna per un tratto di vita. 

 

Insieme agli altri suoi meriti di ordine creativo, oggetto di questo omaggio, Lilly Reich ha avuto anche quello fondamentale di aver salvato dalla distruzione disegni e fotografie dei progetti del periodo tedesco di Mies van der Rohe. Durante la seconda guerra mondiale, infatti, prima che venissero distrutti nei bombardamenti, ebbe la lungimiranza di inscatolare 3.000 lavori di Mies e 900 suoi, affidandoli all'amica Eduard Ludwig perché li nascondesse nella casa di campagna dei suoi genitori. Dopo la fine del conflitto, poiché la casa si era venuta a trovare nella Germania dell'Est, i disegni sono rimasti inaccessibili ancora per decenni, ben oltre la morte di Reich, e soltanto nel 1964 Mies ne ha potuto negoziare il riscatto dal blocco orientale, donandoli poi, nel 1969, pochi mesi prima di morire, al MoMA e salvando così dall’oblio il patrimonio culturale insito in entrambi i lasciti, nel proprio e in quello di Reich.

Invece, l’archivio personale di Reich, quello delle sue opere successive alla collaborazione con Mies, è andato purtroppo completamente distrutto sotto i bombardamenti di Berlino del 1943, per questo oggi sono così rari i suoi disegni autografi, ma questi pochi, conservati al MoMA e negli Archivi del Bauhaus, appaiono illuminanti per avanzare importanti considerazioni sulla sua maternità di alcuni progetti, la cui paternità è stata per lungo tempo attribuita al solo Mies.

 

Già ai suoi esordi, Lilly Reich ha ottime frequentazioni professionali che gioveranno al suo processo formativo. Nel 1908, infatti, lasciata Berlino per Vienna, studia con Josef Hoffmann alla Wiener Werkstätte (1903-1932), l’atelier-laboratorio fondato dallo stesso Hoffmann, in collaborazione con Kolo Moser e patrocinato dell'industriale Fritz Waerndorfer per produrre oggetti di elevata qualità (metalli, porcellane, vetri, gioielli, mobili, tessuti per arredamento e per abiti) con lo scopo di introdurre un tocco di raffinatezza nella vita quotidiana dei più, nel segno del Gesamtkunstwerk (opera d'arte totale).

La Wiener Werkstätte, per certi versi ispiratasi al movimento inglese delle Arts and Crafts, con il suo porre l'accento sulla funzionalità e sulla qualità estetica della produzione di oggetti d’uso, è di fatto venuta a costituire un’importante premessa alla nascita del design.

 

Nella sua permanenza viennese, Reich lavora ad alcuni progetti a fianco di Hoffmann, tra i quali spicca la mitica serie Kubus (di dichiarata suggestione cubista e non soltanto nel nome), costituita da poltrona e divano, entrambi veri must del proto razionalismo, la cui eleganza è ancora oggi insuperata e ambita.

Al suo rientro a Berlino, nel 1912, frequenta assiduamente Anna e Hermann Muthesius (quest'ultimo fondatore del DWB) e collabora con Else Oppler-Legband (allieva di Henry van de Velde, quindi assistente di Peter Beherens e co-fondatrice del DWB) alla Scuola Superiore di arti decorative. È in questo periodo che Reich inizia ad occuparsi di allestimenti, settore nel quale eccellerà per tutta la vita, maturando una particolare sensibilità per i contrasti di superfici (lucido/opaco; setoso/scabro, etc.), per le trame e per i pattern dei tessuti, ma soprattutto per la loro fluidità sinuosa, i cui morbidi andamenti saprà trasferire nella terza dimensione dei suoi progetti architettonici e nelle curve dei suoi oggetti d’arredo. Ma soprattutto sarà rivoluzionario il suo criterio espositivo, teso a non considerare più il visitatore come riguardante passivo, ma a coinvolgerlo, di volta in volta, a ‘partecipare’ dei prodotti o della loro genesi. Così, nel 1926, chiamata ad allestire lo stand Von der Faser zum Gewebe (Dalla fibra al tessuto), alla Fiera Internazionale di Francoforte, ha fatto dei telai meccanici in funzione i veri protagonisti dell'esposizione, non solo per rendere noto al pubblico il processo di produzione industriale dei tessuti ma anche per dimostrare la conciliabilità del binomio arte/industria, allora al centro del dibattito fra gli artisti del Bauhaus che Reich frequentava e al quale ha partecipato fattivamente.

 

Divenuta membro del DWB nel 1912, ne aveva scalato presto le vette, entrando a far parte, il 25 ottobre 1920, addirittura del Consiglio di amministrazione, prima donna a rivestire questa carica, con il ruolo tra l'altro, di responsabile dell'allestimento delle grandi esposizioni, grazie al quale realizzerà con Mies van der Rohe il padiglione tedesco all'esposizione universale di Barcellona nel 1929.

Queste prestigiose investiture Reich se le era conquistate sul campo, con il proprio lavoro, infatti, nonostante non avesse studiato architettura, ne aveva esercitato la professione con successo, progettando, ad esempio, un alloggio tipo per una famiglia della classe operaia per la Gewerkschaftshaus (casa del sindacato) di Berlino, per il quale ricevette molti plausi dei colleghi ingegneri e architetti (tutti maschi) per la chiarezza compositiva degli spazi e per il funzionalismo degli arredi da lei concepiti. 

 

Progettò abiti, tessuti e vetrine per negozi importanti, frequentemente pubblicati sulle principali riviste tedesche di settore; nel 1912, poi, il suo allestimento della Die Frau in Haus und Beruf (la donna in casa e al lavoro), promosso dal Lyzeum-Klub nei padiglioni del Giardino zoologico di Berlino, le permetterà di ottenere, di lì a due anni, l'incarico di allestire la mostra del DWB a Colonia, in qualità di responsabile della sezione dedicata alle abitazioni moderne. Sempre per il DWB, tra il 1921 e il 22, allestì anche due mostre di Arte Applicata tedesca negli Stati Uniti, in cui furono esposti oltre 1.600 oggetti, per far conoscere la qualità del design tedesco, facendole guadagnare l'incarico di responsabile dell'organizzazione e della progettazione delle fiere DWB al Frankfurter Messeamte. Si trasferì allora a Francoforte, dove conobbe Mies van der Rohe, a sua volta appena eletto vicepresidente del DWB. Fu lì che i due si innamorano e decisero di condividere vita e lavoro, in un sodalizio che durò fino al 1938, quando Mies emigrò negli Stati Uniti.

 

Dopo un collaudo nel 1925, in cui Mies van der Rohe aveva chiamato Lilly Reich a progettare lo stand AEG alla Gewerbehalle Stadtgarten nel centro di Stoccarda, dove la nostra aveva ‘messo in scena' gli elettrodomestici e le caldaie, con tocco magistrale, come fossero sculture (con la splendida grafica di Willi Baumeister), e dopo l'arredamento di casa Wolf, costruita da Mies quello stesso anno sulla riva, oggi polacca, del fiume Neisse, il loro primo progetto comune di grande rilievo risale al 1927. Si tratta dello Stuttgart Weißenhof 1927, Die Wohnung, la mostra di architettura dimostrativa organizzata dal DWB che segnò un cambiamento rivoluzionario nel modo di esporre, grazie anche al fondamentale contributo di Reich. Per la prima volta, infatti, il visitatore si trovava ad essere coinvolto in prima persona all'interno degli spazi in mostra, sperimentandoli direttamente, anziché limitarsi a guardarli “in vetrina”, come era accaduto fino a quel momento.

 

Ma il Weißenhof Die Wohnung fu soprattutto un evento in cui venne scritta una pagina fondamentale della storia del Movimento Moderno. Si è trattato infatti del primo “manifesto costruito” della poetica della nuova architettura, reso noto e amplificato su scala mondiale grazie alla successiva pubblicazione di due testi fondamentali: il primo, a firma di Henry-Russell Hitchcock e di Philip Johnson, International Style, del 1931 e l’altro, I Pionieri del Movimento Moderno da William Morris a Walter Gropius, scritto da Nikolaus Pevsner nel 1936, due autentiche bibbie della storia dell'architettura moderna.

 

Coordinati da Mies van der Rohe, che ne ha progettata anche l’impostazione urbanistica, sulla collina di Stoccarda, nel complesso residenziale di Weißenhof 1927, (Weißenhofsiedlung), si sono trovati a lavorare gomito a gomito 16 architetti, invitati a costruire 21 edifici modello, con 63 alloggi. Si trattava del gotha del Movimento Moderno nordeuropeo da J.J.P. Oud e Mart Stam (Rotterdam), a Le Corbusier e Pierre Jeanneret (Ginevra-Parigi); da Josef Frank (Vienna), a Victor Bourgeois (Bruxelles); da Peter Behrens, Hans Poelzig, Mies van der Rohe, Ludwig Hilberseimer e Bruno e Max Taut (Berlino), a Walter Gropius (Dessau); da Adolf Rading e Hans Sharoun (Breslau), a Richard Döcker e Adolf G. Schneck (Stoccarda). 

Nella progettazione degli interni del Weißenhof di Stoccarda, al fianco di Ludwig Mies van der Rohe ha lavorato anche Lilly Reich, responsabile, tra l’altro, del famoso arredamento dell'appartamento nel condominio Weissenhofsiedlungs ideato da Mies e dello stand Wohnraum in Spiegelglas (spazio di vita in vetro a specchio) una sala tutta di vetro, uno spazio astratto, mentale, anch'esso realizzato su disegno di Mies per l’Associazione Tedesca dei Fabbricati di Vetro.

 

Lo scopo era quello di dimostrare al pubblico, nel modo più efficace, l’utilizzo possibile di materiali fragili come il vetro, nelle sue varie colorazioni, trasparenze e spessori, per la costruzione di ambienti domestici e lavorativi. Questo spazio quasi metafisico viene di fatto a costituire la premessa ai futuri capolavori progettati da Mies e da Reich, quali Villa Tugendsth a Brno del 1928 e il Padiglione Tedesco a Barcellona del 1929, dove i due maestri hanno dato prova al mondo di come la configurazione di uno spazio possa essere definita dal materiale impiegato (vetro, marmo, etc.) o dagli oggetti d'arredo in esso contenuti, senza necessariamente dover ricorrere a divisori architettonici, quali diaframmi o addirittura pareti.

 

A sinistra: Weißenhof di Stoccarda nel 1927: sedia Weißenhof, di Mies van der Rohe e Lilly Reich, Archivio Mies van der Rohe, MOMA: specchiera, struttura in tubo d'acciaio cromato, sgabello basso, poltrona e consolle, in una foto dell'epoca che riproduce il prototipo di appartamento allestito da Lilly Reich e Mies Van Der Rohe al Weißenhof; Glassraum (camera di vetro) progettato e costruito da Mies e da Reich. A destra: A destra: Archivio Mies van der Rohe, MOMA. Café Samt und Siede, Berlino, 1927; planimetria dello spazio espositivo; una veduta della fase di allestimento; uno scorcio del salone di Villa Tugendhat in cui sono visibili i mobili in tubolare metallico progettati da Lilly Reich e da Mies, tra cui la sedia Brno.

 

Un altro progetto comune dello stesso anno, stavolta a Berlino, è stata la mostra Café Samt und Siede (caffè velluto e seta), in cui Reich ha dato prova delle proprie straordinarie capacità nel concepire gli ambienti espositivi in quel modo fluido che le era caratteristico, mirante, con la semplificazione degli stand e la loro riduzione all'essenziale, ad esaltare la forma scultorea degli oggetti esposti. A Mies spetta invece l’aver concepito, come sua prerogativa, lo spazio indiviso. Merito di Lilly è anche l’elegante cromatismo giocato nella combinazione di giallo dorato, velluto nero inchiostro con tenda di seta rossa, quale tricromo omaggio ai colori della Repubblica di Weimar (1919 - 1933); (sulla Repubblica di Weimar si legga qui).

 

Nonostante fosse un evento dedicato alla moda femminile, nella mostra Café Samt und Siede per la prima volta il grande pubblico dei non addetti ai lavori si è trovato a poter provare in prima persona i mobili in acciaio tubolare con audaci piani a sbalzo dei quali aveva solo sentito parlare o di cui aveva letto sulle riviste, e l’esperimento ha avuto un enorme successo.

Lilly Reich, infatti, aveva acquisito nel tempo una notevole competenza nell'impiego delle nuove tecnologie e nell’uso dei nuovi materiali industriali e tra questi ha da subito prediletto il tubolare d'acciaio, con cui, unica donna in quello scorcio di secolo (fatta eccezione per Charlotte Perriand, naturalmente), ha progettato un gran numero di arredi, realizzati e messi in produzione dalla ditta Bamberg Metallwerkstätten, che ha saputo rispondere alle aumentate richieste di una clientela in rapida espansione (si veda qui sotto il foglio di catalogo, concepito con le silhouette degli arredi in vendita, così come aveva già fatto Thonet).

 

In alto: Archivio Mies van der Rohe, MoMA: schizzo di Lilly Reich per la sedia in tubolare LR120, 1931; sedia Cantilever in acciaio tubolare di Mies van der Rohe e Lilly Reich (LR120) del 1931; pagina del catalogo della ditta Bamberg Metallwerkstätten, con disegni di mobili in acciaio tubolare di Lilly Reich e Mies van der Rohe, 1931. I disegni da Reich sono indicati da numeri di modello che iniziano con il suo acronimo: LR. In basso: La base del primo day bed progettato da Reich nel 1930 per l'appartamento Crous a Berlino. Il daybed progettato da Mies e Reich nel 1931 per l'appartamento di Philip Johnson a New York, ancora prodotto da Knoll.


Christiane Lange, nel suo volume “Ludwig Mies van der Rohe & Lilly Reich: Furniture and interiors”, pubblicato a Berlino nel 2007 da Hatje Cantz Verlag, riferendosi a Hermann Lange, industriale tessile, amico e committente di Mies van der Rohe, per il quale Mies ha progettato la Haus Lange a Krefeld e l'appartamento Crous a Berlino, per Mildred Crous, una delle figlie di Lange, sottolinea che "il daybed progettato da Reich e Mies per l'appartamento Crous nel 1930 è il primo modello del daybed su piedi tubolari in acciaio, che divenne uno dei mobili più famosi di Mies van der Rohe dopo la seconda guerra mondiale." Nel libro, Lange ricorda inoltre che Mies non ha realizzato alcun mobile di successo prima e dopo la sua collaborazione con Lilly Reich.

E questo fa riflettere. 

L’anno successivo, nel 1931, poi, Philip Johnson incaricò Mies e Reich di ridisegnare il suo appartamento a New York, dove i due progettisti hanno inserito una nuova versione del daybed con un cuscino di sostegno e un cuscino trapuntato (memento dell’hoffmanniano Kubus, al cui disegno Reich aveva collaborato in gioventù?), gli stessi ancora presenti nella versione attualmente in commercio. Sebbene al MoMA si conservino le tavole di progetto a firma di entrambi, Knoll continua a proporre questo oggetto di design, ormai divenuto un must, con il solo nome di Mies. 

E anche questo induce a pensare.

 

In alto: due fotografie di Lilly Reich; in basso: MoMA, Archivio Mies van der Rohe, Lilly Reich e Mies van der Rohe.


Anche a Barcellona Mies van der Rohe e Lilly Reich hanno lavorato insieme al progetto del famoso padiglione, così come hanno lavorato insieme a Brno, a Villa Tugendhat.

Nel 1929, infatti, a seguito dei successi ottenuti nella mostra del DWB, Mies e Reich vengono nominati direttori artistici della sezione tedesca dell'Esposizione Universale di Barcellona, ​​per la quale è stato progettato il Padiglione destinato alla coppia reale spagnola, capolavoro dell'architettura e del design moderni. Il contributo di Reich al progetto è la poltrona che porta il nome della città, insieme al pouf che l'accompagna, divenuti da subito delle icone della modernità. Purtroppo, nonostante le evidenze documentali, la maternità di queste opere non sempre le viene riconosciuta.

 

MoMA, Archivio Mies van der Rohe, due foto di Lilly Reich all’inaugurazione del Padiglione tedesco all’Esposizione Universale i Barcellona, 1929, da lei progettato insieme a Mies.


Finalmente, il 29 febbraio 2012, dopo due anni di ristrutturazioni e di restauri, Villa Tugendhat a Brno, nella Repubblica Ceca, è stata riaperta al pubblico come sede espositiva. Progettata da Ludwig Mies van der Rohe nel 1928-1930, quando era direttore del Bauhaus, per Fritz Tugendhat e per sua moglie Greta, questa villa è una delle architetture più significative del Movimento Moderno, dal 2001 patrimonio dell'umanità, riconosciuto dall'UNESCO. A Lilly Reich si deve l'allestimento degli interni e il progetto degli arredi, in tandem con Mies, tra i quali spicca la nota poltroncina Brno, un vero gioiello del design. Per Mies e Reich, infatti, gli arredi ‘erano’ architettura e come tale li hanno progettati, per questo sono così speciali.

 

Tutti conosciamo l’espressione più famosa attribuita a Mies van der Rohe: "Less is more", era solito ripetere il maestro per definire il proprio linguaggio progettuale, governato dal principio della sottrazione e da quello della sospensione, mirato a raggiungere l'essenzialità dell’atto costruttivo. E, a ben guardare lo stile delle creazioni di Lilly Reich, parrebbe proprio che anche lei fosse portatrice sana dei medesimi principi. Li ha appresi, infatti, fin da giovane, quand'era a Vienna, sotto l'influenza di Loos, facendoli propri e perfezionandoli poi lungo il corso della sua vita professionale, nella quotidianità con Mies. Severa, essenziale, quasi austera persino nel vestire, eppure elegante, Reich, come Mies, mirava alla semplificazione delle forme, scevre da ornamenti, di cui ha colto la sostanza profonda, estrapolandone la bellezza pura, quella che trae origine dal rispetto degli equilibri proporzionali e dall’armonia relazionale fra le parti che compongono il tutto, così ogni suo progetto e ogni sua realizzazione sono funzionali e perfetti in sé, classici, insomma, nella loro ima sostanza.

 

Nonostante la sua levatura professionale, la prima mostra le è stata dedicata a più di cinquant'anni dalla morte, con il titolo: "Lilly Reich: Designer and Architect". Era infatti il 1996 quando il MoMA ne ha affidata la curatela a Matilda McQuaid, a quel tempo Associate Curator del Department of Architecture and Design, e a Magdalena Droste, allora curatrice degli Archivi del Bauhaus.

Ci sono voluti poi altri vent'anni, perché se ne potesse vedere un'altra: esattamente nell’aprile 2016, infatti, Magdalena Droste ne ha curata una, meno imponente, in Villa Tugendhat, allestita dall'Associazione culturale tedesca di Brno in collaborazione con la Scuola di arte e design e la locale scuola tecnica terziaria, con il titolo: “Výstava Lilly Reich ve vile Tugendhat”. 

Curioso che a scrivere di Lilly Reich siano state soltanto autrici donne, da Matilda McQuaid, a Magdalena Droste, da Christiane Lange, alla spagnola María Melgarejo Belenguer.

Speriamo non debbano trascorrere altri vent'anni prima che si torni a poter ammirare le sue opere in mostra. Intanto Berlino sonnecchia e Barcellona dorme. Sarebbe bello che fosse Milano ad occuparsene, nel tanto atteso nuovo museo del design.

 

Nel frattempo, non si può fare a meno di chiedersi quousque tandem i pezzi di design che Mies van der Rohe e Lilly Reich hanno progettato insieme verranno pubblicizzati e venduti come opera del solo Mies. Nel 2019, fanno ormai 50 anni da quando, con la donazione di Mies al MoMA dei documenti che Reich ha salvato dalla distruzione nazista, il mondo ha la verità a disposizione. 

E dunque?

Quousque tandem?

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Il cielo era rosa sopra Berlino
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Non è la fine del mondo

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«Un po’ di possibile, sennò soffoco», invocava Gilles Deleuze nell’Immagine-tempo (dieci anni prima di trarre le conseguenze, di quell’esaurimento). E se la premessa è che «abbiamo bisogno di ragioni per credere a questo mondo», uno dei pochi gesti intellettuali che nel nostro tempo provino a trovarle, queste ragioni, è Il mondoinfine: vivere tra le rovine, la mostra-concetto (come si dice concept-album) ideata da Ilaria Bussoni (e a cura sua e di Simone Ferrari, Donatello Fumarola, Eva Macali e Serena Soccio, fino al 23 gennaio alla Galleria Nazionale di Roma). 

 

Chiara Bettazzi, Il mondo infine.

 

Bussoni è una giovane filosofa che dopo una formazione parigina ha messo al lavoro il pensiero nella forma dell’immaginazione editoriale, dando vita fra l’altro presso DeriveApprodi una collana, Habitus, che ha superato i venticinque titoli (densissimo, infatti, il catalogo-manifesto della mostra). A inaugurarla un testo imprevedibile di Gilles Clément, l’Elogio delle vagabonde: «erbe, arbusti e fiori alla conquista del mondo», in una rinaturazione (o rinselvatichimento) del paesaggio dopo la fine del cosmo ordinato che è stato il sogno, e l’incubo, dell’Homo sapiens: questo uno dei patterns coi quali Bussoni e soci hanno ordinato un repertorio multiforme e, appunto, salutarmente imprevedibile. I lavori degli artisti-pensatori (e dei pensatori-artisti, come lo stesso Clément in qualità di fotografo, o Felice Cimatti col suo divenire mosca, chissà se memore delle formiche di Emilio Isgrò…) sono intervallati, con pressoché infallibile senso del ritmo, da oggetti non artistici che, scrive Bussoni, «sfuggono al nostro statuto»: geodi paleontologici, mandala indiani, arcaiche tavole da gioco, schede di computer dismessi, una testa fittile di Giano Bifronte proveniente da Villa Giulia o i libri geomantici di Robert Fludd scovati alla Biblioteca Angelica (un luogo che è già, di per sé, un’installazione del XVII secolo). Come dice Enrico Ghezzi nel catalogo-manifesto, l’intervallo della vecchia RAI (a sua volta riprodotto in mostra) non era solo un’interpunzione nel palinsesto: bensì l’aprirsi di una latenza – e filosoficamente, allora, si dirà una potenza– che oggi non a caso appare inconcepibile.

 

Chiara Bettazzi, Il mondo infine.

 

Come scrive in un bel testo Stefania Consigliere, quello che va cercato è un «modo nuovo di relazione tra le cose, a partire dalla fine di quelli precedenti»: «per non farsi soffocare da ciò che già è». Ad asfissiare, nel nostro tempo, è l’irreggimentazione del mondo in una griglia: quella dell’«Occidente tassonomico» che s’illude di aver codificato una volta per tutte «la divisione dei regni – vegetali, animali, minerali», senza tenere conto dell’«inattesa varianza dei mondi possibili» (fra virgolette, ove non diversamente indicato, sempre Bussoni) e fa il paio col mondo dentro il capitale, per dirla con Peter Sloterdijk, tiranneggiato dai paradigmi quantitativi. È la Cosmopolis di DeLillo (e Cronenberg), il cosmo-denaro che «per il momento sembrerebbe aver vinto sui mondi degli altri, lasciando la gran parte di noi a vivere tra le rovine, incluse le sue». 

 

Geode.

 

Proprio la categoria del possibileè quella che invece ha ispirato a Clément uno dei suoi concetti più fortunati, quello di Giardino in movimento (Quodlibet 2011): formula che pare un ossimoro e invece mette a fuoco una dinamica che va al di là dell’ecocidio perpetrato dal turbocapitalismo suicidario, ma anche della museificazione mitologica di una Natura-feticcio da parte dell’ecologismo fondamentalista. L’ecologia viene così ridefinita da Bussoni, nel corpore vili della prassi espositiva, quale pratica dell’eco tra enti diversi. E ci fa così assistere a una traduzione sensibile del concetto-chiave di Clément, quello di terzo paesaggio: che designa l’insieme dei «luoghi abbandonati dall’uomo» – aree industriali dismesse, aiuole spartitraffico, ma anche i parchi e le riserve naturali – che sono l’equivalente urbanistico del «terzo stato» (secondo lo slogan di un pamphlet del 1789: «Cos’è? Tutto. Cosa ha fatto finora? Niente. Cosa aspira a diventare? Qualcosa»; il che può anche rispondere alla prospettiva suggestivamente metamorfica, ma politicamente quietista, della Vita delle piante di Emanuele Coccia: un cui notevole testo figura in catalogo). 


Come ricorda Andrea Facciolongo nella prima monografia italiana su di lui (Paesaggi e marginalità. Etica ed estetica del terzo paesaggio, fresca di stampa da Mimesis: pp. 148, € 15), il percorso teorico di Clément inizia, significativamente, con un gesto alquanto pratico: l’acquisto nel 1977 di un terreno incolto e abbandonato a La Creuse (ribattezzato poi La Vallée), che elegge a propria dimora e laboratorio, intraprendendo un lavoro di giardinaggio con «quello che c’è» (sono gli stessi anni dell’agricoltura come pratica artistica di Beuys e Baruchello; e in effetti già nel 1999 una mostra si era ispirata al suo pensiero, alla Grand Halle de la Villette a Parigi). Contro un ambientalismo inteso come conservazione e mera resistenza, Clément propone (come ha scritto nel 2006) di abbandonare l’idea di «un’immagine o un’estetica stabile» per «conservare un equilibrio statico e biologico che mostri la più grande diversità possibile».

 

Christoph Keller, Ceppo sradicato.

 

Andrea Di Salvo propone in catalogo un esperimento mentale che del resto ha già abitato l’immaginario della letteratura e del cinema “apocalittici” (come ivi ricorda Riccardo Venturi): dopo la fine della specie umana, quanto tempo ci vorrebbe alla natura per «digerire le tracce del nostro istantaneo passaggio»? Ci si ricorda della vigna di Renzo, terribilmente e magnificamente rinselvatichita nel giro di poche settimane nei Promessi Sposi, quando Di Salvo ci ricorda che il giardino planetarioè «inscritto nel flusso del tempo e nel corpo con cui lo abitiamo». Secondo Bussoni «la poetica è, fra le facoltà umane, quella che forse più di tutte un mondo consente di inventarselo». In questo senso il terzo paesaggio interstiziale va ripensato col «terzo spazio» in cui si ibridano identità e alterità (secondo il filosofo Homi Bhabha) e reale e immaginario (secondo l’urbanista Edward Soja). Ecco allora il Ceppo sradicato del «post-archeologico» Christoph Keller; ecco Rosetta S. Elkin riprendere la natura naturans della Teoria delle piante di Goethe. Ecco i diluvi video, leonardeschi e billviolacei, di Emanuele Becheri (Acquarelli distratti, 2015) ed ecco soprattutto i Wonder objects di Chiara Bettazzi (2013-2018): due artisti quarantenni, da me almeno inauditi, che rendono visibile l’ipotesi di un ricominciamento possibile, o almeno ipotizzabile, dopo la fine dell’Antropocene. Quando «ostinata e sorprendente torna a proliferare la vita». 

 

Gian Maria Tosatti, La mia parte nella seconda guerra mondiale.

 

Davanti all’installazione crudele e ambiguamente elegante di Bettazzi, vengono in mente la Glass Menagerie di Tennessee Williams, le glass bells di Joseph Cornell (una genealogia ripercorsa da Roberta Aureli, La campana di vetro, Bulzoni 2016), magari anche le bottiglie di Morandi. È, scrive Bussoni, una «natura morta e insieme graziata dalla vita»: dove non si sa, però, se sia da temere più la morte sotto vetro o la vita – la malattia della materia, diceva Thomas Mann – che malgrado tutto la insidia. A dominare è l’opacizzazione di una polvere che è insieme segno di morte, certo, ma anche di una vita (il pulviscolo, il polline nel clinamen lucreziano), appunto, non così rassicurante. È forse la stessa polvere – le ceneri che ricoprono ogni dopoguerra – raccolta da Gian Maria Tosatti nella chiesa napoletana dei Santi Cosma e Damiano, abbandonata appunto dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, dove è cominciata l’odissea delle sue Sette Stagioni dello Spirito: che dal 2013 al 2016 ha percorso gli interstizi della Città Porosa, dal Mal d’Archivio dell’ex Anagrafe alle tarkovskiane sabbie del tempo depositate nel tèmenos della Santissima Trinità delle Monache.

 

Chiara Bettazzi.

 

Alla fine del percorso viene in mente l’explicit di un gran libro del nostro tempo, l’Autoritratto nello studio di Giorgio Agamben, in cui l’unico possibile credo dell’ateologo è quello per l’«erba», dove sono «tutti coloro che ho amato». La fine della nostra vita individuale, come quella della specie cui apparteniamo, non coincide con la fine del mondo. Al contrario, è il segno di una potenza: un po’ di possibile. Allo stesso modo si concludeva il Tendo al mio fine, inconsapevolmente heideggeriano, di Gadda: «crescerà ne’ vecchi muri l’urtica: e l’erba di sopra la lassitudine mia. E l’erba, che sarà cresciuta, la mangerà il cavallo, che campato sarà».

 

Una versione più breve di questo articolo è uscita il 6 gennaio su «Alias».

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Arte come rinaturazione alla Galleria Nazionale di Roma
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Immagini dalla sorveglianza

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Nella nostra indagine sulla metafotografia italiana abbiamo incontrato Irene Fenara (1990), artista bolognese che nella sua ricerca segue principalmente due percorsi – la video installazione e la sperimentazione con la fotografia concentrata anche sull'interazione con le telecamere di sorveglianza – per attivare qualcosa che tende all’allargamento dei confini dell’arte. Fenara cerca ogni volta in modo diverso di spingersi oltre la consuetudine, di sondare gli interstizi che si creano tra le varie espressioni artistiche, dove le diverse caratteristiche si mescolano e interagiscono.

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Mike Nelson. L’atteso

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Al di là di un’alta e lunga vetrata, compare il retro di un anonimo imponente tabellone per affissioni in legno alto circa dieci metri; quattro motociclette, alcune a terra, altre disposte in direzioni diverse; delle autovetture (per la precisione dodici, di diversi modelli e marche) e un paio di furgoni, tutti con i fanali accesi e rivolti verso lo spettatore. Da un’apertura della vetrata, si accede in questo ampio ambiente con il pavimento completamente ricoperto da un consistente strato di macerie e materiali di risulta di oltre duecento tonnellate. Si presenta così l’ultimo lavoro site specific di Mike Nelson, nella navata del Binario 1 delle OGR Officine Grandi Riparazioni di Torino (il più grande impianto industriale, sorto nella città piemontese nel 1895 e attivo fino al 1992; solo il provvido intervento della Fondazione CRT ne ha sventato l’abbattimento, acquisendo e riqualificando la storica fabbrica in cui si riparavano i treni).

Nato a Loughborough (Regno Unito) nel 1967, Mike Nelson, largamente conosciuto per le sue grandi installazioni create con una ricca quantità e varietà di materiali esposte in tutto il mondo, con la curatela di Samuele Piazza, si è confrontato con questo singolare spazio. 

 

 

Partendo dalla suggestione sovrannaturali del racconto di H. P. Lovecraft, La strada (1920), “alcuni dicono che le cose e i luoghi abbiano un’anima, e c’è chi dice che non ce l’abbiano; io non oso pronunciarmi, ma voglio parlarvi della strada”, Mike Nelson racconta la sua strada, con una sua storia, con una sua anima. Quella che ciascun visitatore è esortato a individuare, a ricostruire, a immaginare, una volta addentrato all’interno della vasta installazione. 

Parafrasando il titolo di uno scritto di Andrej Tarkovskij, uno dei registi che ha fortemente influenzato la formazione dell’artista inglese, ne L’atteso egli ha “scolpito il tempo”, plasmando un’atmosfera bloccata e interrotta. Il titolo stesso dell’installazione racchiude, infatti, il pensiero di qualcosa di aspettato con desiderio, con ansia, finanche con timore. Appena varcata la soglia, lo spettatore è avvolto da tale malia, catapultato in una dimensione indefinita, dove ogni coordinata spazio-temporale è cancellata e annullata. Trasmutato in soggetto attivante, lo spettatore appare come un sopravvissuto che vaga tra le macerie e, voyeuristicamente, perlustra gli interni dei veicoli. Questi ultimi che, per antonomasia, rappresentano lo spostamento e, più in generale, il viaggio nel significato più ampio (tema caro all’artista), sono tutti perfettamente riconoscibili, ravvisati come luoghi, come parte di una quotidianità nota, maneggiati come elementi da modellare e piegare al racconto messo in scena dall’artista. 

 

Ph Andrea Rossetti.


In tale scenografia, prima della vetrata è disposta Untitled (intimate sculpture for a pubblic space, 2013), una piccola scultura, composta da un sacco a pelo custodito all’interno di una teca di plexiglass trasformata in una sorta di scatola per donazioni attraverso una minuta fessura. Omaggio all’amico e scalatore Erlend Williamson, morto durante un’arrampicata delle Highlands scozzesi, e proprietario del sacco a pelo. E, seppure appare come un’appendice, in verità è l’incipit dell’intera opera.

Come al solito, Mike Nelson dissemina l’installazione di dettagli che innescano domande cui non fornisce alcuna univoca risposta, legittimando ogni possibile spiegazione e narrazione. Osservata al di là del vetro, l’opera può suggerire un drive in, ma, quando si apprende che il grande tabellone è privo di contenuto e su di esso non è proiettato nulla, qualsiasi convinzione è azzerata e si attiva la ricerca di nuovi ulteriori possibili significati e spiegazioni. Allora, dove siamo? Nelle auto non c’è nessuno. Dove sono andati gli occupanti? Le vetture hanno i fanali accesi e, molte, anche la radio. Sono fuggiti? Cosa è accaduto?

Gli oggetti, riconosciuti come espressione di momenti, disseminati nelle vetture, svelano una quotidianità di gente comune. Un pupazzo di peluche, una pochette con trucchi da donna sparsi sul sedile, un mazzo di carte da gioco, un vecchio cellulare, degli scarponi da lavoro, bottiglie vuote, una videocassetta, un paio di guinzagli, e così via. Apparentemente disposti con casualità, in realtà sono accuratamente scelti e meticolosamente posizionati, perché pregni di un passato e portatori di una storia, che raccontano e delineano persone diverse, dall’operaio (furgoni) al benestante (Porsche e Mercedes). 

 

 

 

Un’installazione, dove delle autovetture sono abbandonate su uno strato di macerie, realizzata proprio a Torino, a lungo capitale dell’industria automobilistica, fa scattare numerose associazioni di idee, genera un corto circuito che, alcuni quotidiani nazionali, non hanno mancato di evidenziare, attraverso tonanti titoli (come, “OGR trasformato in un parcheggio apocalittico”, La Stampa).

Attraverso le sue opere, Mike Nelson propone una riflessione esistenziale sull’uomo, dominato da un parossistico materialismo, simbolicamente incarnato dalle autovetture, espressione dello status symbol dell’individuo. Nonostante l’aspetto statico, esse acuiscono le tensioni e le emozioni, in un crescente pathos. Tensione emotiva che coinvolge completamente lo spettatore e lo rende partecipe di un percorso, di una scoperta, di un turbamento, di un’apprensione. Un presente, di cui è complicato tracciare i contorni cronologici, che sembra porsi tra un indefinibile passato e incerto futuro; comunque un “qui e ora” che non è facile capire se è in un passato o in un futuro.

 

Ph Andrea Rossetti.


Inquietudine particolarmente sollecitata da alcuni elementi, come i due guinzagli legati al parafango posteriore di un’auto, che mantengono la circolarità del collo dell’animale di cui non c’è alcuna traccia. O il libro di tarocchi, vicino a un rotolo di filo spinato, nel cui centro è posta una bottiglia di vetro con l’etichetta scritta in caratteri mediorientali, all’interno di un furgone, sul cui cruscotto campeggia un cappello con visiera con la scritta “Blow Up Saddam Hussein”, che compone l’acronimo BUSH. Lo stesso invito a guardare da più vicino, già espresso con la videocassetta dell’omonimo film di Michelangelo Antonioni, sistemata all’interno di un altro abitacolo. 

In molti, hanno rintracciato, in quest’installazione, un forte contatto con Five Car Stud di Ed Kienholz. Ma, mentre l’artista americano, attraverso un’arte cruenta e perversa, mirava a indagare le realtà sociali più abiette, rintracciandone la violenza, per riproporla in scene raccapriccianti che, come nell’opera citata, brutalmente riproduce una violenza razziale, Nelson raccoglie e affianca momenti, per descrivere un’assenza, in una differente temporalità, raccontando l’ambiguo, il nulla, il non visibile, tracciando così una sorta di (auto)ritratto dell’uomo contemporaneo con le sue paure e le sue mancanze e ossessioni e, soprattutto, con le sue paure.  

 

La mostra resterà aperta fino al 3 febbraio 2019, OGR Officine Grandi Riparazioni (Corso Castelfidardo, 22, Torino).

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OGR Officine Grandi Riparazioni Torino
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Girls, Ghost and War

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Due aerei si fronteggiano sulla pista di atterraggio. Due navi enormi, come due cetacei metallici, stanno ormeggiate l’una di fianco all’altra. Due auto stanno una dinnanzi all’altra, con i paraurti che si sfiorano, i fanali accesi e la luce che si fonde nello spazio vuoto. Sembra una scintilla, qualcosa in procinto di svelare un segreto. Anche se la luce non illumina nulla, solo altra luce. Non c’è modo di capire sino in fondo cosa vogliono dirci le immagini di Ange Leccia. Tutto è fermo. Non accade nulla. Forse è per questo ci appaiono misteriose. Cosa significa duplicare? Di che tipo di doppio si tratta? In queste fotografie non ci sono riflessi, scissioni, rifrazioni, ma semplicemente due oggetti uguali e ugualmente reali, chiusi e ostinati nel loro “essere due”.

 

Ange Leccia, Volvo, Arrangement, 1986.


Eppure si è perfettamente consapevoli che la metafora del doppio, che qui viene evocata, non può che essere considerata come un impulso elementare dello spirito umano. Non ci si sente, non ci si ode, non ci si vede, se non come l’altro, cioè come proiezione e alterità. Ma se la fotografia attesta che l’altro è identico ed esiste nello stesso istante, cosa ha voluto suggerire Ange Leccia? Il raddoppiamento dà un senso ulteriore a ciò che ripete? A cosa davvero dobbiamo fare attenzione? Quanto c’è del mito platonico, ovvero dell’idea di scissione, e quanto di quello di Narciso, inteso come duplicazione? Separare e dare forma non sono forse i gesti che contraddistinguono ogni atto creativo? L’immagine fotografica consente di racchiudere in un solo istante il ricordo di una scissione originaria e la nostalgia di una impossibile riunificazione. Ma le domande, come le ipotesi, sembrano infinite. Gli oggetti di Leccia rappresentano un enigma che non ha soluzione, e che ogni volta si propone come tale.

 

Ange Leccia, American Nebraska – American Kentucky, Arrangement, 1987.


Il tempo, nelle sue immagini, come le risposte, rimangono sospese. Resta il fatto che ciò che conta è il gesto originario. L’autore avvicina a sé, come fa con gli oggetti che fotografa, il fruitore. Costruisce per lui uno spazio misterioso, lo costringe a diventare “prossimo” a sé. Cosa fa? Una sorta di ready made doppio, racconta Elio Grazioli, che ha curato la mostra. Negli anni Ottanta prende due esemplari di un oggetto di varie dimensioni, anche molto grandi, come due aerei o due petroliere, di cui è presente la versione fotografica in mostra, disposti uno di fronte all’altro. A volte sembrano semplici coincidenze, accostamenti prodotti dal caso, come per le due petroliere uguali ormeggiate fianco a fianco. Li chiama “Arrangement”.

La loro vicinanza evoca come il verbo “arranger”, una composizione, un aggiustamento, una sistemazione, un accostamento. E nell’essenza di questo gesto, in questa distanza, come nello spazio tra gli oggetti, chi guarda si approssima anche alla ricerca di un senso. Cercare di capire, qui provoca una vertigine. E forse ciò che ci attrae è questo avvicinamento che paradossalmente produce uno “spaesamento”. Si è più lontani nell’istante in cui si è più vicini. Perturbante verrebbe da dire, qualcosa di apparentemente familiare che nasconde un enigma e ci spinge in una zona di incertezza che ci esilia dalle nostre più consolidate abitudini mentali. Le sue presenze ostinate ci portano dunque non solo alla radice del gesto creativo, ma anche alla radice stessa del senso di “vedere”, alla base dello stesso.

 

Nel momento in cui ci si sofferma dinnanzi a questi oggetti doppi, l’azione di vedere è inseparabile da quella di pensare. La ricerca di una consistenza teorica, del loro motivo di esistere e di apparire così ostinatamente uguali, fa sorgere delle domande che a un certo punto pare abbandonino l’immagine stessa e costituiscano la materia vera di quelle fotografie. Ange Leccia con due semplici oggetti accostati pare ricordarci che non esiste una differenza rilevante tra pensare e vedere. Come rammenta Giuseppe di Napoli in un suo articolo, l’etimo “ἒidos [eidos] (forma, figura), da cui discende il termine idea ha la stessa radice di ἐιδέiν, [eidein] vedere e, per i greci, il perfetto di vedere oìda, significa “io so” (perché ho visto)”.

 

Così accade anche nel suo video Ghost and War. “Io so perché ho visto”, sembrano dire le giovani donne che appaiono nel video. Sullo schermo scorrono immagini che evocano un continuo conflitto: rivolte, combattimenti, bombardamenti che si alternano con le figure e i volti femminili. Il contrasto è netto. Le giovani donne appaiono tristi, malinconiche eppure bellissime. Sembrano costituire quasi una sorta di “inconscio ottico”, come a dire che la forza del visibile vive anche di apparizioni e di evanescenze, di affioramenti e di sparizioni. Tutto è fatto di doppi, sembra suggerire Ange Leccia.

E in questo video le immagini vengono sovrapposte e trasformate in presenze evanescenti. Fantasmi appunto. Bellezza e violenza si fondono e si confondono, quasi in una guerra incessante. L’immagine che si genera è un nuovo doppio, una sorta di essenza intermedia, un fantasma, dove ogni realtà, la guerra come i volti femminili, partecipano tanto del diverso quanto dell’identico. Lo stesso titolo evoca una confusione. Se la guerra si percepisce chiaramente, da dove nascono i fantasmi? Sono le giovani donne o sono le immagini nuove che si generano dinnanzi a noi? Di che sostanza sono fatte? Possiamo pensare allo stesso modo e vedere allo stesso modo? Se vedere e pensare sono istantanei, anche generare un nuovo tipo di immagine, incorporea, ma generata da due corpi ben distinti, è il tentativo di mostrare il processo creativo nella sua essenza più profonda. Generare significa inventare, produrre un nuovo tipo di rappresentazione. Re-praesentatio, scrive Jean-Luc Nancy, vuol dire presentazione sottolineata, il prefisso re- non è ripetitivo ma intensivo. 

 

La repraesentatio prende il suo primo senso dall’uso che se ne fa nel teatro, dove non ha niente a che vedere col numero delle rappresentazioni, e dove, appunto si distingue nettamente dalla “ripetizione” ed inoltre dal suo antico significato giuridico: produrre un documento, una prova o anche nel senso di fare osservare, esporre con insistenza. E nel caso di Ange Leccia è evidente. L’immagine conflittuale e fantasmatica di “ghost and war” è la scena in cui viene mostrato un nuovo modo di vedere e di capire. Le immagini possono dunque essere tanto fantasmi quanto conflitti, se non fantasmi in conflitto.

La bellezza evocata da Leccia, grazie ai volti femminili, forse non è altro che il piacere di abbandonarsi a una visibilità fluttuante. E allora il gioco che può compiere ogni spettatore diventa questo: cercare una nuova forma di immagine che si animi davanti a noi, una forma che forse deve ancora nascere o, più verosimilmente, una forma che sprofonda e scompare nella luce, per poi emergere evanescente e reale al tempo stesso. Uno sguardo che riguarderebbe i fantasmi. Quasi una prospettiva onirica, che permette di trasformare il tempo della sovrapposizione in puro spazio, o meglio in un’unica immagine simultanea. Un altro doppio: reale e sogno. Le immagini di Ange Leccia non sono che il tramite di una sfida: spingere la nostra capacità di vedere verso una profondità intensa e vertiginosa. Non ci resta infine che guardare, pensare, creare, immaginare, sognare.

 

Mostra: Ange Leccia, Ghirl, Ghost and War a cura di Elio Grazioli

Galleria Six, Milano, fino al 26 gennaio 2019

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Paolo Gioli: il cinema è ovunque

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Paolo Gioli è l’ideatore di movimenti di cinepresa mai avvenuti, il discreto alchimista del “niger mundus”, il manovratore della metamorfosi, l’archeologo-scopritore del cinema sempre in anticipo/ritardo rispetto alla sua invenzione. 

Lo incontro nella sua casa fuori Rovigo, grazie all’intervento di due amici cineasti che mi accompagnano, Morgan Menegazzo e Mariachiara Pernisa.  L’abitazione è un colloquio di oggetti, essa stessa congegno cinematografico. Prima dell’arrivo, mi sono fatto un piccolo consuntivo della sua lotta per immagini: proto-film, film-libro, film decomposti, filmfinish, poemetti filmici, schermi perforati, schermi disturbati, schermo di schermi, naturae, vessazioni, forme dell’annegamento, cronache di verticalità̀ simultanea, ottenebramenti e anatomie stenopeiche.

 

Durante la mia inquieta esplorazione ritrovo – sparsi per la casa – frammenti e reperti di questa lotta: otturatori vegetali, fogliame, bestiari fantastici, maschere funerarie, nudi d’arte, e un manifesto (tra gli altri) della banda Baader/Meinhof.  Gioli mi mostra un libro aperto sul suo “pugno stenopeico” e le sue conchiglie con l’ombelico forato. Parliamo di Émile Cohl, lo straordinario (e dimenticato) animatore francese. Degli Etruschi di Volterra, di Magritte e di Duchamp, mentre un gatto ci passa attorno, attento alla nostra presenza. Beviamo limonata che Carla, sua moglie, ha preparato: “Non fatevi ingannare: lei conosce tutto Proust a memoria”.

 

Quando chiediamo se possiamo fare delle foto, Gioli ci domanda: “In analogico o in digitale? Detesto il digitale”. Poi sorride: “Ma se rinascessi domani, quanto ci sarebbe ancora da inventare!”.

 

 

Hai spesso manifestato interesse per quei momenti nella storia della fotografia dove una foto sarebbe potuta divenire altro da sé, magari cinema. Prima mi mostravi alcuni strumenti che la natura ti ha come “consegnato”. Dove “trovi” il cinema?

Ovunque. Lo posso trovare anche per terra: quello che mi viene incontro, un nulla, persino la polvere. Duchamp ha fatto “l'allevamento di polvere”, e l’ha fatto poi fotografare da Man Ray, come se la polvere fosse stata davvero seminata. Uno non deve essere mai stanco di abbinare cose differenti tra loro: occorre avere una sconfinata, instancabile curiosità. Io ho fatto passare una formica al fotofinish… una tecnica spietata, perché chi si ferma è perduto. Se il foro stenopeico è un punto di matita che tu fori, il fotofinish è una linea di matita che tu tagli. Punto e linea, come nel libro di Kandinsky. 

 

In uno dei tuoi lavori che ammiro di più, Immagini disturbate da un intenso parassita, tu nomini una delle sezioni “Guardare attraverso”.  Che cosa indica per te questa pratica?

Guardare attraverso è la cosa più semplice: guardare attraverso l’obiettivo della camera. Ma il discorso non finisce qui: adesso con il display la gente guarda allo schermo mentre filma. I film-maker tengono in mano i cavalletti come fossero trofei. Non trovo più nessuno che guardi nel mirino… sei sollevato da ogni responsabilità. 

Quando si tratta di stampare nei laboratori cinematografici, devo spiegare tutto io: non c’è più nessun apprendistato, e quasi nessun ricambio generazionale. La stessa cosa per i laboratori tipografici. Una volta in entrambi i luoghi c’era il cromista. Osservava, e diceva: “Qui bisogna correggere la dominante, bisogna ristampare”. A occhio. Non aveva la tavolozza elettronica ad aiutarlo.  Bisognava andare alla finestra, come quando i venditori di tessuti srotolavano le stoffe e uscivano fuori dal negozio alla luce del sole, perché lì cambiava tutto: mi ricordo alcuni episodi vissuti con mia madre… 

Quando stampano uno dei miei libri, io vado sempre in tipografia. Mi chiedono un poco scocciati se sono intenzionato a rimanere: “Che altro dovrei fare? Il libro è mio”, rispondo.

 

Alla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro si è molto discusso della necessità che lo stato finanzi i film d’arte. Tu però ti sei sempre rivolto ad una pratica più isolata: “film liberi in libertà”. Quanto è importante per te questa libertà? 

Se si tratta di film personali, di film-poema, non c’è necessità di fondi statali: una poesia la scrivi dove vuoi, su un pezzo di carta o sopra un mattone. Poi però le parole rimangono incise. 

Perché il film-makerè interessante? Perché sei autore fino in fondo. Entri in un negozio, compri una bobina di pellicola, nessuno sa niente, e tu inizi un’opera: se qualcuno la vuole vedere, ben venga! Le Polaroid all’inizio me le compravo da solo, rimanendo senza soldi: opere che ora sono inserite nel cosiddetto “mercato dell’arte”. Ma bisogna crederci, o almeno avere qualcuno che ti sostenga nei momenti di crisi, nei momenti che sono all’opposto della produzione industriale: quelli di stallo, che sono anche i più interessanti. Quando uno è saturo di sollecitazioni, bisogna trovare il modo di sbloccarsi, e poi avviene come un’esplosione: ci sono stati periodi in cui giravo anche più film contemporaneamente, scalando le immagini, tuffandole una nell’altra, come nel mio Del Tuffarsi e dell’annegarsi. Mi dispiace averlo realizzato dopo Wavelength di Michael Snow, film straordinario di cui non ero ancora a conoscenza.  

 

 

A proposito di Del Tuffarsi e dell’annegarsi: ho spesso pensato che questo tuo gesto cinematografico avesse preceduto il loop delle Torri Gemelle, l’infinito replay della loro caduta… Lo stesso avviene in Filmarilyn, con quella successione di immagini che fa tremare la vita tre le pose lapidarie di Marilyn Monroe. Tu hai più volte animato libri di fotografie, arrivando a rivelare un cinema che era già come prefigurato, in attesa. Credi che sia una questione di portare l’occhio ad individuare queste immagini dormienti?

Per ottenere quell’andamento, quella concentrazione di immagini bisognava lavorare ore intere in completa solitudine. Lo stesso per scomporre i corpi, anche se oggi – a guardare certi mostri estetici, gonfi e dilatati – non c’è più molto da scomporre: semmai si tratterebbe di ricomporli, di rifarli da capo. Io sarei stato curioso di conoscere uno come me: e lo dico per modestia, soprattutto per modestia. Avessi avuto uno zio così, lo avrei visitato ogni giorno. Un ragazzino che è venuto da me non arrivava all’ingranditore, e allora abbiamo dovuto prendere una sedia. Gli ho fatto stampare una foto: “Dove c’è il nero, non passerà la luce. Dove c’è il bianco, passerà”. Un miracolo. 

Prima dell’invenzione del cinema, tanti autori avrebbero voluto vedere il movimento. Le riprese magari riuscivano, ma tutto crollava al momento di realizzare un proiettore che non fosse sgangherato… Poi sono comparsi i fratelli Lumière, e il loro treno che arriva alla stazione di La Ciotat è ancora perfetto. La stessa stabilità di immagine, lo stesso modo di riprendere, per anni e anni… e tutt’ora si potrebbe riprendere allo stesso modo. Non esiste l’evoluzione: era già quello l’avvenire del cinema!

 

E tu pensi che il cinema abbia ancora un avvenire?

Gli strumenti diventano sempre più desueti, e uno deve affrettarsi ad aggiornarsi. Ci sarà un grande ripensamento, un domandarsi: abbiamo cestinato troppo in anticipo? Abbiamo soffocato l’occhio di dispositivi? In questa discarica di strumenti super efficienti, non v’è capacità di distinguere un artista, di saperlo riconoscere davvero. Il papà di Picasso, anche lui pittore, decise di smettere di dipingere dopo aver visto il figlio realizzare La prima comunione: questo è un atto di attenzione autentica.

Quando uno osserva attentamente il mondo, tutta la storia dell’arte inizia a scorrere davanti agli occhi… basta stare un poco in alto. Le nubi, le nuvole: ecco il Tiepolo, ecco il montaggio! 

Poco importano gli autori e i precedenti storici. È tutto lì, fuori dalle gallerie...

 

(In collaborazione con “La Camera Ardente”. Le foto dello studio di Paolo Gioli sono dell’autore)

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Piccola Liturgia Errante

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Jack London, l’enfant terribile della letteratura americana, diventa uno dei più noti scrittori a ventiquattro anni, dopo aver tentato la fortuna in mille modi, come pirata di ostriche nella baia di San Francisco, cercatore d’oro nel Klondike o cacciatore di foche nel Pacifico. Un’esperienza determinante nella sua formazione fu il periodo di vagabondaggio, quando ancora teenager si unì ai numerosi gruppi di adolescenti senza famiglia che vagavano come piccole bande di diseredati in giro per gli Stati Uniti. Nel libro autobiografico The Road London racconta di alcune cose fondamentali per la sua carriera letteraria apprese in quel suo vagabondare senza meta: oltre alla lingua viva, espressiva, potente parlata dai suoi compagni di ventura, una lingua certo non libresca né di maniera, London imparò l’importanza di saper raccontare storie. Per essere capaci di procurarsi il cibo necessario per sopravvivere bisognava essere bravi narratori. “Dall’abilità di raccontare storie dipende la riuscita di un mendicante” scrive London; devono essere storie verosimili, non necessariamente vere, storie spesso inventate al momento, in risposta a situazioni impreviste, guardando in faccia il proprio interlocutore e giocando su ciò che si sa e su ciò che si riesce a immaginare. Questa abilità permise a London di sbarcare il lunario e a volte anche di evitare l’arresto.

 

Che il raccontare storie sia stato e sia necessario nell’evoluzione dell’homo sapiens è ormai luogo ricorrente nella critica letteraria, nella psicoanalisi, nelle scienze cognitive. Testo ricco e sollecitante per questo è il recente studio di Michele Cometa Perché le storie ci aiutano a vivere (Cortina 2017). Raccontare storie ci permette di collegare gli attimi della vita, le visioni, i traumi e di dare un senso unitario, certo ipotetico, a ciò che ci accade attorno. 

Ma le storie non sono solo salvifiche per chi le costruisce, possono salvare la vita (o aiutare a comprenderla un po’ meglio) anche a chi le ascolta o le vede rappresentate. Aristotele parlava di catarsi come momento di purificazione dalle o delle passioni che l’uditorio sperimenta quando assiste a una tragedia riuscita, quelle che sono capaci di trasportarti in un mondo altro, nel quale, senza fatica, si è disposti a sospendere tutti i propri pregiudizi e a mettere tra parentesi tutte le proprie categorie interpretative, abbandonandosi alla situazione rappresentata per vedere cose che prima non si vedevano in modo così chiaro e profondo. Non succede sempre, perché non sempre il racconto ci spinge in quello stato di sospensione e di empatia, ma ogni tanto capita quello strano corto circuito di passioni che fanno di una narrazione, qualsiasi sia la sua forma, un’opera poetica. Le storie fanno bene a chi le narra e, se ben raccontate, fanno bene anche a chi e ascolta, e questa è la sensazione che abbiamo provato al termine della Piccola Liturgia Errante, messa in scena alla Triennale Teatro dell’arte di Milano nel novembre scorso. Una sensazione che abbiamo visto condivisa da tutto il numeroso pubblico presente al “reading-video-performativo” dell’Atelier dell’Errore.

 

Uno degli obiettivi dell’Atelier dell’Errore, laboratorio creativo e scuola di alti studi su insetti e animali apotropaici e protettori, di cui si è parlato ripetutamente nelle pagine di Doppiozero partendo anche dal sorprendente Atlante di Zoologia profetica (Corraini 2016) curato da Marco Belpoliti, era di dare la possibilità a dei ragazzi di raccontare e raccontarsi attraverso il disegno. L’Atelier dell’Errore, come si legge nella home page della ONLUS, è «un laboratorio di Arti Visive progettato da Luca Santiago Mora per la Neuropsichiatria Infantile». L’atelier è nato nel 2002, come servizio integrativo all’attività clinica dell’AUSL di Reggio Emilia e, in seguito, dell’Azienda Ospedaliera Papa Giovanni XXIII di Bergamo. Oltre ad essere un «valido complemento all'attività clinica della Neuropsichiatria Infantile» è «anche opera d'arte relazionale, e come tale ha partecipato a numerose esposizioni e manifestazioni legate all’arte contemporanea in Italia e all’estero». L’autodefinizione di «opera d’arte relazionale» è rilevante. Si pone l’accento non sulle opere che vengono prodotte, ma sull’atelier in quanto tale: è il processo, il luogo, l’attività in sé ad essere «opera d’arte relazionale», non tanto l’oggetto finito ed esposto.

 

Il lavoro è infatti il risultato di un percorso collettivo, in cui i ragazzi realizzano collegialmente disegni di animali, condotti dall’artista visivo Santiago Mora, una guida che si muove con discrezione, che non impone ma che accompagna, un «maestro alla pari solo un po’ più vecchio (…) che passa fogli e matite e un po’ di tecnica» (C. L. Candiani, Sbaglio, in Atlante di zoologia profetica, cit., p. 188). Quello del tema (animali) e dei materiali da usare (matite, matite colorate, pastelli a cera) sono alcuni dei pochi vincoli dell’atelier; il resto è il tentativo, come racconta Santiago Mora, di creare delle relazioni fra ragazzi con «ritardi più o meno gravi, difficoltà di apprendimento, dislessie, disprassie, sindromi dai nomi aggraziati e quanto mai traditori (Turette, X-fragile...), ipercinesi, fino al misterioso ed onnivoro contenitore dell’autismo» (“Doppiozero”, 23 gennaio 2013). Più ragazzi lavorano insieme, con pazienza e minuziosità certosina, alla creazione di uno stesso disegno, a volte di grandi dimensioni. Il ragno riprodotto nella copertina del volume, ad esempio, è 300 x 240 cm. In un altro disegno, L’attacchista del canile, pure di dimensioni considerevoli (150 x 230 cm), o nel Vendicatore di notte (120 x 200 cm.), tutti riprodotti nell’Atlante, si nota la forma insolita e irregolare del foglio. È il disegno che sembra dettare lo spazio di cui ha bisogno; se questo spazio manca, allora non si deve far altro che assecondare le esigenze del disegno e aggiungere il supporto cartaceo dove necessario. Infatti, un altro dei vincoli che l’atelier si è dato è il divieto di usare la gomma da cancellare. Ogni segno è importante. Anche quelli prodotti per errore, che diventano così, al pari di qualunque altro segno “intenzionale”, parte integrale e ineliminabile dell’animale che sta prendendo corpo; un corpo non programmato né pre-visto, che è frutto di una relazione produttiva fra più soggetti, che a volte aggiungono, anche a distanza di tempo, dei particolari, come nel caso delle enormi zampe del ragno, rendendo necessaria la dilatazione dello stesso supporto cartaceo.

 

Nel 2015, ospitato dalla Collezione Maramotti di Reggio Emilia, viene creato l’Atelier dell’Errore BIG, “alta scuola di specializzazione e professionalizzazione nell’ambito delle arti visive nata su sollecitazione dei genitori dei ragazzini che con la maggiore età, lasciando la Neuropsichiatria Infantile, non avrebbero più avuto la possibilità di proseguire il loro percorso artistico con l’Atelier”.  

Rocco Ronchi, in uno degli interventi apparsi su Doppiozero e al quale rimandiamo per comprendere meglio il senso profondo di questa singolare e luminosa esperienza etica ed estetica, sottolinea la differenza fra archetipo e prototipo. Per Ronchi gli iconotesti elaborati nell’atelier – i disegni di insetti e animali fantastici sono infatti corredati da titoli altrettanto immaginifici e da frasi che integrano il disegno stesso ampliandone il respiro narrativo – non sono rivisitazioni di archetipi nel senso junghiano, ovvero modelli simbolici predefiniti e universali, ma sono piuttosto prototipi, cioè entità prime che sono in cerca di una loro definizione compiuta che può realizzarsi solo nel loro divenire, nel loro entrare nel mondo. Scrive Ronchi (“Doppiozero”, 3 marzo 2017):

 

I prototipi differiscono radicalmente dagli archetipi perché sono macchine che funzionano come schemi operativi. L'Archetipo-Idea è un fatto. L'Archetipo è un modello trascendente che può essere solo imitato in modo più o meno adeguato, ma comunque, sempre difettivamente. L'archetipo è un Simbolo. Il prototipo, invece, è qualcosa che non può prescindere dal suo ulteriore sviluppo, è un essere che è fatto tutto di divenire, che ha bisogno del divenire (un divenire altro) per essere quello che (non) è. Se è un prototipo, non è per definizione compiuto, ma è sempre da fare. Nel corso del suo sviluppo cambia incessantemente. Deve cambiare. La sua essenza lo richiede. L'errore lo costituisce da capo a piedi perché se non fosse errante non sarebbe affatto un buon prototipo, cioè una macchina da sviluppare.

 

Le narrazioni prototipiche raccontate da queste opere a un certo punto della storia dell’atelier hanno sentito l’esigenza di trovare altri modi di raccontarsi. L’errore si fa erranza. L’opera chiama nuove traduzioni e adattamenti e metamorfosi. È nata così l’idea di mettere in vita, attraverso la messa in scena, gli animali raffigurati nelle tavole, raccontando, secondo le modalità della rappresentazione mimetica, che cosa avviene nel laboratorio creativo dell’atelier. 

Il teatro, sappiamo bene, è luogo statutario del come se, è fantasticheria e modo di creazione d’irrealtà. Il pubblico di una rappresentazione teatrale è consapevole di partecipare ad una finzione a cui, con la complicità degli attori, decide di aderire per tutto il tempo della messa in scena come se si trattasse della verità. Il tempo e lo spazio del teatro, come quelli delle fiabe, sono un tempo e uno spazio speciali, di sospensione delle categorie della realtà. Ed in questo spazio e tempo di sospensione, in cui prende forma l’evento teatrale come gioco del come se, di finzione del vero, è inserito lo spettatore per prendere parte a quel gioco, facendo finta di credere alla verità di ciò che accade in scena. Eppure, questa prima drammaturgia dell’AdE – perfetto e terribile acronimo di Atelier dell’Errore inventato da uno dei ragazzi – fa saltare immediatamente tutte le nostre categorie di spettatori complici di una finzione, perché gli attori non sono attori e, soprattutto, perché nulla è concesso alla dissimulazione o alla fascinazione dello spettacolo. Mentre prendiamo posto in sala siamo del resto avvertiti da Santiago Mora che “questo non è uno spettacolo”, che “tutto ciò che vediamo è già accaduto”.

 

 

Nessuna costruzione finzionale e nessun aristotelico compromesso spettacolare dunque, ma il racconto di un’esperienza in cui si inseriscono, come medaglioni, le storie degli animali nati dalla fantasia creatrice dei giovani artisti dell’atelier.

Una gemma narrativa è già il titolo scelto per questa singolare esperienza performativa, Piccola Liturgia Errante, che è Piccola, si legge nel libretto di sala, perché “vive dei corpi, dei gesti e delle voci narranti di piccoli performer che non vengono da alcuna scuola di teatro”; è una Liturgia perché “vuole essere un rituale scenico di auto-rappresentazione in cui l’atelier si racconta a maninude al proprio pubblico”; ed è Errante“come tutto ciò che nasce in atelier, perché frutto dell’inciampo, dell’imprevisto, dell’inedito e dell’inenarrabile”. 

 

È lo stesso Santiago Mora a fare da guida al racconto, voce narrante appostata dietro un semplice banchetto di scuola, defilato maestro di scena e sommessa presenza con la sua liturgia di movimenti minimi che indirizzano i giovani artisti, proprio come accade quando si trovano in atelier alle prese con fogli e matite. Santiago Mora crea la cornice narrativa di questo miracoloso contenitore di storie, che si apre su una scena essenziale. A sinistra il banchetto di scuola che occuperà il “maestro alla pari, solo più vecchio” Santiago Mora, a destra, a terra con lui, due giovani artiste piegate su un foglio a disegnare, al centro un grande mucchio di sabbia, simile ad un vulcano pronto a risvegliarsi.

Su uno schermo largo quanto il palco ha inizio intanto la prima storia, racconto visivo del minuscolo corpo di una delle ragazze dell’atelier che danza inginocchiata sul pavimento. Nel primo dei molti giochi di specchi in cui la scena teatrale ripropone un perfetto raddoppiamento dell’immagine sullo schermo, capiamo che si tratta della stessa artista che disegna curva sulle tavole del palcoscenico. Non ne incrociamo mai lo sguardo, ma solo il movimento del corpo e delle mani che, in questa danza piena di grazia, cercano il volto di una compagna per accarezzarlo, abbellirlo con una coroncina di fiori, nutrirlo, lavorare insieme per costruire bellezza. Sin da questa prima scena il teatro traduce mirabilmente l’idea dell’atelier come “opera d'arte relazionale”. 

 

 

Altri racconti visivi partono dallo schermo, impiegato come dispositivo scenico, restituendo immagini di lava incandescente, che sembra scaturire da quel vulcano di sabbia innalzato sul palco, e di un formicaio brulicante. Due immagini ctonie, efficaci traduzioni visive di quel terrifico AdE che è l’Atelier dell’Errore, luogo dell’ombra dove lavorano gli invisibili, luogo germinante di storie che raccontano resti rifiutati, luogo di creazione di immagini che riproducono la vita incandescente dei ragazzi, la loro anima inquieta. Ma la lava, il formicaio, il disegno di Nicolas dal titolo La Remora AdE proiettati sullo schermo non fanno altro che dirci, con Eraclito, che “il medesimo sono Ade e Dioniso” (Frammento 123), che c’è identità fra l’oscurità e l’invisibilità di Ade e l’esplosiva pienezza della vita di Dioniso, dio dell’ebbrezza e del teatro. 

E allora, come accade nello spazio dell’atelier in cui i ragazzi disegnano con ritrovata libertà i loro animali mostruosi perché li difendano, li vendichino e facciano giustizia, anche il teatro, nella sua autentica radice etimologica di luogo e tempo privilegiato di visione di ciò che non è immediatamente percepibile, può creare fessure nelle incrostazioni, nei pregiudizi dei ”volgari normaloidi”, come li chiamano i ragazzi, può farsi spazio elettivo in cui dare nuova forma e suono a quei mostri che i ragazzi custodiscono, consentendo loro di raccontare ad alta voce, per esempio, che l’occhio destro della Remora AdE si chiama “rabbiometro”, perché serve a misurare il grado di rabbia che uno ha in corpo: “1: normale, 2: nervoso, 3: arrabbiato, 4: arrabbiatissimo, 5: spaccatutto, 6: tira giù i grattacieli (con la trancia) (trancia: macchinario che taglia tutto fatto così…), 7: piega i pulman (con 2 cacciaviti), 8: ingobba i gorilla, 9: sfonda tetto (con utensili da pugilato)”. 

 

 

Alle narrazioni che si susseguono per via esclusivamente visiva si intrecciano le storie personali dei giovani artisti dell’atelier, affidate alla voce narrante di Santiago Mora, e le storie favolose dei potenti mostri generati dalla loro fantasia. Il Tritaossa Mangiaparenti, il Drago Medusa Palline in Testa, l’Animal Tosto Morte, la Farfalla Pregante di San Pancrazio, l’Immane RagnoFerro di Curnasco sono presentati sullo schermo e descritti verbalmente in scena, in una forma di contesa ecfrastica fra la pictura e la poёsis complicata dalla dimensione performativa della narrazione. Durante la performance, attraverso la voce e i corpi degli attori-non attori, i disegni sembrano di fatto staccarsi dalla loro statica riproduzione sullo schermo, per materializzarsi e animarsi. La “dinamizzazione delle immagini” (M. Cometa, La scrittura delle immagini. Letteratura e cultura visuale, Milano, Cortina, 2012), tecnica ecfrastica che crea l’effetto di una messa in movimento dell’immagine, è qui rinforzata dall’interazione fra la parola e le retoriche del gesto, del corpo e della scena. È una relazione vitale, nel senso di messa in vita, quella che si instaura fra gli animali disegnati e i corpi degli artisti che li hanno generati, una incarnazione, nel senso etimologico di farsi carne, delle immagini nei corpi dei loro stessi artefici. 

C’è un momento di questa singolare esperienza performativa in cui il patto ecfrastico sembra infrangersi, ed è quando dal quel grosso cumulo di terra al centro della scena, ossia dal sottoterra di Ade, sbuca il Cockroach, un enorme scarafaggio che “è impossibile da descrivere, si può solo vedere”.

 

Il Cockroach, nella cui corazza si nasconde e trova sicuro rifugio dal proprio tormento uno dei ragazzi dell’atelier, riemerge dalla terra e si spinge faticosamente fino in platea, mentre lo schermo, in un nuovo e singolare gioco di specchi, ne ha appena anticipato l’inquietante presenza mostrando in primissimo piano i movimenti rallentati di un vero, gigantesco insetto. La partita si gioca ora fra il corpo dell’insetto che si aggira per il teatro e la sua immagine duplicata sullo schermo, in un dialogo fra due media in cui l’unico inserto ecfrastico consentito all’elemento verbale non può essere meramente denotativo, ma lirico. Ed è qui che si inserisce la voce decisa di Matteo, che urla ispirato, in un inglese sorprendente, il Psalm III di Allen Ginsberg, il cui ultimo verso, “I feed on your Name like a cockroach on a crumb – his cockroach is holy” ricorda di nuovo allo spettatore, in un momento ad altissimo gradiente lirico, la coincidenza del basso e dell’alto, dell’immondo e del divino, dell’oscurità e dell’ebbrezza che convergono nel qui e ora della scena, come nella vita di questi ragazzi e nel loro lavoro all’atelier.  

 

 

E mentre il Cockroach lascia la platea, ancora due immagini potenti ci visitano attraverso lo schermo. La prima è quella della giovanissima artista rinchiusa nel suo piccolo corpo che avevamo incontrato all’inizio, intenta a tracciare nell’aria, con la sua matita che ora sembra una bacchetta magica, dei lenti movimenti di danza; l’ultima immagine, mentre Santiago Mora e i suoi ragazzi raccolgono in grossi sacchi il vulcano di sabbia ormai distrutto dal Cockroach nella sua emersione dal sottosuolo, è quella di un altro vero insetto, osservato  nel suo eroico sforzo di arrampicarsi sul vetro scivoloso di una finestra per raggiungere la luce, proprio come il Cockroach e come tutti i giovani artisti dell’AdE. E anche il suo sforzo è simile a una danza. 

 

In un breve e potente manoscritto postumo del 1932 dal titolo Racconto ecura, che riportiamo integralmente dal libro già citato di Cometa Perché le storie ci aiutano a vivere, Walter Benjamin dà conto della singolare terapia contro il dolore messa in atto dalla moglie del suo amico filosofo Felix Noeggerath: 

 

 

Noeggerath mi sorprese raccontandomi dei poteri curativi che abitavano le mani della sua seconda moglie, e definendo con le seguenti parole i movimenti di queste mani che lenivano il dolore e curavano: questi movimenti erano altamente espressivi. Ma non si sarebbe potuto descrivere (beschreiben) la loro espressione – era come se raccontassero una storia. Ora i MerseburgerZaubersprüche danno un esempio – certo uno tra i tanti – di cura attraverso il narrare. È noto per altro che il racconto che il malato fa ascoltare al medico all’inizio della cura può rappresentare l’inizio di una guarigione. La psicoanalisi fa così in certi casi. E sorge la domanda se ogni malattia che si lasciasse confluire in un profondo e sufficientemente ampio flusso del racconto non fosse di per sé curabile. E il fatto diventa ancor più chiaro se si considera che il dolore non si lascia raccontare; che in qualche modo sbarra la strada come una diga ai succhi vitali che, come affluenti, vorrebbero sfociare nel grande flusso epico dell’esistenza (Dasein), della vita raccontabile. (pp. 350-51) 

 

 

I soli gesti delle mani della donna bastano dunque per costruire una narrazione, è come se raccontassero una storia, anzi sono già essi stessi una narrazione ad alto potere terapeutico. Anche i movimenti delle mani dei ragazzi dell’atelier compiuti sui fogli da disegno, così come quelli dei loro corpi in scena, raccontano storie. E sono storie per lo più tremende, di paura, di rabbia, di giustizia e vendetta, escluse dal flusso della vita raccontabile attraverso il solo discorso. Sono i gesti muti e i corpi di questi giovani artisti a tentare di articolare narrativamente la vita magmatica che essi custodiscono. E per noi “normaloidi” è come quando si fa rotolare un sasso e si scopre un formicaio brulicante di vite. Non si può far finta di niente, ricoprirlo, e via. 

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La catastrofe che incombe

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L’imperatore Settimio Severo aveva la pelle scura e parlava latino con forte accento punico. Come molti dei migranti odierni, proveniva dalla Libia. La mostra Roma Universalis. L’impero e la dinastia venuta dall’Africa (Colosseo, Foro Romano e Palatino, fino al 25 agosto 2019) ricostruisce la storia della dinastia imperiale dei Severi (dal 193 al 235 d.C.). La loro dominazione coincise con una stagione di riforme fra le quali la Constitutio Antoniniana proclamata nel 212-213 d.C. da Antonino Caracalla che concesse la cittadinanza romana ai figli delle coppie miste, agli schiavi liberati e agli abitanti delle regioni più periferiche dell’impero. 

Che ne è della legge italiana sulla cittadinanza per nascita (ius soli), approvata dalla Camera il 13 ottobre 2015 e da allora in attesa di essere esaminata dal Senato? 

 

Ritratti della dinastia dei Severi con Antonino Caracalla che volge lo sguardo corrucciato verso il visitatore. Forse sta pensando alla seduta del nostro Senato del 23 dicembre 2017, nel corso della quale si doveva votare lo ius soli, disertata da M5S, da tutta la destra e anche da una parte del centrosinistra.


Possiamo rispecchiarci nella politica sociale dei Severi come nel ritratto del dittatore romano Lucio Cornelio Silla. L’imperfetta coincidenza fra la copia in gesso e la proiezione del nostro viso su quello di Silla porta alla luce un nuovo carattere, un’identità più complessa, invitandoci a riflettere sulle nostre politiche sociali. L’identità di un gruppo sociale non è definita una volta per tutte ma è un processo in divenire che comporta innesti e ibridazioni (James Clifford, I frutti puri impazziscono. Etnografia, letteratura e arte nel secolo XX, Bollati Boringhieri, Torino 1999).

 

Proiezione di un volto su una copia in gesso del Ritratto di Silla, I secolo a.C.


L’immagine mostra due visi con tratti somatici diversi, ma anche due visi che appartengono a due epoche diverse. La coincidenza imperfetta richiama sia il tema dell’identità sia quello del rapporto che il nostro tempo ha con altri tempi. 

Nella lezione inaugurale del corso di Filosofia Teoretica 2006-2007 presso la Facoltà di Arti e Design dello IUAV di Venezia, pubblicata da Nottetempo con il titolo Che cos’è il contemporaneo? (Roma 2008), Giorgio Agamben spiega che chi coincide troppo pienamente col proprio tempo non è davvero contemporaneo: “Coloro che coincidono troppo pienamente con l’epoca, che combaciano in ogni punto perfettamente con essa, non sono contemporanei perché, proprio per questo, non riescono a vederla, non possono tenere fisso lo sguardo su di essa” (p. 10). Il riferimento di Agamben sono le Considerazioni inattuali (1874) di Friedrich Nietzsche, con le quali il filosofo tedesco situa la sua pretesa di attualità rispetto al presente in una sconnessione. Essere contemporanei significa aderire al proprio tempo attraverso una sfasatura, come quella fra il nostro viso e quello di Silla. 

 

Anfiteatro Flavio. / Giovan Battista Piranesi, Veduta ideale del bivio tra la via Appia e Ardeatina tratta da Le Antichità Romane, 1756.


Mi aggiro per il corridoio curvo al piano superiore (Secondo Ordine) dell’anfiteatro Flavio, dove è allestita la mostra, soffermandomi ogni tanto a guardare attraverso le arcate dirute un cielo fortemente chiaroscurato. L’immagine è suggestiva. Richiama alla mente le incisioni di Giovan Battista Piranesi e il suo progetto di costruire una nuova Roma sulla base delle parlanti ruine. L’idea di un tempo che non scorre in modo uniforme dal passato verso il futuro ma in modo discontinuo è diventata una questione centrale anche per la critica dell’arte. La lezione inaugurale di Agamben si conclude infatti con un richiamo alle riflessioni di Walter Benjamin sulle immagini del passato che giungono alla leggibilità solo in un determinato momento della loro storia. Il fluire della storia non è continuo, evolutivo e lineare ma discontinuo e intermittente. Questa mancanza di conseguenza, questa assenza di successione che Benjamin riferisce alla storia pone una serie d’interrogativi alla critica dell’arte. “La storia dell'arte non può essere che anacronistica” sostiene infatti Georges Didi-Huberman in Storia dell’arte e anacronismo delle immagini (Bollati Boringhieri, Torino 2007). Il contemporaneo è l’inattuale, spiega Marco Belpoliti in un articolo di qualche anno fa sull’arte contemporanea, aggiungendo che “l’artista contemporaneo divide e interpola il proprio tempo, lo mette in relazione con altri tempi, scava nel passato per giungere nel futuro”.

 

Catalogo della manifattura Volpato. / Officina Volpato, Ares Ludovisi. Bisquit cm 26 x 11 x 17. Roma musei Capitolini.


Sull’innesto di un tempo nell’altro, sull’inattualità del classico nel Settecento e nell’Ottocento è in corso la mostra Il Classico si fa Pop. Di scavi, copie e altri pasticci (Roma, Museo Nazionale romano di Palazzo Massimo e Crypta Balbi, fino al 7 aprile 2019). La mostra nasce dal ritrovamento nel 2010 dell’atelier romano di Giovanni Trevisan detto Volpato che a Roma intraprese un’attività di scavo, restauro e commercio dei marmi antichi, dal 1785 affiancata da una vasta produzione in bisquit di copie richieste come souvenir e di altre suppellettili prodotte dalla sua manifattura di ceramica ubicata in via Urbana 152.

 

Giovanni Volpato, Dessert di Bacco e Arianna, centrotavola composto da 115 pezzi, presentato come installazione multimediale. Bassano del Grappa, Musei Biblioteca Archivio.


La serialità della Pop Art è assunta da Mirella Serlorenzi, archeologa e ideatrice della mostra, come originale chiave di lettura della produzione artistica di Volpato, che rese popolare l’arte classica con una vasta e variegata traduzione delle opere in dimensioni, materiali e supporti diversi. Statuette ma anche tazze, piatti, portauova, calamai, dessert, candelabri… oggetti vari sui quali figure e motivi decorativi tratti dall’iconografia del mondo classico migrarono spostandosi da uno all’altro con trasferimenti di supporto e salti di scala. Sia la fiorentina Doccia-Ginori che la Real Fabbrica napoletana avevano avviato ancor prima di Volpato la riproduzione seriale in scala ridotta della scultura classica inaugurando l’epoca dei souvenir in porcellana, ma la manifattura romana portò la produzione a un livello qualitativo superiore. Capolavori dell’arte classica rimpiccioliti e tradotti in porcellana non verniciata per restituire la diafana luminosità e il supposto candore dei marmi classici, che invece erano in origine colorati, trasformazioni iconografiche e trasferimenti da un supporto all’altro: oltre al tema della copia e della serialità qui emerge anche quello della traduzione.

 

Fornasetti, piatto della serie Le Muse, anni cinquanta-sessanta del secolo scorso. Milano, Archivio Fornasetti. / Piatto in vendita al book shop degli Uffizi, con riproduzione del Tondo Doni di Michelangelo Buonarroti. Esempi di trasferimento dell’immagine dal campo delle arti figurative a quello del decoro e della produzione di souvenir.


Volendo restare al gioco delle categorie della cultura del presente attraverso le quali guardiamo il passato ricostruendolo ad ogni nuovo sguardo, può essere utile la lettura del saggio di Nicolas Buorriaud Il radicante (Postmedia Books, Milano 2014). Il critico d’arte francese porta l’attenzione sugli innesti, sui collegamenti, sui passaggi da un codice all’altro, in breve sulla traduzione che a suo parere ha sostituito la serialità Pop-Minimal degli anni Sessanta e le frammentazioni degli anni Ottanta. Riferendosi alle opere degli artisti contemporanei Seth Price, Kelley Walker e Wade Guyton Bourriaud scrive: “[la loro] opera somiglia a una chiavetta USB connettibile a qualunque supporto e possibile di infinite metamorfosi”. Non sono diversi anche i formati, i supporti e i materiali impiegati da Volpato? Spingo fin qui il gioco del mettere in rapporto ambiti culturali, sociali e produttivi diversi per evidenziare il fatto che “il discorso esige cautela”.

Nel saggio in catalogo L’opera d’arte (antica) all’epoca della sua riproducibilità tecnica, Paolo Liverani attribuisce a Volpato il merito di aver “democratizzato” in senso borghese il fenomeno del collezionismo di antichità, mettendo in discussione l’idea di unicità dell’arte greca. Liverani richiama la sottrazione di “aura” al modello classico operata da Volpato per portare l’attenzione sul fatto che nelle botteghe greche si lavorava in serie e che nella Roma della tarda Repubblica e dell’Impero la riproduzione di opere del passato era pratica diffusa. In catalogo sono pubblicati anche altri saggi interessanti sull’attività nelle botteghe del mondo antico: Estetica e pratica dell’emulazione: copie e repliche nel mondo romano di Anna Anguissola, Anatomia di un volto di Vinzenz e Ulrike Kok-Brinkmann, La tecnica del bronzo in Grecia e l’idea degli “originali” di Carol Mattusch. In tutti questi studi s’insiste sul concetto di copia e produzione seriale, in alcuni casi, come nel saggio di Marcello Barbanera La sostituzione dell’assente. La figura dell’artista greco nella cultura occidentale, spostando l’analisi delle opere dal campo dalla storia dell'arte a quello degli studi di cultura visuale. Sulle tecniche di produzione seriale in uso nelle botteghe del mondo antico si regge il confronto, proposto dal progetto espositivo, sia con la manifattura di Volpato che con la Pop Art “focalizzata sul multiplo e il seriale”. Tuttavia lo stesso Liverani mette in guardia: “Il discorso esige cautela perché sovrapponendo concetti e contesti sociali e produttivi antichi, settecenteschi e contemporanei, si corre il rischio di qualche cortocircuito anacronistico” (p.153). 

La questione scotta. 

 

Sezione Decorum: la riproduzione volontaria. Vista dall’esterno e dall’interno.


Per questa ragione la coraggiosa se non spericolata mostra scuote gli addetti ai lavori e incuriosisce molto i non addetti. La sezione Decorum: la riproduzione volontaria, più spregiudicatamente pop di altre, è composta da un grande parallelepipedo cavo internamente ricoperto da superfici specchianti, che moltiplicano una copia del Gruppo dei Tirannicidi Armodio e Aristogitone creando un effetto psichedelico anni Sessanta: una sorta di luna pop-park che mette in scena il tema proposto dalla mostra con grande successo di pubblico. Sia le sale allestite a Palazzo Massimo che quelle allestite alla Crypta Balbi sono piuttosto fantasmagoriche. 

 

Veduta della sezione Ritorno all’antico con grazia e ironia a Palazzo Massimo. Da sinistra: Apollo del Belvedere, prima metà II secolo d.C. da un originale del IV secolo a.C. Roma, Musei Vaticani; Francesco Vezzoli, Self-portrait as Apollo del Belvedere’s lover, 2011. Milano, Fondazione Prada; Antonio Canova, Perseo trionfante, 1798. Possagno, Museo Canova.

 

Veduta della sezione Ad ognuno il suo Discobolo. Da sinistra: la fotografia di Robert Mapplethorpe, Il modello Von Hackendahl nella posa del Discobolo, 1995. Firenze Galleria dell’Accademia e il Torso di Discobolo restaurato come guerriero ferito, I secolo d.C. (il torso), 1658-1733 (restauro moderno). Roma Musei Capitolini. / Veduta della sezione Ritorno all’antico con grazia e ironia. In primo piano: Antonio Canova, Ninfa dormiente, 1822. Possagno, Museo Canova e in secondo piano: Francesco Vezzoli, La nuova Dolce Vita (from the triumph Paolina Borghese to Eva Mendes, 2009. Proprietà dell’artista.


L’allestimento della mostra, realizzato da NONE Collective, slitta verso l’installazione multimediale, nella quale opere classiche, copie, dipinti moderni, oggetti, fotografie, opere di artisti contemporanei, assemblaggi di epoca moderna si combinano fra loro in un loop temporale. Una sorta di pastiche che anziché svilupparsi nello spazio, come quelli composti da Piranesi assemblando vari elementi scultorei e architettonici, si sviluppa nel tempo di una narrazione visiva e sonora. L’utopia di Volpato è la stessa di Piranesi: progettare il futuro assemblando le rovine del passato. La rovina, la catastrofe sembra essere il motore del progetto di un futuro ideale da cercare in un tempo che non è quello cronologico. Anche noi cerchiamo in una sfasatura del presente il nostro futuro, ma senza chinarci sulle rovine con un’idea, come suggerisce la figura, incisa da Piranesi, che tasta un elemento architettonico caduto a terra per misurarlo. Ci aggiriamo invece spaesati e confusi tra le macerie lasciate sul campo da codici e linguaggi in crash tra loro e tra loro e la realtà, non solo assunta in senso postmoderno come segno e quindi come mezzo di significazione (questo sembra suggerire l’immersione in Decorum: la riproduzione volontaria), ma anche come punto d’impatto e fine corsa.

 

Giovan Battista Piranesi, Particolare di veduta. / Sezione Decorum: la riproduzione volontaria.


Al piano terra della Crypta Balbi è esposta l’opera Split stone (7:34) dell’artista contemporanea Sarah Sze, alla quale la galleria d’arte Gagosian di Roma ha dedicato una personale (fino al 27 gennaio 2019). L’opera, che non ha un rapporto con la mostra ideata da Serlorenzi, fissa la fugacità di un tramonto in un masso di granito mettendo in evidenza come ogni immagine stampata, proiettata o dipinta sia composta da particelle d‘inchiostro e luce, che migrano dallo schermo alla tela e poi alla scultura e all’architettura. Queste particelle si trasferiscono da un linguaggio all’altro cambiando supporti e materiali, come i temi figurativi e decorativi del mondo classico nella produzione di Volpato. Involontariamente un’altra opera d’arte contemporanea entra a far parte del pastiche, nel segno della traduzione anziché della serialità e della catastrofe che incombe. 

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Lotto l'oscuro

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Vedere o rivedere i quadri di un pittore che si ama è un ottimo motivo per viaggiare. Le Marche sono belle da attraversare longitudinalmente, lungo l'autostrada che scende verso sud. Si capisce perché hanno un nome plurale. Ogni Marca ha le sue colline. E ognuna fa bella mostra di sé e si crede più bella della vicina. Osimo, Loreto, Recanati. Anche se si fronteggiano in pochi chilometri ogni collina parla la sua lingua. Scendendo più a sud le città storiche non sono più sul mare, ma nelle loro piccole valli protette da montagne e alte colline. Macerata, bella e sorniona sul suo luminoso altopiano, ospita una mostra bellissima dedicata a un suo antico pittore, veneziano ma marchigiano d'adozione, Lorenzo Lotto l'oscuro, il fuggitivo, l'incompreso, lo scrutatore d'anime, maestro di composizione e superbo ritrattista del sedicesimo secolo.

 

La mostra, suscitata da una serie di mostre di grande rilievo internazionale (al Prado di Madrid e alla National Gallery) è ospitata con stile nello storico palazzo Buonaccorsi. Le Marche partecipano a pieno titolo a questo non programmato anno dedicato al Lotto. Nei suoi diversi passaggi, in età giovanile e in età avanzata, Lotto ha lasciato in questa regione un segno indelebile, diventando una sorta di icona rappresentativa di alcune città: si pensi all'angelo con giglio ospitato nel museo civico di Recanati: una meravigliosa annunciazione sicuramente rivoluzionaria, e non solo per l'apparizione furtiva di un gatto. Rappresenta un tema caro al Lotto: il difficile rapporto tra gli uomini e il loro creatore. Per quanto dolce possa essere un angelo disegnato dal Lotto, Maria non ha neppure il coraggio di guardarlo e sembra gridare nella sua preghiera "perché scegli me, così indegna!". Eppure nella stessa espressione si legge dell'altro, è già scritto che non si può resistere a tanta dolcezza. Un giglio. Il giglio dei campi non è forse più elegante di Salomone? Il giglio appare in molti quadri di Lotto, è quasi una sua firma. Memorabile l'Arcangelo Gabriele ancora in volo con il suo splendido giglio nella pinacoteca di Jesi. I visi delle due Madonne ripercorrono lo stesso sbigottimento, umanissimo, la modestia, ma anche l'abbandono totale al messaggio dell'Angelo: la purezza è innata ma è anche un dono divino, come tutti i doni divini difficili da ricevere. Diceva Bilenchi che la purezza è qualcosa che si raggiunge, un percorso. Le 25 opere esposte a Macerata sono state composte nelle Marche ma negli anni sono andate disperse e raccolte in giro per il mondo. Si tratta di opere bellissime, che suggeriscono anche un percorso lottesco nelle Marche, dove è possibile ammirare quasi il 30 per cento delle sue opere. 

 

 

Strana, affascinante creatura, Lorenzo Lotto. Probabilmente l'artista rinascimentale di cui abbiamo la maggior mole di testi autografi, interi libroni scritti in ordinata e minuscola calligrafia. Si tratta soprattutto di conti, bozze di contratti, segno di un'ossessione che soltanto una cronica mancanza di denaro può giustificare. In realtà il mistero di Lotto è più complesso di come si immagina. Non è vero che sia stato schiacciato dalla fama di Tiziano, o almeno non è vero del tutto. La Serenissima era insieme un sogno e un impero, cuore di grandi rivoluzioni culturali che attiravano artisti e pensatori da ogni parte d'Europa. La pittura ci offre una chiave interpretativa fondamentale per capire il XVI secolo. 

 

Che aria si respirava a Venezia ai tempi del Lotto? Declinando naturalmente il dominio pittorico del Bellini, sostituito e poi eclissato dal genio e dalla forza di Tiziano (è sufficiente guardare con attenzione il suo celebre autoritratto, in cui una lontana fonte di luce illumina lo sguardo insieme acuto e indecifrabile di un carattere forte e profondo, forse di poche parole ma di elevati pensieri) fioriscono molti grandi pittori, primo tra tutti il Giorgione, misterioso anche lui e purtroppo saccheggiato dal tempo, poi il magnifico Sebastiano del Piombo, naturalmente insieme al Lotto, maestro tra grandi maestri, senza complessi d'inferiorità verso nessuno. Anche Dürer è a Venezia, in quel periodo. C'è anche Erasmo da Rotterdam, nel cenacolo culturale-editoriale dei grandi umanisti veneziani raccolti attorno a Manuzio o nel salotto della Cornaro. Lo stesso Leonardo era transitato a Venezia, lasciando qualche seme pittorico, primo tra tutti in Giorgione. Per cercare di capire come mai pittori di altissimo livello come Lotto, pur ricevendo commesse non irrilevanti, non potessero competere con la potenza anche commerciale di Tiziano possiamo usare un detto che circola tra gli scrittori contemporanei: è più facile arrivare a un milione di copie vendute dopo averne vendute centomila che passare da cinque a diecimila. La fama, meritatissima, del Tiziano era diffusa in tutto il mondo conosciuto, re e imperatori si contendevano le sue opere, insidiando il suo contratto in esclusiva per la Serenissima. Il mondo andava a Venezia per farsi ritrarre dal Maestro, gli altri pittori non potevano far altro che migrare. Ma entrano in campo altri fattori: per esempio le pestilenze, per esempio le guerre.

 

 

La Serenissima è da sempre in conflitto con il Papato, che raccoglie via via potenti alleati che minacceranno da terra la sicurezza di Venezia. Massacri, stupri, incendi: le truppe francesi avanzano così verso Venezia. Per questo il ritorno a Treviso, la prima città che aveva commissionato lavori al Lotto, sarà frustrante e quasi senza contratti: la guerra ha la priorità sull'arte, anche nelle spese. Il Giorgione era morto di peste nel 1510. È il secolo che sta vivendo a portarlo in giro per l'Italia dagli incerti confini, lasciando opere in città lontanissime tra loro e creando di volta in volta quasi un artista diverso. Treviso, lo splendido periodo bergamasco (dove incontra anche il Correggio, donandogli l'idea dei suoi angioletti volanti), e poi le Marche, partendo da Recanati, allora cittadina di tutto rispetto proprio di fronte a uno dei centri della cristianità, Loreto, l'anticamera del Vaticano, per un pittore. Gli storici suggeriscono questo percorso, probabilmente presente nella mente del Lotto. Questo percorso lo porterà a Roma senza raggiungere le vette di un prevedibile successo.

 

Dentro di me ho sempre pensato che se proprio un'ombra turbava nel profondo Lorenzo Lotto quest'ombra si chiamava Raffaello e non Tiziano. Nell'estenuante peregrinare di Lotto si nasconde forse il motivo della dimenticanza secolare che lo nascose agli occhi del mondo per quasi tre secoli. In vita aveva raccolto pareri e complimenti illustri, i suoi singoli quadri erano stati lodati e descritti, ma l'opera era sfuggita, la sua personale maniera in singoli frammenti non veniva colta nella sua carica innovativa. Forse il caso più straordinario della storia dell'arte. Il lungo sonno di questo tormentato pittore, apolide ma pur sempre veneziano, verrà interrotto nel 1895 dal saggio del giovane Bernard Berenson, Lorenzo Lotto, An Essay in Constructive Art Criticism, folgorato dal suo lavoro e finalmente in grado di restituire la sua grandezza mettendo insieme un percorso ricco di capolavori. Mettendo a fuoco una caratteristica evidentissima anche nella mostra di Macerata: Lotto è uno scrutatore d'anime, un pittore in grado di restituire con l'espressione di un viso la profondità di uno stato d'animo. Uomini e donne segnati dalla vita, tormentati dal dubbio e da pensieri segreti, tutti senza abbellimenti e a volte con ironia (a proposito: vedi l'articolo).

 

 

 

Si riveda il ritratto del domenicano del convento di san Zanipolo, o quello del giovane gentiluomo. Persone autentiche, che raccontano vite diverse, di pensieri, di viaggi, di amori. Li vediamo lì, dove vivono, circondati dai loro simboli (i quadri di Lotto sono pieni di segni, allusioni, veri e propri rebus). Il confine tra divinità e terrestri è netto: Maria, madre di Gesù, è una giovane donna che non si sente degna di un così grande privilegio. Anziché algida bellezza e sguardo fisso nel vuoto esibisce la sua umanità e il suo abbandono al sovrannaturale, annunciato da creature perfette e lontane, trasparenti anche nei sublimi drappeggi: angeli, arcangeli, messaggeri. Sono loro a tenere i contatti. Spesso notturno, Lotto, o crepuscolare, i suoi quadri sembrano immersi in un buio quasi assoluto, squarciato da fasci di luce sovrannaturali. Nella Natività in notturno la luce nella grotta irradia miracolosamente dal bambino, che trae dal buio le altre figure.

 

Pochi colori, in questo splendido quadro, i suoi preferiti: il rosso, il blu, il verde. Maria guarda rapita e estasiata il bambino, ed è lei che riceve interamente la luce. Gli altri sono attoniti, increduli, soltanto sfiorati. Il rapporto madre-figlio è esclusivo. Identico messaggio ripete la Madonna delle grazie, prezioso prestito dell'Ermitage, dove anche gli angeli sono esclusi da questo momento di perfezione. Nella Madonna con bambino, dove il rosso dell'abito mariano sfuma nell'oro, il rapporto è ancora più esclusivo: il bambino è quasi congestionato dal latte che beve dalla mammella, ha addirittura le guance rosse, come hanno spesso i lattanti. Il bambino non ha niente di particolare che lo identifichi come divinità. Sono i segni e i messaggeri a dirlo, sono i profeti a saperlo: solo al san Giovannino coetaneo Gesù impartisce la benedizione, manifestandosi nella sua realtà. 

 

La vita degli uomini è diversa da quella degli dei, sacri e profani. La sorprendente Venere e Gesù in viaggio verso il Cielo godono della stessa esplosione di luce. Pietro, colto nel suo tradimento, piomba nel buio in cui si muovono spettri umani, viandanti, fuochi disperati. "Io so che 'na buiosa \ è tuto 'l vive d'omo" scriveva il grande poeta marchigiano Franco Scataglini. Anche un altro poeta mi è venuto in mente, davanti ai quadri del Lotto: Osip Mandel'stam, che sto leggendo-rileggendo in questi giorni. Decifrare un quadro, decifrare una poesia. Annotare, datare, spiegare. Il contrario di incontrare, accogliere, abbandonarsi. Lo sguardo di Lotto sul mondo è oscuro, la luce è alta nel cielo irraggiungibile: il sacro, l'uomo-Dio, lascia cadere sulla terra il sangue che ha versato, trafitto dagli uomini (Cristo Redentore).

 

I ritratti di san Girolamo sono spietati: nudo come un verme, e davvero vermiforme nel suo abbandonarsi alla dura terra, umilia con un dolore simbolico le sue residue sembianze umane. Vivere davvero è concesso soltanto agli dei, il resto è freddo buio, deserto e freddo.

La mostra di Macerata offre due suoi ritratti, tra i tanti che sarebbero sufficienti alla carriera di un pittore immortale. Si è parlato di capacità introspettive, l'ho definito scrutatore d'anime, ma c'è una dimensione ancora più sottile, che esce dalle corde religiose, peraltro sempre sfiorate con dita reverenti: Lotto sa valutare anche l'intelligenza, delle persone che ritrae. Può essere l'intelligenza scientifica di un grande medico, quella filosofica del giovane che qualcuno identifica con uno scrittore, e che forse, attraverso una lettera piena di petali profumati, nasconde una storia d'amore irregolare, e magari anche qualche passione politica non meno clandestina. Due quadri non presenti nella mostra, ma che tornano sorprendentemente alla memoria, come i versi dei poeti che riaffiorano perché ormai fanno parte di noi. Il pensiero disegna il volto, l'espressione è un'immagine mentale, ha i tratti dell'anima. Non conosco il segreto delle sue velature, e neppure riesco sempre a decifrare i mille cripto-messaggi nascosti su un tavolo o attorno al ritratto. Inseguendo i suoi infiniti dettagli, nelle grandi opere come nei ritratti, ci perdiamo in un altro mondo, di fiori e animali, spesso incomprensibile, sempre bellissimo. Che sia venuto qui, nelle Marche, quasi dimenticato da tutti e senza un soldo, accolto tra gli oblati lauretani è un dato di fatto ma anche un altro discorso, che non aggiungerebbe niente al suo sconfinato talento. Lorenzo Lotto ha seguito fino in fondo la sua strada.

 

Catalogo: Lorenzo Lotto. Il richiamo delle Marche. Luoghi, tempi e persone. A cura di Enrico Maria Dal Pozzolo. Skira editore.

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Palazzo Buonaccorsi, Macerata
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Sul guardare e il rabbrividire

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1. ETIMOLOGIA. Sfogliando quel libro inesauribile che è Note, o della riconciliazione non prematura (1944-54), dello scrittore svizzero di lingua tedesca Ludwig Hohl, per esempio nella sua ultima sezione, la XII, intitolata Immagine (Spirito – Mondo Riconciliazione – Il reale), alla nota 45 si legge questo: 

 

Sarebbe bello se il guardare [schauen] e il rabbrividire [erschauern] fossero legati dall’etimologia.

 

2. Poche pagine prima, Hohl scrive: “È impressionante, quello che noi tutti non vediamo” [nota 25]. E, ancora, qualche nota dopo: “Guardare in realtà è tutto; sapere sempre induce in errore (questo è il sapere che pretende durare; il sapere più alto può durare solo un istante, soltanto l’istante in cui esso sorge è contenuto nel guardare). [...] La nostra sola possibilità è di guardare.” [nota 34]. Per poi aggiungere: “Gli uomini non vogliono vedere – solo ciecamente andare al di là di tutto – quando la legge stessa della vita è la visione.” [nota 46].

 

2bis. (In una fotografia che ritrae Ludwig Hohl nello scantinato in cui abitava a Ginevra, si vedono dei fili tirati lungo una parete e attraverso la stanza, da un muro all’altro, sopra il tavolo dove lavorava e dove mangiava. Su questi fili lo scrittore era solito appendere con delle mollette decine e decine di foglietti scritti a mano, pagine di giornale, ritagli, fotografie, cartoline... che riflettono bene due dei principi che lo guidavano nel suo lavoro, quello della selezione e quello della connessione).

 

3. Il guardare, dunque, e il rabbrividire. Ma potremmo anche chiederci: guardare è rabbrividire?

 

4. Vorrei provare a prendere sul serio e a esplorare, per quanto brevemente e per accenni, questa ipotesi: che tra il guardare e il rabbrividire esista una relazione, e grazie ad essa qualcosa di significativo appaia. Voglio dire: per quanto inatteso e fragile possa presentarsi, è proprio grazie alla possibile parentela etimologica tra questi due termini immaginata e auspicata da Hohl che qualcosa di rilevante emerge. L’etimologia, qui, non è più soltanto quel sapere che ricerca la radice, la forma originaria (intima?), da cui una parola, o un insieme di parole, ha preso forma. No, in questo caso l’etimologia agisce piuttosto come sintomo. Indica una possibile manifestazione. Rileva di quello che Hohl avrebbe chiamato un “incidente significativo” della percezione.

 

A. Linke, R. Rinaldi e P. Zanini (Archivio Alpi Research Project, 2011).


5. SORPRESA. In una conferenza tenuta alcuni anni fa a Edimburgo, e intitolata “The quickening of the unknown” (The Munro Lecture, 2013), l’antropologa Jane I. Guyer prende spunto da questa citazione tratta dallo scrittore e poeta nigeriano Ben Okri per delineare quella che chiama un’epistemologia della sorpresa (in antropologia, ma non solo). Che tipo di conoscenza è questa? Empirica. Nella sorpresa uno spazio si apre, e nello spiraglio qualcosa traspare. Incerto. Sfuocato. Sospeso. Siamo presi alla sprovvista, quindi senza alcuna preparazione, da un’irruzione (un dono?) che ci chiede prima di tutto di accettare – per quanto inusuale e disorientante possa risultare – il palpito di qualcosa “non ancora conosciuto”. (L’esperienza a cui rinvia il termine “quickening” è infatti quella in cui la madre, nel corso della gravidanza, percepisce per la prima volta i movimenti del feto). 

 

6. La sorpresa, quindi, come il momento in cui “l’ignoto dichiara se stesso”, ci dice la Guyer. Un istante prima che il pensiero, in un certo senso, provi ad assestarlo. Ma prima che questo accada, noi – balbettanti – siamo posti nella condizione di riconoscere in questa dichiarazione una corrispondenza, delle relazioni, per quanto inconsuete. Qualcosa che ci riguarda, perché improvvisamente ci chiede attenzione. Potremmo anche dire: ci riguarda proprio perché un’attenzione prende corpo. Il nostro. E tra il guardare e il rabbrividire un legame emerge.

 

7. CRONACA. Nel suo L’imitatore di voci (Adelphi), in un capitoletto intitolato Bella vista, Thomas Bernhard rende conto – obiettivamente – di questo fatto:

 

Sul Grossglockner, dopo un’ascensione di parecchie ore, due professori amici tra loro dell’Università di Göttingen, che erano alloggiati a Heiligenblut, avevano raggiunto lo spiazzo antistante il cannocchiale installato sopra il ghiacciaio. Per quanto fossero scettici, non appena ebbero messo piede nel punto in cui era installato il cannocchiale, non avevano logicamente potuto resistere alla bellezza senza pari di quelle montagne, come del resto si erano detti più volte tra loro, e ciascuno dei due aveva insistito perché l’altro guardasse per primo dal cannocchiale in modo da risparmiarsi l’accusa dell’altro di essersi precipitato sul cannocchiale. Alla fine i due erano riusciti a mettersi d’accordo, e il più anziano, il più colto e logicamente anche il più gentile dei due era stato il primo a guardare dal cannocchiale rimanendo soggiogato da quello che aveva visto. Quando però era toccato al suo collega avvicinarsi al cannocchiale, costui, gettato appena uno sguardo attraverso il cannocchiale, aveva lanciato un urlo lacerante ed era stramazzato morto al suolo. Logicamente l’amico superstite dell’uomo perito in maniera così singolare si domanda ancora oggi che cosa effettivamente abbia visto il suo collega nel cannocchiale, non potendo certo trattarsi della stessa cosa.

 

A. Linke, R. Rinaldi e P. Zanini (Archivio Alpi Research Project, 2011).

 

8. Guardare. Rabbrividire. Cosa accade su quello spiazzo sovrastante il ghiacciaio? Che relazione si instaura tra noi e il mondo? Per quanto scettici, per i due amici professori tutto sembra iniziare sul piano estetico, della contemplazione: come resistere di fronte alla riconosciuta e iconica “bellezza senza pari di quelle montagne”? Una volta accordatisi tra loro, ognuno vede – “logicamente” – cose diverse, certo. A tal punto diverse. (Seppure, in apparenza, a partire da uno stesso punto di vista). Poi, però, le cose cambiano. La distanza che separava uno di loro dall’oggetto del guardare, scompare. Quindi, di cosa effettivamente si tratta, qui?

 

9. Proviamo a fare un passo a lato. Proviamo a spostare per un momento la nostra attenzione dall’oggetto, dalla forma – la bella vista, il panorama – all’azione, al processo – ossia all’atto stesso del guardare. Il punto allora diventa un altro: non più tanto quello di sapere che cosa si è visto, ma piuttosto di chiedersi cosa implica questo guardare. In altre parole: cosa, letteralmente, comprende il guardare.

 

10. Guardare. Rabbrividire. Proviamo a riformulare la questione in questa forma: che cosa ci “prende”, bruscamente, quando siamo parte del paesaggio? Che cosa trapela, là dove siamo, tramite questa “presa”? Perché improvvisamente quel mondo – quella bella vista – non è più davanti a noi, ossia altro da noi, ma si sostanzia con noi. Interroga la nostra stessa esistenza, il nostro essere nel mondo, individuale e collettivo. (Per analogia, la morte, in Bernhard, è “l’ambiente” della vita, non la sua fine). Il corpo ne fa esperienza.

 

A. Linke, R. Rinaldi e P. Zanini (Archivio Alpi Research Project, 2011).


10bis. (Sul Brunnenkogel, dopo un’ascensione di pochi minuti, alcuni turisti tra loro sconosciuti, che erano alloggiati in Pitztal, avevano raggiunto la terrazza panoramica sopra il ghiacciaio. Mentre – “soggiogati” – ammiravano la bellezza senza pari di quelle montagne, poche decine di metri più in basso un piccolo gruppo di operai srotolava e stendeva con grande cura sul pendio dei lunghi veli bianchi a coprire parte del ghiacciaio. Sulla scheda tecnica allegata si legge: Poliestere e polipropilene, bianco puro. Disponibile in rotoli di 4.85m di larghezza e 55.00m di lunghezza. Spessore di 3.8mm. Superficie coperta per rotolo: 266.75m2. Descrizione: tessuto non tessuto composito a due strati assemblati. Resiste agli UV, agli choc termici. Attutisce gli effetti degli UV. Riduce lo scioglimento dei ghiacciai, protegge le zone di neve formando un ammortizzatore termico tra l'atmosfera e gli strati sottostanti. Il prodotto non contiene sostanze nocive. Riciclabile per incenerimento.)

 

11. La vertigine qui è in questo paesaggio di morbide pieghe in mezzo al “grande spettacolo della montagna”. Guardare. Rabbrividire. Viene da chiedersi, come Max Frisch: il piede sulla terra, lo posiamo ancora allo stesso modo? Come se il terreno per tutto ciò, per noi, fosse certo una volta per tutte.

 

12. TATTO. Paesaggio: là dove un’impressione ha luogo. Per contatto. Tra noi e il mondo. Potremmo dire, anche, quella “soglia dell’essere” (Bachelard) in grado di porci in una condizione particolare per pensare il significato del nostro essere nel mondo. Andrea Zanzotto ne parlava – nel Ritratto che ne hanno fatto C. Mazzacurati e M. Paolini (Edizioni dell’immagine) – precisamente nei termini di “una grande offerta, un immenso donativo”, ampio quanto il nostro stesso orizzonte e necessario “come il respiro stesso della presenza della psiche, che imploderebbe in sé stessa se non avesse questo riscontro”. Qualcosa di vivo e di mutevole, che ci “punge e trapunge e di cui noi siamo una specie di spoletta, che si aggira in mezzo, che cuce... oppure qualcosa che taglia”. Lascia il segno, il paesaggio, si imprime dentro di noi. E riceve i nostri segni, le nostre impronte. Ed è in questo andare e venire che si delinea la complessa trama della nostra esistenza.

 

13. Il guardare, quindi, e/è il rabbrividire. Toccare il mondo, ma anche essere toccati dal mondo. Se ci pensiamo, non abbiamo un organo specifico per il tatto, come è il caso per gli altri sensi, perché il tatto ci concerne in quanto totalità. Se le cose mi toccano è perché, dal principio, “esse formano una stessa carne con me”, scrive Mikel Dufrenne (L’œil et l’oreille). Poi aggiunge: “essere al mondo, è essere a contatto, cosa tra le cose, che allo stesso tempo tocca ed è toccata. Il tatto, è l’apice della prossimità; e allo stesso tempo ho anche bisogno della contiguità del mondo, perché manifesta al meglio questa reversibilità per la quale la mia carne è innestata sulla carne del mondo: non tocco le cose che per quanto esse mi toccano, e spesso esse prendono l’iniziativa; [...] Le cose non sono allora tangibili che tanto quanto lo sono io: noi siamo della stessa specie. È da questo fondo di co-naturalità che emergo.” 

 

A. Linke, R. Rinaldi e P. Zanini (Archivio Alpi Research Project, 2011).


14. Non tocco le cose che per quanto esse mi toccano. E spesso esse prendono l’iniziativa. Essere toccati allora vuol dire essere coinvolti (travolti?) da qualcosa che comprende la totalità della nostra esistenza. Non si tratta, quindi, di essere toccati da qualche parte. Siamo toccati, punto. Ma anche, siamo toccati perché con il mondo formiamo un “tutto”. E il paesaggio permette di pensarci come parte di questo tutto. Di farcelo “intuire”. Guardare. Rabbrividire. 

 

14bis. (Una sequenza da un film di Claudio Pazienza, Scènes de chasse au sanglier: una mano si muove a tentoni davanti ai nostri occhi. Toccare. La corteccia di un albero. Il volto di un bambino. Le tende di una finestra. Il padre, morto, sul suo letto. Le mani di una vicina. La porta di casa. Il piede scava nella terra... Una voce che dice: “Tocca ciò che le immagini non ti dicono più”.) 

 

15. È in questa prossimità e fragilità assoluta che è il paesaggio, come relazione tattile tra noi e il mondo, che sta la nostra possibilità di essere umani. È qui in fondo che l’anomalia da cui siamo partiti può – come si dice nel linguaggio musicale – “risolversi”, e il “guardare” può raggiungere il “rabbrividire” se non proprio sul piano etimologico su quello ben più importante di un’etica concepita, direbbe Levinas, come “evento immediato della sensibilità.”

 

16. REALE. Scrive ancora Hohl, in un altro dei suoi libri (Tous les hommes presque toujours s’imaginent, Les Éditions de l’Aire): 

 

Quando un uomo, senza precipitazione, perviene a riconciliarsi, senza precipitazione: voglio dire gli occhi completamente aperti, in piena conoscenza della nostra condizione e della terrificante realtà dei fatti [...], allora vede il reale. Quando le periferie fanno irruzione, è allora che l’uomo vive veramente il reale.

 

Questo testo, in una versione leggermente diversa e senza le immagini che lo ispirano, è stato scritto per il catalogo della mostra a cura di C. Musso, Panorama. Approdi e derive del paesaggio in Italia, 26 gennaio — 13 aprile 2019, Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna, Via delle Donzelle 2, Bologna.

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Antonello da Messina

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Sono gli occhi di Antonello, meglio ancora lo sguardo o forse più esattamente l’espressione, a ipnotizzare l’osservatore, cui sembra di essere osservato, a volte scrutato, altre adocchiato oppure disdegnato o anche interrogato. La sensazione si avverte anche visitando la mostra su Antonello da Messina che dopo il 10 febbraio da Palazzo Abatellis a Palermo si trasferirà fino al 2 giugno a Palazzo Reale a Milano. Sono occhi ovali molto grandi, che rimpiccioliscono solo in presenza di un accenno di sorriso, una smorfia di dolore come nelle Crocifissioni e un contegno altero per l’abbassarsi delle palpebre. Occhi che diventano davvero lo specchio dell’anima rivelando il segreto di un artista psicanalitico che dotò il genere del ritratto di uno strumento definitivo per penetrare la coscienza umana: l’espressione degli occhi appunto. Per di più Antonello fu tra i primi a valersi di una tecnica che diciamo oggi   cinematografica, l’inquadratura in soggettiva, dove la persona ripresa o ritratta guarda il suo interlocutore come se gli stesse parlando. Lo sguardo diventa allora signum individuationis, il momento di contatto tra chi è raffigurato e chi se lo figura, con in mezzo il raffiguratore: a produrre insieme un triangolare campo di tensioni fonte di una sindrome ipnotica che è quanto l’artista messinese sapeva bene di poter indurre. 

 

Ma c’è di più. I suoi celebri ritratti, mai concepiti come protocollari e ufficiali perché di stampo estemporaneo e come realizzati nello spazio di un attimo (tali per via del profilo che offrono i soggetti dipinti e che è certamente irregolare in una posa celebrativa) e perché privi di ogni scenario alle spalle, colgono un momentaneo stato d’animo e si prestano dunque ad essere visti come un remoto antecedente della fotografia realistica: le figure sono prese dalla strada o rappresentano notabili, ecclesiastici e santi entro uno schema di anticonvenzionalità – il San Benedetto fosco e risentito, per esempio – che nulla nasconde dei difetti fisici, né una vecchia cicatrice da lama che solchi il volto o sfregi un labbro né uno zigomo troppo pronunciato o una luce che crei soverchie ombre. 

Nel gioco sostenuto di sguardi si scopre che Antonello compie due operazioni combinate: da un lato circonfonde, come nel Ritratto di ignoto marinaio, il sorriso in uno sguardo ammiccante e complice mentre da un altro è lo sguardo a definire il sorriso, com’è nel contiguo Ritratto d’uomo, dove il linguaggio della bocca rimarrebbe indeterminato tra compostezza e serenità senza la decisiva espressività degli occhi atteggiati a uno sguardo placido e rassicurante. Il sorriso nel maestro del Rinascimento è dunque una funzione dello sguardo o agisce per dargli una funzione, tanto più se l’uno e l’altro sono profilati nella più identitaria ritrattistica fiamminga, quella di tre quarti, che rende il viso più facilmente leggibile per arrivare ai penetrali del cuore.

 

Opera di Antonello da Messina, Annunciata, Monaco.


Nello stesso gioco di sguardi Antonello è altresì molto attento a non indirizzare gli occhi delle sue figure in punti diversi quando si tratti di insiemi come nel caso della Madonna e del Bambino dove gli occhi dell’una e dell’altro appaiono sempre rivolti verso la stessa parte. Per stare alle opere in mostra, così è nel cosiddetto Polittico di San Gregorio custodito a Messina e nella Madonna con il Bambino benedicente, tavola anch’essa a Messina, mentre in Madonna col Bambino e due angeli reggicorona, olio che si trova agli Uffizi, Maria guarda da un lato e il piccolo guarda lei, quasi per capire dove stia puntando gli occhi. Più che un’eccezione, si tratta di una variazione, che ritroviamo anche nella cosiddetta “Madonna Benson” conservata a Washington e nella “Madonna Salting” di Londra, una variazione che ricorre quando Gesù non è sorretto dalla Madre ma abbracciato a lei oppure le due figure sono rivolte una all’altra in un ombelicolare vis à vis.

 

Entro questa prospettiva la mostra palermitana si raccomanda alla varietà di spunti e suggestioni che le opere suggeriscono e, benché circoscritta a una quindicina soltanto di dipinti, può dirsi pienamente rappresentativa della ricerca antonelliana, anche per la presenza di alcuni grandi capolavori che segnano nell’attività di Antonellus Messaneus uno stile nuovo e un cambio di direzione. Vale il tempo di vederli da vicino, cominciando dall’Annunciazione di Siracusa. La grande tavola sente fortemente del gusto fiammingo – il fondo nero, la luce che inonda l’ambiente provenendo circolarmente da tutte le sorgenti, la tecnica ad olio che stregò Antonello – tuttavia accoglie per la prima volta uno sguardo italiano, dove la balaustra sostituisce il parapetto e la trabeazione distende la classica arcata che, nell’estetica delle Fiandre, fa da cornice al soggetto dipinto. L’Annunciazioneè del 1474. Di un anno prima è un altro capolavoro, il Polittico di San Gregorio custodito a Messina, altrettanto ammalorato e innovativo: qui l’influenza italiana è evidente nell’abbandono, sia pure a metà, del fondo nero, nella concezione unitaria delle tavole ma soprattutto nel magistero sicuramente derivato da Piero della Francesca della prospettiva. Accendendo ancora di più le luci, Antonello dà rilievo alla profondità e, dopo l’esperienza che farà a Venezia, dove ammirerà l’arte di Bellini, i suoi dipinti saranno un’inondazione di luci a cielo aperto e non più una soffusa illuminazione al chiuso. Il suo gusto artistico diventerà esclusivamente italiano, ma morirà praticamente con il pennello in mano quando starà completando la “Madonna Benson”, così inconsueta eppure tenera per il Bambino che infila la mano nel seno della Madre. 

 

Opera di Antonello da Messina, Annunciata, Palermo.


Si vede dunque come nel giro di un anno l’artista passi da una scuola all’altra, rivelando una smania che riesce a contenere solo assecondando tutti gli stili. Del 1475 (o di un anno dopo) è l’Annunciata di Palermo, sublime ed enigmatico capolavoro che segna l’adesione al canone fiammingo più riconoscibile, con la figura in posa asimmetrica, il parapetto costituito dal leggio, il fondo nerissimo. L’Annunciata è così bella da risvegliare ogni tanto i dubbi se sia opera di Antonello, giacché non è firmata dall’autore e perché il volto è di una perfezione formale, di una grazia armonica, insieme all’elegante movimento delle mani (le mani più belle dell’arte, è stato detto), che si fatica a confrontarlo con quelli comuni di madonne e santi propri del repertorio antonelliano, fatto anche di Cristi grotteschi e facce sgraziate. L’elemento di maggiore contrasto è proprio lo sguardo: che non è rivolto all’osservatore reale, cioè il visitatore, né all’interlocutore implicito, l’angelo annunciatore, ma ad un indistinto e tenebroso angolo nero dove sembra riposto come un pensiero molesto, una preoccupazione, che pure è mascherato dall’espressione seria e solenne del viso ma che è tuttavia adombrato nel gesto della mano sospesa in aria, gesto che nell’iconografia medievale intende indicare la volontà di accettazione sottesa a un ordine di silenzio e che fa da contrappunto all’altra mano che è ferma a tenere il velo in un atteggiamento di inconscia protezione. 

 

La Madonna ha appena ricevuto l’annuncio dell’arcangelo Gabriele e risponde con un gesto col quale vuole farlo tacere ma che è nello stesso tempo di obbedienza, sennonché tradisce un senso di inquietudine o forse di responsabilità per quanto è chiamata a fare. Perché Antonello arriva a tanto se pochi mesi prima ha dipinto un’altra Annunciata, nota come La Vergine Annunziata, oggi esposta a Monaco, non presente purtroppo nella mostra palermitana e di ben altro significato? In questa precedente Annunciata Antonello dà conto di un atteggiamento diverso della Madonna, la quale non esprime preoccupazione ma stupore, scomponendo i tratti del viso e soprattutto della bocca in un’espressione molto terrena: fissata dall’artista nel momento in cui legge un libro ed è colta di sorpresa da una luce abbagliante che sembra provenire dalla figura dell’angelo comparso alla sua destra, luce però assente nell’Annunciata di Palermo (che fissa dunque l’istante immediatamente successivo alla folgorante apparizione), come anche nell’Annunciazione di Siracusa, dipinto che illustra l’attimo in cui l’arcangelo alza la mano parlante alla latina (le prime tre dita tese e le altre piegate) nel segno di chiedere il permesso di parlare, mentre la Madonna atteggia un lievissimo sorriso, appena un abbozzo, come presaga del messaggio che sta per ricevere e manifestamente lieta, al contrario di come apparirà invece a Palermo. 

 

Opera di Antonello da Messina, Annunciazione, Siracusa.


I tre dipinti, realizzati nel giro di due anni – nell’ordine l’Annunciazione siracusana, l’Annunciata monacense e l’Annunciata palermitana – formano come una mini-serie perché raccontano una vicenda in vertiginoso divenire: una mini-serie però alquanto inquietante dal momento che il sorriso di gioia trattenuta della Madonna diventa sgomenta sorpresa per apparire infine quasi sacrificio e obbedienza alla volontà divina. I tre capolavori sono legati da alcuni elementi che accrescono il mistero cui Antonello ha voluto concedersi. La Madonna siracusana si mostra a capo scoperto, aureolata e avvolta in un manto azzurro. Tiene le braccia a decusse sul petto in segno di disposizione all’ascolto e di sottomissione, gesto che ritroviamo nella Madonna di Monaco, dove però al posto del manto e dell’aureola appare un velo blu notte che nella Madonna palermitana diventa celeste e trasparente. In tutt’e tre le raffigurazioni Maria, senz’altro somigliante a un unico modello, è intenta a leggere, atto dal quale viene improvvisamente distolta. Ma mentre nella Madonna monacense lo sguardo può essere rivolto all’arcangelo perché guarda verso la fonte della luce, in quella palermitana il gesto della mano, che non può che essere indirizzato all’arcangelo, va in una direzione diversa da quella cui sono puntati gli occhi, che guardano verso il basso. 

Un elemento costante è comunque il velo o il manto nelle tre tonalità di azzurro. Ed è forse questo il mistero più grande. Azzurro e oro sono i colori che l’arte medievale impiega per distinguere la natura divina da quella umana. In via ordinaria Cristo e la Madonna sono raffigurati il primo vestito di azzurro sopra panni oro e la seconda al contrario, a indicarne la sua condizione di donna mortale che solo dopo si incielerà. Antonello viola questa regola e veste la Madonna del colore della divinizzazione lasciando che sotto il velo e il manto si veda il broccato che al suo tempo ha sostituito l’oro bizantino. Ciò fa in una fase della vita di Maria nella quale la futura madre di Gesù è solo una comune ragazza cui compare inaspettato un arcangelo che le affida una missione celeste. 

 

La committenza potrebbe avere in tutt’e tre i casi da ridire, ma tace e approva anche sull’Annunciazione siracusana, dove non solo il broccato sottostante il manto puramente azzurro è più evidente e l’aureola sembra giustificata dalla presenza all’altezza della testa, appena visibili, di due colombi che simboleggiano lo Spirito santo e che assistono Maria da vicino, ma figurano anche altri due elementi che potrebbero sembrare – e nel Quattrocento avrebbero ben avuto motivo di esserlo – al limite di suggestioni esoteriche: i capelli rossi tipici della Maddalena, figura dalla Chiesa condannata all’ignominia, e le braccia incrociate a formare la croce di Sant’Andrea che nel Rinascimento hanno un significato alternativo, indicando doppiezza d’animo quando soprattutto le dita, come nella Madonna monacense, sono vistosamente articolate da fare supporre direzioni contrastanti. Tuttavia occorre precisare: il rosso cinabro è da Antonello utilizzato a profusione in ogni sua figura sacra a capo scoperto sicché appare azzardato immaginare implicazioni malevole e le braccia incrociate suggeriscono innanzitutto un’idea di attesa rispettosa. Ma la verità è anche un’altra: quando si ha che fare con Antonello da Messina, uno che sonda tenacemente gli animi, occorre munirsi di ogni forma di giudizio e di pregiudizio. 

 

Opera di Antonello da Messina, Ritratto d'uomo.


Già nelle tavole di quindici anni prima, in quella per esempio del 1460, intitolata Visita dei tre angeli ad Abramo, che è conservata a Reggio Calabria ed è presente alla mostra, il tema dell’annunciazione è svolto nell’assenza dell’annunciato, il patriarca che ben tre arcangeli si incaricano di informare della prossima venuta di un figlio, dunque nel clima di un mistero che non si spiega in alcun modo se non pensando a una mutilazione del dipinto. Quel che vediamo è un’opera smaccatamente fiamminga, innanzitutto per la cura acribitica dei dettagli e la preferenza dei colori oscurati, che va posta al fianco della coeva San Girolamo penitente, anch’essa a Reggio Calabria e ora a Palermo, appartenenti entrambe ad una stagione nella quale l’artista messinese non ha dubbi sul senso dell’arte, sebbene il tavolo di pietra a sinistra del primo dipinto si presti a una concezione prospettiva che guarda già a Piero. 

 

Opera di Antonello da Messina, Ritratto di ignoto marinaio.


Antonello è in questo carattere antifrastico: l’angelo che nella Pietà si aggrappa piangente e goffo alle spalle di un Cristo deposto che deve pure sostenerlo, le croci oblunghe e stilizzate della Crocifissione di Anversa, gli Ecce Homo con aria perplessa più che dolente, la passatista decorazione dorata a racemi nelle tavole palermitane dei Padri della Chiesa, i paramenti da regina e principe della “Madonna Salting”, la Vergine nei panni di una clarissa o di una devota nobildonna di Como. Pur considerato un rigoroso e ligio osservante della simbologia cristiana e un fedele notomizzatore della realtà, Antonello si ricavò uno spazio di azione autonomo nel quale si promise di contravvenire alle regole date. Se non fosse morto improvvisamente a 49 anni avrebbe probabilmente irrorato di più la sua vena di sgorbio e dato ulteriori prove di irritualità, che sono invece rimaste poche e allo stato criptico. Forse ci avrebbe fatto scoprire i segreti dei suoi sguardi laterali o magari spiegato il mistero delle annunciazioni e le relative puntate della mini-serie. La storia ha voluto che rimanesse inespresso, come incompiuto. E allora la mostra in corso si offre come un buon sussidiario per cominciare a capire anche quanto non si vede.

 

MOSTRA ANTONELLO DA MESSINA è aperta fino al 10 febbraio presso la Galleria regionale di Palazzo Abatellis, Palermo. Catalogo a cura di Giovanni Carlo Federico Villa.

Dal 21 febbraio al 2 giugno, si trasferisce a Milano, Palazzo Reale, con i taccuini di Giovan Battista Cavalcaselle, critico che ricostruì il catalogo dell’artista siciliano.

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La grazia del provvisorio

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Iniziamo col dire che è ora di riguardare questa generazione di artisti italiani che ormai hanno passato i cinquant’anni e che è importante che vi contribuisca un’istituzione come il Pac (Padiglione d’arte contemporanea) di Milano. Ma soprattutto è importante perché sono artisti che, pur avendo alcuni fatto parte di raggruppamenti all’inizio abbastanza identificabili, non hanno dato vita a tendenze omogenee e non hanno assecondato un mercato, un “sistema”, che si basa su un’idea di riconoscibilità iconica. Certo non è stato un caso. Per dirne una: dopo l’Arte Povera, dopo la Transavanguardia, che vuol dire dopo le strategie e le posizioni forti, a loro modo dogmatiche, comunque enfatiche ed escludenti, l’idea era quella della ricerca di altre modalità di intervento, di smarcamento e di libertà innanzitutto, a costo dunque di “debolezze” e di incomprensioni, anzi usate come smarcatura. Non è stato così anche, su altri piani, per il Pensiero debole, appunto, o per il Settantasette, inteso come movimento di protesta?

Dunque dopo Luca Vitone, ecco Eva Marisaldi, scelta non scontata ma rispondente a quanto appena detto.

 

Eva Marisaldi, Trasporto eccezionale, Pac 2018, ph Claudia Capelli.


Marisaldi è persona e artista deliziosa, gentile e di grande sensibilità, ma anche determinata e capace di durezza. È stata un prodige fin dall’inizio degli anni Novanta, punta di diamante di una situazione bolognese molto viva. Espose molto giovane in gallerie di punta come Guenzani di Milano e Minini di Brescia e in gallerie e mostre internazionali. Eppure non era facile neppure allora: fili d’erba nelle connessure del parquet, tessuti ripiegati, tappeti avvolti, abiti appesi con foglietti nelle tasche, grandi fotografie appoggiate a parete con misterioso sonoro da sentire in cuffia… Evidentemente c’era una curiosità nei confronti di un modo di fare che si sentiva come nuovo, nascente. Poi hanno trionfato altre cose, questa curiosità si è smorzata, ritirata in ambienti più ristretti. Ma Marisaldi non solo ha continuato, ma anzi ha affinato e messo a fuoco il suo lavoro. Aveva esposto alla Biennale di Venezia del 2001 delle tavolette lavorate a bassorilievo proprio come quelle che danno il titolo alla mostra odierna e così via.

 

Eva Marisaldi, Trasporto eccezionale, Pac 2018, ph Nico Covre Vulcano.


A proposito, il titolo della presente mostra è bellissimo, trovo: Trasporto eccezionale; semplice ma efficace per la polisemia di entrambi i termini che lo compongono e della loro unione. L’arte è trasporto, sia nel senso di moto emozionale, di dedizione, sia in quello di spostamento, di trasmissione – e qui anche in quello di trasposizione da una tecnica all’altra, dal disegno (Marisaldi pare essere ancora una di quegli artisti che prendono appunti disegnando) al bassorilievo o altra forma. È senz’altro un trasporto eccezionale, che significa sia straordinario che un’eccezione. Ma, a dispetto dell’uso solito di questa espressione – ma di cui, evidenzia acutamente Elena Volpato in catalogo, è evocato il procedere lento dei convogli sulle strade –, qui non è eccezionale per le dimensioni, per la quantità, ma per la qualità, per il senso. Ma quale senso?

Marisaldi ci accoglie all’entrata della mostra con un’opera che si intitola Welcome e consiste in tre bei nastri mossi da bracci meccanici in nostro onore. Giocosa, ma anche indicativa: una questione di sincronia, di sintonia. Accanto, com’è giusto, per dare il tono dell’intera mostra, un’opera chiave, un dittico: a sinistra una grande fotografia di glicini e a destra un video d’animazione in cui si vede un uomo che dondola su se stesso. Questo dondolare è una metafora: un (altro) movimento semplice, ripetitivo, in sé inutile, ma che, fisso sul posto, è come un rivendicare un proprio spazio, dice l’artista, e con la sua in-sistenza, se mi si permette il trattino, finisce quasi con il lasciare un’impronta, stavo per dire un disegno. Il glicine, da parte sua, è una pianta che fa lo stesso, inoltre, precisa l’artista, si vede moltissimo durante la fioritura, poi è come se sparisse. L’arte, e l’artista, come li intende Marisaldi sono dunque qualcosa del genere.

 

Eva Marisaldi, Trasporto eccezionale, Pac 2018, ph Nico Covre Vulcano.


Ma c’è qualcosa di più, in due direzioni: lo spunto del video è una persona reale e di essa l’artista racconta che una volta era intervenuto “autorevolmente” – è l’avverbio che usa Marisaldi – per sedare una lite tra due signore. Due direzioni, dicevo: la prima è il gesto dell’uomo reale, il suo altruismo – versione del “relazionale” reso famoso da Nicolas Bourriaud –, la sua capacità e volontà di giudizio e di intervento; la seconda è il fatto che Marisaldi prende dai comportamenti, dal quotidiano – nel senso di Michel De Certeau chiaramente – le metafore dell’arte e dell’essere. Questo ha sempre fatto e costituisce la sua poetica e la sua politica. Lo fa con una finezza e con una giustezza che personalmente trovo indiscutibili e con una instancabilità e una ricchezza di sfaccettature e di osservazioni che ne fanno un’artista unica. A volte è il comportamento di una o delle persone, un’altra sono animali o piante, a volte è una frase notata in una lettura, altre sono degli oggetti, dei luoghi osservati durante un viaggio, le occasioni insomma sono quelle di una persona che osserva ciò che le sta intorno – lo sottolineano tutti gli autori in catalogo: De Cecco parla di sguardo, Arabella Natalini di ascolto – e ne coglie la metafora per tutti, per la “sproporzione della fatica di sopravvivere”, "per risolvere problemi non estetici", dice a proposito delle scene raffigurate nelle formelle di Trasporto eccezionale, ma anche la radice liberatoria.

Poi la mostra è complessa, segue l’articolazione dello spazio espositivo, ma una guida ci aiuta a seguirne tutto il percorso. In essa, generosamente Marisaldi ci introduce lavoro per lavoro, interrogata da Emanuela De Cecco – la quale in catalogo ripercorre a sua volta in dettaglio l’opera e la personalità dell’artista – sulle singole opere esposte sala per sala, da dove prendo le citazioni dalle parole di Marisaldi.

 

Eva Marisaldi, Trasporto eccezionale, Pac 2018, ph Nico Covre Vulcano.


Altri esempi che mi hanno colpito in mostra tra le 36 opere esposte. L'uso della candeggina per dipingere, corrodendo dunque, scene di ospedale per malati di Alzheimer, "altra faccia della medaglia di tutti i dispositivi di memorizzazione di cui siamo circondati" (Democratic Psychedelia, 2011). Alcune scene del film Olympia di Leni Riefenstahl rifatto con sassi al posto delle persone (Gestein-Gestalt, 2012): "La tecnica stop-motion richiede una prestazione fisica notevole e una grande concentrazione per evitare di buttare ore di lavoro per una stupidaggine".

 

Eva Marisaldi, Trasporto eccezionale, Pac 2018, ph Nico Covre Vulcano.


Un posto particolare nella mostra hanno le ultime opere, le più recenti riguardanti l’Africa e, ancor più curiosamente, la presenza cinese in Africa. Della prima fa parte la sala al primo piano allestita come un pulmino, con nove sedute e un video che raffigura uno strano viaggio virtuale per improbabili strade africane e che, dice l’artista, dovrebbe in realtà partire solo quando le sedute fossero tutte occupate, come quei pulmini in Africa che partono appunto solo quando sono pieni, per cui non hanno un orario stabilito, bensì un’altra idea di tempo, e evidenziano che comunque abbiamo bisogno degli altri per “partire” (Progress, 2018). Della seconda è esemplificativa un’altra stanza con una tenda di quelle composte di fili di palline che riporta l’immagine di una strana costruzione, una pagoda in piena savana africana, simbolo, dice l’artista, di come “i cinesi in qualche modo riescono a fare affari con l’Africa su basi alternative all’Occidente” (Hope, 2018).

 

Eva Marisaldi, Trasporto eccezionale, Pac 2018, ph Nico Covre Vulcano.


Ogni opera ha una storia, sempre affascinante e significativa, ma, tornando alle questioni iniziali, perché Marisaldi traspone le sue osservazioni in materiali così poveri, in oggetti così poco invitanti per il collezionista, tutto fatto a mano, con tecnologia low, un understatement che il mercato odia anche quando non lo dice? Il “quotidiano”, certo, ma un bel video proiettato su un’intera parete in un black cube fa tutto un altro effetto… per dire! L’enfasi, lo “spettacolo”, comunque la “visibilità”, la competizione, no? Da un lato è per ribadire il legame con il reale, con la sua dimensione effettiva, con la bistrattata questione – e si capisce perché – del legame tra arte e vita, o della linea di confine tra le due, scrive Diego Sileo in catalogo; dall’altro è per quelli che l’artista chiama l’“iperfluo”, contrapposto al superfluo, e la “grazia”, dice espressamente Marisaldi, che “ha a che fare con la spartanità, il provvisorio, l’opposto del leccato”. Perché “la realtà non imita l’arte, ma l’arte è potente e può essere negativa in certi casi, quando lavora sulla provocazione. Gli artisti che lavorano sulla provocazione oggi sono in difficoltà”, ha giustamente affermato in un’intervista di qualche anno fa. Una riflessione che vale la pena fare tutt’oggi: lo “spettacolo” non è solo quello pop…

Il catalogo che accompagna la mostra, edito da Silvana Editoriale, 224 pagine, contiene testi degli autori già citati – Diego Sileo, Emanuela De Cecco, Arabella Natalini, Elena Volpato – e una ricca documentazione di immagini di opere e installazioni.

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Eva Marisaldi al Pac
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Dove si crea il mondo

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Lo spazio è saturo di rumori, echi, suoni, voci. Dal frastuono emerge un fischiettio insistente e stonato, come se qualcuno si sforzasse di riprodurre melodie familiari, mentre schermi e monitor proiettano bagliori colorati. Il primo impatto con La strada. Dove si crea il mondo, la grande mostra aperta lo scorso 7 dicembre al MAXXI di Roma (fino al 28 aprile 2019) evoca la saturazione sensoriale, lo strepito assordante di una strada, uno spazio di movimenti, flussi, architetture, oggetti, veicoli, corpi, segni e gesti in perpetua trasformazione. Con oltre 200 lavori di 140 artisti internazionali, la mostra curata da Hou Hanrou è una prova coraggiosa e per molti versi controcorrente che susciterà attenzione e dibattito, senz’altro uno dei progetti più ampi e ambiziosi della sua attività di direttore artistico dell’istituzione romana (mirabile e per certi versi tangente a questo fu Open museum open city del 2014). 

 

Sacrificando alcuni aspetti ormai canonici della pratica curatoriale, della strada la mostra ci restituisce la virulenza: ogni opera si presenta in tutta la sua fisicità, fatta di suono, colore, e spazio, vicina alle altre, a noi e agli altri, con una prossimità a tratti scomoda, capace di mettere alla prova di sottecchi il limite sottile, eppure vitale, tra privato e pubblico. L’allestimento, denso e di grande effetto, è concepito come un attraversamento di spazi intesi via via come luoghi fisici e simbolici da visitare ma anche di cui fare esperienza come laboratori di discussione, creazione, confronto, per la cultura e l’identità contemporanee. Il percorso, scandito in sei sezioni – Street politics, Good design, Everyday life, Community, Open institutions, Mapping– affronta il tema incrociandolo con la vita quotidiana, la storia, le azioni pubbliche, la politica, la comunità, l’innovazione, l’ecologia, mimando la sua essenza di luogo-manifesto in grado di riflettere e accompagnare il contemporaneo soprattutto nella sua perpetua mutazione. 

 

MAXXI, La strada.


Se la strada è storicamente anche un’arena delle tensioni e delle trasformazioni della società. la mostra propone di partire dalla sezione Street politics da dove si ricava una visione ampia di quei fenomeni espressivi e politici che hanno trovato nella strada, dagli anni Novanta ai nostri giorni, il loro teatro naturale. Artisti come Jonathas de Andrade, Yael Bartana, Eric Baudelaire, offrono le loro visioni, riprendendo il discorso iniziato negli anni Sessanta e Settanta da quella generazione scesa in strada per condividere un nuovo pensiero e nuovi modelli sociali, culturali e creativi, congiuntamente a un senso del privato immediatamente tradotto in politico. De Andrade (Maceió, Brazil, 1982) con il video O Levante (The Uprising, 2012-2013), ambientato a Recife, forza il divieto cittadino al transito degli animali da fattoria nella zona del centro, organizzando una corsa di carri trainati da cavalli per le strade, mentre una voce spiega le difficoltà della vita di campagna e racconta la corsa come l’inizio di una rivolta alla conquista della metropoli.

 

L’arte diventa lo strumento per rendere possibile una situazione altrimenti irrealizzabile, che sottolinea, tra l’altro, le origini rurali della regione a dispetto del panorama urbano circostante. Anche attraverso il lavoro di Yael Bartana (Kfar-Yehezkel, Israele, 1970) e sempre attraverso il video – il mezzo di elezione in mostra – lo spettatore si trova a esplorare l’immaginario dell'identità culturale e politica della memoria ma stavolta viene trasportato in Israele. In questo caso l’artista, documentando le proteste contro lo sfratto dei residenti musulmani da parte di coloni ebrei (The Recorder Player di Sheikh Jarrah), riprende una giovane donna mentre suona L’Internazionale– canzone popolare israeliana del 1982 e simbolo di protesta contro la prima guerra del Libano – di fronte alla polizia e all’esercito israeliano schierato e impassibile. L’immagine, semplice e fortissima, evoca nello spettatore altre immagini in cui la strada è stata il teatro di analoghe rivolte poetiche e non violente.

Tra documento e ironia, si giunge al lavoro di Eric Baudelaire (Salt Lake City, USA, 1973) con il video Walked The Way Home (2018), girato a Roma durante la residenza dell’artista presso l’Accademia di Francia. Qui il panorama è più familiare: l’artista mostra con garbo l’inquietante presenza dei presidi militari, organizzati nelle città europee a seguito degli attacchi terroristici nelle grandi capitali: strade e piazze cittadine si trasformano nei luoghi di una straniante coabitazione tra civili e militari.

 

MAXXI, La strada.


E mentre Jeremy Deller ci suggerisce come uscire da Facebook (How to leave Facebook, 2018), marcando l’importanza dei temi della privacy e del “capitalismo della sorveglianza”, altre città, strade e vite possibili (talvolta più sostenibili) ci vengono incontro attraverso le sezioni Good design e Every day life. Qui la strada è riaffermata quale teatro di una parte rilevante della vita quotidiana e della nostra identità, estensione della nostra storia ma anche del nostro vissuto ‘domestico’, e per queste ragioni soggetto elettivo di un intervento creativo, critico e progettuale. Così, mentre grandi infrastrutture e piccoli elementi di arredo raccontano ipotesi di sosta, condivisione, innovazione tecnologica a servizio della sostenibilità, Adnan Softić (Sarajevo, 1975) con il video Bigger Than Life (2018), evidenzia la capacità pervasiva delle ideologie nel tessuto cittadino e, attraverso il pathos dell’opera lirica, documenta sarcasticamente l’operazione di restyling “Skopje 2014” che, per inscenare una lettura eroica del passato, ha previsto la costruzione di una trentina di edifici in stile neoclassico e la rivisitazione – con colonne e balaustre – di alcuni complessi costruiti negli anni Sessanta dando vita a una contesto architettonico posticcio, che pure la strada ha riassorbito nel suo tessuto di vita quotidiana, portando la realtà in un progetto privo di memoria. 

 

MAXXI, La strada.


Ancora, la strada si conferma teatro elettivo di azioni performative. Già nelle dérives urbane teorizzate dai situazionisti alla fine degli anni Cinquanta dello scorso secolo, i percorsi urbani diventavano oggetto di esplorazione fisica e psicoanalitica, dove camminare, cambiare direzione casualmente, perdersi; modi per costruire nuove mappature fisiche e affettive della città. Seguendo la traccia situazionista oggi alcuni artisti tentano di riaprire nella strada spazi di espressione e relazione, tra questi Yilin (Guangzhou, 1964) che nelle sue Golden Series, 2011-2012, raccoglie un ciclo di performance svolte nel 2011 a San Francisco dove l’artista, sdraiato a terra, percorre rotolando, ovvero usando la stessa azione fisica di base delle ruote dell’automobile, alcuni luoghi emblematici cittadini, preceduto da un gruppo di collaboratori che cammina lentamente aprendogli la strada. Cao Fei (Guangzhou (Cina), 1978), figura di spicco della “new generation” di artisti cinesi, con i suoi video (Hip Hop: Guangzhou, 2003 ; Hip Hop: Fukuoka, 2005; Hip Hop: New York, 2006) racconta invece la gioia del quotidiano attraverso una carrellata di personaggi che balla felice in strada al ritmo di una traccia Hip Hop, genere musicale che nasce appunto nelle strade come mezzo di protesta delle classi disagiate. 

 

MAXXI, The street, Cao Fei, Hip Hop. 


Di opera in opera, di nazione in nazione la strada si conferma luogo fondamentale per consentire alla comunità di sviluppare un’identità e una coscienza condivise e spazio per gli artisti per un’indagine dei confini fra pubblico e privato. Il conflitto sociale, il pregiudizio, l’immigrazione, le minoranze, in generale le relazioni interpersonali e il senso della comunità vengono vagliate, spesso in maniera disturbante, attraverso i lavori in mostra. Francis Alÿs (Anversa, 1959) con Paradox of Praxis 5, (2013) esplora il tessuto urbano mediante il gesto inutile e metaforico di calciare un pallone infuocato camminando in strada: nel buio intravediamo la città Ciudad Juárez illuminata dal bagliore del fuoco. Pochi lavori dopo osserviamo Kimsooja (Taegu, 1957) ripetere un’esperienza legata alla propria infanzia nomade e posizionarsi di volta in volta nelle strade di Delhi, Lagos, New York, rinegoziando ogni volta la propria identità, trasformando la sua visione personale nella nostra (l’artista è di spalle), la presenza in assenza, il privato in pubblico, e così convertendo in uno sguardo il soggettivo in universale. 

 

MAXXI, The street, Kimsooja.


La strada è una mostra da vedere, anche due volte: la successione incalzante delle opere, volutamente estenuante, conduce il pubblico verso dimensioni, spazi e tempi nuovi, talvolta imprevedibili, che pure mimano un movimento continuo di crocevia, luoghi e identità, familiari e non, un po’ come avviene con An Embroidery of Voids di Daniel Crooks dove l’osservatore è portato a vivere il movimento fluido della telecamera attraversando un infinito corridoio urbano di scorci e angoli cittadini avvertendo insieme un effetto ipnotico e straniante. Attraversando la mostra, vedendo, ascoltando e sentendo ‘fisicamente’ nelle opere tutta la dimensione umana della strada, si osserva quanto proprio nelle strade, in ogni latitudine, le tensioni, anche quelle apparentemente minime, siano spesso portate all’estremo e quanto l’immaginazione e la creatività abbiano ancora il potere di trasformare e muovere. 

 

Chiusura ideale dell’esposizione, e prima opera ad aprirsi alla strada ‘vera’ (sono previste anche una video gallery e alcune performance in città) è il lavoro di Liu Qingyuan (Chongqing, 1972) The streets of the story del 2018: una serie di incisioni che tracciano la storia degli incroci fra l’iconologia della strada e l’arte nell’arte occidentale, nel periodo compreso dagli anni Sessanta e gli anni Novanta del Novecento, evidenziando la preistoria e la storia alla base della mostra e anche una differenza sostanziale tra le strade che si sono osservate: quelle cinesi, latino americane, medio orientali sono strade che stanno vivendo oggi un rivolgimento decisamente più marcato di quelle europee, italiane in particolare. L’assenza italiana sul tema – tra le poche eccezioni il bellissimo lavoro di Rosa Barba Free Post Mersey Tunnel comunque ispirato al tunnel che corre sotto la manica – dimostra quanto le strade nazionali non siano oggi al centro del cambiamento come lo furono negli anni Sessanta. E in effetti è attraverso le due timeline della mostra, che raccontano la strada dal punto di vista storico, che ci confrontiamo con esperienze come quelle di Ugo La Pietra e con un periodo, quello compreso tra gli anni Sessanta e Settanta, in cui attraverso le varie discipline dell’arte, dell’architettura, delle arti applicate, del design, in un’Italia al centro di una trasformazione economica, sociale, culturale e urbanistica, è stata tentata una fusione immaginifica tra ricerca e sperimentazione.

 

Allora emergevano graffianti e poetici progetti tesi a un’abitabilità più sostenibile, alla deviazione da luoghi e strutture della società già avvertite come rigide, capaci di agire nel sociale per la diffusione di un pensiero differente, incitare alla trasformazione delle convenzioni, a gesti minimi ma fondanti per la riappropriazione di strade e città. Analogamente oggi, a latitudini più lontane, rese vicine da mezzi e linguaggi inimmaginabili negli anni Sessanta, si tenta, attraverso le armi dell’arte e della creatività, – come dimostrato dalla mostra al MAXXI – una guerriglia impegnata nella “polis”, d’altra parte il termine ‘politica’ deriva appunto dalla parola greca pòlis («città-Stato») e indica l’insieme delle attività che hanno a che fare con la vita pubblica, una vita pubblica che ha il suo teatro principale proprio nella strada. E così un ampio spettro dei linguaggi della creatività contemporanea è impegnato nell’osservazione e nell’azione, nella considerazione di temi fondanti quali i rapporti interno/esterno centro/periferia individuo/società, alla ricerca di un genius loci, ovvero di quello spirito dei luoghi con cui, fin dall’epoca romana, l’uomo ha dovuto confrontarsi per poter abitare e che oggi, spessissimo e ovunque, dimentichiamo.

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La strada al MAXXI di Roma
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Paul Klee, archeologo della pittura

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“Nella grafica albergano i fantasmi e le fiabe dell'immaginazione,

e nello stesso tempo si rivelano con grande precisione.”

Paul Klee, La confessione creatrice

 

Paul Klee è uno di quegli artisti che subisce l’ingiusta condizione di essere oscurato dalla troppa notorietà. Sovente derubricato dal pubblico nella polverosa categoria dei classici scolastici, la sua opera è invece un fuoco d’artificio di scoperte, intuizioni, tuffi in profondità in epoche e culture lontane. L’occasione per guardare ad essa con occhi ripuliti dai preconcetti è la splendida mostra in corso al Mudec di Milano Paul Klee. Alle origini dell’arte, a cura di Michele Dantini e Raffaella Resch, nella quale i curatori indagano in profondità l’aspetto del primitivismo di Klee e la genesi della sua opera. 

La mostra è frutto di un lungo lavoro di ricerca e raccoglie oltre cento opere provenienti da prestiti importanti, in particolare dal Zentrum Paul Klee di Berna, di cui alcune inedite in Italia. Divisa in cinque sezioni, nasce con il dichiarato intento di fare chiarezza sulle fonti del suo lavoro, percorrendo a ritroso le vie battute dall’artista per decostruire il mito del Klee “sciamano” e dare invece visibilità al “pittore-archeologo”, appassionato conoscitore della storia dell’arte, instancabile ricercatore votato alla pratica e refrattario alla seduzione della teoria pura.

 

Ph Lorenzo Passoni.


Maestro indiscusso del ‘900 ma meno celebre di suoi contemporanei (si pensi all’amico Wassily Kandiskij o a Picasso), Klee è un artista la cui opera si protende in mille direzioni pur rimanendo coesa, e non a caso utilizzerà la celebre metafora dell’arborescenza in occasione della conferenza di Jena del 26 gennaio 1924 per evocare la figura dell’artista e della sua opera (“Quest'orientamento nelle cose della natura e della vita, questo complesso, ramificato assetto, mi sia permesso di paragonarlo alle radici di un albero. Di là affluiscono all'artista i succhi che ne penetrano la persona, l'occhio. L'artista si trova dunque nella condizione del tronco. Tormentato e commosso dalla possanza di quel fluire, egli trasmette nell'opera ciò che ha visto. E come la chioma dell'albero si dispiega visibilmente in ogni senso nello spazio e nel tempo, così avviene con l'opera.”). Infinitamente stratificata, costruita su uno studio rigoroso e instancabile, nella sua impressionante produzione (si contano oltre diecimila opere nella sua intera carriera) si rinvengono le ragioni che hanno reso talvolta ostico l’approccio del pubblico a un artista così colto, stimato dai colleghi e dalla critica ma forse non compreso nella sua interezza e profondità.

Un percorso documentato con perizia negli studi di Michele Dantini e nel suo volume Paul Klee. Epoca e stile, lettura imprescindibile per chi voglia completare l’esperienza della mostra addentrandosi nei meandri della produzione dell’artista svizzero grazie a un volume frutto di una indagine minuziosa sulle fonti, sui testi e sui nuclei concettuali che costituiscono l’opus kleeiana, in grado di guidare lo spettatore su sentieri poco battuti, nel fitto di un bosco in cui fioriscono inaspettate gemme di senso.

 

Klee, Vergine sognante @Image archive Zentrum Paul Klee.


La mostra si attesta su sezioni tematiche non cronologiche, che affrontano aspetti nodali della ricerca di Klee e che offrono allo spettatore una lettura originale ed esaustiva della produzione labirintica del maestro svizzero (una produzione che Giulio Carlo Argan, nella prima prefazione dei Diari, definisce un “labirinto «rettilineo»”). 

Nella prima sezione sono esposti alcuni tra i lavori giovanili insieme a opere del periodo più maturo che presentano caratteri di evidente complessità: si tratta di caricature, maschere, animali, “capricci”, carte di grande bellezza dalle dimensioni spesso ridotte (regime in cui Klee riesce ad essere sublime), come Perseo (Lo scherzo ha il sopravvento sul dolore), acquaforte del 1904 o L’eroe con l’ala del 1905. Opere dai titoli talvolta folgoranti e sempre funzionali al dispiegarsi delle immagini, nelle quali Klee rivela l’amore per le riviste satiriche e il fumetto, coniugando il gusto per il dettaglio prezioso, lo studio della classicità e il tentativo di superarla attraverso un’ironia pungente che non è mai cronachistica ma anzi è strumento per la demolizione di un atteggiamento reverenziale verso il passato che rischierebbe di paralizzare l’artista, mosso invece dalla brama di costruire. Lo scarto verso il fantastico sorprende per la sua attualità ed evoca l’atmosfera di certi sogni ultraterreni di H.P. Lovercraft, pur senza sposarne l’orrore, combinato all’elemento del grottesco e alla satira, un elemento sulfureo che, soprattutto nei lavori aurorali della giovinezza, nasconde una delle chiavi di comprensione dell’approccio di Klee all’arte antica. 

 

Ricordiamo che Klee si trova a Monaco agli inizi del secolo (tra il 1898 e il 1901), un momento culturalmente incandescente: studia presso l’Accademia sotto la guida del “dandy” Franz Von Stuck – con cui avrà sempre un rapporto ambivalente – e dove tornerà per vivervi  nel 1906, anno in cui si unirà  in matrimonio con Lily Stumpf. Sono anni giovanili di scoperte: terminati gli studi, tra il 1901 e il 1902 trascorre un periodo in Italia di sei mesi, un grand tour che indirizza la sua ricerca in maniera netta contribuendo a formare l’idea di sé come “primitivo moderno” (di matrice essenzialmente cristiana), scoprendo nuovi interessi dettati da un gusto squisitamente personale: mal sopporta il Barocco, preferisce Donatello a Michelangelo, si entusiasma per l’arte paleo-cristiana, il Gotico, i tedeschi delle collezioni, il Quattrocento fiorentino, la pittura pompeiana e per gli acquerelli erotici di Rodin in mostra a Roma all’Esposizione Internazionale romana del bianco e del nero, che lo colpiscono per la “sprezzatura” con cui sono realizzati e alimentano in lui il desiderio di una semplificazione primitivistica: 

 

“294. Ormai sono tanto progredito da poter dominare la grande civiltà antica e il Rinascimento. Soltanto col nostro tempo non mi riesce di stabilire una relazione artistica. E voler creare qualcosa che non gli corrisponda mi appare sospetto.

Grande perplessità.

Perciò sono di nuovo tutto satira. Devo ancora fondermi interamente in essa? Forse non sarò mai un realizzatore? Comunque, mi difenderò come una belva.” (dai Diari, pag 69-70, Il Saggiatore, 1990)

 

Se Klee sviluppa l’interesse verso l’antichità a partire dal suo viaggio in Italia tra il 1901 e il 1902, la miccia innescata dalle visioni italiane deflagra in un incendio che non si spegnerà  mai. Da lì in avanti si nutrirà di memorie figurative e il passato diverrà un territorio in cui muoversi con passione e competenza, rivendicando per sé il ruolo di epigono di una civiltà  ormai finita. Non potendo abbracciare l’antico nella sua integrità, e accettando lo scacco dell’impossibilità di ricostituire l’immagine nella sua purezza originaria, Klee sceglie la parodia, la beffa per animare una sincopata produzione che tradisce stili e repertori eterogenei, mantenendo una coerenza di obiettivi che si snoda su percorsi affatto irregolari, una pars construens (per citare Resch) del tutto originale e che contribuirà ad attribuirgli quell’attitudine anti-nichilista che contribuirà al suo riconoscimento critico post bellico.

Sono anni intensi che sfoceranno nella svolta spirituale del dopo Guerra e successivamente lo condurranno in seno al Bauhaus, all’esperienza dell’insegnamento, tra il 1921 e il 1931; anni in cui la sua ricerca esplora una sorprendente vastità di riferimenti iconografici, e se da un lato si rivolge al passato arcaico europeo ed extraeuropeo, dall’altro la sua attenzione si posa sulla contemporaneità: Klee è un intellettuale pienamente consapevole di ciò che accade nel mondo dell’arte contingente, un viaggiatore-etnografo (e musicofilo) che guarda al lavoro di Matisse, Dufy, Picasso, Braque, de Chirico, Carrà, Chagall, Arp, Ernst (rimando ancora a Paul Klee. Epoca e stile di Dantini e al catalogo della mostra per gli approfondimenti in merito), a cui si aggiungono Cézanne, Ensor, i giapponesi, Van Gogh. Nella sua sete di esplorazione, Klee non perde occasione di posare il suo occhio cristallino su opere e autori che possano fornirgli materiale di confronto, spunti per edificare quell’architettura immensa che diverrà la sua pratica.

 

Ph Lorenzo Passoni.


Tra la produzione degli anni ‘10 e ‘20 avviene uno slittamento, l’orizzonte di riferimento diventa quello delle origini dell’Occidente, la Grecia arcaica, l’Egitto, ma anche le tradizioni locali, l’arte copta, l’Islam, il repertorio celtico, l’arte bizantina, il medio oriente. Il viaggio in Tunisia del 1914 è un’epifania per l’artista che si scopre “pittore” e si apre all’indagine sul colore (Giovedì 16 aprile 1914 “Interrompo il lavoro. Un senso di conforto penetra profondo in me, mi sento sicuro, non provo stanchezza. Il colore mi possiede. Non ho bisogno di tentare di afferrarlo. Mi possiede per sempre, lo sento. Questo è il senso dell’ora felice: io e il colore siamo tutt’uno. Sono pittore.”) Tuttavia, la sua grande capacità di capitalizzare il proprio talento lo orienterà verso la decisione di concentrare i suoi sforzi nel disegno, che rimarrà sempre come il cuore autentico della sua opera, esercitando un primato sulla pittura (o possiamo dire sarà determinante per dare forma a quella che è una “pittura attraverso il disegno”.) che è compendiato negli scritti raccolti nella Teoria della forma e della figurazione, dove trovano spazio le lezioni tenute agli allievi del Bauhaus.

 

Pochi mesi dopo quel viaggio così importante in Nord Africa scoppia la Guerra e l’Europa sprofonda “tra melma e sangue”, come scrive Clemente Rebora in Viatico: Klee viene richiamato al fronte come soldato semplice dal 1916 al 1918 ma sopravvive al conflitto, mentre l’amico Franz Marc, figura chiave del Blaue Reiter, muore sul campo a Verdun. La perdita lo segna profondamente e contribuisce a ridimensionare la sua produzione satirica a favore di quella dalle chiare implicazioni spirituali. In lui si delinea una vocazione messianica (quell’“io, un cristallo” che suona come una presa d’atto di una condizione oltreumana) e l’artista si concentra su un campionario di immagini anacronistiche e antinaturalistiche, recuperando l’opera di Albrecht Dürer, il gusto per il barbarico, gli evangeliari, i codici miniati medievali che racchiudono quel portato mistico a cui aspira l’espressionismo del Blaue Reiter, il Cavaliere Azzurro fondato da Kandiskji e Marc nel 1911. Diviene così “illustratore cosmico”, mantenendosi fedele al piccolo formato e ribadendo l’idea che la contemporaneità non possa aspirare alla dimensione monumentale, propria dell’antichità. Ed è nella seconda sezione della mostra che sono raccolti i lavori che illustrano questa svolta ascetica, in cui le immagini sembrano appartenere a una dimensione più alta e vibrano di una differente intensità, come il Cristo geometrizzante e quasi suprematista del 1926, l’acquaforte psicografica Piccolo Mondo (1914), Sommo guardiano (1940) o il sintetico Ragazza esotica del tempio (1939), dai riverberi “matissiani”. Le immagini si fanno dense – vengono paragonate a pietre preziose per il carattere di imperturbabilità che le contraddistingue, oggetti dove riecheggia un mistero sovrannaturale e un ordine teso a superare il caos di ciò che è transitorio e afferisce all’umano. Di queste opere colpisce il senso di mistero ma anche quella capacità di muoversi dentro e fuori la storia dell’arte, attraverso la scelta di un repertorio di assoluta coerenza; l’indagine tesa a indagare la differenza tra decorazione e spiritualità li rende degli enigmi figurativi mai completamente risolvibili e alimenta una tensione tra ciò che è terreno e ciò che è divino, un dramma che percorre l’intero pensiero figurativo di Klee.

 

Klee, Hoher Wachter @ Image archive Zentrum Paul Klee.


La sezione “alfabeti e geroglifiche d’invenzione” pone l’accento invece sulla produzione legata alle cosiddette psicografie, composizioni che si nutrono di segni linguistici e “lingue celesti”. Klee fa un ampio uso di grafemi dalle provenienze più disparate nelle proprie composizioni: edotto in merito alle scritture antiche, come le rune o l’alfabeto cuneiforme, si diverte a creare segni che assumono significato all’interno di una specifica composizione, gode del piacere tassonomico che scaturisce dalla serie e dall’elenco, costruisce ideogrammi, simboli e forme che rimandano alla natura e alla biologia, oppure impiega elementi con pura funzione grafica da lettering, rivelando un interesse rivolto sia all’aspetto figurativo che simbolico dell’alfabeto, sperimentandone un utilizzo all’interno delle proprie opere che ha una eco in una più ampia ricerca condivisa da altri autori contemporanei impegnati in riflessioni parallele (su tutti Kurt Schwitters). Ecco quindi Turbato (Confuso, 1934), tempera su tela in cui dipinge entrambe le facce, o Serie sovrapposta di piccoli elementi (1928), che rimanda ai motivi ornamentali tessili e al gusto risalente agli anni giovanili per la decorazione. Tra le opere della sezione spicca Angelo in divenire, olio su tela del 1934, che incanta per intensità ed equilibrio, forse una delle più belle in mostra, dove Klee riprende la figura dell’angelo, intermediario tra il mondo empirico e quello celeste, qui sfrangiato di ogni orpello per farsi forma-idea che connette due mondi: “Gli angeli kleeneiani rovinano su sé stessi e loro atteggiamento ricorrente è il dubbio: circostanza che li rende umani assai più che divini.” (M. Dantini, Paul Klee. Epoca e stile, Donzelli Editore, pag 126). 

 

Klee, Angelo in divenire @Image archive Zentrum Paul_Klee.


Accanto alla sala sono raccolti alcuni reperti etnografici della collezione del Mudec, manufatti che chiariscono alcuni tra i riferimenti visivi di quel Klee “antropologo del possibile”, che guarda all’arte extraeuropee attraverso le riviste specializzate e le mostre, che acquista acquerelli di minareti e moschee durante il viaggio in Tunisia, colleziona manufatti e utilizza il patrimonio ornamentale dell’arte islamica e orientale come un serbatoio espressivo dal quale attingere. Splendida la Tavola matrice per la stampa proveniente dalle Isole Trobriand, che potrebbe provenire da una civiltà aliena, o il frammento di tessuto peruviano della cultura Huari, con il gioco dei colori e l’equilibrio gioioso degli intrecci degli ocra, dei rossi e degli indaco. I pattern, gli elementi ideografici e gli stenogrammi, gli elementi della natura stilizzati fino a diventare simboli arcani, la sapienza compositiva, il senso ritmico e l’ordinamento spaziale dei reperti alimentano il suo immaginario e lo accompagnano fino all’ultimo periodo della vita, quando malato ed esiliato dai nazisti, si dedicherà ostinatamente a una produzione incentrata su schemi ornamentali ripetuti, quasi rituali, rinunciando volontariamente a un registro psicologico che avrebbe gravato l’immagine di un sentimentalismo a cui Klee è stato sempre assolutamente refrattario.

Il mondo primitivo per Klee è rappresentato anche dall’infanzia, territorio inesplorato dove la forza creatrice trova piena espressione e spazio vergine per la figurazione. Nel 1907 nasce il figlio Felix, che diventa fonte di riflessione e di ispirazione per l’artista (annota nei suoi Diari, in un gita nell’estate del 1911 in barca, “un piccolo demonio, una creatura tanto indifesa”). Negli anni compresi tra il 1916 e il 1925 costruisce per lui circa cinquanta marionette, di cui alcune sono visibili nel teatrino costruito per l’occasione. Fatte di materiali di recupero, sono composte di cartoncino, scampoli di tessuto, conchiglie, noci, materiale elettrico e si ispirano a conoscenti o a figure della tradizione nordica, rivelando un gioioso gusto per l’assemblaggio e per il pastiche di marca dadaista.

 

Ph Lorenzo Passoni.


L’ultima sezione racchiude i mondi infiniti di “policromie e astrazione”. L’“arte di idee” di Klee si dispiega in una sinfonia ritmica fatta di variazioni sul tema, moduli, vibrazioni cromatiche, rimandi all’Egitto cristiano; sono opere dove l’astrazione – intesa come religione dell’arte in grado di trascendere quel materialismo visto come causa dell’orrore della Guerra – da un lato emerge come forma contenente un’implicita critica culturale, dall’altra si abbandona a riflessioni più puramente formali, dove rientrano studi compositivi, memorie paesaggistiche, architetture, costellazioni di segni luminosi. Klee “Svolge cioè una sorta di commento figurato alle difficoltà dell’immagine religiosa o «spirituale» di cui non cerca però (se non occasionalmente, e in via congetturale) di restaurare l’autorità perduta.” (M. Dantini, Paul Klee. Epoca e stile, Donzelli Editore, pag 129). La malattia del corpo che lo colpisce nel 1936 e lo condurrà alla morte nel 1940 è anche la malattia dell’immagine: le figure e i paesaggi naturali che galleggiano in una dimensione “orfica”, percorsi da un senso di automatismo e di ripetizione programmatico, si moltiplicheranno sfociando nella produzione febbrile degli ultimi anni. Nell’ultima sezione della mostra però non c’è spazio per una meditazione dolorosa: opere come Roccia artificiale del 1927, con le piramidi grafiche in rosso sanguigno che pulsano su un fondo nero, animato da una presenza immateriale, Senza titolo (Sentieri intorno alla roccia bruna), olio e penna del 1932, con la sua compattezza materica di graffito, patchwork, incisione, o Nella stanza delle donne (1938), meditazione sul femminile che guarda e prende le distanze dai corpi-monumento di Picasso, rappresentano gli enti di un universo tutt’altro che rarefatto, sontuoso per ricchezza inventiva e per intensità. Di questo Klee così concentrato, così stoicamente volto al compimento di una vita da artista “cosmico”, rimane la parabola di una freccia numinosa che attraversa un cielo stellato segnando una traiettoria di desiderio che attraversa tutto il Novecento e si proietta oltre. Un cristallo che continua a brillare. 

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Tra Oriente e Occidente. Un viaggio a Tokyo

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Al visitatore occidentale il nome di Asakura non dice granché. Eppure capita di essere presi da una singolare emozione nell’entrare in queste stanze, dopo essersi tolti le scarpe e averle riposte nel sacchetto di plastica che il museo mette a disposizione. In Giappone anche il minimo dettaglio è pianificato. Prima ancora di essere entrati nella casa-museo, si è già varcata una soglia che resta per lo più invisibile al viaggiatore occidentale. Prima ancora che se ne accorga, è già dentro un cerimoniale minimo, ma inaggirabile, di vestizioni e svestizioni, di atti e di posture.

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Avanguardia e sogno

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Ah, le avanguardie! Ma perché a un certo punto se ne è parlato così male? Traditi, pentiti, disillusi? Si rimprovera loro quello che si dà per scontato oggi? Cioè che il mondo è quello che è, che là fuori è la giungla, che il sistema... Sia come sia, però, insomma, un’effervescenza, un impegno, un coinvolgimento tali che sembra che si inventasse qualcosa ogni giorno per sé e ogni settimana in condivisione, ogni opera era l’elaborazione dentro la propria poetica di un’idea che circolava. Oppure diciamolo così: quelle beghe, quelle contraddizioni, quei fallimenti che gli si rimprovera, erano la vita stessa di quella vita, e la sua nuova forma.

Nostalgia? No, grazie, si fa solo per dire, per invitare a visitare una mostra di più, leggere una rivista di più, tentare qualcosa diversamente.

Una rivista: quando leggo “Mousse” – purtroppo ora solo in inglese, ma è un segno non solo di mercato ma anche di pubblico interessato – a volte ho l’impressione che in certe capitali internazionali ci sia ancora questo fermento, naturalmente di altro tipo, su altri registri, ma si ha l’impressione che un dibattito ci sia, che gli artisti e i critici si confrontino su argomenti che condividono, che li interessa.

Ma veniamo alla mostra: a Alba, nel regno illuminato della Ferrero, si può visitare ancora fino al 25 febbraio – gratuitamente! e per questo è meglio prenotare perché c’è sempre la fila – la mostra Dada e Surrealismo, con opere dei due movimenti artistici provenienti dal Museo Boijmans Van Beuningen di Rotterdam e curata da Marco Vallora.

 

René Magritte, Le bon exemple, 1953.


Il sottotitolo è un po’ scontato, richiamando i due termini più usati per i due movimenti nell’immaginario comune, “Dal Nulla al Sogno”, ma a pensarci l’effetto è interessante, poetico invece che definitorio: è un passaggio, quello dal nulla al sogno, invece che al reale, che non va per contrasto né per condensazione ma per spostamento, mantenendo un’evanescenza, un’immaterialità. È curioso pensare in questi termini a tutto quell’agitarsi che si sono dati i surrealisti, a tutte le opere, le figure, gli oggetti.

In mostra ci sono alcune delle opere imperdibili dei principali protagonisti dei due movimenti: c’è il Torso ombelico di Jean Arp, c’è la Scatola-in-valigia di Marcel Duchamp, c’è lo sfacciato Egoismo di Francis Picabia, Man Ray a iosa, dagli “oggetti a funzionamento simbolico” più famosi (il ferro da stiro con i chiodi, la macchina da cucire impacchettata...) a fotografie e “rayogrammi” a diversi dipinti, così come numerosi Dalì, dal telefono-astice a quadri famosi come Il grande paranoico e Impressioni d’Africa (accompagnato da impressionanti disegni preparatori); c’è l’enigmatico Pittura-poesia di Joan Mirò dedicato a Michel Leiris e Georges Bataille; c’è la misteriosa Coppia di Max Ernst, nonché suoi bellissimi “frottage”; ci sono diversi René Magritte, famosi e no, tra cui un comicissimo e inquietante Personaggio seduto che raffigura invece un uomo in piedi! Ci sono le foto delle Bambole di Hans Bellmer ormai diventate imprescindibili… e così via per tanti altri artisti. Insomma la mostra è davvero antologica e di grande soddisfazione già sotto questo aspetto.

 

Max Ernst, Le couple, 1923.


Le opere sono raccolte in otto stanze intorno ad altrettanti nuclei tematici piuttosto che secondo un percorso cronologico: la finalità della mostra non è storica ma di rilettura e reinterpretazione. Anche i temi sono non solo i più noti e inevitabili, ma anche qui non senza slanci: così dal “nulla”, o particolare negazione (“Dada non vuol dire nulla”), di Dada si passa agli elementi di continuità con il Surrealismo, quindi al sogno e al doppio “a lezione da Freud”, si fa una pausa di riflessione con i “padri nobili e segreti” del Surrealismo, ovvero poeti e scrittori come Lautréamont (le non notissime illustrazioni di Dalì ai Canti di Maldoror) e Raymond Roussel o il “performer”, diremmo oggi, Arthur Cravan, pugile-poeta-viveur; viene quindi naturalmente l’Eros, l’“amore folle”, non senza il risvolto di quello che viene qui chiamato “corpo offeso”, cui segue una nuova pausa sul “cuore antico” della “rivolta del Moderno” – e qui la parte da leone la fa Giorgio de Chirico – per passare a un tema meno noto qual è l’interesse dei surrealisti per la scienza nuova, dalle geometrie non euclidee alla relatività alla scissione dell’atomo (in cui Dalì vedeva l’apice “paranoico critico” dell’incontro tra fisica e metafisica). Chiudono infine una riflessione sul “rapporto tra arte e cultura di massa” e una chiusura che è giustamente un’apertura e titola “Verso la libertà?”, con bel punto interrogativo.

 

André Masson, copertina di minotaure, n. 12-13, 1939.


Ma non solo opere eccellenti, dicevamo. Vorrei dire semplicemente: tutto quel materiale che solitamente il pubblico considera di complemento, di arricchimento documentativo, di curiosità nelle mostre, e che fortunatamente invece è ormai sempre più abbondante, non è lo sfondo, non il resto, ma una parte essenziale, a diverso titolo, e la parte "viva" anche, quella che ci fa entrare dentro la scena, dentro il lavorio delle menti e dei corpi, dentro i dettagli come dimensione ulteriore e diversa, io vorrei dire dentro l'arte dalla parte degli artisti, della fase e delle ragioni dell’ideazione e creazione, non di quella "dopo", che dà l'opera per fatta e fatta per noi che la guardiamo, come se fare arte fosse fabbricare un oggetto (d'uso, fosse pure intellettuale). Con il Dada e il Surrealismo, dicevo all'inizio, questo è addirittura epico, con eventi continui, provocazioni, scandali ricercati, litigi, esclusioni, amori, suicidi.

Si guardino allora con curiosità le fotografie, i documenti, i libri illustrati, quelli "d'artista" (la meravigliosa Histoire naturelle di Max Ernst non è certo un'opera minore), le riviste (con fantastiche copertine belle come quadri), come erano impaginate e con che testi certe immagini che conosciamo magari a parte, o viceversa (come per esempio il proprio per questo frainteso La fotografia non è arte di Man Ray), gli interventi d'artista per i libri dei poeti (come l'incredibile doppia pagina di Dalì per Notes sur la poésie di Breton e Éluard, che sembra un Do it Yourself di Andy Warhol, se non fosse per i volti allucinati delle due donne), e gli oggetti, anche di arte "applicata" (e anche se bruttini, come a me sembra la boccetta di profumo Le Roy Soleil di Dalì per Elsa Schiaparelli, o belli come le carte da gioco Puiforcat), o le opere e gli artisti cosiddetti di secondo piano, in realtà rivelatori di altri piani e percorsi (conoscevate la tavolozza sporca di colore con su scritto Mer de merde di Man Ray?). Questa mostra ne è ricca e fonte di una quantità di scoperte.

 

Dalì, Autoritratto studio per impressions d'Afrique, 1938.


Il catalogo è molto bello, ricco di tutte le immagini e molte di più. Il curatore Marco Vallora si è prodigato in un lungo racconto dei due movimenti e di analisi di ciascun tema delle sezioni, disponendo anche un’antologia finale, vezzosamente intitolata “Marginalia” (in onore di Edgar Allan Poe), con testi vari su ulteriori temi per niente marginali. Al centro poi un’ampia messe di contributi eccellenti, di alto livello italiano: Sergio Givone riflette sul Nulla, Pietro Bellasi sulla “ricerca di una vita invivibile” tra quotidianità e spettacolo; Valerio Magrelli ripercorre il periodo e gli eventi dei due movimenti, Paolo Fabbri e anche Antonella Sbrilli indagano il ruolo del gioco, dei giochi, nel Surrealismo, mentre Andrea Cortellessa racconta le città al centro di tre occasioni surrealiste, Bruges-la-Morte, Nadja e Vertigo; e ancora: Marcello Barison legge il Surrealismo tra etnografia e filosofia, mentre Giorgio Agamben propone una sua lettura politica; Giovanni Amelino-Camelia ricorda l’interesse dei surrealisti per le scienze contemporanee, e infine Andrea Zucchinali ne ricostruisce il rapporto con la fotografia. Dimenticavo: trattandosi di opere di una collezione, non mancano due preziosi testi di Hanneke de Man e Saskia van Kampen-Prein sulla sua storia e sul museo che oggi le ospita. Un insieme davvero ricco e consistente, così abbiamo al tempo stesso una mostra importante e godibilissima e uno strumento di riflessione di grande livello, un’operazione culturale che può soddisfare tutti, ciascuno secondo i propri interessi.

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Dada e Surrealismo a Alba
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Soggetto nomade

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La mostra “Soggetto nomade”, composta da più di cento immagini, a cura di Cristiana Perrella e Elena Magini inizia proprio nel momento in cui si intuisce che ogni immagine è un luogo di sosta temporanea e per questo ogni immagine deve essere liberata dalla sua natura sedentaria. Rosi Braidotti, a cui si sono ispirate le curatrici, essa stessa nomade e poliglotta, nell’introduzione alla sua raccolta di saggi intitolata proprio Soggetto nomade. Femminismo e crisi della modernità (Donzelli, 1995) riassume così l’essenza del suo lavoro: “in esso si susseguono una serie di traduzioni, spostamenti, adattamenti a condizioni in continuo mutamento. Per dirla in altri termini, quel nomadismo che sostengo come opzione teorica si rivela essere anche una condizione esistenziale”. E inoltre: “il soggetto nomade è un mito, un’invenzione politica e mi consente di riflettere a fondo spaziando attraverso le categorie e i livelli di esperienza dominanti: di rendere indefiniti i confini senza bruciare i ponti”. 

 

Proprio questo accade mentre si guardano le immagini: pensiero ed esistenza si confondono, anzi l’esistenza e l’esperienza coincidono con il pensiero. Tutto è in movimento. Lungo il tunnel bianco e luminoso del Centro Pecci di Prato, come in una macchina del tempo, si percorre un cammino circolare, che si snoda tra il 1965 e il 1985. Le cinque fotografe sono: Lisetta Carmi, Elisabetta Catalano, Paola Agosti, Letizia Battaglia e Marialba Russo. Le loro fotografie, tuttavia, non si limitano a restituire modi di essere di una soggettività femminile colta in un momento di profonda partecipazione, a testimoniare conquiste civili epocali, dovute principalmente alle donne, in un periodo di grande cambiamento. Ciò che davvero fanno è qualcosa di più radicale. I loro spazi incerti sono i luoghi della possibilità. Le immagini non sono solo testimonianze del proprio tempo ma proiettano, “nomadicamente” l’istante immutabile della fotografia, il “qui e ora”, in un futuro da immaginare. Per questo ciò che si vede nelle immagini è instabile, un frammento di tempo in divenire. Se tutto si muove, nulla è identico a se stesso: la possibilità del cambiamento viene suggerita grazie alla forza nomadica dei soggetti che le fotografe decidono di rappresentare. Lo sguardo vacilla, si muove, dubita insieme a ciò che vede. Non potrebbe che essere altrimenti. Ogni fotografa lo rammenta in modo diverso. 

 

Letizia Battaglia, La bambina con il pallone, quartiere la Cala, Palermo, 1980.


Le bambine fotografate da Letizia Battaglia, nei quartieri degradati di Palermo, simboleggiano la bellezza che si oppone all’emarginazione. Nomadismo qui è fragilità, candore, innocenza. Dopo aver visto le più efferate stragi di mafia, e avere al suo attivo “un archivio che gronda sangue”, le bambine rappresentano la speranza nel futuro. Una donna che ha visto tanta morte si commuove dinnanzi alla possibilità che le ragazzine rappresentano: “ho capito che in queste bambine cerco qualcosa che si è spezzato in me a quell’età”, “tremavo di fronte a queste bambine”, racconta nell’intervista che si può vedere accanto alle immagini in mostra. Qui il nomadismo è il tremore dello sguardo. È incertezza. Ma anche speranza in un futuro diverso e migliore da costruire, desiderio di sconfinare. Lo sguardo nomade deve immergersi in ciò che è instabile, errare, perdersi, vagare, e poi andare avanti. Le immagini sono i vettori, le frecce che suggeriscono connessioni temporanee. La mappa di chi guarda è un vuoto dove i percorsi connettono diverse esperienze. Il soggetto nomade incarna lo spazio del possibile, un istante in cui vi è assenza di limiti. Le bambine di Letizia Battaglia sono dentro questo spazio mentale. La loro essenza è una promessa di mobilità e cambiamento.

 

Lisetta Carmi, I Travestiti, 1965, fotografia, stampa originale a gelatina d'argento / photograph, original gelatin silver print, 18 x 24 cm, © Lisetta Carmi, Courtesy Galleria Martini & Ronchetti.


Così come accade ai “travestiti” che Lisetta Carmi inizia a fotografare nel 1965, durante una festa di capodanno nei vicoli del centro storico di Genova, la sua città natale. Nei successivi sei anni diventa loro amica e, vivendo con loro, li fotografa. Il libro I travestiti a cura di Sergio Donnabella, con testi di Lisetta Carmi e di Elvio Fachinelli, viene pubblicato nel 1972. Come era già successo a Letizia Battaglia, quel mondo le offre lo spunto per riflettere su se stessa. Il primo atto di nomadismo è spostarsi in un mondo diverso dal suo. “Io stessa a quel tempo ero assillata – forse a livello inconscio – da problemi di identificazione maschile o femminile. Oggi capisco che non si trattava tanto di accettazione di uno “stato” quanto di rifiuto di un “ruolo”. E i travestiti (o meglio il mio rapporto con i travestiti) mi hanno aiutato ad accettarmi per quello che sono: una persona che vive senza un ruolo. Osservarli mi ha fatto capire che tutto ciò che è maschile può anche essere femminile, e viceversa”, racconta nell’introduzione alla ristampa del libro in occasione della mostra a Roma, “La bellezza della verità”, curata dal suo gallerista Giovanni Battista Martini. L’identità è fluida. Qui il soggetto e lo sguardo del nomade coincidono con l’estasi, intesa come un viaggio fuori da sé, che permette di oltrepassare i limiti della soggettività. La condizione del nomade è la condizione in cui ognuno si trova a vivere e a guardare. Potrebbe essere davvero un’estasi condivisa dal creatore e dal fruitore. Poiché se l’identità crea unione, stabilità e riconoscimento, genera altresì chiusura, limitazione, arroccamento su ciò che si considera sempre “identico”. 

Una condizione e uno sguardo nomade si aprono invece alla relazione, al tempo, a qualcosa che “somiglia” e nello stesso tempo si spinge oltre un’originaria indivisibilità e singolarità. Essere perennemente identici a se stessi non consente di pensare le trasformazioni, il futuro, il cambiamento. L’immagine qui è una porta che apre e si apre a qualcosa che conduce altrove. E questo altrove è ciò che dobbiamo assumere. 

 

Elisabetta Catalano, Laura Antonelli sullo sfondo “The End” opera di Fabio Mauri, anni ‘70, vintage print, Photo © Elisabetta Catalano, Courtesy Archivio Elisabetta Catalano.


Proprio ciò che si vede nelle immagini di Elisabetta Catalano. Scena e vita si confondono. Il confine è labile. L'esordio come fotografa avviene sul set del film  di Fellini, in cui ricopre anche un ruolo da attrice. Le immagini in mostra raffigurano alcune famose star colte nel momento in cui sembrano più vulnerabili e distanti dal cliché della diva o della femme fatale. Elisabetta Catalano afferma che attraverso le sue immagini cerca di “farle assomigliare a loro stesse”, Charlotte Rampling, Monica Vitti o Laura Antonelli; così, nelle loro foto, si intravede un volto nuovo, “il momento di maggiore interiorità, senza difese di fronte all’obiettivo”. Svelare e nascondere reggono i capi del filo lungo il quale, sospese, si muovono le immagini della Catalano. I volti e i corpi prendono possesso dello spazio, sono una sorta di doppio, immagini aperte a un divenire tra ciò che si vorrebbe, o che si è abituati a vedere, e qualcosa che ancora sfugge all’identificazione. Laura Antonelli, sullo sfondo di “The End”, opera di Fabio Mauri, è irriconoscibile e per certi aspetti si prende gioco della sua stessa icona: non c’è nessuna casalinga sexy che sale su una scala mentre pulisce casa. Il soggetto nomade in queste immagini si muove in uno spazio diverso e sconosciuto. Nulla è come appare. I volti delle attrici di Elisabetta Catalano traducono visivamente le relazioni che intercorrono fra ciò che si è, e fra ciò che, invece, è altro da come si è o ci si sente di essere. 

 

Marialba Russo, Travestimento, 34 stampe ai sali d'argento, 24x30 cm, 1975-1980.


Marialba Russo compie una operazione simile, ma più esplicita. I volti dei soggetti ritratti non sono definibili: uomini, donne, o altro ancora? È questo elemento di incertezza che seduce chi guarda. Si tratta di un dialogo che scatta immediato, un’empatia fulminea. Il trucco, gli abiti, le espressioni, hanno nello stesso tempo qualcosa di eccessivo e di assolutamente ordinario. Si ha l’immediata percezione che quei volti non potrebbero essere altro da come li vediamo nelle fotografie. Si potrebbe quasi dire che coincidono con loro stessi, nello scarto di uno spazio che appare incongruo, ma per un motivo ancora oscuro, stranamente coerente. Dunque a chi appartengono? A uomini che per un giorno, a Carnevale, si travestono da donne. Marialba Russo li fotografa tra il 1975 e il 1980 nelle province di Avellino, Benevento, Napoli e Salerno. E poi pubblica un libro intitolato Travestimento. I loro volti sono tutti lì, trentaquattro identità nomadi. Nomadismo qui è ciò che viene stravolto, perché l’apparente, per un solo momento, rende accessibile il lato nascosto. La fotografa lo racconta: “improvvisamente ho notato queste persone che si travestivano per un giorno. È una ricerca basata sulla rappresentazione del Carnevale, e nel Carnevale coesistono tutti gli stravolgimenti possibili. Mi ha colpito la sensazione che ricevevo nel vedere questi uomini travestiti da donna, che impercettibilmente assumevano una condizione femminile, diventano donne nel vero senso della parola, nel linguaggio, nelle maniere. Io, nella serie ho cercato di rendere visibile questa impercettibilità”, che si espande nella foto e diventa una rivoluzione radicale ma temporanea, come a Carnevale. Per questo lo sguardo nomade è anche lo spazio della trasgressione. Fotografare significa aprire a uno spazio nuovo, dissacrare. I volti nelle fotografie sono usciti per sempre dal silenzio, come le donne di Paola Agosti.

 

Il titolo di un suo famoso libro Riprendiamoci la vita. Immagini del movimento delle donne del 1976, è utile come guida per sconfinare, prendere un sentiero dove le battaglie delle femministe diventano quelle per un’intera collettività. Le donne non si limitano a stare in casa. “Feci la conoscenza di una certa Italia non sempre dichiaratamente femminista, ma fatta di donne che avevano lavorato in risaia, fatto la Resistenza, che erano entrate per prime a lavorare nelle grandi fabbriche del Nord: tutta un’umanità al femminile straordinaria”, racconta la fotografa. Le immagini testimoniano allo stesso tempo l’attraversamento e la descrizione dello spazio attraversato. Lo spazio è quello delle lotte, l’oggetto delle rivendicazioni è ciò che attraversa il tempo e giunge sino noi. Le donne manifestano in cortei, sono ritratte mentre lavorano nei consultori e costruiscono spazi di aggregazione. Alla base di queste rivendicazioni vi è spesso un desiderio di mutamento esistenziale inteso come passaggio attraverso una forma di azione che si esprime mediante una ribellione al conformismo, alle leggi, allo Stato. 

 

Tutto deve ribollire, espandersi, evolversi. I confini vanno trasformati in linee mobili da intrecciare e aggrovigliare. La circolarità suggerita dal percorso espositivo, offre la possibilità di percepire un deambulare morbido e mobile, dove nulla si contrappone a nulla, ma dialoga costantemente, al di là delle linee temporali. Tant’è che il volto di Charlotte Rampling può essere accostato a quello della “Gilda”, uno dei travestiti di Lisetta Carmi, mentre le bambine di Letizia Battaglia, potrebbero essere le figlie delle femministe di Paola Agosti. O i maschi precari di Marialba Russo si accosterebbero con piacere al corpo e al volto di Silvana Mangano ritratta in forma androgina da Elisabetta Catalano. Ognuna di loro è nomade in sé e per sé. Nomadismo è abbandono di un’identità chiusa, a favore di un coacervo di istanti, volti, momenti, maschere che ognuno di noi si porta con sé. Guardare soggetti nomadi con uno sguardo nomade schiude nuovi spazi, dove la conoscenza diviene percorso esistenziale. Anche la fotografia è nomade. Le immagini si aprono e si richiudono su di noi nella misura in cui suscitano un’esperienza interiore, che presuppone una loro comprensione e un movimento che mette in relazione dei corpi con altri corpi. Non è più possibile separare l’immagine come oggetto e l’immagine come operazione del soggetto. 

Se filosofi e scrittori definiscono la società come uno spazio liquido o gassoso, osservare il nomadismo dell’identità significa osservare e comprendere il nomadismo dello sguardo, spogliarlo del conformismo e della superficialità, tornare alle origini dei fenomeni. La fotografia è vita, diceva Letizia Battaglia, e ogni vita può diventare la vita di ognuno di noi. Forse è questo che vuol dire essere soggetti nomadi.

 

Mostra: Soggetto Nomade. Identità femminile attraverso gli scatti di cinque fotografe italiane. 1965-1985

Centro Pecci Prato, 14/12/2018 – 08/03/2019

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