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Coquelicot Mafille. Essere intreccio

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Incontro Coquelicot Mafille in una mattinata di inizio febbraio: fredda, tersa, con un cielo azzurro che fa pensare alla fine dell’inverno, alla rinascita, alla preparazione per qualcosa di nuovo e imprevisto. Milano sotto questa luce è bella come è bella in questi ultimi anni e il Walden Cafè si trova in una posizione privilegiata, in via Vetere, con affaccio sul Parco delle Basiliche.

Il Walden Cafè è un luogo accogliente e inondato di luce, un caffè letterario con una selezione di testi molto interessante e una cucina quasi esclusivamente vegana. Coquelicot mi aspetta al bancone mentre chiacchera amichevolmente con Delis, che si occupa del bar e insieme gestisce anche la programmazione culturale del locale. Qui dal 30 gennaio (fino al 28 febbraio) sono in mostra alcuni suoi lavori pensati e realizzati a partire dal 2016, e ora esposti per la prima volta. 

 

Il progetto, che si intitola Lectures, è dedicato alla lettura, o meglio all’atto di leggere in sé: disegni stampati su cartoncino rappresentano donne, uomini e bambini con un libro in mano, intenti a leggere o assorti nei propri pensieri; su questi è poi ricamata una scritta che indica i dati del libro, ovvero autore e titolo originale, casa editrice e anno della prima edizione. Ai ricami su cartoncino fanno da contrappunto quelli che Coquelicot chiama “ricami su muro” e “ricami su vetro”, ovvero interventi su una parete – e una porta – all’interno del locale e sulla vetrina, realizzati con il nastro adesivo. Quando chiedo all’artista il motivo di questa scelta, mi risponde limpidamente: “ho iniziato anni fa, volevo abitare le pareti con i miei interventi di street art in modo temporaneo”, rivelandomi, con una semplice frase, la delicatezza del suo modo di stare nel mondo.

 

Angolo Walden Café.


Delicatezza che non significa assenza di voce o ripiegamento, perché Coquelicot, nome che in francese vuol dire papavero, ha tantissime cose da dire e di mondi ne ha visti parecchi. Prima di tutto a livello identitario e linguistico, ma anche geografico e culturale: con madre franco-danese e padre italiano di Gallipoli, la sua infanzia si è svolta nel quartiere africano di Parigi all’altezza del XVIII arrondissement, quello della Basilique du Sacré-Cœur. All’epoca questa era una zona multiculturale e composita, in una mistione di case borghesissime e palazzine popolari abitate da arabi e africani. Tra i ricordi più vivi è il mercato – un intero isolato di botteghe – dove con la mamma stilista faceva incetta di tessuti, che colleziona tutt’oggi; e poi colori, suoni, musiche, lingue sconosciute, profumi e gusti inaspettati. Trasferitasi in Italia, studia poi a Pavia e si laurea in Scienze Politiche con indirizzo afroasiatico, approfondendo il suo interesse per le altre culture e incontrando libri che segneranno la sua prospettiva, tra cui, su tutti, Orientalismo di Edward Said. Coquelicot è perfettamente bilingue, uno sdoppiamento – o raddoppiamento – del linguaggio che rafforza in lei la consapevolezza di essere solo una piccola parte della molteplicità di culture e punti di vista che abitano il mondo. Così, appena maggiorenne, decide di viaggiare, spesso da sola, visitando Giappone, Eritrea, Malesia, Vietnam, India, Burkina Faso, Marocco, Israele…

 

 

PH Giovanni Candida.


Viaggi fisici, ma anche immaginari: la dimensione del viaggio è intesa da Coquelicot non tanto come spostamento, ma come immersione nell’alterità. Ciò è possibile anche attraverso la lettura e infatti lei stessa si definisce una “lettrice bulimica”, soprattutto di saggi, perché questi permettono la formazione di una prospettiva che prima di tutto è una presa di coscienza della realtà. 

Torniamo quindi al progetto per Walden: i titoli scelti e ricamati sui cartoncini riguardano letture significative per l’artista, riguardanti l’ambiente, l’ecologia, l’economia, la filosofia politica, il rapporto uomo-animale, le questioni di genere e il femminismo. Vediamo ad esempio che una ragazzina con il velo è concentrata nella lettura del già citato Orientalismo di Said (1978), mentre la pittrice rinascimentale italiana di nobile rango Sofonisba Anguissola (tratta da un suo autoritratto) legge L'usage du Monde di Nicolas Bouvier (1963); un giovane ragazzo (da una foto trovata, risalente al 1940, scattata a Londra durante i bombardamenti) è alle prese con Histoire de la Folie di Michel Foucault (1961), invece il figlio dell’artista Aliseo con la sua amica Olivia affrontano When God Was a Woman di Merlin Stone (1976). Non mancano i fondamentali L’ordine simbolico della madre di Luisa Muraro (1991), in mano ad un uomo che dà il biberon a un neonato, e Nonostante Platone di Adriana Cavarero (1990), assegnato a Marilyn Monroe. 

 

Nonostante Platone, Adriana Cavarero.


Se nei disegni sono rappresentati soggetti tratti dalla storia dell’arte e altri dalla cultura popolare e dalla vita quotidiana, le Lectures fondono la tradizione con la creazione di una nuova prospettiva. Così come i saggi scelti sono tutti ormai dei classici, il fatto di rappresentare il fruitore nell’atto di leggerli apre a orizzonti inediti: come si rifletteranno quelle letture nella sua vita? Si tratta di uno spostamento spazio-temporale, un’operazione di détournement: luoghi e tempi diversi si incontrano e reagiscono nel momento della lettura, sollevando interrogativi che solo la ricerca personale – in uno spazio e in un tempo diversi quindi da quelli dell’autore – può chiarire.

 

Masanobu Fukuoka.


Le scritte ricamate, in questi lavori, sono una componente fondamentale: il collegamento più immediato è quello con la tradizione della tessitura femminile (a questo proposito consiglio Marina Giordano, Trame d’artista. Il tessuto nell’arte contemporanea, Postmedia, Milano 2012) ma anche la passione per le stoffe ereditata dalla madre. Ma la connessione più importante che l’atto di tessere implica, mi precisa l’artista, è con la scrittura: “il ricamo nasce dalla scrittura”, mi ripete più volte. C’è tutto un lavoro sommerso che le sue opere implicano senza svelare: Coquelicot scrive, scrive sempre, poesie, reportage dei suoi innumerevoli viaggi, appunti sparsi nelle sue agende impilate sugli scaffali della sua casa-studio milanese. La scrittura e il ricamo richiedono entrambe, ancora una volta, tempo, la disponibilità a percorrere un viaggio mentale e ad affrontare una narrazione immaginifica e non del tutto prevedibile. Entrambe necessitano poi di sintesi: il segno in sé, della parola come del ricamo, è insufficiente; il reale, in altre parole, è accennato, implicato, ma non esaurito all’interno del segno. La scrittura quindi è un lavoro per sottrazione, così come il tratto dei suoi disegni e dei suoi ricami, riconoscibilissimi e sintetici nelle loro linee minime. 

 

Foucault, Histoire de la Folie.


Ecco perché i suoi interventi sul muro, o sulla vetrina, sono da considerarsi come “ricami su muro” o “ricami su vetro”: gli adesivi, con le loro interruzioni ed estrema sintesi, ripropongono il tratto del ricamo. Il segno come evocazione si apre alle infinite interpretazioni del suo lettore, in un gioco di intrecci che è alla base della struttura del linguaggio della scrittura così come di quella del ricamo.

Coquelicot d’altra parte mi parla di sé ribadendo con forza il suo essere intreccio, nodo indistricabile di culture, lingue, identità. “Se si cerca sempre più di separare, di definire, io sento di andare nella direzione diametralmente opposta”, mi dice. È dettata anche da questo motivo la decisione di abitare e lavorare nel cuore del quartiere di Paolo Sarpi, la chinatown milanese. Quando visito il suo studio, un appartamento accogliente dove la sua passione per i viaggi è narrata dai numerosi oggetti collezionati, mi mostra anche i suoi dipinti, protetti da tessuti africani. Nella pittura sviluppa un'altra componente fondamentale nella sua ricerca: la sovrapposizione. è riscontrabile lo stesso tratto minimale dei disegni (alcuni dei quali per altro sono stati recentemente pubblicati in “Segnature”, n. 15 / 2a edizione, gennaio 2019), ma qui soggetti, persone, paesaggi e luoghi diversi sono sovrapposti su più piani. Ne risulta una composizione, complicata anche dall’uso del colore, non subito riconoscibile, richiedendo quindi particolare attenzione da parte dello spettatore. 

 

Structures anthropologiques de l'imaginaire.


A ben vedere anche nei cartoncini delle Lectures i piani sono molteplici: stampa-disegno, ricamo-scrittura. Per non parlare della vetrina del Walden Cafè: osserviamo l’interno del locale – l’arredamento, le persone, i libri, le opere esposte, la vita che ospita – proprio attraverso la sua vetrina, sulla quale un personaggio, tratteggiato con il nastro adesivo, legge abbracciato al suo cane.

Coquelicot con la sua arte sembra dirci che non siamo altro che carte da lucido, disegni in controluce, pronti a inglobare dentro di noi altre realtà, altre prospettive, altre letture. Non per perderci ma, piuttosto, per (ri)trovarci.

 

Tutte le fotografie, eccetto quella indicata, sono di Luca Contino

negli speciali in home: 
Non in Box
Occhiello: 
Un progetto dedicato alla lettura
solo immagine: 
normale
Immagini come galleria: 

Inventario di frammenti

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Per Alberto Sinigaglia (1984) la costruzione di un progetto è come un’indagine, che continua a evolvere per costruire un linguaggio visivo, al contempo personale e universale, per dare forma a pensieri e a riflessioni specifiche, e per fare luce su alcuni meccanismi ancora non rivelati. La fotografia è il suo mezzo privilegiato di comunicazione, il modo di affrontare e analizzare la realtà. I progetti, sebbene riguardino temi diversi, sono legati da concetti ricorrenti e da processi di esplorazione allargati: invitano lo spettatore in uno spazio di speculazione, dove sono disseminati indizi, tracce, intuizioni, che supportino ipotesi e ulteriori narrazioni e letture. Sinigaglia è da considerare un inventore di frammenti, i quali vengono utilizzati per mettere in discussione la nostra conoscenza visiva del mondo. 

 

Big Sky Hunting (2013) è un viaggio ad ampio raggio, dove l’intangibile, la finzione, le contraddizioni e la reinterpretazione del veduto vengono messi in gioco per esplorare territori che vanno oltre le rappresentazioni descrittive e per analizzare la nostra percezione del cosmo e le connessioni indotte. Attraverso la raccolta di vecchi documenti fotografici e testuali, utilizzati dagli scienziati per creare immagini dell'universo, e materiale fotografico danneggiato o inutilizzabile, Sinigaglia conferma e supera i limiti di una descrizione legata alla realtà, rivela la natura artificiale di tali immagini, e al contempo riflette sul ruolo del mezzo fotografico e sui limiti della nostra capacità di vedere attraverso la sua mediazione. 

 

Alberto Sinigaglia, Big Sky Hunting, Fragment 2, 2013.


La serie Big Sky Huntingè stata ispirata da un ritrovamento in un sito, ovvero da una scatola piena di lastre di vetro astronomico originale, documenti, frammenti di stampe, materiali degli anni Settanta e Ottanta, e da altri oggetti acquistati dall’artista sul web, il più importante dei quali è un libro di John Ellard Gore, intitolato Il paesaggio del cielo (1892), un resoconto popolare delle meraviglie astronomiche.

Le immagini dello spazio esterno rientrano totalmente nella superficie e nel perimetro delle foto tradizionali o c’è qualcos’altro che va al di là delle approssimazioni dell'aspetto di ciò che ci pare di vedere?

 

Alberto Sinigaglia, Big Sky Hunting, The scenery of heavens, 2013.


Che rapporto hanno le immagini con le elaborazioni visive di onde elettromagnetiche catturate da macchinari scientifici avanzati o figurati nella coscienza delle persone? Come rappresentiamo l'universo è solo un'approssimazione di ciò che è in realtà la complessità dell'universo? 

Per cercare di avvicinarsi alle domande senza ancora risposte, Sinigaglia utilizza la sequenza chiamata "Paper I-II-III" (documenti che mostrano numeri scritti a mano allineati in forma quadrata), considerandola come un’immagine che allude a un momento prima della manipolazione, in un tempo in cui la maggior parte delle immagini digitali che siamo abituati a vedere sono basate sull'elaborazione di numeri. 

Nella ricognizione sulla metafotografia italiana abbiamo posto alcune domande anche a Sinigaglia per addentrarci ulteriormente nelle questioni aperte che abbiamo introdotto nelle interviste precedenti: 

 

Alberto Sinigaglia, Big Sky Hunting, Paper, 2013.


Joan Fontcuberta, nel suo ultimo libro La furia delle immagini, parla di postfotografia nell’era della “seconda rivoluzione digitale”, ovvero della fotografia in rapporto con la complessa macchina che agisce, produce, mastica e tritura immagini continuamente, oltre attraverso la realtà e i media anche passando per i social network, internet, la telefonia, il virtuale e altro ancora. Dice che le immagini fotografiche “non funzionano più nel modo in cui siamo abituati”, e che quindi le dobbiamo riconsiderare. Tu come le riconsideri?

 

Credo che i miei lavori siano di per sé un tentativo di riconsiderare il modo in cui le immagini lavorano.

In Big Sky Hunting ho preso in esame il modo in cui funziona la fotografia come strumento di esplorazione dello spazio astronomico e come l’immaginario prodotto sconti l’obsolescenza e il processo di erosione congenito nella tecnologia stessa, che produce le immagini. Sempre restando nell’ambito del tecnologico sublime, in Microwave City ho preso un’icona potente e riconoscibile come l’esplosione atomica e attraverso la manipolazione digitale l’ho mimetizzata nel tentativo di riflettere sul potere mistificatore e surreale del medium fotografico.

 

Alberto Sinigaglia, Microwave City, Teatpotcloud, 2017, Fondazione Fabbri.


Ci parleresti del tuo progetto legato ai test delle bombe atomiche che avvenivano nel deserto a poche miglia dalle terrazze degli hotel di Las Vegas? Lavorando sul materiale iconografico riguardante l’invenzione e lo sviluppo della bomba atomica contenuto nell’archivio immagini dei laboratori scientifici di Los Alamos, quale è stata la tua operazione concettuale e la tua traduzione in opera di queste fotografie provenienti dall’archivio?

Microwave City nasce da un viaggio nel West Americano, tra New Mexico, Arizona e Nevada, e il titolo fa riferimento a una trasmissione radio ascoltata mentre ero alla ricerca dei laghi di uranio e delle distese di cemento che coprono le aree di lavorazione dell’uranio, ora in disuso. Si trattava di una radio ultracattolica e il predicatore stava definendo Las Vegas come una Microwaved City, una città effimera dove tutto viene velocemente voluto-ottenuto-consumato, un luogo che per sua stessa natura è basato sulla messa in scena e sull’esasperazione, un luogo dove non è possibile fare una netta distinzione tra reale e artificio. Las Vegas ha inoltre un profondo legame con il Manhattan Project, sia per prossimità geografica alle aree di test ma anche come luogo: una città simbolo dell’America, nata nell’immediato dopoguerra, dopo il conflitto mondiale conclusosi con le immagini delle esplosioni atomiche negli occhi, anch’esso un artificio, come la bomba, nato tra le sabbie del deserto. Il progetto è diviso in due capitoli principali: quello delle nuvole, di cui parleremo poi e quello degli still life.

 

Alberto Sinigaglia, Microwave City, Dominick Arkansas cloud, 2017, Fondazione Fabbri, Museo Fattori.

 

Alberto Sinigaglia, Microwave City, Microwave City, 2014.


Questi ultimi descrivono una serie di oggetti, fotografati in modo molto dettagliato e pulito, che funzionano come dei souvenirs venduti in uno store online; alcuni, strumenti di visione-misuratori-ephemera, si innescano in relazione ad altre immagini, altri sono memorabilia, che celano delle storie/leggende dietro la loro fredda estetica: le corna di cervo per esempio provengono dal Seneca Depot, un’area controllata dall’esercito, dove dagli anni ‘50 sono state sepolte scorie radioattive e che oggi è la più grande riserva di cervi albini al mondo. Oppure il monolite di grafite, che pare provenga dal deposito di materiale che Enrico Fermi utilizzò per costruire la Chicago Pile (1942), il primo reattore a fissione nucleare. Un terzo passaggio di Microwave City lavora sempre sull’archivio dei Los Alamos Labs e su un archivio da me costruito durante la visita a Las Vegas. Da una parte ci sono le immagini dei bunker e delle architetture che venivano costruite per osservare la bomba, dall’altra dei messaggi testuali che provengono da materiali pornografici che si trovano a ogni angolo della città. A livello installativo entrambi questi elementi vengono collocati in lightboxes, la cui luce nel mio intento dovrebbe dare una seconda vita e una seconda lettura alle immagini di archivio, e allo stesso tempo richiamare le luci al neon di Las Vegas.

 

Alberto Sinigaglia, Big Sky Hunting, Alien the crysalis, 2013.


È interessante la tua indagine sulla trasformazione di eventi drammatici in souvenir. Cosa si cela veramente nelle morbide e misteriose nuvole sospese nel cielo degli esperimenti nucleari?

Durante gli anni ‘50 e ‘60 una delle attrazioni di Las Vegas era la possibilità di osservare dalle terrazze degli hotels i test delle bombe, che avvenivano a un centinaio di miglia di distanza, in quella zona che conosciamo come Area 51. I turisti erano soliti fotografare queste drammatiche scene trasformandole in cartoline, in souvenir delle loro vacanze, come si trattasse di un incantevole tramonto, una calamita da attaccare al frigo. Durante lo studio dell’archivio sono rimasto colpito dalla controversa bellezza delle esplosioni e agendo su di esse allo stesso modo dei turisti me ne sono appropriato e le ho manipolate fino a produrre innocue, morbide e misteriose nuvole sospese nel cielo. La bomba è lì, ma camuffata. Il fruitore può percepirne la presenza, ma è mimetizzata, nascosta dal potere mistificatore della fotografia.

 

Ci interessa indagare ulteriormente il tuo sguardo, che considera la fotografia come un deposito di valori sociali e culturali in un mondo saturato dalle immagini. Cosa intendi muovere e spostare con le tue immagini fotografiche?

Cerco di spostare l’attenzione di chi guarda. Penso ai miei lavori come a un inventario di frammenti, che mette in discussione la nostra percezione e consapevolezza visiva del mondo. Facendo affidamento sul nostro desiderio di verità e poesia, cerco di invitare il fruitore in uno spazio di speculazione, in cui l’immagine viene messa in discussione.

 

Alberto Sinigaglia, Microwave City, Actual photo, 2017.


Ci puoi parlare della tua indagine sul rapporto tra realtà e finzione, tra ricerca delle fonti e spostamento creativo, tra documento e creazione?

Tutti noi viviamo in sistema di memorie e di tracce che ci aiutano a leggere il presente. Queste memorie e tracce nel tempo vengono alterate, modificate, sovrascritte, rendendo la nostra lettura-visione meno chiara, meno netto il confine tra reale e finzione. Entrambi i miei lavori (Big Sky Hunting,Microwave City) vanno a indagare l’iconografia relativa a memorie di eventi ben precisi della storia, lavorando appunto sulle zone d’ombra, sulle possibili riletture in una chiave presente.

 

Cosa pensi della tendenza che negli ultimi tempi si è venuta a creare attorno all’utilizzo dell’archivio?

L’archivio risponde a un’esigenza di orientarsi in un eccesso di conoscenza tale da lasciarci disorientati.

Siamo tutti accumulatori compulsivi, che continuano a immagazzinare dati su schede di memoria, incapaci di selezionare, di prendersi il tempo di capire cosa valga la pena ricordare e cosa dimenticare. Tutti noi produciamo archivi, inventari, cataloghi, liste nel tentativo di mettere ordine tra questi frammenti. L’archivio come dispositivo per produrre una memoria collettiva che però non è cristallizzata ma aperta a sovrascritture, a interpretazioni e seconde letture, ed è qui che noi artisti interveniamo: “Gli archivi conservano tuttora un grande fascino e una loro autenticità perché hanno lo straordinario potere di parlare a persone temporalmente, geograficamente e anche culturalmente lontane da chi li ha creati ed organizzati, pur portando ancora con sé i propositi e le visioni e i codici originari” (Cristina Baldacci, Archivi Impossibili, Johan&Levi Editore, 2016).

 

Alberto Sinigaglia, Microwave City, Monolith, 2017.


La tua metafotografia appartiene a una modalità rivolta a un processo di consapevolezza ulteriore, per analizzare più a fondo ciò che vediamo, come lo vediamo, come le immagini influenzano le emozioni e come contribuiscono alla comprensione delle cose che accadono o che accadranno?

Il mio approccio in parte ha abbandonato il “programma” della fotografia di rappresentare il reale, concentrandosi su come l’informazione e l’apparato (archivio/manipolazione digitale) contribuiscano oggi a generare le immagini, investigando la natura delle immagini stesse: "I fotografi sperimentali sono consapevoli del fatto che l'immagine, l'apparato, il programma e le informazioni costituiscono i loro problemi di base. Sono consapevoli che stanno cercando di recuperare quelle situazioni dall'apparecchio, e inseriscono nell'immagine qualcosa che non era inscritto nel programma dell'apparecchio" (Vilém Flusser, Towards a Philosophy of Photography, 1984).

 

Non reggono più i rapporti della fotografia con la verità e con la memoria che davamo per scontati, e nemmeno regge l’aura di realismo che continuiamo ad attribuire alla fotografia. In più si sono aggiunte le questioni della manipolazione e della virtualità. Inoltre, è necessario analizzare le funzioni, gli usi, i ruoli sociali, i contesti culturali e politici. Quali sono i nuovi ambiti di creazione che senti vicini alla tua ricerca?

Quello che più mi interessa continuare a indagare è il rapporto tra scienza e immagine, tra tecnologia e fotografia. Il secolo americano ha influenzato culturalmente la nostra generazione più di quanto ci piaccia pensare, e l’America come nazione ha costruito la sua identità sul progresso tecnologico, sul sublime tecnologico. Le missioni Apollo e le esplorazioni spaziali, piuttosto che la bomba atomica, sono parte fondante di questo lascito culturale, esattamente come le guerre del ‘900 e quelle più recenti. Internet è un’invenzione militare tanto quanto il microonde, la night view, i droni; tutti soggetti che sono entrati a far parte della nostra vita e hanno cambiato la nostra percezione della realtà, e di conseguenza il nostro modo di rappresentarla. È questo ciò che più mi interessa e affascina, e l’ambito che continuerò a indagare.

 

Alberto Sinigaglia, Microwave City, Scenicus, 2016.


Attraverso le tue riflessioni e le tue opere, cosa fai emergere a proposito del rapporto tra immagine e immaginario collettivo?

Spero le distorsioni.

 

Negli anni più recenti molti artisti hanno messo in discussione il mezzo della fotografia tradizionale (con scanner, scansioni, distorsioni dell’immagine, telecamere di sorveglianza, irruzioni di altri medium, lasciando anche spazio alla presenza del caso) per andare oltre. In cosa consiste secondo te andare oltre il medium fotografico?

Credo che siamo arrivati a un punto di bulimia e di sazietà visiva. La maggior parte di noi registra continuamente la realtà attraverso i propri devices. Credo quindi sia venuta meno la posizione di dominio e possesso dell’autore, perché è venuta meno la consapevolezza che essa comporta.

Di qui la necessità di interrogare il medium stesso, metterlo in discussione per capirne i limiti e le potenzialità. Tutto questo risponde a una necessità, mia personale in primis, di mettere ordine nel caos/oblio generato da internet e dallo sviluppo tecnologico, di una maggiore attenzione dello sguardo, di concentrazione su cosa realmente si guarda. Ogni strumento è valido per lo scopo.

Nei miei primi lavori ho cercato di pormi delle domande sulla questione, affiancando immagini fotografiche tradizionali, uso dell’archivio, proiezioni ri-fotografate, manipolazione digitale. Per i prossimi progetti vorrei lavorare su una forma più installativa e tridimensionale.

 

Alberto Sinigaglia, Microwave City, Trinitite, 2017.


Faciliti l’irruzione del cortocircuito nelle tue opere?

Se per cortocircuito si intende il momento in cui casualità, programmazione, spontaneità e accumulo concorrono a formare un discorso visivo, è un momento fondamentale della mia ricerca. Funziona quasi come un interruttore di sincronicità, uno switcher, che apre una fase in cui tutti questi elementi autonomi si incastrano nella struttura del progetto.

 

Come organizzi lo spazio nel tuo sguardo prima di realizzare un’immagine fotografica?

Lo spazio del mio sguardo è completamente disorganizzato. Consiste in luoghi fisici, letture, luoghi mentali, apparizioni, indizi, tracce che emergono lungo un flusso costante di ricerca e che trovano poi diverse formalizzazioni.

 

Alberto Sinigaglia, Big Sky Hunting, Nerveless, 2013.


Per andare oltre quello che fino a ora la fotografia ha messo in azione, pensi che sia necessario sacrificare la fotografia tradizionale o andare contro la maggior parte dei suoi meccanismi e princìpi?

Una premessa: non mi sento un autore che lavora contro la fotografia o che ne spinge i limiti verso orizzonti sconosciuti. Fino a ora ho sempre cercato di trovare un equilibrio tra il lavorare contro e con la fotografia, cercando quell’interazione, il cortocircuito di cui abbiamo parlato prima, che le attiva e le fa lavorare insieme. Penso ai miei lavori come a un inventario di frammenti che mette in discussione la nostra conoscenza visuale del mondo; facendo affidamento sul nostro desiderio di verità e poesia, cerco di invitare il fruitore in uno spazio di speculazione.

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Luigi Di Sarro, un artista da ricordare

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Il 24 febbraio del 1979 moriva a Roma Luigi Di Sarro. Erano gli anni di piombo, un periodo denso, cupo e violento per l’Italia, politicamente e culturalmente, in cui i fermenti politici del decennio precedente, la mobilitazione di giovani, operai, donne, studenti, venivano catturati nel vortice della “strategia della tensione” e della lotta armata. È in questo contesto agitato che nasce la “legge Reale”: nel 1975, il governo Moro introduce in nome della lotta al terrorismo un inasprimento della legislazione penale, consentendo tra l’altro alle forze dell'ordine di usare le armi non solo in presenza di minacce esplicite. Molte sono state le vittime innocenti di quella legge (254 morti e 371 feriti nei primi 15 anni di applicazione) e tra queste Di Sarro, ucciso a due passi da San Pietro a Roma, mentre tornava in automobile a casa da una festa. 

Aveva 37 anni, era un artista.

 

Luigi Di Sarro, Autoritratto, Scrittura luce e movimento in tre posizioni, 1975.


Dagli anni Sessanta aveva lavorato con tecniche e linguaggi diversi, secondo un’attitudine sperimentale e aperta, attenta, prima che alle immagini, al loro processo costitutivo, coerentemente alla sua ‘altra’ formazione: quella di medico. Fin da giovanissimo (era stato dal Ginnasio allievo di Carlo Alberto Petrucci) Di Sarro si avvicina infatti all’arte con la disposizione dello scienziato, dimostrando, con ogni materiale e tecnica con cui si cimenta – dal disegno alla pittura, dal collage alla fotografia, dalla scultura all’azione – un grande interesse per il potere germinativo di forme e idee. «Ci sono moltissime matrici forma nel suo repertorio – mi raccontava la studiosa di fotografia Marina Miraglia quando la incontrai ormai dieci anni fa, proprio per parlare di Di Sarro – … sembra che le forme naturali e quelle create si possano integrare, perché tutto è reale». 

 

Luigi Di Sarro, Atlante di morfologia comparata, tav. VI, 1971-1972.


E infatti ben prima del suo Atlante di morfologia comparata (1971-1972), dove foto riprese dalla natura sono morfologicamente accostate a opere d’arte, l’artista si interroga sull’oggetto-forma attraverso i media più diversi, come nelle ante di armadio coperte di ritagli di riviste (Senza titolo (collage di riviste), 1966-1968), nella forma quadro-superficie reinventata dall’impiego delle risulte del taglio di chiavi (Senza titolo (scarti seriali in metallo), 1971), nelle sue sculture in tondino di ferro, le cui forme diventano, con la luce, dispositivi che proiettano su pareti e pavimento segni-disegni (Senza titolo, tondino di ferro, 1970 ca.) – o nelle fotografie dove il segno-scrittura diviene una grafia del corpo (Senza titolo, (scrittura luce), 1970 ca.). 

A Di Sarro non interessavano le distinzioni tra figurativo e astratto o la scelta di un linguaggio elettivo, lo appassionava invece l’idea che il segno, qualunque fosse e comunque fosse fatto, diventasse cosa viva, una matrice da seguire in un cammino sempre nuovo attraverso i fenomeni del movimento, del riflesso, del colore e della luce. 

Oggi, a quarant’anni dalla morte, è uno di quegli artisti di cui è importante parlare, da riscoprire, non per la sua fine tragica e insensata, ma perché degli anni che ha vissuto con passione il suo percorso restituisce bagliori vitali che illuminano l’oggi, con il beneficio tra l’altro di poter essere letto senza le briglie che alle volte la storia dell’arte e la critica si impongono. 

 

Luigi Di Sarro, Senza titolo, Scarti in metallo 1971, metallo su tela, cm 100x100.


La sua è infatti una personalità ‘naturalmente’ dentro i decenni Sessanta e Settanta, centrali per lo sviluppo delle poetiche contemporanee: pur non avendo mai aderito a gruppi o etichette – era insofferente alle definizioni e alle costrizioni –  il suo spirito sperimentale rispecchia perfettamente il passaggio dall’immagine all’oggetto, e dall’oggetto allo spazio e all’esperienza che ha caratterizzato le pratiche artistiche in quegli anni fertili e, ancora più importante, la generale riflessione che, non solo in Italia, ha portato a ridiscutere i mezzi e i modi di fare arte, di parlare di arte, di mostrarla e comunicarla. 

Di Sarro è figlio di quella stagione eccellente in cui nascono nuove immagini, da intendersi proprio secondo la radice latina di ‘imago’, ovvero 'imitazione', 'forma visibile', cioè riproduzione della realtà vista in un’oscillazione tra presenza e assenza, visibile e invisibile. Due polarità che da sempre alimentano il dibattito sull’immagine a livello storico artistico ma anche psicologico e filosofico, determinando sostanzialmente due macro-atteggiamenti, così ben rappresentati dall’arte di quei decenni: uno tendente alla valorizzazione dell’aspetto mimetico delle immagini e l’altro della loro natura di linguaggio, entrambi sorretti da un'idea riassunta in una celebre battuta di Picasso: l'arte come menzogna capace di raccontare la verità. 

 

Luigi Di Sarro, Senza titolo, Scultura in tondino di ferro, 1971.


E difatti è propria di quel periodo, oggi tanto osservato e al centro di ricorrenze e anniversari, la trasformazione dell’opera in dispositivo estetico fonte di altre immagini e pensieri al di fuori di ogni convenzione linguistica, una “struttura” che sfida la triade delle belle arti «originalità, originale, origine». Si domanda ad esempio Di Sarro: “Potremmo ancora comunicare se la contaminazione del linguaggio mette in crisi il dialogo? …per ora vale considerare la stessa ambiguità una caratteristica connotazione iconografica del nostro tempo. Molte sono le cose che l’uomo può non capire, ma forse rappresentano il documento di una cultura in divenire”. 

Coerentemente a ciò che aveva prefigurato Clement Greenberg parlando delle avanguardie, l’arte di questi decenni cruciali séguita in un processo inarrestabile: non si pone più di fronte alla realtà e alla storia, alla ricerca di armonia, equilibrio, o bellezza, ma di conoscenza e cognizione in un percorso in cui arte e realtà arrivano a interrogarsi sul loro stesso vocabolario. Così il vuoto, il neon, il corpo, il catrame, i materiali poveri, le idee, decidono la natura di opere d’arte che non sono propriamente né dipinte né scolpite e si possono esporre non solo nei musei e nelle gallerie, ma anche per strada, in spazi neutri o nelle pagine di libri e riviste, che rendono ambigue le forme del quadro e della scultura, come il valore materiale e autoriale della ‘cosa’ d’arte.

 

Luigi Di Sarro, Senza titolo, Collage di riviste, 1966-1968.

 

Alla maniera delle avanguardie le neoavanguardie devono rispondere a un’attualità mutata: come quando Filippo Tommaso Marinetti nel Manifesto del 1909 affermava che “spazio e tempo morirono ieri”, così gli artisti, tra il sesto e il settimo decennio del Novecento, si trovano a ricercare altre vie (nel contesto italiano accompagnati da una particolare dimensione ‘emotiva’). E Di Sarro è tra questi. 

La forma del tetraedro, il solido a quattro facce triangolari equilatere da lui spesso impiegata, ne è un esempio. Presente in numerosi appunti riguardanti gli argomenti più vari, dall’arte alla politica, il tetraedro è sviluppato anche in forma plastica in filo di ferro, oppure progettato in una versione smontabile, per proiettare nello spazio l’azione di quella che Di Sarro definisce “la macchina linguistica”, “la quarta dimensione”, “la simmetria rotatoria”, “la dinamica del linguaggio”, “la polarizzazione culturale”, in grado di sostituire alla logica degli opposti quella a quattro poli. Un oggetto-forma, il tetraedro, che l’artista disegna, dipinge, costruisce, spesso rifotografa e realizza in diversi prototipi come si trattasse di modelli ad uso scientifico-formale, oggetti quindi aventi lo scopo di analizzare, studiare e comprendere i fenomeni – naturali o umani – associando alla maniera galileiana “sensate esperienze” e “dimostrazioni necessarie”, investendo infine la percezione individuale in qualcosa di universale (Senza titolo (Sviluppo del tetraedro), 1969). 

 

Luigi Di Sarro, Tetraedro globo, 1970.


Si domanda l’artista nei suoi appunti: “È possibile [...] studiare da un punto di vista strutturale la natura? [...] Dove mettiamo l'osservatore e cosa è lecito guardare? [...] Possiamo determinare i limiti del campo di osservazione e valutare i mutamenti che ivi avvengono, se noi stessi siamo già indeterminati e in movimento?”. La questione trova possibili molteplici risposte nei suoi lavori, soprattutto dimostra quanto l’approccio di Di Sarro, nel caso del tetraedro, come in moltissime altre sue opere, attesti l’aspetto più interessante e seminale degli anni che ha vissuto e partecipato come artista: lo sforzo della sua generazione a dare seguito alla necessità, inizialmente intuita da una élite, di rifondare sulla propria responsabilità una visione del mondo. Di quello sforzo restano oggi tracce sensibili che ricordano le scoperte sull’elettricità biologica di Luigi Galvani per cui la rana che si anima da morta, lo fa sì perché è un serbatoio di elettricità, ma anche perché ne è un rivelatore sensibilissimo. Le rane, ça va sans dire, siamo noi.

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24 febbraio 1979
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Pierre Bonnard. The Colour of Memory

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Una foto di André Ostier ce lo mostra settantaquattrenne, affaticato e malinconico, seduto al sole col suo cagnolino sulle gambe piegate e lunghissime e tra le mani forti e grinzose. Si apre così la mostra che la Tate Modern dedica ora a Pierre Bonnard, con l’obiettivo di dimostrare che il grande pittore espressionista dell’intimità e dell’immediatezza fu soprattutto ossessionato dalla memoria e dalla durata: Pierre Bonnard. The Colour of Memory (fino al 6 maggio; catalogo a cura di Matthew Gale, Tate Publishing, 240 pp., £25). Prendendo come spunto due suoi famosi ‘ritorni’, Nu à contre-jour e Jeunes femmes au jardin, dipinti intorno agli anni Venti, ma rivisitati e modificati in un momento successivo, addirittura oltre vent’anni dopo nel secondo caso, la mostra insiste sullo sguardo idealizzante di Bonnard, capace di trasfigurare il dato iperrealistico di partenza fino a trasporlo in una dimensione atemporale che guarda all’eterno. Dipingeva quasi solo a memoria, del resto, cercando di catturare attraverso il ricordo l’essenza della visione anziché farsi condizionare dal contesto riproducendo dal vivo.

 

Pierre Bonnard, Nu à contre-jour.


Tutt’altro che interni borghesi e miti bohémien, i suoi ritratti con l’amante, poi fidanzata e infine moglie Marthe de Méligny, conosciuta nel 1893, a 26 anni, ma sposata solo nel 1925, a 58 anni, rimandano a una dimensione edenica, che rinnova i miti antitetici e complementari del paradiso perduto e dell’età dell’oro: stranamente malinconici, quasi sempre colti nell’intimità della toilette, i suoi nudi sono sorprendentemente plastici rispetto al realismo e alla morbosità della maggior parte dei suoi contemporanei, ma anche disperatamente soli, anche e soprattutto quando sono in coppia.

In origine, la mostra lo spiega didascalicamente, fu la fotografia, che toglie all’immagine la possibilità del movimento e della trasformazione: così catturato, l’attimo sfugge al tempo e diventa eterno. Da un pittore ossessionato dalla ricerca della durata sarebbe lecito aspettarsi culto del dettaglio e della forma, nel tentativo di trascendere la contingenza; ma Bonnard non vuole negare la vita, anzi cerca di fotografarla nella sua dimensione sentimentale piuttosto che puramente fenomenica: sacrificando la forma al colore, a partire dall’incontro coi fauves, la sua sintonia ideale (per l’ambizione travolgente e totalizzante dell’opera d’arte) si rivela, ancorché scandaloso possa sembrare, più con Picasso, che lo odiava, che con Matisse, che lo adorava. È probabile che avesse letto Nietzsche, anche se appariva lavoratore indefesso senza ambizioni intellettuali; ma certamente è lì la sua radice, consapevole o meno: ‘un arrêt du temps’ era la sua definizione dell’opera d’arte, com’è quasi scontato da parte di un francese contemporaneo di Proust. Le sue tele, in effetti, non dipingono né il reale né l’immaginario, ma un reale trasfigurato dall’emozione del ricordo, ha scritto Jean Clair. 

 

La pienezza della vita, oltre le sofisticazioni degli impressionisti e le assolutizzazioni dei realisti, sta solo nel movimento lungo e morbido, profondo ed energico, della pennellata che cattura luci e ombre attraverso il colore, impedendo che il dettaglio prevalga sull’insieme, ma evitando anche che l’insieme sia una totalità in sé compiuta: in La toilette, del 1914, ripreso e ritoccato nel 1921, l’iconografia tradizionale della donna allo specchio è stravolta dal fatto che il riflesso dà conto di quello che da dietro non è intuibile, il movimento della mano con l’asciugamano, mentre l’altra metà della tela è puramente ornamentale, come se la realtà si possa catturare solo attraverso la riduzione del campo visivo e la memoria implichi una necessaria relazione con l’oblio. Mai esplicitamente filosofico, Bonnard lo diventa per il solo fatto che incita continuamente a entrare nel quadro, assumendo il suo stesso punto di vista, come nei suoi tantissimi paesaggi visti da una finestra o da una balconata. Un restringimento del focus, per vedere più in profondità: di qui i suoi tagli clamorosi, che fanno fuori gran parte dell’immagine integralmente concepita per concentrarsi sull’intimità del marginale, come in Le Café (1915), dove una delle figure è senza testa e l’altra non è interamente inclusa nello spazio della tela.

 

Pierre Bonnard, The bathroom, 1932.


È il condizionamento dello sguardo che gli sta a cuore, unico strumento per cogliere ciò che è dentro insieme a ciò che si vede. Alla Biennale di Venezia del 1926 si presenta con La Cheminée (1916), dove il fatto che l’immagine che vediamo sia in uno specchio dove né il pittore né noi appariamo ci obbliga o ad assumere la posa che è nel quadro o a sospendere il patto di finzione. In entrambi i casi il quadro parlerà a noi più che se c’invitasse alla pura contemplazione.

 

La sfida lanciata a Manet con la tela di enormi dimensioni (260 x 340 cm) L’Été (1917) non potrebbe essere più ideologica per uno che è sempre stato considerato intriso d’impressionismo e che veniva dall’esperienza nabis: campo lungo anziché primo piano, grandi macchie di colore anziché pennellate veloci, per esprimere l’incontro anziché l’occasione e far vincere la sensazione sull’impressione. Sempre più visionario e allucinato col passare del tempo, Bonnard va alla ricerca dell’inquadratura, in modo da incorniciare il punto di vista, costringerlo e limitarlo. L’inafferrabile diventa individuabile e l’effimero si solidifica: è il colore a rendere tutto pastoso, come se la realtà prendesse vita nella tela e solo nella tela.

La mostra insiste inesorabilmente sulla scansione temporale e sulle occasioni esterne (i viaggi, la morte della madre, il tradimento di Marthe con Renée Montchaty), secondo il gusto del biografismo e dell’aneddotica tipico della critica anglosassone, ma ciò che colpisce di più qui è la straordinaria continuità dell’esperienza di Bonnard, che effettivamente lavora sempre sugli stessi temi e con la stessa tecnica.

 

The diningroom in the country, Pierre Bonnard, 1913.


 Se il fatto che una tela destinata al salotto degli Hahnlosers risultasse troppo larga per quello spazio farà sorridere lo spettatore inglese e se la consapevolezza che Bonnard lavorava sempre con l’obiettivo d’incorniciare le sue tele per la vendita farà cogliere meglio il suo radicamento nella prospettiva del mercato, la forza della mostra sta piuttosto nell’introduzione al campo visivo di Bonnard, che lavora sui suoi nudi, sul suo cagnolino, sui suoi paesaggi e sulle sue nature morte con un’unica ossessione: carpe diem, prendere l’attimo e restituirlo per il futuro. “Gli spettatori impietriscono quando passa il treno”, annotava un altro suo grande contemporaneo, Franz Kafka, in apertura dei suoi diari, nel 1910: quell’attimo d’immobilità di fronte alla velocità del tempo è ciò che entrambi, Kafka e Bonnard, continuamente vedono sfuggire e continuamente cercano di fermare. 

 

Pierre Bonnard, Nude at the fireplace, 1913.


Chi canta non è necessariamente felice, diceva a chi lo considerava pittore facile e ingenuamente positivo, perché colore e luminosità non sono solo speranza e ottimismo. Gli oggetti e le figure che popolano le sue tele sono in fondo la resa dell’artista alla realtà: se fosse stato per lui, avrebbe dipinto solo colore. Totalmente estraneo al cubismo e al surrealismo, più tardi acclamato come maestro da gran parte degli astrattisti, sembra effettivamente puntare a trascendere la realtà con lo sguardo, e a dipingere non la natura ma la pittura, su un percorso di lunga durata che va da Nu accroupi au tub (1918) a Grande salle à manger sur le jardin (1934-5) fino a Baigneurs à la fin du jour (1945), con l’immagine che sfuma, si riflette, svapora. Inserito fin dal 1925 nel canone dei dieci pittori più rappresentativi della contemporaneità, a volte sembra nato vecchio: e vecchio la mostra ce lo restituisce, visto che parte da quando aveva già più di trent’anni.

 

Eppure voleva presentarsi ai pittori del XXI secolo, il nostro, ‘con le ali di una farfalla’, appuntava sull’ultima pagina del suo diario. Già subito dopo la sua morte, tuttavia, uno dei critici più influenti del momento, Christian Zervos, si chiedeva se fosse stato un grande pittore: facile, decorativo, figlio degli impressionisti ed estraneo alle concettualizzazioni della modernità, gli sembrava rivolto solo al passato, pittore da salotto, senza inquietudini e senza sperimentazioni. Gli replicava Matisse, a mano sulla pagina di una copia della rivista dove era apparso l’articolo: “Oui! Je certifie que Pierre Bonnard est un gran peintre pour aujourd’hui et sûrement pour l’avenir”. Aveva ragione lui, perché, con la sua cancellazione della prospettiva, il suo procedere per piani multipli, la sua dedizione assoluta alla composizione e la sua oggettivazione del soggettivo, Bonnard è uno di quegli artisti che non sai mai se sono antichi o moderni, ma il tempo lo fanno fermare.  

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L’ala del clochard

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Nel grande circo del cinismo sociale anche quest’anno abbiamo assistito al numero del “barbone morto di freddo”, come sempre ben eseguito: tutti a constatare che i barboni esistono, e che tuttavia nessuno sa trovare il modo di superare la loro misera sorte, inchieste e speciali, contriti dibattiti (molto efficace il reportage di “Internazionale”, qui).

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L’architettura di Adriano e la matematica di Dirac

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Il braccio destro della Statua dell’imperatore Adriano (II secolo d.C.) riprodotta in copertina si sovrappone alla lettera “D”, mentre il braccio sinistro s’impiglia nella lettera “N”. Un bisticcio grafico fra l’immagine dell’imperatore e la scrittura del suo nome che disorienta, quanto quello storiografico. Incostante e instabile secondo l’anonima Epitome de Caesaribus composta alla fine del IV secolo d.C.; uno degli imperatori più giusti, secondo Niccolò Macchiavelli; “un Führer, un Duce, un Caudillo” dei sui tempi, secondo lo storico Ronald Syme.

 

Andrea Carandini ed Emanuele Papi, Adriano, Roma e Atene. Particolare della copertina del libro.


Per gli archeologi Andrea Carandini ed Emanuele Papi, Adriano fu soprattutto un imperatore architetto. Il saggio Adriano, Roma e Atene (UTET, Milano 2019) scritto dai due studiosi di arte antica ha la particolarità di dedicare numerose pagine alle imprese costruttive con le quali Adriano rinnovò l’aspetto urbanistico e architettonico dell’impero, in accordo con il suo fermo proposito d’imprimervi un ordine giuridico, amministrativo e militare coerente. 

 

Andrea Carandini ed Emanuele Papi Adriano, Roma e Atene, Tavola 10. Regione del Circo Flaminio. Il Pantheon e la basilica di Nettuno.


Sul rapporto fra attività costruttiva e disciplina militare, lo storico dell’architettura Guido Beltramini ha scritto un saggio ben documentato. Si tratta di uno studio sull’architettura di Andrea Palladio, utile per comprendere anche quella di Adriano. Gli schieramenti e i movimenti degli eserciti sui campi di battaglia hanno una relazione con l’insieme di regole, ordini e procedure utilizzate anche per la progettazione architettonica, sostiene Beltramini in Andrea Palladio e l’architettura della battaglia. Con le illustrazioni inedite alle storie di Polibio (Edizione della Fondazione Cariverona e Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio, Venezia 2009). Palladio pensava che la miglior difesa di un territorio fosse un esercito in movimento, tanto che propose alla Repubblica di Venezia di organizzare la propria milizia come quella degli Antichi. Allo scopo di dare sostegno alla sua proposta pubblicò nel 1575 un’edizione illustrata dei Commentari di Giulio Cesare. 

 

Formazione di 300 picche a doi lonette, in Battista Della Valle, Vallo, Venezia 1539. Biblioteca civica Bertoliana, Vicenza - La villa di Leonardo Mocenigo lungo il Brenta, in I Quattro Libri dell’Architettura di Andrea Palladio, Venezia 1570. Biblioteca del Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio, Vicenza.


Le forze militari in movimento sui campi di battaglia disegnano perimetri e forme che prefigurano architetture potenziali, rappresentano l’essenza della costruzione di un perimetro, spiega Beltramini, e perciò non stupisce che alcuni edifici di Palladio siano ispirati alle forme dei battaglioni schierati in battaglia. I quattro libri dell’architettura pubblicati a Venezia nel 1570 non costituiscono perciò un catalogo di progetti ma un insieme di procedure, trasmissioni e regole che restituiscono una visione complessiva del mondo e della cultura antica di cui l'ordine e la disciplina degli eserciti erano parti significative. 

Questa visione fu anche quella dell’imperatore Augusto, al quale Vitruvio dedicò il suo trattato De architectura pubblicato fra il 27 e il 16-15 a.C. In quest’opera l’architetto romano semplificò i sistemi proporzionali e gli schemi di montaggio, insistendo sull’aspetto strutturale della symmetria allo scopo di promuovere una pratica corretta della costruzione nell’età di Augusto, quando l’architettura divenne più che mai un programma di governo. Nell’età di Adriano l’architettura continuò a essere uno strumento politico, nel quale il rispetto delle regole, della convenienza e della distribuzione esprime quella relazione fra etica e sapere costruttivo che caratterizzava la cultura del tempo. L’uso sociale della cultura tecnica e scientifica è ricordato da Cicerone in numerosi brani del De officiis. Vitruvio, che era un esperto nel settore militare e rivestiva anche delle responsabilità nell’amministrazione delle acque, avvertiva il suo ruolo come un officium utile al rinnovamento politico e sociale nell’età di Augusto. Adriano seguì l’esempio di Augusto, di cui conservava una piccola immagine, posta fra i Lari della sua camera da letto. 

La relazione fra etica e sapere costruttivo si esprime soprattutto attraverso la symmetria che, in quanto ratio, è la chiave dell’unità organica dell’architettura. Ciò che affascinava Vitruvio, scrive Pierre Gros nell’introduzione all’edizione scientificamente curata del De architectura (Einaudi, Torino 1997), “è il ruolo attribuito alla ratio nella pratica della sua arte”. La symmetria, intesa nell’accezione antica, greca e poi latina come proporzione fra le parti e fra le parti e il tutto, è una regola matematica della cui applicazione alle arti visive si trova traccia nei più antichi trattati greci sulla téchne, che trasferirono alla scrittura l’insegnamento orale utile alla pratica di bottega. Fra questi è famoso il Canone di Policleto con il quale lo scultore espose i principi secondo i quali realizzare in scultura una figura umana. Il trattato di Policleto è andato perduto ma da riferimenti di autori posteriori sappiamo che per lo scultore greco il bello nasce dalla symmetria, ossia dalla possibilità di commisurare estensioni diverse. 

 

Benedetta Adembri, Sergio Di Tondo, Filippo Fantini, Fabio Ristori, Casi di studio a partire da rilevamenti laser scanner a Villa Adriana.Spaccato prospettico dell’ipotesi ricostruttiva della zona meridionale della Piazza d’Oro (in archeologialazio.beniculturali.it).


Adriano aveva pienamente aderito alla cultura dei Greci, spesso con atteggiamenti così pronunciati da essere canzonato con il nomignolo graeculus (grechetto), spiega Carandini nel suo libro. A Tivoli riprodusse i monumenti ai quali era affezionato, trasformando Villa Adriana in un’antologia eclettica dell’arte classica ed ellenistica, reinterpretata e integrata da formule planimetriche curvilinee e ambienti voltati a cupola. “Mi sentivo responsabile della bellezza del mondo. Volevo che le città fossero splendide, piene di luce”, racconta l’imperatore-architetto nel romanzo Le memorie di Adriano, una finta autobiografia dell’imperatore scritta da Marguerite Yourcenar in “felice libertà”, come spiega in una lettera inviata a Lidia Storoni Mazzolani sua traduttrice italiana. La bellezza dell’architettura alla quale Adriano s’ispirava è quella ellenistica, che però conserva la ratio di quella classica, la stessa che traspare anche dalla sua attività amministrativa e militare. Una frase dei Pensieri di Marco Aurelio, citata da Carandini per sintetizzare la visione politica dell’imperatore-architetto sembra essere a questo proposito più che mai significativa: “Tutte le cose sono reciprocamente intrecciate, il loro legame è sacro e quasi nessuna cosa è estranea all’altra. Si trovano infatti armonicamente ordinate e danno insieme ordine e bellezza al mondo” (p.68).

 

Ritratto di Adriano, 117 circa. Museo Nazionale Romano, Roma.


Armonia, ordine e bellezza sono termini utili per descrivere il mondo di Adriano e dei suoi successori Antonino Pio e Marco Aurelio ma non il nostro, composto da campi che ondeggiano e s'increspano, come dimostrano le teorie della fisica moderna con le quali, tuttavia, la bellezza delle città che Adriano voleva “splendide, piene di luce” sembra avere un rapporto.

La teoria di Albert Einstein è un capolavoro di “pura bellezza”, scrive Carlo Rovelli nel suo libro Sette brevi lezioni di fisica (Adelphi, Milano 2014). Nel testo La verifica del tempo, pubblicato insieme ad altri testi in La bellezza come metodo. Saggi e riflessioni su fisica e matematica (Raffaello Cortina, Milano 2019), Paul Dirac afferma che Einstein, quando ebbe l’idea di collegare la gravitazione alla curvatura dello spazio, “era guidato solo da considerazioni relative alla bellezza delle equazioni” (p.125) e che una teoria che includa la bellezza matematica ha più probabilità di essere giusta e corretta rispetto ad una teoria sgradevole, pur confermata dai dati sperimentali. In questo tipo di ricerca l’analogia svolge un ruolo importante: Dirac ricorda che il suo primo progresso significativo nella teoria quantistica consistette nel rendersi conto che “esiste un’analogia tra il commutatore di due variabili dinamiche u x vv x u (che è diverso da zero) nella meccanica matriciale di Heisenberg e la parentesi di Poisson della meccanica classica” (La mia vita da fisico, p.49). Rovelli sostiene che lo stesso Einstein, affascinato fin da ragazzo dal campo elettromagnetico che faceva girare i rotori delle centrali elettriche, intuisce che “deve esistere un campo gravitazionale analogo al campo elettrico” (p.17). Sembra che la scoperta in matematica, come in altri campi, avvenga tramite una combinazione di idee guidata dall’analogia e dalla bellezza.

 

Paul A.M. Dirac, La bellezza come metodo, copertina del libro.


Che cos’è la “bellezza” matematica di cui parlano Rovelli, Dirac e, ancor prima di loro, Henri Poincaré, senza che ne diano una chiara definizione? Nella sua conferenza L’invention mathématique tenuta all’Istitut général Psycologique di Parigi il 23 maggio 1908, Poincaré spiega che l’analogia guida il suo pensiero verso combinazioni armoniose (Opere Epistemologiche. L’invenzione matematica, volume II. Mimesis, Milano-Udine 2017). Se il termine armonia usato da Poincaré, lo stesso usato anche da altri matematici (Godfrey Harold Hardy, Apologia di un matematico, De Donato, Bari 1969, p. 60), può essere inteso nel senso di symmetria (già in Eschilo e Ippocrate i termini symmetria e armonia sono usati come sinonimi), possiamo concludere che sia lo stesso accordo armonico fra le parti e fra le parti e il tutto al quale si riferiscono i trattati sulla téchne. Questo spiegherebbe il ruolo svolto dalle analogie nel pensiero matematico, quando questo giunge alla "pura bellezza", perché l’analogia che consente al ricercatore di giungere a una scoperta è la symmetria di cui si è detto finora. Nel libro III del De architectura, Vitruvio ricorda che la symmetria nasce dalla proporzione “che in greco è detta analogia – quae graece ἀναλογία dicitur”, la cui forma originaria è la proporzione (Enzo Melandri, La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia, capitolo sesto La proporzione, Quodlibet, Macerata 2004).

Con un salto acrobatico, la ratio che traspare dall’attività costruttiva, militare e amministrativa di Adriano si trasferisce così al lampo che attraversa la mente dei matematici, ma Jean-Pierre Vernant mette in guardia da tali acrobazie: “nel confronto con altre culture [è necessario] porre l’accento, al di là degli aspetti comuni, sulle divergenze, gli scarti, le distanze” (L’uomo greco, Laterza, Bari 1991, p. 4), perché l’uomo non resta mai simile a quello che era, nel suo modo di essere e pensare. 

Un salto acrobatico senza rete, quindi. 

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I (non tanto) tristi tropici di Pierre Restany

Charlotte von Mahsldorf. “Sono la moglie di me stesso"

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Lothar Berfelde, aka Charlotte von Mahlsdorf.


Avete presente quelle stanze un po’ soffocanti, colme di mobili massicci, riccamente intarsiati, di divani dai braccioli scolpiti con rivestimenti in tessuto damascato che pare sempre polveroso, di credenze, tavoli e sedie con gambe a torciglione, colonnine, pinnacoli? Stanze in cui, se anche si aprono le finestre, l’aria resta pesante, in cui applique e lampadari ridondanti mandano una luce tutto sommato fioca che rischiara a stento i ninnoli ammassati nelle vetrinette e sui ripiani? Ecco. Tutto comincia da lì. Dalla mobilia che i borghesi tedeschi e austriaci avevano scelto per arredare i propri appartamenti in case che, nella struttura architettonica e nelle facciate, riprendevano gli stessi principi degli intérieur: sovrabbondanza di stili, ostentazione, opulenza, gusto discutibile.

 

Stanza in stile Gründerzeit al Gründerzeitmuseum di Berlino.


Mi riferisco al periodo storico detto Gründerzeit, convenzionalmente collocato nei decenni che stanno a metà del XIX secolo, tra gli anni Quaranta e la crisi della borsa del 1873. Anche se secondo alcune scuole si protrae fino all’inizio del Novecento. Anni che videro lo sviluppo della borghesia, l’industrializzazione massiccia, la nascita delle ferrovie e, con l’arrivo in massa degli abitanti delle campagne, la nascita del proletariato e di edifici-caserma che accogliessero i nuovi residenti metropolitani. Sul fronte estetico-borghese l’epoca segnò il trionfo di neobarocco, neogotico, neorinascimentale. Un eclettismo stilistico a cui ci si riferisce come istorismo o storicismo, fatto di imitazione e assimilazione di forme espressive precedenti concentrate in un solo ambito. Quello stesso evocato da Guido Gozzano nella sua Nonna Speranza:

 

il cucù dell’ore che canta, le sedie parate a damasco

chermisi… rinasco, rinasco del mille ottocento cinquanta!

 

Una caratteristica di quei mobili fu anche il grande impegno che richiedeva la loro spolveratura, visti i molteplici anfratti di cui erano costituiti. Anche questo aspetto ha a che fare con la storia che intendo raccontare. Ma procediamo con ordine.

Nel quartiere berlinese di Mahlsdorf, alla periferia est della città, nel 1928, in piena Repubblica di Weimar, nella famiglia Berfelde da un padre attivista nazista, nacque un bambino che fu battezzato Lothar. Fin da piccolo manifestò interesse per gli abiti femminili, con cui spesso si travestiva, e per le carabattole d’antiquariato, le “buone cose di pessimo gusto”, se vogliamo ancora citare il nostro Gozzano. Sorpreso da una zia, l’adorata Tante Louise, a indossare i suoi abiti mentre era ospite della sua residenza nella Prussia Orientale, questa commentò: “la natura ha fatto un brutto scherzo a entrambi, facendo nascere te uomo e me donna”. Gli diede da leggere I travestiti di Magnus Hirschfeld, sessuologo all’avanguardia ideatore della teoria di un sesso “intermedio” tra uomo e donna, gli assicurò solidarietà e appoggio anche nei confronti del dispotico genitore.

 

L’adolescente Lothar, indulgendo sempre più nella propria natura al femminile, tornato a Berlino prese a frequentare un robivecchi di Kreuzberg, Max Bier, che lo iniziò all’attività di rigattiere permettendogli di tenere per sé alcuni degli oggetti in cui commerciavano. Assai meno propenso a tollerare gli interessi del giovane fu il padre che, anche nel tentativo di distoglierlo da quelle passioni, lo volle iscrivere alla gioventù hitleriana. Gli scontri tra genitore e figlio si facevano sempre più frequenti e raggiunsero il massimo della virulenza nel 1944 quando la madre, stanca delle violenze del marito, approfittando delle disposizioni di evacuazione abbandonò casa e famiglia. Messo dal padre di fronte alla necessità di scegliere tra i genitori, e minacciato dallo stesso con la pistola d’ordinanza, Lothar optò per una soluzione estrema: nella notte lo uccise nel sonno con un mattarello. Tragica e grottesca, nonché fatale per il suo destino futuro, fu la scelta del mattarello: un oggetto domestico, quotidiano di quelli che l’adolescente in conflitto di genere amava raccogliere e collezionare trasformato in arma letale. Dopo una perizia psichiatrica il ragazzo fu condannato a quattro anni di correzionale come elemento asociale. La fine della guerra e del regime nazista lo avrebbe preservato dallo smaltimento della pena. 

Dopo la guerra Lothar era diventato definitivamente Charlotte (Lottchen) a cui aveva aggiunto l’ironico cognome di von Mahlsdorf, giocando sul sobborgo di sua provenienza. I capelli si erano allungati e sarebbero stati tenuti sempre in una foggia sobria e discreta. Il viso non avrebbe conosciuto trucco. Unica concessione alla frivolezza, un filo di perle o una semplice collana. Gli abiti femminili che avrebbe prediletto non erano quelli della diva o della drag queen, bensì i dimessi indumenti della massaia, addirittura i grembiuli da donna delle pulizie.

 

Charlotte von Mahlsdorf nel suo museo.


Ed ecco che torniamo ai mobili da cui abbiamo preso le mosse. Nella Berlino bombardata, Charlotte prese a raccogliere la mobilia che si era salvata dalla distruzione. C’è chi sostiene che anche durante la guerra non si fosse fatta scrupolo di raccogliere i mobili rimasti abbandonati nelle case degli ebrei deportati. D’altra parte è noto il suo impegno a favore della causa ebraica, la sua netta opposizione al nazismo. Tratti che contribuiscono a colorare di ambiguità la sua figura e la sua storia. Storia di un travestito che, dopo essere sopravvissuto al nazionalsocialismo, si apprestava ad affrontare la DDR: personaggio scomodo e provocatorio passato da un totalitarismo all’altro.

La sua passione si concentrò proprio su quei mobili pseudo barocco-rinascimentali che gli ricordavano la figura e i tempi di un amato prozio ormai scomparso e che erano così difficili da tenere puliti. La sua anima di Putzfrau prevaleva su quella di donna fatale o sul caricaturale eccesso di femminilità che molti travestiti prediligevano. Per sua stessa dichiarazione, i suoi organi genitali non gli avevano mai creato problemi. Si considerava un travestito, non un transessuale, e si autodefiniva “meine eigene Frau”, la moglie di sé stesso, come aveva spiegato alla madre quando questa lo aveva sollecitato a sposarsi. Una natura femminile in un corpo maschile.

 

Tra il 1946 e il 1948 ottenne l’autorizzazione ad occuparsi del castello di Friedrichsfelde (sempre nella periferia est di Berlino), in rovina e destinato a probabile demolizione. Ne fece il proprio quartier generale e iniziò a raccogliervi la sua collezione di oggetti antichi. A restauro completato iniziarono le visite guidate, a cui Charlotte faceva da Cicerone, ma l’idillio fu di breve durata. Le autorità requisirono il castello e le concessero tre giorni di tempo per spostare altrove la sua raccolta. In quell’occasione fece ricorso per la prima volta alla strategia di donare ai visitatori orologi, vasi, reperti anche di grande valore, liquidando il museo in segno di protesta. Viveva compravendendo mobili antichi e si vestiva da donna. Realtà non scontatamente facili da realizzare nella neonata Repubblica Democratica Tedesca (1949), non certo indulgente con trasgressioni e deviazioni ritenute incompatibili con la costruzione del socialismo. La sua collaborazione con il Märkisches Museum fu interrotta bruscamente proprio per questi motivi, ma non si arrese. Fra il 1959 e il 1960, mentre la sua collezione tornava a crescere e acquisiva forma e dimensione di quello che sarebbe diventato il museo del Gründerzeit, fece partire una campagna per la conservazione di una residenza padronale nel suo quartiere natio, Mahlsdorf. In cambio degli interventi di risanamento le fu concesso l’uso dell’edificio senza affitto da pagare. A quanto racconta lo restaurò da sola lavorando alacremente giorno e notte. Il 1960 vide la luce del primo settore del Gründerzeitmuseum nell’unica ala già restaurata della magione.

 

La casa padronale di Mahlsdorf sede del Gründerzeitmuseum.


Nel 1963 il museo si arricchì di una specialissima dotazione: gli arredi di un locale malfamato ma popolarissimo nel periodo dei favolosi anni Venti berlinesi, nonché luogo di incontro di gay, lesbiche e oppositori del nazismo negli anni del terzo Reich, il Mulackritze, destinato all’abbattimento dopo la chiusura forzata del 1951. La Kneipe, situata in Mulackstraβe nell’allora equivoco quartiere, nonché ghetto ebraico, detto Scheunenviertel (oggi centralissimo e gentrificato Mitte), aveva attratto, oltre al popolo della notte, prostitute, piccoli criminali e proletari, anche figure dello spettacolo oggi illustri, dalla cantante cabarettista Claire Waldoff a una giovane Marlene Dietrich, all’attore e regista teatrale Gustaf Gründgens, nonché il più famoso gangster berlinese, Adolf Leib. L’atmosfera del locale era quella tramandata da una serie di illustrazioni di Heinrich Zille, il narratore iconografico della vita sottoproletaria dei bassifondi berlinesi, nella sua raccolta Hurengespräch (Discorsi di puttane), documentazione del Milieu del piacere con didascalie rigorosamente in dialetto berlinese.

 

Dal ciclo Hurengespräch di Heinrich Zille, 1921.


Charlotte raccattò l’intero insieme degli arredi e ricostruì il locale nei sotterranei del suo museo: bancone, tavolini e persino la stanzetta nel mezzanino dove, nonostante i divieti formali, le prostitute esercitavano ogni notte.

 

Charlotte dietro il bancone del Mulackritze ricostruito nel museo.


La stanzetta a luci rosse del Mulackritze.


Nei primi anni Settanta il museo divenne anche luogo di ritrovo della sotto cultura gay di Berlino est. Le domeniche pomeriggio gli attivisti del Homosexuellen Interessengemeinschaft (Gruppo di interesse omosessuale) di Berlino si davano convegno a Mahlsdorf, diventato centro culturale e di documentazione gay, e vi organizzavano conferenze, feste e celebrazioni. Se due giovani, ragazzi o ragazze che fossero, avevano bisogno di un posto tranquillo per fare l’amore, alcune stanze del museo erano messe a loro disposizione. I vetri erano stati appositamente dipinti di nero perché a eventuali ispezioni della STASI non tradissero la propria funzione. 

 

Una riunione del gruppo con gay con Charlotte (all’estrema destra) eccezionalmente in abiti maschili.


Nel 1972 l’edificio rientrò sotto la tutela dei beni monumentali e due anni più tardi le autorità della DDR ne disposero la statalizzazione con conseguente confisca della collezione là raccolta. La reazione di Charlotte consistette ancora una volta nel regalare i suoi reperti ai visitatori, pur di non vederli sparire nelle mani dello stato. A favore del museo si mobilitarono però un’attrice di fama, Annekathrin Bürger, un altrettanto noto e benemerito avvocato, Friedrich Karl Kaul e non si esclude che abbia giovato anche un aspetto che sarebbe stato successivamente spesso citato a carico di Charlotte, una sua connivenza con la famigerata Stasi, la polizia segreta, in qualità di IM Inofizieller Mitarbeiter (cooperatore non ufficiale), in altre parole collaborazionista “volontario” che forniva informazioni e notizie su fatti e persone.

Il Museo fu salvato e sopravvisse, ma gli incontri del gruppo furono proibiti nel 1978. Al compimento dei 60 anni, ormai pensionata, Charlotte potette varcare il confine e tornare nei settori ovest di Berlino da cui il muro l’aveva tenuta lontana. Vista la sua predilezione per uomini più anziani, non trovò in vita nessuno dei suoi ex amanti. Nel 1989 il muro crollò, la stessa sera in cui al cinema International si festeggiava l’uscita del primo film apertamente gay prodotto in Germania Orientale: Coming out. Film in cui lei recitava un cameo nei panni della barista di un locale omosessuale, per una volta truccata e parruccata come una vera regina. Quella sera il pubblico si divise tra entusiasmo e spaesamento, incredulo alla notizia del varco nel muro e partecipe per la prima del film. Intanto lei si apprestava ad affrontare e vivere un’altra pagina di storia, quella della Germania riunificata.

 

Fu proprio nel 1991 però che, in seguito a un attacco omofobo compiuto da neonazisti e che causò diversi feriti tra i partecipanti alla festa di Mahlsdorf, comunicò l’intenzione di lasciare il suo Paese. Nonostante il conferimento dell’Ordine del Merito della Repubblica Federale Tedesca nel 1992, cinque anni dopo emigrò in Svezia. Scelse la cittadina termale di Porla Brunn dove, senza particolare successo, aprì un museo analogo a quello tedesco. Nello stesso anno la città di Berlino acquistò il Gründerzeitmuseum che, ancora oggi, continua la sua attività mettendo in mostra in parecchie stanze i mobili e gli oggetti che Charlotte aveva raccolto in una vita. 

Prima di lasciare la Germania, in occasione di una conferenza tenuta il 2 marzo del 1997, Charlotte si squalificò agli occhi di molti appartenenti alla comunità LGBT berlinese per un’infelice dichiarazione che le valse la messa all’indice come icona e portavoce del movimento: “Che gay e lesbiche non possano avere figli, dopo tutto, è cosa assolutamente naturale. Anche la natura seleziona chi può riprodursi e chi no. Se così non fosse, se gay e lesbiche generassero bambini, oggi avremmo molti disoccupati in più”. In fondo era una signora d’altri tempi e, nonostante tutta la militanza, tradiva una mentalità non in sintonia con il progressismo.

Nonostante le non poche ombre che costellano la sua biografia Charlotte restò, e resta tutt’ora, figura di culto a Berlino. Nel 1992 il regista Rosa von Praunheim le dedicò un film tratto dall’autobiografia pubblicata nello stesso anno: Ich bin meine eigene Frau (Sono la moglie di me stesso), in cui la vera Charlotte dialoga e interagisce con gli attori che ne interpretano il ruolo nelle diverse fasi di vita. 

 

https://www.youtube.com/watch?v=Z4OcDuPv0-w

 

Nel 1995 l’autobiografia uscì in traduzione inglese, I Am My Own Wife, e attirò l’attenzione di un giovane commediografo americano, Doug Wright, che volò a Berlino per conoscere e intervistare l’autrice. Conquistato, e al contempo turbato dai molti aspetti oscuri della sua storia, Wright impiegò anni a realizzare l’omonimo testo teatrale che avrebbe portato sulle scene di mezzo mondo le vicende del peculiare travestito berlinese. Al debutto nel 2002 seguirono i trionfi di Broadway, le repliche negli Sati Uniti e in Europa (non in Italia), fino al premio Pulitzer per il teatro e a diversi Tony Awards (2004). Charlotte morì di infarto nel 2002, all’ospedale della Charité, durante una visita a Berlino. La morte l’avrebbe riportata nella sua città.

Nel 2006 Peter Süß, editore dei testi di Charlotte, realizzò un’ennesima variante della commedia, andata in scena a Lipsia con il, per così dire, senno di poi. Una giornalista intervista Berfelde e la mette alle strette con domande incalzanti relative al suo collaborazionismo e ai lati meno nobili della sua storia. Si parte dal principio, legato alla storica dichiarazione di un contemporaneo, che “non appena Charlotte apriva bocca, iniziava a mentire”. Leggende e mitologie che, come spesso succede, si sovrappongono e finiscono per sostituirsi alla storia. Difficile pensare, per altro, e questa non vuole essere una giustificazione, che per una figura come la sua potesse essere ipotizzabile un’esistenza senza contatti con la Stasi. Basti pensare all’altissima percentuale di collaborazionisti di ogni ordine e grado che l’apertura degli archivi ha portato alla luce dopo l’unificazione delle Germanie. Charlotte non ha negato. A chi la interrogava in proposito rispondeva: “Lei viene dall’ovest, vero? La Stasi non ha mai bussato alla sua porta di notte”. In nome della propria e altrui contestata sessualità, del suo prezioso museo, della sua stessa vita da outsider a trecentosessanta gradi, è possibile, anzi probabile, che la sventurata abbia risposto. 

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Un peculiaretravestito nella Berlino del XX secolo
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Dietro la Grande onda

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Bologna a febbraio ha già qualcosa di primaverile. Una primavera silenziosa, come quella di Rachel Carson che, nel remoto 1962, lanciava uno dei primi allarmi ambientali spiegandoci che le molecole di DDT e di altri fitofarmaci erano ormai reperibili in ogni parte del globo. Da qui Silent Spring, una primavera muta, senza più il ronzio degli insetti, senza più uccelli. Camminando per Bologna, tra folle domenicali che approfittano dei primi tepori e negozi spalancati per simulare come in un timido carnevale di Rio la correttezza di intenti del neoliberismo cannibale (quello per cui stiamo letteralmente divorando il nostro futuro), camminando per Bologna, guardando i pochi alberi del centro, noto qualcosa di strano, ad esempio che, a dispetto di un’aria mite e profumata e una insensata atmosfera di festa, i calicanti sono fioriti con due mesi di ritardo e i quattro alberelli del cosiddetto arredo urbano sono già esplosi in una nuvola rosa. Davvero troppo tardi, davvero troppo presto, segnali inequivocabili di un disordine stagionale, ambientale, forse mentale. Mi ha sempre fatto riflettere la volubilità simbolica dei fiori: mentre il ciliegio è qui da noi un’immagine positiva di rinascita primaverile, per il Giapponese è l’occasione di una riflessione luttuosa, un modo per ricordare la bellezza e la caducità delle cose. Ero appunto scivolato in questo sostrato emotivo quando ho acquistato il biglietto della mostra Oltre l’onda. Hokusai e Hiroshige, 250 stampe giapponesi dal Boston Museum of Fine Art, 250 interpretazioni inconsapevoli della fine del mondo.

 

Ma cominciamo dalla fine, appunto, come fanno i semiologi, in questo caso la fine della visita. Nel bookshop affollatissimo, ormai ipnotizzato da paesaggi, carpe e dame in kimono, cedo alla tentazione di un metonimico souvenir. Un segnalibro di Hiroshige? Un magnete per il frigo? Una cartolina della Grande onda? Tra i libri mi attira invece una copertina cinerea, è La lotta dei tori di Yasushi Inoue, più noto per la raffinata Morte di un maestro del Tè. Si tratta del breve romanzo di esordio, scritto nel 1947 all’età di quarant’anni, con cui l’autore giapponese si aggiudicò l’Akutagawa, il più importante premio letterario nazionale. Il libro è la storia di Tsugami, direttore di un giornale di Osaka, che si gioca ben più della carriera per organizzare un evento di tauromachia, il tōgyū, una specie di sumō tra tori che dovrà svolgersi per tre giorni consecutivi nello stadio cittadino. Ma l’uomo è inquieto, minaccia di piovere, lo spettacolo è a rischio e un sentimento di sconfitta aleggia nell’aria:

 

 

Dalla cima dello stadio dove si trovava Tsugami si vedevano campi e risaie perdersi in lontananza fino ai piedi dei monti Rokkō sotto pesanti nuvole di pioggia d’un grigio scuro e, tra campi e risaie, sparsa qua e là, qualche fabbrica, e alcune villette celate nel verde della vegetazione. Era un paesaggio gelido e inanimato come una decorazione su porcellana. Vicino alle vette dei monti Rokkō biancheggiavano ancora alcune striature di neve e con la loro sola presenza davano sollievo all’amarezza di Tsugami. Era come se qualcosa della purezza, totalmente scomparsa dal paese dopo la sconfitta, si fosse salvato e raccolto là, a sussurrare tra sé e sé le proprie storie in serena intimità.

 

Siamo nel Giappone dell’immediato dopoguerra, un paese in ginocchio, smarrito, sull’orlo della bancarotta, un Giappone glorioso che in questa ekphrasis pittorica sembra rappreso come un insetto preistorico nell’ambra del tempo. Proprio come il “pino dei miracoli” di Fukushima. Unico di una secolare foresta a essere sopravvissuto allo tsunami del 2011, venne curato amorevolmente dalla gente del posto, per poi seccarsi e morire diciotto mesi dopo. Che farne? Venne segato, duplicato con calchi e rimontato sul luogo in cui era vissuto, sorretto da una grande gabbia di carbonio alta 27 metri. Dal 2013 la gente ha anche cominciato a piantare ciliegi attorno al finto pino, qualche migliaio ogni anno, per arrivare a 20.000, proprio come i morti del disastro. A pensarci fa venire i brividi. L’imitazione di un pino imprigionato dentro un’impalcatura, una foresta di anime imprigionate tra i fiori, il senso del macabro che sovrasta come un’onda anomala qualunque retorica della rinascita.

 

Tra le opere esposte in mostra c’era la Visione degli spettri di Taira no Kiyomori di Hiroshige. Kiyomori sta guardando un paesaggio innevato dal balcone della dimora di una cortigiana e le colline, i cespugli, i singoli ciuffi d’aghi di pino, ovattati dalla neve, sembrano teschi umani, teschi piccoli, grandi, enormi, che compongono quello che Dino Campana avrebbe chiamato il “panorama scheletrico del mondo”. Sono gli spettri dei guerrieri del clan Minamoto, massacrati durante le guerre civili del XII secolo e qui, come per i ciliegi, la neve per noi festosa e rassicurante come in un quadro di Bruegel, il bianco per noi virginale e solitamente positivo, diventano le coordinate materiali e mentali di una grammatica giapponese del lutto, un vasto panorama di morte che scardina le abitudini percettive dell’osservatore occidentale. Questi faux amis dello sguardo, i ciliegi, la neve, ci mettono in guardia dal ridurre le vedute di Hokusai e Hiroshige a un tranquillizzante locus amoenus cartolinesco. Se si guardano le stampe da molto vicino si possono vedere ad esempio dei curiosi errori di esecuzione. Alcuni passaggi del foglio sui blocchi di legno spalmati di colore hanno lasciato le tracce di una pressione troppo forte. I contorni del Fuji, o delle nuvole, o di un pino, o di un’acqua corrente hanno segnato la carta, imprimendo depressioni non ricercate, piccoli rilievi che solo una luce radente può rivelare. Un errore produttivo di bellezza, tanto che alcune stampe ci giocano deliberatamente con il piumaggio degli uccelli, ma che in generale ci ricordano un’altra lezione, cioè che la stratigrafia concettuale del paesaggio è complessa. Una pelle per l’occhio, una profondità conturbante per il dito.

 

Pago il biglietto, lascio lo zaino nel guardaroba, entro nella prima sala, quella con le Trentasei vedute del Monte Fuji di Hokusai. Non mi era mai capitato di assistere a uno spettacolo simile: la gente faceva la fila dietro la prima stampa, in attesa che chi era davanti cedesse il posto a chi era dietro. Poi chi cedeva il posto passava alla seconda stampa, e chi era davanti alla prima passava a sua volta a destra davanti alla seconda, e così via, per trentasei stampe. La sensazione era quella di essere in fila in una lentissima mensa aziendale. Sotto le stampe c’era perfino un’unica lunga scansia per tutta la parete, proprio come il bancale su cui si fanno scorrere i vassoi, ma al posto dei vassoi c’erano delle grosse placche didascaliche che raccoglievano le briciole essenziali. Il resto delle informazioni passava invece attraverso una specie di cellulare dove tu digitavi il numero dell’opera e una voce che doveva essere quella di tuo marito, della tua fidanzata, della tua mamma, ti raccontava che Hokusai eccetera eccetera. Durante la panoramica via crucis si potevano raccogliere anche i commenti estemporanei dei visitatori salariati, e la costernazione non era per nulla mitigata dalla rarefazione dei contorni dei monti tra le nubi.

 

 

Ma ecco finalmente la Grande onda, all’incirca 10-12 metri d’acqua verticale (a giudicare dalla dimensione delle barche) compressi nei 25 centimetri d’altezza della stampa. Un’equilibratissima rappresentazione del disequilibrio, una ripetizione frattale delle linee curve (specialmente nei riccioli di schiuma, in cui Van Gogh riconobbe degli artigli), un blu di Prussia che tanto piacque in Occidente. Dietro, il Fuji, gli stessi colori del mare, la terra che allude al blu dell’acqua, il bianco delle nevi che alludono ai frangenti, e la spuma volatizzata che simula una nevicata. Ma dietro l’onda che sta per occultare il Fuji che cosa si nasconde? Che cosa c’è dietro al paesaggio? Nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, la Grande ondaè in assoluto una delle immagini più virali della storia dell’arte mondiale. Vedere una delle xilografie originali è quasi un gesto eversivo, un atto di resistenza percettiva ed estetica. Ma il paesaggio, dobbiamo ricordarlo, è sempre una trappola, è un cassetto a scomparsa che esiste solo grazie al vuoto che lo riceve, è uno spazio che necessita di un antispazio per palesarsi. Che cosa si nasconde allora dietro la Grande onda?

 

Il miracoloso pino finto di Fukushima. Milioni di petali di ciliegi a mascherare l’apocalisse radioattiva, come un fallout profumato. I fantasmi dei massacri di guerra sotto la coltre di neve accomodante delle retoriche nazionali. L’arte ridotta a gadget ridotto ad arte. Le 36 vedute del Fuji, le 250 xilografie della mostra non si limitano a rappresentare un mondo di malinconie d’antan e un sistema di ecosistemi completamente estinto. Non sono solo pietre d’inciampo per l’arroganza percettiva dell’occhio occidentale. Non evocano solo spettri di un’estetica ormai svuotata d’ogni spessore antropologico per colpa del copia-incolla mediatico. Dietro la Grande onda c’è la vera massa mancante, quella della Grande cecità, quella dell’incoscienza che, come se niente fosse, spinge la gente a simulare una domenica al museo mentre l’irrimediabile incendio ambientale comincia a ruggire. Non posso non pensare al fatto che impossessarsi di uno spettro di paesaggio orientale dentro una cartolina a 1 euro e 50 sia l’atto ultimo di una negazione privata del disastro: la consolazione delle metafore verdi, la decalcomania voluttuosa del locus amoenus, l’estetizzazione dell’apocalisse.

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Thomas Struth. Nature & Politics

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Iniziamo dalla fine. L’ultima fotografia della mostra “Nature & Politics” di Thomas Struth al Mast di Bologna si intitola “Seestück, Donghae City”. Si vede il mare. Ci sono quasi tutti gli elementi primordiali entro cui ogni cosa può prendere forma: aria, terra, acqua. Le onde, le rocce, la schiuma portano il nostro sguardo verso la linea dell’orizzonte. Ci invitano ad andare altrove. Cosa rappresenta? Il futuro? O la linea che separa ciò che esiste da ciò che esisterà anche dopo l’uomo? È questa la “Nature” del titolo. Tutto il resto è “Politics”, ovvero ciò che la “polis” è diventata, l’ultimo elemento: fuoco e tecnica. 

Le foto mostrano macchine, dispositivi e installazioni di una tecnologia all’avanguardia. Thomas Struth si muove in mondi il cui accesso ci è solitamente precluso e ci mostra una serie di sperimentazioni scientifiche e interventi che in un momento imprecisato, nel presente o nel futuro, in modo diretto oppure mediato, faranno irruzione nella nostra vita. Le didascalie non sono d’aiuto. Le parole aggiungono mistero al mistero. Le definizioni non definiscono: Measuring, Stellarator Wendelstein, Tokamak Asdex Upgrade, Laser Lab o Grazing Incidence Spectrometer. Di fatto vediamo motori verdi fosforescenti che sembrano quasi immateriali, grovigli di cavi, meccanismi complessi e incomprensibili, laboratori scientifici dove regna un caos di fili e strumenti di misurazione e controllo. 

 

Thomas Struth Cappa chimica, Università di Edimburgo / Chemistry Fume Cabinet, The University of Edinburgh, 2010 C-print, 120,5 x 166,0 cm © Thomas Struth.


Thomas Struth Spettrometro a incidenza radente / Grazing Incidence Spectrometer, Max Planck IPP, Garching, 2010 C-print, 115,1 x 144,0 cm © Thomas Struth.


Fuoco e tecnica si diceva. Ed è ciò che avviene anche nell’immagine: anche qui tutto è a fuoco. L’inquadratura racchiude il contenuto della fotografia in un unico colpo d’occhio. Si percepisce che il fotografo, in piedi davanti ai propri soggetti, impone un ordine alla scena che ha di fronte, mostra il caos dandogli una struttura e impone quest’ordine scegliendo un punto d’osservazione, un’inquadratura, un momento per lo scatto. Vediamo tutto, ma non capiamo nulla. A cosa serve lo spettrometro a incidenza radente, l’albero bronchiale, o l’ondoscopio curvo? Se lentamente l’alterità di questi ingranaggi diminuisce, il nesso complessivo sfugge alla nostra comprensione. Mai come nelle immagini di Thomas Struth si ha l’impressione di essere sempre molto lontani da ciò che si sta guardando. La fotografia riflette l’impenetrabilità di ciò che mostra. 

 

Thomas Struth Golems Playground, Georgia Tech, Atlanta, 2013 C-print, 235,1 x 328,0 cm © Thomas Struth.


Il nostro occhio non prende possesso delle cose. Ciò che vediamo è caotico ma non disordinato, perché tutto sta nel posto preciso in cui deve stare. Eppure lo stile documentario dell’immagine, in perfetta sintonia con la chiarezza che evoca la presunta razionalità della scienza, non trasmette alcuna conoscenza. L’idea per cui il visibile deve essere leggibile e deve veicolare una verità che include un dovere estetico e un imperativo etico viene messa in discussione, proprio attraverso una chiarezza e una visione che escludono il senso di ciò che vediamo. Vedere non significa capire. Si può solo presumere, nel senso di supporre o, meglio, stare in bilico tra il ritenere ciò che è dinnanzi a noi e il desiderio di spingersi oltre l’immagine. Il limite di queste fotografie è anche il limite della nostra capacità di comprendere. Se il senso di “fotografia” è “scrittura della luce”, “words of light” annotava William Henry Fox Talbot su una delle copie del Pencil of Nature, cosa sta scrivendo Thomas Struth? Cosa diventano gli spazi del Mast che le espone: un deposito, una galleria d’arte, un santuario, un osservatorio? Cosa c’è in queste fotografie? 

 

Thomas Struth Modello in dimensioni reali / Full-scale Mock-up 2, JSC, Houston, 2017 Inkjet print, 208,1 x 148,6 cm © Thomas Struth.


Un tentativo di mostrare la relazione tra uomo e tecnica. Qui non vi è stupore, ammirazione, o glorificazione della macchina. Le immagini di Struth sono anch’esse macchine, a loro volta camere di compensazione dello sguardo. Tutto è sospeso: sguardo e giudizio. Il binomio “Nature & Politics” porterebbe a credere che esista un punto in cui il reale e l’immaginario, il visibile e l’invisibile, il passato e il futuro, l’ordine e il disordine cessano di essere percepiti come contraddittori. Le immagini di Struth sono complesse perché cercano di rappresentare un mondo complesso. Non spiegano ciò che mostrano ma cercano di mostrare la difficoltà di capire. La loro opacità è semplice perché la complessità è difficile da intendere. Qui anche le idee di semplice e complesso perdono i loro confini precisi. La superficie coincide con la profondità. Questa esposizione forzata, in cui tutto appare nel momento in cui si sottrae, sta forse suggerendo di plasmare una nuova topografia dello sguardo? Si devono spalancare gli occhi e non cessare di porsi i quesiti che inducono a capire ciò che ci sta davanti. 

Cos’è più complesso: l’uomo e la sua a-sincronia o la macchina simbolo di organizzazione ed efficienza, dove tutto è perfettamente sincronizzato? E se pensiamo alle immagini di Struth, il confronto è riassumibile in un altro quesito: cos’è più misterioso, il mare o il caos ordinato dei fili e dei meccanismi? Così facendo, lo sguardo interroga se stesso e la sua presunta egemonia. E tocca anche il noema della fotografia, l’idea che non abbandona mai nessuno spettatore: il presunto potere di testimonianza di un’immagine, ciò che è assolutamente innegabile: l’“è stato” (ça a été) di Roland Barthes. Qui è tutto dinnanzi a noi eppure non c’è nulla che si possa davvero dire che esista. 

 

Thomas Struth GRACE-Follow-On, veduta dal basso / GRACE-Follow-On Bottom View, IABG, Ottobrunn, 2017 Inkjet print, 139,7 x 219,4 cm © Thomas Struth.


Stavolta l’indice non indica che una forma di disorientamento in cui si è immersi. L’uomo si specchia dentro la sua opera e non riesce a riconoscersi. I fili delle macchine sono al tempo stesso un veicolo verso il futuro e retaggio di un passato che non ci abbandona, sono i serpenti dei capelli di Medusa che pietrificano i pensieri dello spettatore. Che la fotografia sia lo scudo di Perseo? Difficile da dire. Per il momento sembra metterci dinnanzi alla complessità di un problema e al modo di vedere-capire, anche se la scoperta di questa relazione complessa non comporta la risposta ai quesiti che vengono sollevati, quanto il “risveglio di un problema”, una presa di coscienza che non è solo intellettuale, ma anche estetica ed etica. Basta esserne consapevoli. 

Se con ogni utensile l’uomo perfeziona i suoi organi e sposta le frontiere della loro azione, se i motori gli mettono a disposizione forze gigantesche le quali, come i suoi muscoli, possono essere impiegate in qualsiasi direzione, con la macchina fotografica, diceva Sigmund Freud, ha creato uno strumento che fissa le impressioni fuggevoli della vista. Ma tutto questo non basta. La miglior fotografia di Struth non è quella in cui l’intenzione umana ha sconfitto il programma dell’apparecchio, quella cioè in cui il fotografo ha sottomesso l’apparecchio all’intenzione umana, come scriveva Vilém Flusser. E non rappresenta il momento in cui l’uomo domina e padroneggia a suo piacimento la macchina. Purtroppo non accade. 

 

Accanto al mare, a ciò che esiste, al suo essere eterno e sconfinato, e accanto alle rovine di un tempio greco, ovvero a ciò che sopravvive, le immagini di Struth, esposte al Mast consentono sia di intuire il potenziale estetico dei materiali più moderni, sia di comprendere che sono gli stessi materiali con cui la società dei consumi guasta il mondo in cui viviamo. Legate all’idea di un progresso che vorrebbe spingersi oltre il semplice esistere o il resistere al tempo, suggeriscono che l’ingegno dell’uomo, come le scienze e il progresso tecnologico lo hanno portato lontano, ma hanno impoverito la sua immaginazione. 

La scienza progredisce allo stesso ritmo dell’informazione violenta, dell’omologazione delle culture e dell’inquinamento ambientale, mentre l’economia rimane subalterna al puro calcolo monetario del profitto e l’efficienza del sistema è affidata a un apparato verticistico di burocrati che, come macchine obbedienti, si rifugiano all’ombra di un ruolo dentro cui arroccarsi. 

Davanti a un disegno così infernale cosa rimane del mistero della vita? Se l’immagine del mare suggerisce un mondo che continua oltre i suoi margini, cosa si cela dietro il groviglio di cavi che Struth ostinatamente insiste a fotografare? 

 

Mostra: Nature & Politics di Thomas Struth a cura di Urs Stahel

MAST, via Speranza 42, Bologna 

2 febbraio – 22 aprile 2019  

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Mapplethorpe. Classical form on unthinkable images

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Il 9 marzo del 1989 muore di AIDS Robert Mapplethorpe. Ha all’epoca quarantatré anni ed è uno dei fotografi più rappresentativi della scena artistica statunitense di cui incarna, tra gli anni Settanta e Ottanta, l’anima oltraggiosa, irriverente e contestataria. Le sue fotografie, caratterizzate da una cifra stilistica singolare, capace di unire lo scabroso e il glamour, sono, al di là dello splendore formale, un mezzo di riflessione su temi controversi come l’omosessualità, la pornografia e la sfera erotica in genere, la cui forza risiede – come annotava la scrittrice americana Joan Didion – nella forma classica applicata a immagini ‘impensabili’.   

 

Dopo un’infanzia e un’adolescenza formalmente integrata nei costumi di una famiglia cattolica della media borghesia di origine irlandese (i cui valori rientreranno, seppur stravolti, in alcuni aspetti della sua ricerca), Mapplethorpe si iscrive al Pratt Institute di Brooklyn e, negli anni delle rivolte studentesche e delle contestazioni, entra in contatto con la nascente cultura underground newyorchese, con i suoi fermenti politici, artistici e letterari, legandosi per alcuni anni a Patti Smith. È lei a regalargli la prima Polaroid e a segnare il suo ingresso nel mondo della fotografia, in seguito rafforzato da un altro fondamentale incontro: quello con Sam Wagstaff, collezionista d’arte e suo futuro compagno. Mapplethorpe passa a questo punto all’uso di una macchina Hasselblad di medio formato, creando con questo apparecchio alcuni dei suoi scatti più celebri. 

 

Self portrait, 1988.


Sono gli anni Settanta e, dopo aver usato le polaroid come materiali ‘onesti’ da inserire nei suoi collage, la macchina fotografica diventa per Mapplethorpe il mezzo estetico e di documentazione per eccellenza, lo strumento che più di tutti soddisfa e unisce la duplice esigenza morale di compiutezza estetica e di testimonianza. "Non mi piace la parola ‘scioccante’ – dichiarerà a proposito dei suoi scatti più controversi – Io sono alla ricerca dell’inaspettato … ero nella posizione per scattare quelle fotografie. Ho sentito un obbligo nei loro confronti”. 

E seguendo l’impegno all’onestà e alla perfezione formale, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta Mapplethorpe privilegia la fotografia in studio e sofisticatissime tecniche di stampa in bianco e nero al platino. I soggetti ricorrenti sono ritratti, nature morte, nudi, questi ultimi spesso nutriti dall’estetica feticista e sadomasochista di cui è esaltata la puntigliosità formale e teatrale, presto tradotta in un’attenzione squisita al corpo, maschile e femminile, trattato con uno sguardo allevato dalla classicità delle statue antiche e delle sculture di Michelangelo (Torso, 1988). Lo stesso filtro ‘classico’ – in cui convivono suggestioni dall’antico, ma anche dal rinascimento e dal barocco – è velocemente applicato dall’artista anche alle nature morte con un’insistenza studiata sulle superfici, siano epidermidi, foglie, petali, rocce, teschi o conchiglie, usando la luce per ottenere lo stesso effetto dei nudi, spesso ricoperti di pigmenti cromati per esaltare la loro qualità materica (Poppy, 1988). In tutti i casi, fin dagli esordi, la massima rilevanza è data a uno straordinario controllo formale, in cui ricorre l’ossessione per la simmetria, mentre i soggetti evocano temi capitali: il maschile e il femminile, la bellezza, la sensualità, la vita e la morte, l’ambiguità e la decadenza (Lisa Lyon, Joshua Tree, 1980; White Gauze, 1988). Quello di Mapplethorpe è insomma un gioco di equilibrio tra materia e spirito in cui sono presenti temi e allusioni ricorrenti: la relazione tra antico e contemporaneo, mito e realtà, scultura e pelle, estasi e spasimo. Un universo iconico che, a trent’anni dalla sua morte, non smette di affascinare.

 

Female torso, 1978.


Proprio in occasione di questa ricorrenza, alcuni musei dedicano all’artista importanti mostre. Due di queste, organizzate in collaborazione con la Robert Mapplethorpe Foundation di New York, si svolgono in Italia: una al Museo MADRE di Napoli (Robert Mapplethorpe. Coreografia per una mostra a cura di Laura Valente e Andrea Viliani dal 15 dicembre 2018 al 8 aprile 2019) e l’altra alla Galleria Corsini di Roma (Robert Mapplethorpe. L’obiettivo sensibile a cura di Flaminia Gennari Santori, dal 15 marzo al 30 giugno 2019).

La mostra al MADRE, con una coreografia espositiva pulita e simmetrica tra le due ali del terzo piano del Museo, è incentrata sulla profonda matrice performativa della pratica fotografica di Mapplethorpe, esaltata, oltre che dalla scelta delle immagini, soprattutto ritratti, nature morte e foto erotiche, da un programma di interventi site specific, realizzati da importanti coreografi che rileggono alcuni dei motivi principali della sua ricerca. L’insieme restituisce l’attenzione del fotografo alla scultura antica e rinascimentale e rivela, per alcune immagini, una certa assonanza alla cultura partenopea (è stata organizzata dal gallerista Lucio Amelio la prima mostra personale dell’artista a Napoli nel 1984). Molto suggestivi, ad esempio, gli incroci tra i prestiti del Museo Archeologico Nazionale di Napoli e alcuni scatti di Mapplethorpe che sono rivisitazioni contemporanee di un canone di bellezza fondato sulle proporzioni, le geometrie delle pose, l’incanto del disegno scultoreo-fotografico, come nello splendido nudo che ritrae la modella-culturista Lisa Lyon (1980) china a mostrare schiena, glutei e gambe, come fosse una venere acefala e priva di braccia o il sofisticato torso Dennis Speight (1983); o, ancora, le fotografie in cui il corpo che danza è protagonista assoluto (Philip, 1979).

 

Poppy, 1988.


La mostra di Roma mette invece in dialogo una scelta raffinatissima del lavoro del fotografo americano (alcune immagini sono piuttosto rare come il sorprendente Winter Landscape del 1979), con la quadreria settecentesca creata dal cardinale Neri (1685 – 1770) che abitò gli appartamenti di Palazzo Corsini dal 1738 alla morte, e con l’attività di Wagstaff, uno dei più influenti collezionisti al mondo di fotografia antica, che condivideva con Mapplethorpe, anch’egli appassionato collezionista, le sue scoperte. Le suggestioni derivate dall’incontro tra diverse epoche e interpretazioni del classico sono notevoli e inaspettate, eccone alcuni esempi: nella prima galleria Ken and Lydia and Tyler (1985) è una rielaborazione contemporanea dell’iconografia delle tre Grazie, nella quale il genere maschile e quello femminile si confondono, mentre l’attenzione formale alle gradazioni del colore della pelle alludono anche alla razza, tema importante per la cultura americana. Ancora, nella Sala Rossa, insieme a due splendide foto di interni, la bellissima Orchid and hand (1983) rivisita il tema della natura morta, mentre il ritratto Carol Overby del 1979, in cui è la luce naturale a caricare il volto e la posa della donna di espressività, rivela l’attenzione di Mapplethorpe alla fotografia di Nadar e di Julia Margaret Cameron, di cui Wagstaff era appunto un importante conoscitore e collezionista. Se a Napoli, vicino alle fotografie di Mapplethorpe troviamo, con le sculture antiche, i bronzi di Vincenzo Gemito e gli scatti di Wilhelm von Glöden, rivelatori anch’essi di sorprendenti analogie, a Roma scopriamo che gli stessi criteri di simmetria, euritmia e varietà compositiva che decidevano la disposizione dei dipinti della quadreria settecentesca, guidavano anche Mapplethorpe. 

 

Lisa Lyon Joshua Tree, 1980.


Attraversando le sale della Galleria Corsini siamo sollecitati a interrogarci sull’incontro della cultura settecentesca e tardo novecentesca, sul vedere e la memoria, accompagnati in questo tragitto da giochi di somiglianze, differenze e cortocircuiti storici e visivi tra le immagini in bianco e nero e i quadri antichi, i parati, i bronzetti, le consolle, con incursioni documentali di grande interesse come la cartolina della Canestra di frutta di Caravaggio inviata da Wagstaff a Mapplethorpe nel 1973 dove si legge tra l’altro: “Il modo in cui la luce dello sfondo coglie i margini delle cose è un’invenzione che non è stata ascoltata abbastanza. Eccotela!” 

Ebbene le opere di Mapplethorpe ci restituiscono, a Napoli come a Roma, l’attenzione del fotografo all’uso caravaggesco della luce, l’ossessione per la simmetria – forse ritrovata in prima istanza proprio nel motivo del crocifisso, di cui la foto Mapplethorpe’s Apartment(from House & Garden series), a cui si è ispirata Flaminia Gennari per l’allestimento della mostra, rivela anche un interesse da collezionista –, l’equilibrio tra la naturale finzione delle immagini e la loro dimensione “reale”, quasi oggettuale, e ancora: la bellezza e la decadenza. 

 

White gauze, 1984.


Soprattutto ciò che emerge guardando oggi le fotografie di Mapplethorpe, in un’epoca certo meno sensibile al loro lato “scandaloso”, comunque secondario, è la creazione di un classico contemporaneo, nutrito da una singolare coincidenza tra forma e intensità (dell’espressività, della geometria, della crudezza, della carica erotica, dei contrasti, della luce) accompagnata spesso non tanto da citazioni esplicite, quanto dal riemergere di ammalianti sommersi visivi, che finiscono con il catturarci inducendoci, come suggerisce la mostra organizzata dalle Gallerie Nazionali di Arte Antica nella sede della Galleria Corsini, a guardare alle forme liberamente, come un conoscitore del Settecento: alla ricerca di assonanze, euritmie, varietà e differenze che facciano di immagini e oggetti non i tasselli di un sistema cronologico, ma delle forme sensibili del bello. 

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A Napoli e Roma a trent’anni dalla morte
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Gio Ponti

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Il più bel libro su Gio Ponti (1891 – 1979), per la sua visione lungimirante e per la ricchezza dei contributi che contiene, lo ha curato Ugo La Pietra nel 1995 (Rizzoli) e la più bella mostra su di lui, per la qualità e la quantità dei pezzi esposti, per la magia dell'allestimento e il prestigio della sede ospitante, è in corso al MAD di Parigi (fino al 5 maggio 2019), mentre un omaggio per celebrare il quarantesimo anniversario della sua morte è in preparazione al MAXXI di Roma (novembre 2019 – aprile 2020).

Tra le due soglie temporali che separano l'uscita del libro di La Pietra – preceduto, cinque anni prima, da quello della figlia del maestro, Lisa Licitra, intitolato Gio Ponti: l’opera, per i tipi di Leonardo – dalla mostra al MAD, è di fatto avvenuta dapprima la ‘scoperta’ critica di Ponti e quindi la sua consacrazione ad archistar.

Infatti, prima degli anni novanta del secolo scorso, su Ponti si era sempre scritto in modo rapsodico e settoriale, senza che si fosse mai studiata nel suo complesso la sua figura articolata e poliedrica di progettista a tutto campo, di promotore culturale e di teorico (o forse sarebbe più appropriato definirlo divulgatore) dell'architettura e del design, se ancora Paolo Portoghesi così lamentava, nel 1982: 

“Nonostante il prestigio di cui la sua opera ha goduto presso il grande pubblico e l'influenza fondamentale che Gio Ponti ha esercitato sulle trasformazioni del gusto in Italia, durante un lunghissimo periodo che coincide quasi con la metà di un secolo, la sua figura di artista è tra le meno indagate ed apprezzate dalla critica ed è rimasta assente anche dal recente e proficuo lavoro di approfondimento condotto dai critici delle nuove generazioni sulle alterne vicende del movimento moderno. 

Nessun cenno all’opera di Ponti si ritrova nelle maggiori storie dell'architettura moderna, da Giedion a Henry-Russell Hitchcock a Pevsner a De Fusco e anche Benevolo e Zevi, pur ricordandolo tra gli esponenti di ‘Novecento’, non gli rendono certo giustizia, appiattendone il contributo nell'ambito di una tendenza". 

 

Probabilmente uno dei motivi di questo ritardo critico va ricercato nella estrema polivalenza linguistica della poetica pontiana che non ha mai operato una netta scelta di campo tra il razionalismo e la tradizione classica dell'architettura, tra il rifiuto dell'ornamento e la sua apoteosi, tra la ragione e la fantasia, abbracciandoli tutti nella sua geniale creatività e contravvenendo così ai parametri imposti dalla critica che ha caratterizzato la lunga stagione storico-artistica in cui egli si è trovato a operare, critica incline, di tempo in tempo, ad assolutizzare ora l’uno, ora l'altro di quegli aspetti, demonizzando, per converso, il suo contrario. Ben più unanime sarebbe stato invece il dotto plauso se Ponti fosse vissuto oggi, quando il suo essere multitasking avrebbe ‘fatto tendenza’ e sarebbe stato quindi, come di fatto ora è, molto apprezzato. Ponti, per la versatilità del suo linguaggio creativo e per le innumerevoli direzioni in cui lo ha condotto e applicato, ma anche per le sue contraddizioni, è stato senza dubbio un artista in grande anticipo sui tempi e in assoluto un precorritore della nostra contemporaneità. 

Così, egli amava dire: “Un’opera che non contenga in sé contraddizioni non è ‘vivente’, non è vitale perché non è vera: le cose vere, il creato, la realtà e la storia contengono in sé principi contrari che coesistono.”

 

Alcune delle più famose ceramiche di Gio Ponti, realizzate per la manifattura di Doccia, Richard Ginori così come sono esposte nella mostra Tutto Ponti. Gio Ponti Archi-Designer al MAD di Parigi.


Spesso accade che l'ascesa dei consensi nei confronti dell'opera di un maestro avvenga dapprima nelle aste internazionali per merito dei collezionisti, così è accaduto anche per Gio Ponti, almeno per quanto concerne il suo design. A tale proposito, ricordo che anni orsono, mi è capitato di assistere un'asta parigina dedicata ai suoi oggetti d'arredo, dove hanno raggiunto quotazioni da record, dopo essere stati disputati tra i contendenti in una ridda a colpi di cifre iperboliche. 

Insieme alla già accennata avvenuta mutazione delle coordinate culturali è quindi anche grazie al mondo del collezionismo se si è resa necessaria la rincorsa di Ponti da parte della critica, che finalmente lo ha ‘scoperto' e quindi giustamente incensato, indotta come è stata a tenere il passo con il montare e in seguito addirittura con il dilagare di quella che ormai può essere definita, e a buona ragione, la “moda Ponti”.

Ha dunque un bel daffare l'archivio che porta il suo nome nel dirimere le innumerevoli richieste di attribuzione di opere che ogni giorno piovono sulle sue scrivanie (scrivanie pontiane, ça va sans dire) prima di censirle e di conferire loro l'auspicato imprimatur.

 

 

Alcuni mobili e arredi di Gio Ponti. A sinistra: la sedia Superleggera per Cassina (dal 1957) e una piccola scrivania in una pubblicità degli anni sessanta; tavolo della serie Apta per Walter Ponti, 1969. A destra: un esempio di arredamento d'interni pontiano, il salone della Villa di Anala e Armando Planchart a Caracas, 1953.


La carriera professionale di Gio Ponti è stata intensamente creativa, infiammato com'era il suo spirito dallo zelo e dal fervore, ogni volta proteso verso lo sperimentare nuove strade, nel rispetto dell’etica del fare architettura e sostenuto dall'amore e dalla passione che ad essa lo legavano e che lo portavano a suggerire ai propri studenti, quando insegnava al Politecnico di Milano, citando Anatole France: “Quello che noi preferiamo è ancora l’ignoto”. 

La sua inesauribile ricerca di forme portatrici di eleganza e di bellezza e la sua prorompente capacità di inventarne di nuove, attingendo stimoli anche dal passato, hanno indotto Edoardo Persico a dire di lui:

“Ponti è l’inventore isolato… per cui la storia d’arte non è un progresso, ma una successione di diversità.”

Nonostante la sua non convenzionalità, Gio Ponti ha avuto una carriera professionale decisamente baciata dalla fortuna: sono infatti pochi gli architetti e gli artisti che hanno beneficiato di una ricchezza di commesse e di produzioni paragonabili alle sue, e tutte, immancabilmente, contrassegnate dal successo di pubblico che per sessant'anni non ha mai conosciuto incrinature e che ha investito tutti gli strati sociali, dall’alta borghesia, alla middle class. A quest'ultima, egli aveva dedicato addirittura dei prodotti appositamente pensati per lei, come la serie Domus Nova, realizzata per La Rinascente nel 1928, con Emilio Lancia e quindi, negli anni settanta, la serie Apta, prima per Walter Ponti e quindi per La Rinascente, serie composta da mobili leggeri e versatili, la più parte pieghevoli, adatti (= apti) soprattutto ai ridotti spazi dei piccoli appartamenti urbani, mentre per le grandi ville signorili ne ha progettati altri, che, sebbene appaiano imponenti per la loro bellezza, non ovvia e mai scontata, non sono mai “mobiloni ingombranti, pesanti" (sono parole sue) dalle dimensioni monumentali (le figlie Lisa e Letizia narrano della sua concezione di arredo della casa, partendo da quelli realizzati per la propria famiglia).

 

Foto di alcune architetture di Gio Ponti. Sopra: Milano, Palazzo e Torre Rasini (con Emilio Lancia) 1932-1935; Milano, Edificio Chase Manhattan Bank, 1958-1969; Milano, Politecnico, Trifoglio, 1959-1963. Sotto: veduta di un interno dell’Hotel Parco dei Principi, Sorrento, 1960-1961; Milano, grattacielo Pirelli (1956-1961) in una cartolina degli anni sessanta; Taranto, Concattedrale, 1964-1970.


C'è poi la sua architettura, che spazia dalle case private, ville o palazzi urbani che siano, agli alberghi (come non citare il meraviglioso Parco dei Principi di Sorrento? Progettato nel 1962, è stato uno dei primi design hotel al mondo, oggi il primo hotel museo), agli edifici universitari, a quelli per uffici, ai luoghi pubblici, a quelli di rappresentanza, tra cui il famosissimo Grattacielo Pirelli (costruito tra il 1956 e il 1961), in assoluto il suo capolavoro, d'insuperata grazia e bellezza, un'emergenza monumentale che ha disegnato per più di mezzo secolo lo skyline di Milano, fino alle architetture religiose, il cui acme è costituito dalla concattedrale di Taranto. Quest'ultima, costruita tra il 1964 e il 1970, ha la vela simile a una trina ricamata sul cielo, “per far sostare gli angeli", come era solito dire il suo autore. La vela, che costituisce di fatto la facciata maggiore della chiesa, è però priva di ingressi, così da essere “accessibile solo allo sguardo e al vento: una facciata per l’aria, con ottanta finestre aperte sull’immenso, che è la dimensione del mistero” scrive il maestro.

 

Di Ponti, accanto all’indubbia poesia delle sue creazioni, va ricordato anche l'inesausto anelito didattico, quella sua urgenza divulgativa del bello, ovvero il suo ‘apostolato artistico’, per usare la felice definizione di Agnoldomenico Pica. Il maestro milanese, infatti, non si è limitato a professare la propria mansione educatrice al nuovo gusto nell'architettura e nell’industrial design (ovvero alla modernità classica) soltanto nel chiuso delle aule universitarie, dove ha insegnato alla Scuola di Architettura dal 1936 al 1961, ma l'ha condotta anche, e soprattutto, dalle pagine delle riviste da lui fondate e dirette, a partire da Domus (1928), fino a Stile (1941), passando per Aria d'Italia (1939, quest’ultima di Daria Guernati ma da lui ispirata), che sono state fondamentali per la nascita e il consolidarsi di quello che verrà chiamato ‘Italian style’.

Ed è proprio per merito di queste riviste se una larga fascia di pubblico si è avvicinata alla sua rinnovata idea di bellezza, facendola propria. Ponti, ancora una volta precorrendo i tempi attuali che riconoscono all’exhibit grande efficacia divulgativa, ha disputato la sua battaglia di rinnovamento del gusto di un’intera nazione anche nell’arena delle grandi occasioni espositive, soprattutto nelle Triennali di Milano (con qualche anticipazione già alle Biennali monzesi), e anche in molte mostre organizzate all'estero dalla rivista Domus (Parigi, 1967; Zurigo,1969; Rotterdam, 1970) per far conoscere la ‘casa all’italiana’ al di fuori dei confini nazionali, ma soprattutto in varie edizioni del Salone del Mobile e nelle quattro di Eurodomus. Perché, se è indubbio che egli abbia scritto molto, e sempre in modo chiaro e comprensibile a tutti, è anche vero che con i suoi “spazi dimostrativi" ha ‘fatto vedere’ molto, e con il suo mostrare è sempre riuscito a palesare ciò che voleva trasmettere con lapalissiana efficacia.

 

Sopra e sotto: alcuni scorci della mostra Tutto Ponti. Gio Ponti Archi-Designer al MAD di Parigi. In talune fotografie si intravvede la trama della vela della Concattedrale di Taranto, ricostruita quasi in scala quasi reale da Jean-Michel Wilmotte, curatore dell'allestimento.

 

 

Gio Ponti amava molto Parigi e Parigi, nel ricambiarlo, ha da sempre contribuito alla sua fama. Il MAD, ad esempio, si è occupato per la prima volta di lui nel 1973, quando ha allestito l'esposizione dedicata ai 45 anni di Domus; poi, nel 1978, Tony Bouilhett, per cui Ponti aveva progettato la villa l’Ange Volant a Garches, fuori Parigi (dove, tra l’altro c’è la stupenda villa Stein disegnata da Le Corbusier, architetto che Ponti ammirava moltissimo) stava organizzando una mostra sulla sua opera, che, purtroppo non si è potuta realizzare a causa della morte del maestro, avvenuta mentre i preparativi erano in corso. Ora, a quarant’anni da quella occasione mancata, Sophie Bouilhet-Dumas, nipote di Tony Bouilhett, con la mostra Tutto Ponti. Gio Ponti Archi-Designer ha finalmente concretizzato il progetto di suo nonno. Insieme a lei, hanno curato la rassegna anche Olivier Gabet, direttore del MAD, e Dominique Forest, chief curator dello stesso museo, con la consulenza del nipote di Ponti, Salvatore Licitra. Per mantener fede al titolo e ricostruire l’infinito pontiano, ci sono voluti tre anni di lavoro, la collaborazione con diversi musei ed archivi, in primis quella con l’Archivio Ponti e con lo CSAC di Parma, nonché la mobilitazione di collezionisti di tutto il mondo. E così, quella che si può ammirare nelle sale del MAD è di sicuro l’esposizione più importante e completa mai dedicata al maestro milanese, cui si aggiunge il lustro che le dà la sede ospitante. Ma è indubbiamente anche quella con l’allestimento più scenografico e suggestivo. A cura dell’agenzia Wilmotte & Associés, con la collaborazione del graphic designer Italo Lupi e dell’agenzia BETC per la segnaletica e per la grafica, presenta, infatti, gli oggetti esposti in modo che essi paiono giganteggiare, pur nelle loro ridotte dimensioni, negli spazi “regali" del MAD, dalle alte volte. C’è poi da dire che, nonostante la mano decisamente francese di Jean-Michel Wilmotte, a modulare il passo degli affascinati visitatori è una musicalità tutta italiana, oserei dire di intonazione rossiniana, ed è secondo il suo ritmo che si vanno scoprendo, di contrappunto cromatico, in contrappunto formale, le creazioni pontiane, realizzate nei molteplici ambiti in cui il maestro si è cimentato nel corso della sua lunga carriera artistica. Dalla Superleggera per Cassina, ai mobili della serie Apta; dalle scrivanie, alle pareti attrezzate; dalle ceramiche per Richard Ginori della manifattura di Doccia, ai vetri per Paolo Venini e Giacomo Cappellin, a quelli per Flavio Poli; dai bozzetti per costumi teatrali e per allestimenti scenici, agli argenti per Christofle e per Lino Sabattini; dai tavolini con gli smalti di Paolo De Poli, agli animaletti in ferro smaltato e molto altro ancora: la mostra parigina presenta al pubblico più di 500 pezzi tra arredi, argenti, ceramiche, lampade, vetri, alcuni dei quali esposti per la prima volta; e poi plastici e fotografie delle sue architetture e dei suoi arredamenti navali e domestici e di quelli degli ambienti di lavoro, nonché pagine e copertine tratte dalle sue riviste, oltre a foto personali, a video e a numerose lettere della sua corrispondenza privata con amici artisti, committenti e produttori dei suoi pezzi. 

Numerosi sono inoltre i mobili originali prestati al MAD dal Gruppo Molteni e provenienti dalla collezione del museo omonimo, mentre a fare da entrée alla mostra è la ricostruzione della trama della vela della Concattedrale di Taranto, ricostruita da Wilmotte in una scala molto vicina al vero.

Il catalogo, a firma di Sophie Bouilhet-Dumas, Dominique Forest e Salvatore Licitra, consta di ben 320 pagine, con più di 300 illustrazioni. Nella versione francese è edito dallo stesso MAD, mentre in quella inglese da Silvana Editoriale (€ 55) che, pur essendo una casa editrice italiana, non ha contemplato alcuna versione nella propria lingua.

 

A Parigi, con grandeur, ora. 

A Roma, in autunno. 

E a Milano, che è la sua città?

A Milano nessun tributo a Gio Ponti in occasione del quarantesimo anniversario della sua morte. 

Che si attenda il centenario?

Concludo questo piccolo omaggio a uno dei più grandi architetti del novecento con una parte della sua lunga dichiarazione d’amore all’architettura:

 

[…] Amate l'architettura antica e moderna: esse han composto assieme quel teatro che non chiude mai, gigantesco, patetico e leggendario, nel quale noi ci moviamo, personaggi-spettatori vivi e naturali in una scena «al vero», inventata ma vera: dove si avvicendano giorno e notte, sole e luna, sereno e nuvole, vento e pioggia, tempesta e neve: dove ci sono vita e morte, splendore e miseria, bontà e delitto, pace e guerra, creazione e distruzione, saggezza e follia, gioventù e vecchiaia: l'architettura crea lo scenario della Storia, al vero, parla tutti i linguaggi, amate l'architettura antica e moderna; esse han creato attorno a noi, nello scenario che hanno composto, la simultaneità delle epoche: ci han creato Venezia e New York […]

(Gio Ponti, Amate l’Architettura, Società editrice Vitali e Ghianda, Genova, 1957, ristampato da Rizzoli, 2008, € 30)

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Elle est retrouvée. Quoi ? – L'Eternité
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Fukushima mon amour

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L’arte nell’era post-nucleare

Pika!

 

L’11 marzo 2011, sulla costa est del Giappone, si è verificato un triplo incidente, nell’ordine: terremoto del Tōhoku di magnitudo 9, tsunami con onde alte oltre 10 metri e catastrofe della centrale nucleare di Fukushima Daiichi. 15.703 vittime accertate, 5314 feriti, 4647 dispersi. Nel giorno in cui ricorre l’ottavo anniversario, in un Paese che, secondo il discorso pubblico dominate, è tutto proiettato all’organizzazione delle Olimpiadi del 2020, vale la pena interrogarsi sul suo impatto sull’arte.

Nei giorni che seguono l’11 marzo gli artisti giapponesi sono sotto choc, come il resto della popolazione: l’arte è incapace di affrontare un trauma di queste proporzioni. Alcune voci scuotono da subito le coscienze: restare con le mani in mano è un nonsense, come sostiene in un messaggio video accorato Ellie, leader del collettivo giapponese Chim↑Pom. 

Fondato nel 2005, è composto da sei membri poco più che ventenni (Ellie, Ryūta Ushiro, Yasutaka Hayashi, Masataka Okada, Toshinori Mizuno, Motomu Inaoka) che bazzicano la Bigakkō, una scuola d’arte anti-accademica di Tokyo. Erede di una tradizione dada e situazionista, segnato da un forte impegno sociale e da un’estetica caustica che ha valso ai suoi membri l’appellativo di “moralisti nichilisti” (Alan Gleason), Chim↑Pom si distingue da subito nel panorama dell’arte giapponese contemporanea. In Black of Death (2007) un corvo impagliato è trasportato per le strade della capitale su una motocicletta o una macchina, assieme a un megafono che diffonde il suono del suo gracchiare, attirando presto stormi di corvi al suo seguito. Quando per la prima volta ho visto il video alla biennale di Lione nel 2017 (Mondes flottants), ho trovato la scena irresistibile; una domanda tuttavia s’insinuava: che siano corvi del malaugurio, immagini della minaccia nucleare?

 

Chim↑Pom, Pika.


La questione del nucleare fa capolino nel lavoro di Chim↑Pom già nel 2008 con Making the Sky of Hiroshima ‘PIKA!’. Sui cieli di Hiroshima, precisamente sopra l’Atomic Bomb Dome, gli artisti fanno scrivere la parola onomatopeica “PIKA”, che sta per il lampo della bomba atomica. Due caratteri tracciati in modo approssimativo, cancellati man mano dal vento. Le voci delle vittime, c’era da aspettarselo, si levano presto contro questo gesto incomprensibile e irrispettoso, inconsapevoli delle intenzioni artistiche, ovvero mostrare l’ambivalente volontà di ricordare e, assieme, di dimenticare l’evento traumatico. Segue la cancellazione della mostra di Chim↑Pom prevista all’Hiroshima City Museum of Contemporary Art. Il collettivo non si limita ad incassare l’insuccesso causato dalla loro palese leggerezza e instaura un dialogo fruttuoso con diverse associazioni di sopravvissuti, che li rende più sensibili al modo di affrontare un tema così complesso. Ne faranno tesoro per un futuro prossimo.

 

In tempo reale

 

Tre anni dopo è il momento di Fukushima e Chim↑Pom è sul piede di guerra. Pochi giorni dopo l’11 marzo compiono un’azione eclatante alla stazione metropolitana Shibuya di Tokyo, una delle più frequentate dai pendolari. Nella hall principale troneggia il murale Myth of Tomorrow di Taro Okamoto che commemora la tragedia nucleare. Ispirandosi allo stile del pittore, Chim↑Pom realizza un pannello aggiuntivo con i resti ancora fumanti delle centrali nucleari di Fukushima. Installato clandestinamente verso le dieci di sera, ignorato dai primi passanti, twittato e diffuso profusamente sui social media in meno di due ore, questo supplemento è rimosso il giorno dopo dalla polizia in quanto atto vandalico. Siamo alle solite, ma questa volta Chim↑Pom non demorde.

Nei giorni che seguono l’11 marzo i membri del collettivo sono abbracciati e raccolti a cerchio con altre persone; sullo sfondo s’intravede una barca capovolta (KI-AI 100). Con impeto guerriero, gridano slogan a caso (“Compra spinaci!”) assieme ad altri legati al nucleare: “Lunga vita ai disastri nucleari!”. Gli altri partecipanti sono abitanti di Soma, toccata dallo tsunami, e aiutati dal collettivo a risistemare, per quanto possibile, i loro quartieri distrutti.

 

Taro Okamoto, Myth of tomorrow.


Un mese esatto dopo il disastro di Fukushima, l’11 aprile 2011, è il momento di Real Times, primo intervento nella Exclusion Zone, zona rossa di 20 km, radioattiva, disabitata e inaccessibile a ogni presenza umana, e che ha portato al trasferimento di 150.000 residenti. Viene chiamata anche, con un eufemismo, “la zona in cui è difficile tornare”. Nel video scorgiamo due uomini coperti dalla testa ai piedi da tute protettive che – come veri e propri Stalker – penetrano clandestinamente nella Zona, attraversando strade deserte piene di crepe causate dal terremoto. Raggiungono una terrazza panoramica prospiciente il mare, utilizzata dalla popolazione locale per ammirare la prima alba dell’anno nuovo. Diverso lo scenario che si spalanca sotto ai loro e ai nostri occhi: è una giornata ventosa come dimostra l’audio del video, saturato dal rumore delle loro tute; sullo sfondo svetta non la cima di una montagna sacra ma il reattore 1 della centrale nucleare ancora fumante. I due uomini srotolano una bandiera bianca su cui disegnano un sole rosso con una bomboletta spray. La bandiera del Giappone? L’illusione evapora in un battibaleno: si tratta in realtà del famigerato trifoglio che indica il pericolo radioattivo. La bandiera sventola, immagine di quello che noi, guardando il video, possiamo solo immaginare, ovvero l’atmosfera tossica cui si espongono in quel momento gli artisti, in quel Real Times captato dalla telecamera. 

Per esteso, il titolo si riferisce al modo in cui i media stanno riportando il disastro, tra annunci allarmanti, versioni contraddittorie, notizie tecniche incomprensibili, proclami politici ufficiali, silenzi delle autorità sul futuro del nucleare. Seguendo Miwako Tezuka, il titolo contiene anche un’assonanza ai Modern Times di Charlie Chaplin nonché al Japan Times e al mondo dell’informazione.

Un’azione incisiva quanto l’anonima Finger Pointing Worker (2012), diventata virale grazie a un video dove un uomo si riprende davanti alla telecamera a circuito chiuso dell’impianto nucleare, puntando il dito in direzione dell’obiettivo per un quarto d’ora. Immagine icastica, silente e potente accusa, che preferisco alla celebre serie di Ai Weiwei con il dito medio puntato contro monumenti in giro per il mondo, studi prospettici, come li chiama, di cui mi sfugge l’interesse.

 

Curatorial team di don't follow the wind.


Non seguite il vento

 

Presto Chim↑Pom entra in contatto con gli ex-residenti di alcune città come Futaba e Namie vicino Fukushima, costruendo uno spirito collettivo e una comunità d’intenti. Così, agli inizi del 2013, nasce quello che resta il loro progetto più ambizioso: Don’t Follow the Wind. Il titolo si riferisce a quei giorni terribili che seguono l’esplosione della centrale nucleare, quando le autorità invitano la popolazione ad abbandonare la loro terra dirigendosi verso nord. Un abitante di Fukushima con l’hobby della pesca e la capacità di “leggere” i venti, si accorge che non solo il vento ma anche le radiazioni soffiano verso nord. Decide così di trasgredire le istruzioni dirigendosi nella direzione opposta, salvando di fatto la sua famiglia.

Non seguite il vento è un ammonimento che viene dall’esperienza popolare e non dalla scienza, un’istruzione anonima per sopravvivere in un’era post-atomica. Un vento invisibile non diversamente da quell’atmosfera che, nel corso della storia dell’arte, i pittori si sono sforzati di rappresentare, servendosi ad esempio delle nuvole. Per esteso, il titolo si riferisce a quel venticello che porta voci da altrove, “rumors” che contraddicono la versione ufficiale del disastro trasmessa dalla stampa e dalla televisione, che minimizzava i rischi altissimi cui è esposta la popolazione.

 

Chim↑Pom, Real Times.


Visitando la Zona, Chim↑Pom passa attraverso spazi evacuati in poche ore in fretta e furia, appartamenti abbandonati nell’emergenza, senza il tempo di raccogliere l’essenziale, di scegliere cosa portare con sé e cosa lasciare lì probabilmente per sempre. Il paesaggio post-nucleare che si dispiega al loro sguardo è lontano da quello catastrofico generato dal terremoto e dallo tsunami. Dei tre disastri, quello nucleare è il più insidioso, quello dalle conseguenze più durature, ma anche il meno visibile e pertanto il meno comprensibile. La difficoltà di rappresentarlo è agli antipodi delle immagini del disastro che saturano i media e la nostra immaginazione. E se le città possono essere ricostruite, nessuno sa come sbarazzarsi delle radiazioni.

Chim↑Pom è interessato a lavorare non sullo scenario devastante del terremoto o dello tsunami, ma sugli effetti fisici e psicologici delle radiazioni. Raccogliendo la sfida, Chim↑Pom fa, di questa invisibilità stessa, la sua materia prima, senza trasformarla in altro da sé. Non sfuggirà lo scarto decisivo nella storia della rappresentazione del nucleare: durante il modernismo gli artisti – da Baj a Warhol – erano attirati dalle immagini più iconiche delle esplosioni nucleari, dal funghetto che ben restituiva la minaccia che incombeva sulla società durante la Guerra fredda. Oggi, sotto l’indubbia influenza dell’arte concettuale e della smaterializzazione dell’oggetto artistico, gli artisti rivolgono l’attenzione alle radiazioni, con un lavoro più sottile sull’invisibilità.

 

Magistrale è, al riguardo, il sito internet di Don’t Follow the Wind: una semplice pagina bianca, senza menù scorrevoli, senza informazioni né credits riportati in basso, senza la possibilità di navigarci con il cursore cercando il punto su cui cliccare per accedere ai contenuti. Si può ascoltare giusto una presentazione orale di un paio di minuti in cui artisti e curatori, in inglese e in giapponese, espongono a grandi linee il progetto Don’t Follow the Wind. Voci senza corpo, fuori campo – come quel vento che il titolo c’incita a non seguire?

Chim↑Pom finisce per allestire una mostra d’arte contemporanea nella Zona, una mostra sui generis che trasgredisce il protocollo e il dispositivo stesso dell’esposizione. Coinvolge sei artisti asiatici – Ai Weiwei, Nobuaki Takekawa, Kota Takeuchi, Meiro Koizumi, Aiko Miyanaga –, sei artisti internazionali – Trevor Paglen, Taryn Simon, Grand Guignol Mirai, Nikolaus Hirsch e Jorge Otero-Pailos, Eva e Franco Mattes, Ahmet Ögut – e quattro curatori internazionali: Eva e Franco Mattes (New York), Kenji Kubota (Tokyo) e Jason Waite (Londra). Con l’aiuto di alcuni ex-residenti, seleziona quattro spazi all’interno della Zona: un appartamento, un magazzino, una fattoria e uno spazio ricreativo. Dopo tre anni di lavoro, le opere sono definitivamente installate. È l’11 marzo 2015, il quarto anniversario della catastrofe. 

 

Chim↑Pom, Real Times.


Non-Visitor Center

 

Se solo gli artisti di Chim↑Pom conoscono il percorso e le opere di Don’t follow the wind, ignoto persino agli artisti che vi prendono parte, sconosciuto invece all’umanità intera è il momento in cui la mostra aprirà finalmente al pubblico. Che, per inciso, coinciderà col giorno in cui gli abitanti potranno riprendere possesso delle loro abitazioni. Il vernissage è legato a misurazioni scientifiche e altre varianti e variabili che incrociano dati sui rischi dell’esposizione alle radiazioni, calcoli complessi e affatto oggettivi sulla pericolosità dell’aria per gli esseri umani. Se è impossibile azzardare previsioni, non è inverosimile pensare a un lasso di tempo di diverse generazioni – tra 3 o 30.000 anni butta lì l’artista Trevor Paglen. 

Il destino della mostra è legato a un futuro remoto che non vivremo, se seguiamo la terribile premonizione del sociologo Ulrich Beck secondo cui le vittime di Fukushima non sono ancora nate. Un paradosso temporale che mostra quanto siamo lontani dall’aver intimamente compreso un evento quale Fukushima e le sue conseguenze.

 

In assenza di foto disponibili dell’installazione nella Zona, Chim↑Pom ha organizzato una mostra al Watari Museum of Contemporary Art di Tokyo (19 settembre-3 novembre 2015), Non-Visitor Center. Le opere – simili a quelle esposte a Fukushima – sono visibili dietro delle vetrine inaccessibili e al di là di una piattaforma. La scenografia è così utilizzata per creare fisicamente quella barriera della Zona segnata dalle radiazioni invisibili. Oltre a riferirsi all’inaccessibilità del sito, Non-Visitor Center prende di mira la tendenza museografica, predominante in ambito contemporaneo, della mediazione culturale, così come quegli spazi di promozione nucleare installati vicino le centrali nipponiche oramai smantellati.

Non avendo visitato la mostra, non sono in grado di giudicare l’efficacia del Non-Visitor Center. Di certo, il collettivo Chim↑Pom si è qui trovato ad affrontare una sfida rischiosa: come allestire un’esposizione su un’esposizione (Don’t Follow the Wind) senza svelarne il contenuto e senza svilirne la carica concettuale? Non si rischia di tradire un progetto invisibile e che ha vocazione a restare tale?

 

Finger pointing worker.


Nessuna resilienza

 

Chim↑Pom ci permette di riflettere sull’esperienza estetica nel mondo post-nucleare e, più concretamente, sull’arte dopo l’11 marzo (come dovremmo chiamare Fukushima, allo stesso modo in cui diciamo 9/11 e non Manhattan). Sull’arco di una delle maggiori arterie di Futaba – sito della centrale nucleare della TEPCO (Tokyo Electric Power Company) oggi abbandonato – troneggia ancora il seguente motto: “Potere nucleare. Energia per un futuro radioso”. Sono molti a crederlo nel mondo, persino in Giappone. Che sia l’effetto di quella che, nella gestione del rischio, chiamiamo resilienza, la capacità di una comunità di tornare a uno stato iniziale dopo una perturbazione che ne ha alterato l’equilibrio? Di una resilienza che sembra manifestarsi nei ciliegi in fiore nella Zona, immagine di una normalità riconquistata o di una natura indifferente ai disastri creati dall’uomo? Chim↑Pom non la pensa così, e io con loro.

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11 marzo 2011
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Julian Rosefeldt. Manifesto

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Con certezza, la chiave di lettura dell’intero corpus artistico di Julian Rosefeldt è “mantenere la storia presente”, seguendo pedissequamente quanto sostiene Andrej Tarkovskij nella citazione “senza la memoria, una persona diventa prigioniera di un’esistenza illusoria, cadendo fuori dal tempo, non riesce a trovare il suo collegamento con il mondo esterno”. Come un filo rosso che collega e percorre ogni sua opera, sin dai primi lavori affiora l’esigenza di portare alla luce quelle tracce storiche che attraversano l’attuale quotidiano, perché sono “il fondamento di ciò che al momento siamo”. Quelle tracce, che già nella prima opera realizzata nel corso dei suoi studi di architettura, ha ricercato e rinvenuto nella sua città natale. È, infatti, negli edifici di Monaco di Baviera che individua quanto è rimasto del Partito Nazionalsocialista di Adolf Hitler. Nonostante molti di essi non mostrino più tale passato, numerosi palazzi furono appositamente costruiti e, altrettanti, furono requisiti agli ebrei, per impiantare il quartier generale nazista per il quale lavoravano circa seimila persone, dislocati in sessantotto edifici. Seppure ad alcuni è stata cambiata la destinazione d’uso e sono tuttora utilizzati – in uno ad esempio è stato allestito un museo, in un altro un Conservatorio –, non mostrano nessun segno del passato e, di conseguenza, non tutti ne conoscono la loro storia. Da qui è nata l’esigenza di Roselfeldt di perlustrare questi ambienti, scoprendo, così, stanze, tunnel, corridoi, ormai in disuso o impiegati come magazzini di materiali, che l’artista ha mappato attraverso una serie fotografica, con la quale ha strutturato il suo primo lavoro artistico. È nato, allora, il progetto, più ampio e articolato, di Archive of Archives (1995), con cui ha documentato i luoghi di raccolta, conservazione e archiviazione della città. Tuttavia, la fascinazione subita dal cinema, o meglio “dalle immagini in movimento”, lo dirige, ben presto, anche verso i video, realizzando delle elaborate installazioni multicanali e multischermo. Eppure, anche in questa pratica artistica, la formazione di architetto prepotentemente amministra ogni lavoro.

 

Julian Rosefeldt, Manifesto, 2015 © Julian Rosefeldt and VG Bild-Kunst, Bonn 2018.


Perché le installazioni, naturalmente, si calano in uno spazio che ne determina la distribuzione, le dimensioni, la sincronizzazione del suono, anzi, “l’architettura della musica”, perché deve essere considerato e armonizzato ciò che avviene su ciascun schermo. Come magistralmente esegue in Manifesto (2015), videoinstallazione multischermo attualmente allestita nel Palazzo delle Esposizioni di Roma, fino al 22 aprile 2019. Inoltre, fino al 24 marzo, nella Fondazione Memmo, sempre nella capitale (dove attualmente Julian Rosefeldt è borsista presso l’Accademia Tedesca di Villa Massimo), un altro suo lavoro è esposto nella collettiva Conversation piece / part V – non v’è più bellezza, se non nella lotta (Marinella Senatore, Rebecca Digne, Invernnomuto, Julian Rosefeldt). 

 

È bene ricordare che, dei tredici video che la compongono, è stata realizzata una versione cinematografica presentata al Sundance Festival nel gennaio 2017 e circolata, per un numero ristrettissimo di giorni, anche nelle sale italiane. Trasposizione che, occorre dirlo, non rende affatto giustizia alla complessità dell’impresa, pressoché titanica, di Julian Roselfeldt. Rispondendo, infatti, a quelli che i ritmi della narrazione filmica impongono, il montaggio ha quasi svilito la ricercatezza e la raffinata articolazione dell’installazione, sbiadendo del tutto l’acme dell’intero lavoro fissato verso l’ottavo minuto della proiezione. Trasferimento che ha creato un “prodotto” che, in qualche misura, ha messo in crisi anche le categorie del cinema stesso, se degli articoli del settore lo hanno, difatti, definito “genere: drammatico, sperimentale”. L’unico punto di forte contatto tra la versione cinematografica e la videoinstallazione, distinguibile con incontestabile forza in entrambi, è la potenza dell’incommensurabile Cate Blanchett. Nonostante l’artista tedesco sia ben conscio del rischio che la presenza della (giustamente) vincitrice, per ben due volte, del premio Oscar possa fagocitare i video, è entusiasta della partecipazione perché consente di raggiungere, senz’altro, pubblici diversi e nuovi e porli in contatto con quest’universo, attraverso scritti di cui probabilmente non sono al corrente. 

 

Julian Rosefeldt, Manifesto, 2015 © Julian Rosefeldt and VG Bild-Kunst, Bonn 2018.


Manifesto, però, non nasce improvvisamente. Le premesse facilmente si rintracciano in Global Soap (2000/2001), The Soundmaker (2004) e American Night (2009). 

Traendo ispirazione dall’atlante di immagini Mnemosyne di Aby Warburg, in Global Soap Rosefeldt, invece, realizza una colossale collezione di immagini, tratte dalla cultura più emblematicamente pop: la soap opera. Chiedendo la collaborazione dei Goethe Institutes sparsi per il globo, si è fatto spedire le soap più seguite nei diversi paesi. Attraverso una comparazione fra loro e, seppur geograficamente distanti, ha rintracciato gesti, espressioni, posture, pressoché sovrapponibili gli uni con gli altri, raggruppati in circa 300 “situazioni archetipe”, che, non di meno, hanno creato una specifica estetica e creato delle “nuove icone”. 

Parte della Trilogy of Failure (2004/2005), The Soundmakerè un’installazione a tre canali che illustra altrettante diverse ambientazioni, con inquadrature aeree e frontali, dove sono descritti alcuni rituali quotidiani personali e il loro reiterarsi, nonostante i risultati negativi raggiunti. L’azione principale, svolta nello schermo centrale attraverso gesti minimi e piccoli oggetti, è completata dai due schermi laterali che mostrano la procedura della creazione del suono. Svelando i meccanismi del cinema, l’artista invita a riflettere sui meccanismi della vita stessa. 

 

Julian Rosefeldt, Manifesto, 2015 © Julian Rosefeldt and VG Bild-Kunst, Bonn 2018.


È invece una riflessione sul cinema occidentale American Night, un’installazione a cinque canali, che analizza il “mito della frontiera”, con chiare allusioni all’attuale politica estera degli Stati Uniti. Girato nel deserto di Tabernas (Almeria, Spagna), lo stesso dove Sergio Leone girò la sua “trilogia del dollaro” (Per un pugno di dollari, 1964; Per qualche dollaro in più, 1965; Il buono, il brutto, il cattivo, 1966), con una esplicita citazione di La Nuit Américaine di François Truffaut (1973), attraverso i motivi principali del cinema western, il saloon, la strada principale nel deserto, il bivacco notturno intorno al fuoco, la donna attesa, nuovamente Rosefeldt svela gli artifici cinematografici, rendendo palesi gli sfondi del set mentre i cinque cowboys intorno al fuoco, citano frasi di altri film, testi di canzoni, dichiarazioni di politici. 

 

Julian Rosefeldt, Manifesto, 2015 © Julian Rosefeldt and VG Bild-Kunst, Bonn 2018.


Presentata per la prima volta all’ACMI – Australian Centre for the Moving Image di Melbourne nel 2015, la videoinstallazione Manifesto ha radicalmente annullato l’architettura del piano nobile del Palazzo delle Esposizioni, cancellando la percezione della rotonda centrale, lasciando le quattro colonne centrali, non visibili però per l’intera altezza. La bellezza e la poesia di questo lavoro sono riposte nell’abilità dell’attrice, che riesce a interpretare tredici distinti personaggi, con altrettante inflessioni linguistiche dissimili, calati nello stesso numero di differenti realtà, ricche di dettagli e puntuali frammenti; ma sono riposte anche, e soprattutto, nella ricchezza delle immagini e nell’accurata ricerca dei testi compiuta dall’artista, mediante i quali ha ripercorso, e ricostruito, i movimenti artistici che hanno attraversato il XX secolo, con incursioni anche sul Cinema e sull’Architettura. Egli ha, così, collazionato cinquanta scritti, i più grandi e importanti proclami teorici, politici, e rivoluzionari di artisti, compositori, architetti, cineasti, del secolo scorso. 

Girato a Berlino in appena undici giorni nel 2014, l’artista e il suo team decisero di produrre una media di dodici minuti al giorno. Con una durata di 130’, consiste in tredici segmenti: dodici di 10:30’ (tre dei quali proiettati su schermo bifacciale), ove sono compressi passaggi di diversi scritti di diversi autori, più uno di 4’ (Prologo). 

 

Quasi in un gioco di bilanciamenti, o riscatto, come la maggioranza dei testi sono stilati da uomini, così tutti i personaggi dei video sono donne, ad eccezione del Senzatetto. Sull’immagine di una miccia che lentamente brucia, la voce fuori campo dell’attrice dichiara “Tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria”, tratto dal primo manifesto della storia, ovvero, dal Manifesto del Partito comunista di Karl Marx e Friedrich Engels, del 1848: è il Prologo, l’inizio, la miccia, di tutto quello che in seguito è accaduto nel Novecento. Non essendo stato tracciato un percorso rigido, lo spettatore può liberamente costruirsi la sua sequenza, decidendo, di volta in volta, davanti a quale personaggio sedersi e quale situazione ammirare. Ad affascinare, sono le ambientazioni, le architetture, elevate a co-protagoniste, e i personaggi scelti per ogni contesto, cui si accompagnano riprese dall’alto, frontali o di spalle. 

 

Julian Rosefeldt, Manifesto, 2015 © Julian Rosefeldt and VG Bild-Kunst, Bonn 2018.


Lungo elencare tutti i cinquanta testi, spalmati per i tredici filmati, direttamente interpretati o con voice-over. Così, per sommi capi, il Senzacasa, con il suo carrello per la spesa piena di fagotti, in compagnia di un cane, vaga tra le macerie di una fabbrica chimica abbandonata, dove incontra anche una scimmia, sta al Situazionismo. Dopo essersi inerpicato su una scala in ferro, con un megafono urla al mondo, incita a una “rivoluzione del cambiamento” (Guy Debord, Manifesto dell’Internazionale Situazionista, 1960). La Ragazza punk tatuata sta allo Stridentismo/Creazionismo perché “non avete fatto i conti con la mia follia” (Manuel Maples Arce, Pillola stridentista, 1921). La Broker seduta alla scrivania di una grande sala zeppa di postazioni di lavoro con schermi di computer, sta al Futurismo con “noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro” (Filippo Tommaso Marinetti, Fondazione e Manifesto del Futurismo, 1909). Per l’Amministratrice delegataVorticismo/Cavaliere Azzurro/Espressionismo Astratto, in un grande salone gremito di gente durante un ricevimento, in una casa su un lago, “esiste una sola verità, noi, e tutto è permesso” (Wyndham Lewis, Manifesto, 1914). L’Oratrice al funeraleDadaismo declama “niente pittori, niente letterati, niente musicisti, niente scrittori, niente religione …” (Louis Aragon, Manifesto Dada, 1920). La CoreografaFluxus/Merz/Happening urla “pretendo il principio di uguali diritti per tutti i materiali” (Kurt Schwitters, Il teatro di Merz, 1919).

 

Julian Rosefeldt, Manifesto, 2015 © Julian Rosefeldt and VG Bild-Kunst, Bonn 2018.


 L’Operaia in un inceneritore di rifiutiArchitettura, che dichiara “io amo gli elementi che sono ibridi piuttosto che puri” (Robert Venturi, Una architettura non semplice: un manifesto gentile, 1966). La BurattinaiaSurrealismo/Spazialismo constata che “recentemente si è finalmente portata alla luce una parte del nostro mondo mentale: il sogno” (André Breton, Manifesto del Surrealismo, 1924). “Sono per l’arte che ti metti e ti togli, come i pantaloni; che si buca come i calzini; che si mangia come una fetta di torta” (Claes Oldenburg, Sono per un’arte …, 1961) afferma la Madre tradizionalista con la famigliaPop Art durante la preghiera di ringraziamento prima del pasto. Perché “niente è originale” (Jim Jarmusch, Le regole d’oro per fare cinema, 2002), lo scrive sulla lavagna e lo ribadisce a voce l’InsegnanteCinema della scuola primaria. “Con questo primo esperimento è stato posto nella coscienza il fondamento dell’imitazione delle forme della natura” (Kazimir Malevič, Manifesto del Suprematismo, 1916) è dichiarato, mentre la ScienziataSuprematismo/Costruttivismo, con una tuta candida e uno stemma che riproduce la scala a chiocciola, nonché il vortice dei pensieri (chiara citazione di Vertigo di Alfred Hitchock), appena percorsa, osserva con diffidenza e curiosità una forma parallelepipeda nera sospesa in una stanza da esperimento. Mentre la Blanchett arriva a sdoppiarsi in Telecronista e reporterArte Concettuale/Minimalismo in cui la telecronista chiede “Cate, come andare avanti se l’azione è guardare l’azione”, e la reporter risponde “Ebbene, Cate, forse tutto questo potrebbe essere affrontato se l’uomo non avesse davanti un buco nero” (Elaine Sturtevant, Strutture mentali mutevoli, 1999). Mentre l’Epilogo, sulle immagini a ralenti di alunni che giocano nel cortile di una scuola, è affidato completamente alle frasi di Labbeus Woods (Manifesto, 1993) che chiude affermando “Domani inizieremo insieme la costruzione di una città”.

 

Julian Rosefeldt, Manifesto, 2015 © Julian Rosefeldt and VG Bild-Kunst, Bonn 2018.


Come si è detto, ciò che maggiormente affascina, è il concerto di voci che, circa all’ottavo minuto, si sincronizzano, col volto dell’attrice che fissa in camera, parlando, con una voce sommessa e monotona, direttamente a noi. Perciò, una riflessione sul Manifesto di allora e sulla situazione attuale, sugli slanci di allora e sull’invito all’azione oggi. 

 

Julian Rosefeldt. Manifesto, Roma, Palazzo delle Esposizioni. Fino al 22 aprile 2019.

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Palazzo delle Esposizioni, Roma
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L’Appennino di Gino Covili

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Comincia così per me. Con un cartone 25 x 30 intitolato Meditazione, una piccola tecnica mista del 1989. «I quadri girano, girano, ma finiscono quasi sempre dalla persona giusta». Vladimiro lo dice con il sorriso di chi l’ha visto accadere molte volte. Mi guarda con una concentrazione compressa, azzurra. Due ore prima non lo conoscevo, stavo salendo sui primi corrugamenti d’Appennino. Via Giardini. I tornanti sopra Maranello. I boschi scarichi, i casali sgranati sui declivi, la neve nei campi come una magra velatura sul verde cadmio dell’erba. Sopra le ginocchia, nella cartella di cuoio, ho un piccolo dipinto di Gino Covili, una testa di profilo, lo sguardo perso nel vuoto, meno ferino di quelli soliti. Quadro nel quadro, c’è anche un angolo di finestra su un paesaggio innevato, un albero, una strada, due casette di macigno, i dorsi irsuti di un pezzetto di montagna. Solo uno scampolo, che pulsa e si dilata in altri quadri del pittore, come in Paesaggio invernale del 1988, che vedrò due ore dopo, e che a sua volta sembra citare le terre che le curve della sinuosa strada statale scompongono e ricompongono sotto i miei occhi di nativo delle pianure. Alcuni l’hanno definito naïf, da quando Zavattini l’ha riconosciuto, o forse per l’accostamento fin troppo spontaneo con Ligabue. Non sono servite le lucide pagine che Mario De Micheli ha scritto su di lui, non è nemmeno servito che Vittorio Storaro si sia ispirato ai suoi quadri per la fotografia di Novecento di Bertolucci. No. La pittura dell’autodidatta Covili non è naïf, penso guardando fuori, o allora naïf significa saper cogliere l’essenza più vera dell’Appennino che conosco, proprio questo qui, che vedo dal finestrino, con quegli alberi fatti così, con quelle case laggiù, quel campo innevato, quel viottolo.

 

 

Pomeriggio. Via Isonzo, Pavullo nel Frignano. Un cane mi abbaia contro. Poi il cancello si apre e Vladimiro Covili mi accoglie, mi fa strada, mi fa togliere la giacca. Non me ne accorgo, quasi, non c’è tempo, perché nell’atrio mi salta addosso Lotta del 1971. Ed è come cadere in una torbiera di colori a olio. I muscoli della torbiera sono quelli di una battaglia tra animali. Dei lupi, un cinghiale, che ti risucchiano come melma: lo stivale resta lì, mentre il piede della vista rimbalza nudo fuori dal quadro. Le fotografie che riproducono i dipinti li tradiscono sempre, è un’ovvietà, ma uno scarto del genere non me lo ero immaginato. Dal vivo e da vicino l’acrilico e l’olio di Covili prendono una luce frontale, come se irradiasse da chi li guarda, ma il pastello venuto dopo a ritoccare è come se cercasse luce dai lati, con un effetto radente che provoca rilievo senza ingrassare la tela. Come l’acqua di una torbiera, appunto, in cui vedi il fondale ma anche i disegni di metano in superficie. Per me è puro stupore, mi sento rovesciato come un guanto, anche perché capisco di avere nella cartella di cuoio una particola di quel macrocosmo in espansione.

 

Mi spiego. La retorica connaturata a ogni parola che si confronta con la pittura può essere di due tipi, opposti come i versanti di un crinale. O salta di metafora in metafora, e allora amplifica l’immagine dipinta con immagini trovate molto lontano e troppo spesso a caso, oppure si muove un passo alla volta come fa la metonimia, che cerca di spiegare l’immagine a partire da una sua articolazione minore. Non voglio dire dettaglio, frammento, porzione. Ho in mente proprio gli snodi tra le ossa, o le giunture tra le masse geologiche. Covili è così. Posso pensare alla sua pittura solo attraverso il paesaggio, non tanto per le vedute che ha dipinto, ma perché per tutta la sua opera vale quello che aveva detto Rilke sui Greci: «Si sa ben poca cosa sulla pittura dell’antichità, ma non è azzardato supporre che essa rappresentasse gli uomini come i pittori di un’epoca più recente hanno visto il paesaggio». E ancora: «L’uomo non contava più di un albero, ma contava molto, perché l’albero contava molto. Non è forse qui il mistero e la grandezza di Rembrandt, che ha visto e dipinto uomini come paesaggi?». Dipingere uomini come paesaggi, come alberi. Giacometti diceva che la cosa più difficile da disegnare è l’albero, per questo consigliava di cominciare dal volto.

 

 

Ecco l’articolazione che mi interessa. Covili vorrei provare a capirlo proprio così, pensando più all’antropologia che alla critica dell’arte, e cioè pensando che se oggi l’idea di cosmo è la proposta annacquata di qualche fede malata di metafisica, sono esistiti momenti della storia umana in cui il cosmo era invece un luogo tangibile dove terra, uomo, animale e pianta non erano separati da confini netti. Questa specie di libera frontiera tra regno animale, vegetale e minerale, questa circolazione di materia e di energia che alcuni hanno chiamato animismo, è il nocciolo duro che mi sembra unire a sistema tutti i quadri e tutti i disegni di Gino Covili. Si può parlare di ancestralità, per la sua pittura, ma bisogna spiegare perché. Non basta il riferimento alla terra, al lavoro umano, all’eterna fatica della vita nei campi. Almeno non basta a me. Covili, molte, moltissime volte, arriva invece alla verità antropologica che mi è parso di vedere solo a Lascaux, o nelle cortecce dipinte dagli aborigeni australiani: figure circoscritte (animali, uomini, piante) ma che sono articolazioni strutturali di un intero macrocosmo, i crocevia di una mappa intuitiva del mondo.

 

 

Era possibile farlo anche prima, in via privata, ma dal 21 marzo 2019, a Pavullo, nell’Appennino modenese, è aperta la Casa Museo Covili. Vedere un centinaio di quadri tutti importanti raccolti in una grande casa tra i faggi trasmette la sensazione emotiva di entrare in un mondo compiuto. Ma l’emotività non basta e quello che si capisce visitando l’allestimento è la ragione profonda della pittura di Covili. Guardando dal vero e da vicino certe tele vastissime ho potuto adottare uno sguardo filologico, un po’ come ci ha insegnato Roberto Longhi in Piero della Francesca. Provate insomma a osservare Nella notte di luna piena del 2003. Noterete certi giochi di corrispondenze: le nocche della mano che stringono il bastone e i sassi della frana sotto la grotta a sinistra; oppure le pieghe geologiche nella parete di destra e le pieghe del cappotto contro le cosce; il riflesso di luna sul braccio con il bastone e lo stesso riflesso sul masso in primo piano; masso e braccio, poi, hanno lo stesso angolo rispetto al suolo, e quasi la stessa forma; o i peli del lupo e la neve sulle conifere. E potrei andare avanti, per questo e per tutti gli altri quadri. Il paesaggio, cioè, si fa corpo, il corpo paesaggio, la pietra diventa tessuto, il tessuto roccia, la nudità della terra si trasmette ai vestiti, i vestiti o i peli degli animali suggeriscono alla terra come coprirsi, le rocce e le case diroccate imitano i volti, i volti si mineralizzano in architetture pronte a franare. Tutta un’anatomia decostruita e reinventata per ogni livello della realtà.

 

 

Luce che va via. Faggi d’inverno alle finestre, come in un Klimt. Sono partito tre ore dopo, gli occhi della mente sovraccarichi di una specie di adrenalina dello sguardo. Vladimiro parlava del padre, amplificava quell’universo appenninico. Memorie edificanti, commozione, invettive a denti stretti, la fionda dei progetti in cantiere. Lo capisco. Come si può dormire quando si vive costantemente immersi nelle correnti di movimento di un continente dipinto? Sono partito abbacinato. Benedello, il Panaro, Fanano, poi su fino a Canevare. Il mattino dopo sono salito a Ospitale, in Val di Làmola, e a piedi sono andato più su. Ma non potevo lasciare in albergo il mio prezioso dipinto, così me lo sono tenuto a tracolla per tutta la camminata. Mi è piaciuta l’idea di portare a spasso in Appennino un quadro d’Appennino. I tornanti lasciavano slittare nell’occhio fisionomie montuose. Il sole andava e veniva sollevando o appiattendo neve. Lo Spigolino innevato premeva il suo profilo acquatico e tibetano contro un cielo poco più scuro. Un albero, una strada, due casette di macigno, i dorsi irsuti di un pezzetto di montagna. Ed era tutto un immenso Covili. Forse avevo guardato troppi quadri il giorno prima, e li vedevo in filigrana nei paesaggi reali, come flash sparati nella retina, come fosfeni. O forse l’occhio di Covili mi aveva insegnato qualcosa sull’Appennino che credevo di conoscere. Qualcosa che Tim Ingold, parlando dell’animismo, definisce così: «una rete complessa di interdipendenza reciproca, basata sul dare e ricevere sostanza, cura e forza vitale, che si propaga nel cosmo, unendo umani, animali e ogni altra forma di vita». Non un quadro, quindi, ma il mondo.

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Birgit Jürgenssen. Io sono

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Ci piace immaginare gli artisti come portatori di uno sguardo capace di anticipare i tempi, uno sguardo oracolare. Più concretamente – non ce ne voglia chi coltiva l’idea di un artista “abitato”, impegnato in una conversazione quotidiana tra mondo immanente e regno dello spirito – è la propensione analitica, l’abilità nel setacciare il passato e cogliere quello che giace nelle pieghe del contemporaneo a donare la capacità di prefigurare ciò che verrà dopo. Sia che si tratti di intercettare fenomeni infrasottili, sia che si tratti di abbracciare macro movimenti saldandoli in una visione d’insieme risolutiva, siamo di fronte a un vedere aumentato che ci disvela qualcosa che è fuori dal campo visivo, non a fuoco, qualcosa di dimenticato od occultato.

È il caso di Birgit Jürgenssen, le cui opere sono presentate nella prima retrospettiva italiana presso gli spazi della Gamec di Bergamo, opere che ci parlano dell’oggi da un passato prossimo. La mostra Io sono, aperta dal 7 marzo al 19 maggio 2019, a cura di Natasha Burger e Nicole Fritz, progetto pensato per la Kunsthalle Tübingen e che approderà al Louisiana Museum of Modern Art di Humlebæk in Danimarca, raccoglie opere realizzate in quarant’anni di attività da un’artista forse poco nota al grande pubblico ma la cui ricerca, per coerenza e densità, merita di essere riscoperta. A Bergamo sono visibili oltre centocinquanta tra disegni, fotografie, collage, sculture, cianotipie, guache e rayogrammi, che compongono un percorso espositivo suddiviso in otto ambienti, a cui è assegnato il compito di illustrare le tematiche cardine della ricerca dell’artista viennese scomparsa nel 2003.

 

Birgit Jürgenssen Ohne Titel / Senza titolo, 1972 Materiale fotografico inedito Cm 24 x 18 Estate Birgit Jürgenssen Courtesy Galerie Hubert Winter, Vienna © Estate Birgit Jürgenssen by SIAE 2019.


“L’ironia è umorismo e gioco serio. L’ironia è, inoltre, una strategia retorica che il femminismo socialista dovrebbe valorizzare di più.” 

 

Donna J. Haraway, Un manifesto per Cyborg: scienza, tecnologia e femminismo socialista nel tardo Ventesimo Secolo in Donna J. Haraway Manifesto Cyborg: donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Feltrinelli, Milano, 1991

 

Un’ironia a tratti malinconica, a tratti caustica è il filo che percorre tutta la produzione di questa figura anomala, che ammira Meret Oppenheim e Louise Bourgeois e rifugge dalle categorizzazioni, rimanendo defilata rispetto alla scena dell’arte del tempo. Pienamente attiva a partire dagli anni ‘70, Jürgenssen sceglie la strada del mimetismo per lasciare spazio a una molteplicità di linguaggi, rinunciando volutamente ad affermare un proprio marchio (“Sperimentare mi interessa molto di più che inventare un marchio di fabbrica”, dichiara nel 1988), per privilegiare un’indagine all’insegna della libertà formale e di una decisa autonomia stilistica.

Riluttante all’idea di utilizzare il femminismo come strumento utile alla carriera artistica (“Nei primi anni Settanta, in Austria, il movimento femminile prende piede. Alcune di noi si sono impegnate in questo fin dalla fase iniziale e parlavano del bisogno di presentare artiste nelle gallerie molto più frequentemente. Poi alcune di queste donne sono diventate proprietarie di gallerie loro stesse e tutto questo è stato dimenticato. [...] approvo il femminismo attivo, in parallelo, ma non il fatto di usarlo per fare carriera. È necessario giusto per produrre del lavoro convincente, e probabilmente le donne artiste hanno bisogno di reagire in modi più artistici.”) ma determinata ad affermarsi come donna artista, nel 1974 scrive alla casa editrice DuMont, invitandola a pubblicare un libro sul tema con la seguente motivazione: “Le donne sono molto spesso l’oggetto dell’arte, ma solo in rare occasioni gli viene permesso, e con riluttanza, di esprimersi in parole e immagini. Mi piacerebbe avere l’opportunità di confrontarmi con artiste e colleghe e non solo con uomini.” Il suo impegno si traduce in una produzione volta a declinare le tematiche del femminismo attraverso una sensibilità acuta e una visione affatto personale; attività che sfocia nella fondazione del gruppo DIE DAMEN, attivo dal 1988 al 1996, di cui fanno parte anche le artiste Ona B., Evelyne Egerer, Ingeborg Strobl a cui succede Lawrence Weiner. Per tutta la vita, Jürgenssen si dedica a una riflessione che scaturisce dalla sfera più intima dell’io, un nucleo di senso che rimane la matrice della sua pratica artistica, dimensione in cui si riflettono le contraddizioni della società dei consumi e i costrutti sociali che confliggono con la natura più autentica degli individui.

 

Birgit Jürgenssen Ohne Titel / Senza titolo, 1979 Fotografia in bianco e nero su carta baritata Cm 24 x 30 Estate Birgit Jürgenssen (ph23) Courtesy Galerie Hubert Winter, Vienna © Estate Birgit Jürgenssen by SIAE 2019.


Che l’ironia sia lo strumento prediletto per demolire i miti fondativi di una società consumistica e – utilizzando un termine del femminismo – androcentrica, lo si evince a partire dai disegni d’infanzia ispirati dall’opera di Pablo Picasso: ancora bambina, l’artista rimane affascinata dalla libertà creativa del maestro spagnolo, e a soli otto anni gioca con il proprio nome firmando le proprie creazioni come Bicasso Jürgenssen, inaugurando in maniera inconsapevole quella pratica di appropriazione che eserciterà per tutta la vita. Sono disegni arguti e poetici, dove il gusto dell’assurdo si combina a un rigore narrativo già evidente: giochi di parole, oggetti animati, situazioni parossistiche, chimere, compongono una quadreria precocemente influenzata da una attitudine surrealista, che si consoliderà nel corso degli anni fino a giungere a piena maturazione nei lavori raccolti sotto il cappello del “pensiero selvaggio”, ma che invero investirà integralmente la sua produzione. Sono qui già visibili i segni di uno spiccato interesse per la letteratura, il piacere del calembour e la dimensione ludolinguistica, che rivelano l’ascendenza medio-borghese della famiglia in cui si forma l’artista e la sua esposizione precoce agli stimoli creativi e alla storia dell’arte. Gli interessi letterari verranno affiancati negli anni della giovinezza e poi della maturità all’interesse per l’antropologia, che la condurrà a lavorare sui miti, sulla maschera e sull’idea del feticcio. Ma è dall’identità che Jürgenssen parte, un’identità ostinatamente indagata e contraddetta, come si vede nella sala 1, dove è esposto il ciclo di 10 giorni 100 foto. Dall’età di 14 anni, l’artista comincia a sperimentare su sé stessa con la fotografia, scegliendo poi di fare ampio uso della Polaroid e delle foto come medium da manipolare, iscrivendosi a pieno titolo nelle correnti concettuali del decennio ‘70 - ‘80. Nel ciclo di foto il viso viene nascosto e rimane esposto allo sguardo il corpo, vero oggetto del desiderio. In questo sottrarsi, cancellarsi, si ritrova la critica di Luce Irigaray in merito alla donna intesa come specchio invertito dell’uomo, come essere che si manifesta “in negativo”, lo scandalo della messa in discussione della visione freudiana e lacaniana fallotropica. Lo slittamento messo in atto da Jürgenssen gioca con una negazione che si capovolge e diventa affermazione: nell’atto di autorappresentarsi attraverso l'obiettivo fotografico – un gesto di interrogazione, differente dal selfie odierno che è forma di consunzione del sé, annullamento per sovraesposizione, tentativo di liquefazione in una forma plurima, collettiva, standardizzata di identità – l’artista si ostende e annuncia quel “io sono” che si concretizzerà in uno dei suoi più celebri lavori. Nell’insistenza quasi ossessiva della pratica dell’autoritratto affiora il fantasma di Francesca Woodman – più lirica e segnata da un nichilismo che sfocerà nel suicidio, mentre in Jürgenssen prevale un’ironia che funge da filtro intellettuale rispetto all’incandescenza della materia esistenziale –, una presenza che è più di una suggestione: nel 2015, il Kunstmuseum di Merano metteva a confronto le opere delle due artiste tratte dalla Collezione Verbund di Vienna in un inedito dialogo, mettendo in evidenza la “sorrelanza” di due artiste per altri versi molto differenti, ma affini nel gusto per la costruzione della scena e nello spiccato interesse per la relazione tra spazio e soggetto fotografico.

 

Il corpo prende il posto della voce e l’immagine della parola: nel rimescolamento di codici, simboli, funzioni, gli elementi della messa in scena scompaginano l’ordine logocentrico e propongono un’alternativa, dove la visione dell’artista e della donna si fa portatrice di altre storie, altre proposte di relazione con le cose, dove la gerarchia dei ruoli e dei significati perde le proprie fondamenta e le immagini vengono liberate dai vincoli. In Ich möchte hier raus! (Voglio uscire di qui, 1976/2006) si autorappresenta come una impeccabile signora borghese, vestita con abiti eleganti, ma il viso e le mani premono contro la superficie di un vetro su cui è riportata la frase che dà il titolo all’opera, a sottolineare l’ipocrisia degli stereotipi a cui sono soggette le donne.

 

Birgit Jürgenssen Ich möchte hier raus! / Voglio uscire di qui!, 1976 Fotografia in bianco e nero Cm 40 x 30 Estate Birgit Jürgenssen (ed2) Courtesy Galerie Hubert Winter, Vienna © Estate Birgit Jürgenssen by SIAE 2019.


La critica sottile ma decisa che Jürgenssen mette in atto attraverso il proprio lavoro rimanda allo strutturalismo e al desiderio di sovvertire le categorie che ordinano la società. È così che anche il limite tra regno animale e regno umano viene messo in discussione: sono gli anni delle elaborazioni legate al pensiero ecologista e animalista, che trova in Animal Liberation di Peter Singer, datato 1975, un primo, vero manifesto; il pensiero animalista si svilupperà successivamente rimanendo strettamente relazionato alle politiche identitarie, ai cultural e gender studies, fino a giungere al cosiddetto “Animal Turn” e alle elaborazioni del postumanesimo odierne, che teorizzano un superamento del genere già presente nelle figure biomorfe immaginate dall’artista viennese. Nel 1967, l’artista conclude il ciclo di studi superiori e si reca in Francia per un soggiorno di alcuni mesi in cui rivolge la propria attenzione ad approfondire letture di antropologia, il già citato strutturalismo, il surrealismo, il rapporto tra uomo, animali e ambiente. La critica alla visione antropocentrica e la ricerca poetica si fondono in opere popolate da creature dallo statuto incerto, figure oggetto di metamorfosi, elementi naturali che divengono protagonisti della scena, frutto di citazioni o frammenti di una memoria letteraria e visiva tra cui Hörst du das Gras wachsen? (Senti l’erba che cresce? 1968) e nel collage Einhorn (Unicorno, 1991). In questi esseri ibridi il confini tra i regni sono crollati e la vicinanza tra donna e animale – entrambi soggetti dell’alterità par excellence e per questo accomunati da una condizione di subalternità e di oppressione rispetto alla società patriarcale – si trasforma in una visione poetica, carica di allusioni e di simbolismi. La ricerca di Jürgenssen si traduce in una figurazione che omaggia apertamente il lavoro di Meret Oppenheim, con la sua irriverenza e forza immaginativa, richiamata in opere come Senza titolo (Io con pelliccetta) del 1974-77, o la serie di disegni La femme maison realizzati da Louise Bourgeois nel 1946-47,  ma si possono rintracciare anche assonanze con il lavoro “selvaggio” di Carol Rama e con l’opera di Kiki Smith, con le sue donne-lupo e le metamorfosi, nonché nella predilezione verso la carta per dare vita a opere che coniugano delicatezza e incisività, fragilità e bellezza. Ma mentre in Smith prevale l’elemento cosmogonico, mitologico e fiabesco, in Jürgenssen è l’inconscio ad affiorare, scandagliato attraverso l’indagine interiore, la discesa in territorio psicanalitico e il rapporto con il corpo, quest’ultimo vero comune denominatore dell’arte di ascendenza femminista. 

 

Birgit Jürgenssen Netter Raubvogelschuh / Bella Scarpa-Rapace, 1974-75 Metallo, piume, zampa di gallina Cm 30 x 23 x 13 Estate Birgit Jürgenssen (s9) Courtesy Galerie Hubert Winter, Vienna © Estate Birgit Jürgenssen by SIAE 2019.


L’elemento organico si innesta nei simboli rassicuranti di una femminilità preordinata e li tramuta in organismi inquietanti, il quotidiano si mescola con il letterario e con la provocazione: Schwangerer Schuh (La scarpa incinta) del 1976 è un assemblaggio che ricorda certe metamorfosi alla Cronenberg, mentre Nest (Nido, 1979) e Brautkleid (Il vestito da sposa, 1979) rimandano a un immaginario surrealista più smaccato, o ancora il celebre Hausfrauen Küchenschürze (Grembiule da cucina da casalinghe, 1975), esposto alla collettiva voluta da Valie Export MAGNA Femminismo: arte e creatività, tenutasi presso la Galerie nächst St. Stephan di Vienna nel 1975, diventata una delle opere simbolo del femminismo, un’icona di sapore pop che demolisce con ironia la figura della casalinga come angelo del focolare ma che mantiene un sottotesto perturbante, nell’immagine del forno che evoca l’idea della donna-contenitore, il suo essere ridotta a funzione sessuale e riproduttiva. 

 

Birgit Jürgenssen Ich bin. / Io sono., 1995 Gessetto, lavagna, spugna montata su pannello di legno, dietro Plexiglas Cm 30,9 x 25,5 x 3 Estate Birgit Jürgenssen (s46) Courtesy Galerie Hubert Winter, Vienna © Estate Birgit Jürgenssen by SIAE 2019.


Il contraltare di 10 giorni 100 foto è Ich bin, opera del 1995 che dà il titolo alla mostra: una piccola lavagna dove l’artista traccia la scritta Ich bin (io sono), un’affermazione perentoria che trova confutazione nella spugnetta appesa a fianco, a ricordare l’illusorietà di ogni certezza. Un movimento oscillatorio informa gran parte del lavoro dell’artista viennese, nell’affermazione e nella sua immediata smentita, in un costante messa in discussione di ogni dato di realtà. A tale stato di incertezza fa riferimento anche l’interesse per le forme percettive che si esplica in lavori come Autoritratto con lampada (1971/1991), visibili nella sezione 6, nei quali l’artista si concentra sulle superfici delle fotografie, rivestendole con materiali tessili o plastici, dove gioca con il piacere della visione e allude in maniera palese a un sottile voyeurismo, un tema che ritorna ciclicamente nel lavoro e si salda alla questione dell’oggetto-feticcio. Il cambio di stato, l’intervento sui materiali per modificarne l’aspetto è una pratica che si ricollega alla tradizione del modernismo, da cui la ricerca di Jürgenssen attinge sia a livello formale che contenutistico, per poi inserirvi elementi postmoderni, sperimentando con le nuove tecnologie. Ricordiamo che Jürgenssen porta avanti una ricerca meticolosa per tutto il corso della propria esistenza, documentata dalla mole di appunti raccolti nel lascito di quaderni e nelle memorie legate alla sua attività di insegnante, prima come assistente di Maria Lassnig, poi per vent’anni di Arnulf Rainer, come fondatrice della classe di fotografia all’Accademia di Belle Arti. Un vero e proprio archivio che restituisce la figura dell’artista in tutta la sua complessità e nella sua ricchezza di riferimenti e fonti d’ispirazione, portando alla luce la profondità del suo pensiero e il processo sotteso a una produzione artistica quarantennale. 

Dal suo interesse per l’autoproduzione e la sperimentazione di media differenti nascono anche i cinque video prodotti tra il 1997 e il 2001 di cui è visibile L’aprés midi, prodotto in occasione dell’ultima mostra realizzata alla galleria Huber Winter nel 2001, che condensa proprio quel gioco tra identità e mascheramento, la centralità dello spazio intimo e domestico come microuniverso di riferimento, la ricerca di un punto di osservazione che sia al contempo di autoriflessione e di (impossibile) sguardo terzo, un sé fuori da sé (un soggetto che si sente diventare oggetto, come indica Barthes in La camera chiara), come messo in scena nel vorticare della videocamera che riprende l’artista impegnata in molteplici travestimenti e affascinata dalla dimensione performativa.

 

Quello che emerge dall’insieme dei lavori presentati alla Gamec è il carattere enigmatico delle immagini prodotte dall’artista viennese, in parte ascrivibile all’influenza surrealista che avvolge l’intero corpus delle opere, in parte legato ai molteplici livelli semantici contenuti nelle opere. L’indiscutibile capacità di tradurre attraverso la propria voce un vocabolario di elementi eterogenei contrasta con l’apparente noncuranza del segno, nella rinuncia a una sensualità retinica a favore di una immediatezza dell’immagine, che sembra sgorgare da un flusso apparentemente inesauribile di ispirazione. La pratica di ritornare ciclicamente a ragionare sui propri temi di affezione dona un carattere seriale alla produzione e risponde alla necessità di problematizzare il rapporto con la realtà, un atteggiamento che si accompagna all’incertezza, accolta come modus operandi per procedere verso la scoperta di nuove forme della rappresentazione, all’accoglimento di intuizioni e allo affermazione paradossale di uno stato di transitorietà delle cose, una non-conoscenza (emblematico in questo senso il titolo della sua penultima personale alla Galleria Hubert Winter nel 2001, Non so) che è un punto di origine che si rinnova costantemente e impone un moto a luogo animato dal desiderio di scoperta. 

Muovendosi tra spazio privato e sociale, tra un io profondo nutrito di riferimenti culturali e uno sguardo impegnato nella silenziosa registrazione dei fenomeni della realtà, Jürgenssen traccia un personale cammino di scoperta di sé attraverso “tutti i mezzi possibili” che traduce l’idea del “privato è politico” in una elegante, acuta e feconda autobiografia artistica ed esistenziale.

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Gamec, Bergamo
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Medardo Rosso. Siamo scherzi di luce

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Gli vengono amputate prima alcune dita e poi parte di una gamba nel tentativo di fermare un’infezione, provocata dalla caduta di alcune lastre fotografiche su un piede. Muore di setticemia il 31 marzo del 1928. La fotografia ha avuto una parte importante nella vita di Medardo Rosso, tanto quanto nella singolare circostanza della sua morte. 

 

Medardo Rosso, Bookmaker, 1894. Cera. Mart, Rovereto.


Rosso porta lo sguardo cinematografico dentro la scultura con le sue “riprese” dall’alto (Mario Negri, Limite-infinito: impossibile il primo, naturale il secondo, catalogo della Mostra di Medardo Rosso alla Permanente, Società per le Belle Arti ed Esposizione Permanente, Milano 1979, p.115) e lo sguardo plastico dentro la fotografia che taglia, disegna e graffia. Nel saggio Rosso. La forma instabile (Skira, Milano 2007) Paola Mola scrive che Rosso trasferisce “l’incertezza della forma nello spessore della carta emulsionata. Sfocate, mosse, tagliate di sghembo, macchiate, ingrandite, riprese a biacca o a matita e stampate di nuovo, ridotte e ristampate ancora” (p. 25). Utilizza in modo improprio la fotografia per “reinventare” il medium, con largo anticipo su alcuni esperimenti dell’arte contemporanea. “Mai conosciuto gente più legalmente assassina dei fotografi” dichiara Rosso in una lettera inviata a Ricci Oddi il 22 marzo 1927, disapprovando il meccanicismo e l’aderenza del fotografo alla specificità del medium. 

 

Medardo Rosso, Femme à la voilette, stampa gelatina bromuro d’argento, particolare ingrandito, stampato, rifotografato e ristampato con viraggio su carta lucida, da una fotografia d’insieme della sala Rosso alla Mostra straordinaria delle opere di Ca’ Pesaro nel Palazzo dell’Esposizione ai giardini, Venezia 1921. Archivio Medardo Rosso.


Dal dissolversi della specificità del medium fotografico nasce uno sguardo. Possiamo immaginare l’emozione di Rosso nel vedere affiorare le immagini fotografiche sotto il velo liquido, fluttuante e trasparente dell’acido di sviluppo, forse le prime immagini effimere, transitorie e smaterializzate che un artista può avere consapevolmente afferrato come tali, a giudicare dallo sviluppo di alcune stampe, arrestato dall’artista prima che l’immagine fotografica si fosse formata del tutto. Rosso concepisce le sue opere come supporti al flettersi improvviso della luce, al bagliore che lo ha folgorato passeggiando di notte lungo un boulevard oppure scostando una tenda. Nel tocco trasferito dalla creta alla cera si concentra un “effetto” di luce con il quale l’immagine emerge dalla materia che “bisogna dimenticare”, sostiene Rosso, un “effetto” di evanescenza e pulviscolarità che l’artista ottiene sovrapponendo al processo plastico di formatura e stampaggio quello di ripresa e stampa fotografica.  

 

Veduta della mostra Rosso. La forma instabile a cura di Paola Mola. In primo piano Enfant au sein (1890) e Bookmaker (1894) sullo sfondo. Peggy Guggenheim collection, Venezia 2007.


C’è chi ritiene che solo col medium fotografico, l’artista abbia “raggiunto l’effetto finale che ricercava”. È l’opinione di Gloria Moure che nel 1996 ha organizzato la prima mostra fotografica di Rosso. In aperta polemica con le opinioni di Moure, accusata di aver forzato antistoricamente l’interpretazione dell’opera, Luciano Caramel, curatore della mostra Medardo Rosso. Le origini della scultura moderna, organizzata nel 2004 al MART, ribadisce che la scultura e non la fotografia “costituisce il raggiungimento ultimo di Rosso” e che il superamento della statuaria e della scultura-oggetto avviene “entro, e non oltre, la scultura”. Ci vorrà la mostra alla collezione Peggy Guggenheim di Venezia curata da Paola Mola nel 2007 per dirimere la questione portando l’attenzione sulla “instabilità” dell’immagine causata dal suo “trasferimento” da un medium all’altro. 

 

Veduta della mostra Solo - Medardo Rosso a cura di Marco Fagioli e Sergio Risaliti. Museo del Novecento, Firenze.


Alla mostra decisiva del 2007 ne sono seguite molte altre, fra queste quella in corso al Museo Novecento di Firenze: Solo – Medardo Rosso (fino al 28 marzo). La mostra, curata da Marco Fagioli e Sergio Risaliti, porta l’attenzione sulla serialità della produzione di Rosso “caratteristica che lo rende particolarmente vicino alla pratica contemporanea dell’Arte Minimal e Concettuale” e sull’aspetto materico delle sue sculture che “ne ha fatto un punto di riferimento per gli artisti di tutto il Novecento, da Jean Dubuffet a Giuseppe Penone, dall’Art Brut all’Arte Povera”. L’opera di Rosso apre quindi in molte direzioni, allo stesso modo del suo formidabile assemblaggio fotografico del 1904, nel quale gli allineamenti tengono insieme i vari ritagli fotografici di cui l’opera è composta ma al tempo stesso, nel loro convergere e divergere, tradiscono la molteplicità dei punti di vista, come nella prospettiva multipla ellenistica e nella pittura di Duccio di Buoninsegna (Trasferimenti, pp. 13 e 22).

 

Medardo Rosso, assemblaggio di fotografe a sua volta fotografato. Aristotipo su cartoncino rigido, 1904. Collezione privata.


Mentre la mostra al Museo del Novecento di Firenze sta per terminare, un’altra mostra sull’opera di Rosso sta per iniziare. 

Fine all’inizio.

Fine all’inizio. Commento alla prima fotografia di Rossoè un testo di Paola Mola su una fotografia del 1883, che Rosso invia al pittore romano Baldassarre Surdi (Warburghiana KBW, 2008). La fotografia è un suo autoritratto a venticinque anni nello studio di Milano. Attraverso quest’immagine la parola “Fine”, scritta su un ritaglio di portone posto alla base della scultura La vecchia (a sinistra della foto) entra in rapporto con la scultura stessa richiamando significati oggi perduti. La fine era il titolo del quadro di Morbelli con i vecchi al Pio Albergo Trivulzio (oggi chiamato Ultimi Giorni e conservato alla Gam di Milano). Nel trasferire l’immagine dalla scultura alla fotografia, lo scatto del 1883 trascina con sé anche la parola “Fine”. A tal proposito Mola si chiede: “questo giostrare tra parola e immagine di Rosso a venticinque anni, che viene da quel mondo d’enigmistica ironia che erano le Indisposizioni artistiche, non è forse la storia di significati che si formano per analogia di forme e suoni che dal sogno di Alessandro a Tiro (Artemidoro,4.24) attraverso il concettismo del Seicento e i capricci di Goya, riesplode nel grande Carnevale dadaista?”. Ponendo un problema metodologico non da poco alla storia dell’arte (mi riferisco al metodo anacronistico), la domanda getta una luce potente sul nostro modo di pensare per immagini e parole, che la fotografia richiama e che Rosso sigla con uno scapigliato “cucù”, sporgendo la testa da dietro un pannello. 

 

Medardo Rosso nello studio al numero civico 12 di via Solferino a Milano nel 1883. Fotografia di fotografia con collage.


Nell’opera di Rosso lo scambio non è solo fra scultura e fotografia. I segni che graffiano le superfici delle immagini fotografiche e tipografiche (in alcuni casi Rosso interviene anche su ritagli tipografici) mettono in rapporto la fotografia e la tipografia con il disegno e in modo sottile e nascosto anche con la scrittura, legata da antica parentela alla scultura. Il termine “scultura” conserva infatti nel suo etimo la radice di “scrivere” (scrivere, incidere e scolpire hanno la stessa radice etimologica). Attraverso questi segni il “trasferimento” rende ancora più “instabile” l’immagine, portandola in regioni del vedere e del pensare sempre più complesse e sottili, forse addirittura infrasottili. L’“instabilità” dell’immagine causata dal suo “trasferimento” da un medium all’altro si eleva così alla massima potenza diventando un formidabile paradigma per le pratiche di “traduzione” in atto nell’arte contemporanea. Per esempio nell’opera di Philippe Parreno che, utilizzando il codice Morse, “traduce” in lampi di luce tutte le parole contenute nel romanzo Le Mont Analogue di René Daumal. Chissà cosa ne avrebbe pensato Rosso che sui suoi fogli stenografava notazioni di luce, abbagli e ombre fuggenti.

 

Medardo Rosso, Yvette Guilbert, stampa gelatina bromuro d’argento con ritocchi a grafite, incisioni di lametta, macchiata con correzione a biacca, incollata su cartone ritagliato a mano; ingrandimento, fotografia di fotografia scontornata a tempera, 1909-10. Archivio Medardo Rosso.


All’aspetto grafico della sua opera è dedicata la mostra Medardo rosso. Cinque disegni (galleria la meridiana, Monza, via Dei Mille 4, fino al 4 maggio), che “inizia” esattamente “alla fine” dell’altra. Nel saggio pubblicato in catalogo, seguendo la traccia degli studi di Paola Mola, il curatore della mostra Leonardo Denti analizza alcuni aspetti della complessa e problematica opera di Rosso. I segni tracciati sui fogli in mostra denotano la stessa violenza “affilata” determinata dalla velocità e dalla pressione del gesto, presente anche nel tocco di alcune sculture e nella loro “traduzione” fotografica, come dimostra la stampa al bromuro d’argento scontornata a tempera con ritocchi a grafite e incisioni a lametta, tratta del gesso Yvette Guilbert. Come si potrebbe definire quest’oggetto grafico, pittorico e fotografico, che riceve l’impronta di una scultura? Il concetto di “trasferimento” che rende “instabile” l’immagine spostandola da un codice visivo all’altro qui è più che mai evidente. A proposito di questi “trasferimenti” val la pena di ricordare che nel catalogo del 1979 metà dei disegni risulta conosciuta solo attraverso le lastre fotografiche conservate a Barzio nel Museo Rosso. 

 

Dettaglio di uno dei disegni in mostra.


I cinque disegni in mostra alla galleria la meridiana hanno una rapidità stenografica resa attraverso segni carichi di materia tracciati con matite litografiche e altri più leggeri a grafite. La tessitura chiaroscurale è eseguita con gesto sicuro quanto quello, più regolare e fluido, che infittisce il secondo foglio della lettera inviata da Rosso ad Ardengo Soffici il 15 giugno 1906 circa. Osservando la pagina, alcuni segni con andamento diagonale ricordano i grafismi automatici e reiterati tracciati sovrappensiero, ma ruotandola in senso antiorario di novanta gradi scopriamo che questi stessi segni sono lettere alfabetiche. Il pensiero e ciò che gli sta sopra (sovrappensiero) s’incontrano con un lampo che attraversa la mente, forse lo stesso lampo, bagliore o riflesso di luce che Rosso stenografa sui suoi fogli perché, secondo le idee diffuse da un testo divulgativo pubblicato a Milano nel 1867 (Ludwig Büchner, Forza e Materia), che Rosso fece sue, il nostro spirito non è altro che materia ed energia, di cui la luce è l’espressione massima. “Finché penso non sono che uno scherzo di luce” scrive Rosso in una lettera. 

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Fotografi assassini
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Surrogati. Un amore ideale

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Manichini di legno, pelli sintetiche, giunture e parti meccaniche. L’ossessione dell’uomo per la creazione di replicanti, automi perfetti su cui vantare una potestà totale e totalitaria, non è un effetto della contemporaneità. Già nell’Iliade (libro XVIII), infatti, si racconta di come il dio Efesto avesse fabbricato delle ancelle d’oro dotate di “forza e favella” e “simili in tutto a giovinette vive”, in grado di aiutarlo nel lavoro di fucina. 

Di fronte alle fotografie esposte da Jamie Diamond e Elena Dorfman all’Osservatorio della Fondazione Prada (fino al 22 luglio), tuttavia, il desiderio umano di reiterare l’impresa divina sembra aver raggiunto una sorta di appagamento, cullato in una dimensione di artificialità morbida e confortante, al gusto di silicone. 

 

La mostra, curata da Melissa Harris, indaga le possibilità di relazione tra uomo e surrogati artificiali, ponendosi in linea con le attività promosse dall’Osservatorio della Fondazione Prada dedicate all’utilizzo contemporaneo del medium fotografico e alle sue implicazioni culturali e sociali. Il percorso espositivo si apre con la serie Nine months of reborning (2014) di Jamie Diamond, composta da cinque fotografie di bambole dalle fattezze iperrealistiche, disposte e ritratte in diversi atteggiamenti. Nella parete opposta, le sex dolls di Elena Dorfman vengono esibite in una sorta di catalogo, serializzate per modello e corredate da parrucche intercambiabili in base al gusto dell’acquirente. 

Fin dall’esordio, dunque, la mostra colloca l’osservatore nella scomoda e ambigua posizione di confrontarsi con immagini che evocano alternativamente il mondo dell’infanzia e quello del sesso – con i loro spettri di tenerezza e aggressività – da una prospettiva di finzione iperrealistica e dunque tecnicamente (e teoricamente) meno reale della realtà. Un mondo a senso unico dove il Tu, l’altro da sé, ricade nella sfera di appartenenza dell’Io divenendone quasi una proiezione, una protesi senza voce e opinione.  

 

Jamie Diamond, "Nine Months of Reborning" (2013-2014), 24 x 30 in each. Archival Pigment Print.


Perfettamente amalgamate nella loro diversità, le fotografie esposte presentano un indiscusso protagonista, il corpo, o meglio, i corpi: quelli di silicone e vinile e quelli in carne ed ossa, distinti da una diversità materica percepibile anche in foto. Rebecca 1 di Elena Dorfman, ad esempio, ritrae un uomo di mezza età mentre abbraccia e poggia il capo sul petto di una sex doll. L’immagine cattura un momento di intimità e affetto apparentemente lontano dalla dimensione erotica che si attribuirebbe a questo tipo di relazione: le sex dolls, del resto, nascono come surrogati sessuali e non per rispondere a bisogni emotivi. Con un imprevisto spostamento di prospettiva, invece, la serie Still lovers (2001-04) di Dorfman, di cui Rebecca 1 fa parte, stringe l’obiettivo sul legame affettivo che lega i proprietari al loro oggetti del desiderio, costruito a partire dal soddisfacimento sessuale e sfociato in attaccamento emotivo. Oltre a questo elemento, decisivo e riscontrabile in diverse fotografie, ciò che colpisce è la dissonanza materica tra il corpo dell’uomo ritratto e la sua bambola. Ci si aspetterebbe, infatti, che in quanto proiezione idealizzata delle fantasie umane, Rebecca sia perfetta. In realtà, la fotografia registra impietosamente l’effetto del tempo e dell’usura sulla pelle sintetica, che sul viso e sulle braccia si sfalda in sottili brandelli. 

 

L’approccio giornalistico, quasi documentario, dei lavori di Dorfman e Diamond enfatizza ulteriormente le caratteristiche mimetiche dei soggetti, ponendo l’accento sulla superficie dei loro corpi e rispondendo a un’estetica da rivista di moda. Osservando nel dettaglio altri lavori della serie, come Taffy 12, la deperibilità del silicone si ripresenta nelle imperfezioni della pelle, in articolazioni poco salde e in linee di giunzione evidenti. Se le imperfezioni rendono le bambole più realistiche – e non per questo automaticamente più desiderabili –  dall’altro lato sembrano annullare una delle funzioni per cui vengono spesso acquistate: il conforto e la sicurezza di possedere un oggetto da usare e consumare a proprio piacimento e sul quale detenere eternamente il controllo. I materiali di cui sono costituite le bambole, infatti, possono apparire molto resistenti e il loro aspetto giovane e attraente dare la parvenza di durare per sempre. I tagli e le fratture ritratte nelle fotografie di Dorfman, tuttavia, svelano brutalmente questa illusione: nonostante possano funzionare come un oggetto di sostegno e sopperire all’idea di abbandono, le sex dolls possono provocare potenzialmente un altro dolore rompendosi, sfaldandosi e diventando inutilizzabili. 

Attraverso una rapida comparazione con la serie Sex Pictures (1992) di Cindy Sherman – che ritrae bambole medicali in atteggiamenti sessualizzati, composte da un miscuglio di pezzi degno dei mostri delle Wunderkammern – possiamo notare in ogni caso quanto le fotografie di Dorfman evochino atmosfere tutto sommato serene (seppure velate di ambiguità) ed evitino il richiamo a contesti di crudeltà o violenza. 

 

Il progetto di Dorfman ritrae persone che vivono effettivamente insieme alle bambole, svolgendo in loro compagnia le proprie attività quotidiane. Se alcuni di essi sembrano usciti da un romanzo di Houellebecq – “Brutto sia dentro che fuori, soggetto a frequenti attacchi di depressione, è il contrario di quel che le donne cercano in un uomo” dice l’autore del protagonista di Estensione del dominio della lotta– nei lavori della fotografa trovano posto anche alcune donne, ritratte mentre sfogliano il giornale o giocano a scarabeo accanto alle bambole. La doppia presenza di soggetti femminili, artificiali e umani, dispiega visivamente la questione dell’oggettivazione del corpo della donna che in queste fotografie, tuttavia, sembra rappresentare una sottotraccia, piegata alla volontà sociologica di esplorare in generale la relazione tra umano e artificiale, al di là del genere dei suoi protagonisti. 

 

Il rapporto tra donne e surrogati è invece al centro dei lavori di Jamie Diamond, interessata all’esplorazione delle convenzioni sociali che regolano i rapporti interpersonali, specialmente quelli familiari. La serie I promise to be a good mother (2007-2012) indaga l’inedita relazione tra madre umana e figlio surrogato partendo dall’esperienza personale dell’artista, che per un lungo periodo ha vissuto insieme a quattro bambole iperrealistiche impersonando il suo modello ideale di madre. Gli autoritratti di questa serie sono pervasi da un filtro idilliaco che richiama nei luoghi rappresentanti e negli atteggiamenti dell’artista un’atmosfera da vacanza e un tipo di maternità edulcorata, irreale. 

 

In 1.1.11, ad esempio, Diamond è ritratta sul treno mentre osserva romanticamente ciò che accade fuori dal finestrino stringendo tra le braccia il suo neonato artificiale. La posa dinamica dell’artista, protesa verso il vetro, scopre un dettaglio interessante, ossia la scritta “first class” cucita sul poggiatesta del sedile. Sebbene non sia l’intento dell’artista, il tipo di maternità che emerge da questi scatti appare modellato proprio sull’idea di prima classe, all’interno della quale le bambole appaiono per quello che sono: oggetti molto costosi, maneggiati per sperimentare senza impegno un’idea personale di accudimento che oltrepassa, per divertimento e per gioco, le convenzioni culturali. 

 

Un discorso diverso può essere fatto per la serie Forever Mothers (2012-2018), che ritrae alcune donne della comunità reborner, ossia artigiane che realizzano bambolotti (detti reborn) dalle sembianze perfettamente verosimili, destinati all’uso personale e alla vendita. I motivi che conducono donne adulte alla fabbricazione e all’acquisto di queste bambole sono i più vari: dall’impossibilità fisiologica di avere figli a quella economica di mantenerli, fino alla volontà di sperimentare una maternità senza impegno o riviverne i primi momenti dopo la crescita dei propri figli. Nelle fotografie della serie, Diamond ritrae donne di tutte le età e provenienza sociale mentre abbracciano o accudiscono le loro bambole, somiglianti in tutto e per tutto a bambini reali. 

Il soggetto di queste fotografie, in cui compare anche un “papà”, è il legame stipulato con quelli che in genere definiremmo come oggetti transizionali ossia, secondo la definizione di Donald Wood Winnicot, oggetti in grado di aiutare il bambino ad attraversare la fase dello sviluppo dell’Io e della differenziazione. In questo caso, tuttavia, i nostri riferimenti interpretativi svaniscono di fronte a un bisogno che si manifesta in età adulta e che accorpa probabilmente ulteriori funzioni, per nulla chiare o deducibili. L’inquietudine che questi ritratti suscitano nello spettatore è anche qui mitigata dallo sguardo dolce di Diamond, che tenta di fissare su pellicola una nuova possibilità di amore, senza esprimere un giudizio.

 

Nei lavori di Dorfman e Diamond, dunque, la sospensione di giudizio genera ritratti idealizzati che sfidano gli stereotipi e le convenzioni sociali, sollevando la questione di cosa significhi amare e di cosa sia degno di amore. Il potere di queste immagini risiede nella stridente difformità tra l’idea della mostra – ossia l’esplorazione di nuove tipologie di amore – e il disgusto che questo tipo di pratiche emotive e fisiche possono produrre, generando una sessualità disincarnata e disumanizzata e una maternità leggera, priva di vincoli e responsabilità. 

Sul piano fisico, la sfida è persa in partenza dall’uomo che di fronte alla perfezione sintetica dei corpi artificiali – personalizzabili esattamente come vuoi!– e alla loro apparente eternità e incorruttibilità si trova ad affrontare il peso di un corpo debole e difettoso. Un corpoobsoleto, come proclamato dal pioniere della performance robotica e virtuale Stelarc, che già negli anni ottanta teorizzava l’estensione tecnologica del corpo come unica vera possibilità evolutiva. 

Sul piano emotivo e affettivo, invece, la partita tra esseri umani e surrogati è ancora aperta, almeno fino a quando le nuove tecnologie non saranno in grado di garantire automi responsive in grado di guarire i nostri vuoti emozionali con le giuste parole, le pause corrette e le verosimili illusioni del sentirsi (e sentire) umani.

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Bidibibodibibu, ovvero i sogni hanno gambe lunghissime

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Maurizio Cattelan

Sono arrivata negli Stati Uniti poco dopo Maurizio Cattelan, che si è trasferito a New York nei primi anni Novanta. Ho abitato per qualche anno dalla parte opposta, a Los Angeles, e per poco più di sei mesi a Brooklyn, a Park Slope più precisamente, in quella parte di città dove scrittori e artisti si stavano raccogliendo via via in una piccola comunità, anche se all’epoca io non lo sapevo o non me ne rendevo conto. Avremmo potuto incontrarci, eravamo entrambi giovani con ambizioni artistiche, ma non è mai successo e d’altra parte non so se saremmo riusciti a parlarci, a risultarci simpatici abbastanza da aver voglia di andare oltre il riconoscimento della reciproca italianità, il che, si sa, può ridursi a ben poco una volta all’estero.

 

Comunque sia, ho visto una sua opera per la prima volta nell’estate del 1997 alla Biennale di Venezia: i piccioni appollaiati in alto su cavi tesi, lo sguardo dei visitatori che ruotava penosamente sul collo verso l’alto e lì indugiava per assicurarsi che non si muovessero, cioè che fossero piccioni morti e imbalsamati, il titolo che era una graziosa presa in giro, ma anche una geniale spiegazione: Turisti.

Eravamo nella città dei turisti e dei piccioni, ci muovevamo come fiumi fangosi nelle anse della Biennale, come i turisti per le calli di Venezia, senza un perché ma con l’avidità di consumare, i marmi antichi, le finestre occhiute, i riflessi d’acqua, le vedute pittoresche. Chi dice turismo dice consumismo, si sa. Però mi sentii particolarmente colpita da quell’installazione perché ne riportai un senso di perdita che andava oltre il vellicamento intellettuale tipico dell’arte contemporanea, che spesso non crede all’emozione estetica e punta dritta alla presa per i fondelli, alla terapia d’urto sul cervello dello spettatore che dovrebbe essere grato all’artista di averlo risvegliato dal suo torpore. 

 

Io non mi sentivo intorpidita prima di vedere centinaia di pennuti imbalsamati sulla mia testa mentre, dopo, provavo una malinconia indefinita. Vissi un altro anno negli Stati Uniti, di tanto in tanto ripensavo ai piccioni, quelli vivi, voraci e scacazzanti che invadono le piazze italiane, e quelli immobili di Cattelan, che chissà adesso dove erano finiti, in quale magazzino, in quali e quanti scatoloni. Ci pensavo soprattutto quando andavo nei parchi, ma anche nel campus di Ucla dove frotte di scoiattoli, aggressivi quanto i piccioni perché abituati a essere nutriti, assalivano qualsiasi umano, senza pudore e senza paura. Spuntavano dai cespugli e dai cassonetti della spazzatura, planavano dai rami degli alberi, sfrecciavano nei viottoli asfaltati e immancabilmente ti si paravano davanti: i denti in movimento, gli occhi feroci, le code gonfie e ricurve. Altro che gli adorabili Chip e Chop di Disney. Così quando mi capitò, in seguito, di vedere riprodotta in un catalogo l’opera Bidibibodibibu– molto in sintesi uno scoiattolo suicidato e seduto al tavolo di una cucina – pensai che anche lui doveva essere stato circondato dai terribili roditori statunitensi a Central Park o in qualsiasi altro posto di New York, perché lì gli squirrel regnano sovrani, almeno quanto i ratti. Come i piccioni nelle piazze italiane. Animali che fanno così tanto parte del paesaggio urbano che quando non ci sono ne noti l’assenza. Forse mi ero immalinconita a vedere i pennuti alla Biennale perché erano la reliquia di una cosa che negli Stati Uniti non c’era – le piazze italiane –, e adesso che non vivevo più negli Stati Uniti m’immalinconivo a vedere il roditore che si era sparato, lasciando un bicchiere vuoto sul piano di una cucina di formica, una sedia vuota difronte alla sua, un acquaio in ceramica bianca ingombro di stoviglie sporche dietro di lui, un boiler appeso alla parete.

 

Turisti, Maurizio Cattelan.


Ma Bidibibodibibu affondava a uno strato ulteriore della malinconia: era proprio perdita e delusione. Immaginavo lo scoiattolo correre fuori dalla sua cucina economica – quante ne avevo viste così nella mia infanzia provinciale – avventurarsi pieno di speranze nella grande città e poi rientrare ogni sera più desolato, più incerto, fino a quando non aveva preso la decisione di spararsi nel mezzo della sua desolazione, per la quale nemmeno la magica formula della fata Smemorina avrebbe potuto fare niente: quella cucina non si sarebbe mai trasformata in un oggetto di design, e lui sarebbe rimasto un roditore, poco più di un ratto. Anche qui il titolo non è poca parte dell’opera, d’altronde Cattelan quando parla delle sue opere si riferisce sempre a idee, talora a immagini, mai a oggetti, e un’idea è prima di tutto una sintesi linguistica di ambiti dell’esperienza diversi.

 

Bidibibodibibu è meno sarcastica di Turisti e meno epica del cavallo, sempre tassidermizzato, appeso al castello di Rivoli e intitolato Novecento, e nonostante il riferimento nel titolo alla formula magica, pronunciata dalla fata nella Cenerentola disneyana, non è nemmeno un’opera pop. Assomiglia piuttosto a un brutto sogno, di quelli in cui un oggetto familiare, la cucina in formica che furoreggiava nelle case proletarie negli anni Sessanta e Settanta e un’immagine primaria, un animale che è sempre un nostro doppio, un nostro possibile altro, si combinano in una logica beffarda. Incantesimo rotto o fasullo, perdita di un sogno. Ma i sogni si sa, e l’artista lo sa meglio di tutti, hanno le gambe lunghissime.

C’è tanta morte in tutto quello che fa Cattelan, anche adesso che dice di aver smesso di utilizzare gli animali morti, ma nel frattempo ha creato la tomba di un cane, e nella copertina della sua Autobiografia non autorizzata (Francesco Bonami, Mondadori 2011) si è fatto ritrarre di profilo in uno scatto di Pierpaolo Ferrari, con una lapide sottobraccio che porta incisa la scritta: “The end”. La posa e il piglio non sono quelli di chi si stia avviando verso la propria tomba, piuttosto quelli di un surfista che corre con la tavola verso le onde, e non stupisce visto che quello del surf e della surface è un ambito metaforico ricorrente nelle interviste rilasciate dall’artista, ed è un bene che anche sulle cose ultime che lo riguardano mantenga la consueta ironia.

 

Si possono dare molte spiegazioni, e moltissime ne sono già state date da critici, galleristi, opinionisti, biografi, sul perché di tanta morte. A essere molto spiccioli: è un tema universale e si può stare sicuri che prima o poi avrà successo, infatti a Cattelan il successo non è proprio mancato. Solo che un conto è vederla nei musei e nelle gallerie, la morte, un conto è mettersela in casa. Ad esempio i piccioni sui tralicci si sono rivisti di recente alla mostra nel palazzo del Quirinale a Roma, “Da io a noi. La città senza confini”, e facevano sempre il loro effetto. Al Quirinale. Ma in una casa privata, che senso avrebbero? Avrebbero senso?

Potendomela permettere mi porterei in casa, ad esempio, Bidibibodibibu? Non lo so. Però mi sembra una domanda cruciale, che molto ha a che vedere con il senso di morte, di perdita, e con le gallerie e i musei che di questo sentimento sono collettori naturali. E con il bisogno spasmodico dell’arte contemporanea, non tutta ma quasi, di nascere e vivere musealizzata (dunque in parte già morta? O è questo un altro modo per neutralizzare la morte, introiettarla?)

Ecco, se mai incontrassi Maurizio Cattelan, sarebbe questa la domanda che vorrei fargli: hai sempre lavorato per gallerie e musei o hai mai pensato a persone in carne ed ossa che si sarebbero portate in casa le tue opere?

Non so cosa mi risponderebbe, immagino che da abile prestigiatore della superficie – “I just slide down the surface of things” è una sua affermazione – troverebbe il modo di spostare ancora una volta il piano.

 

Da oggi il nuovo numero della collona monografica «Riga»: Maurizio Cattelan, Quodlibet, Roma 2019. Per approfondimenti sulla collana e su questo numero consulta il sito appena rinnovato www.rigabooks.it.

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Da oggi «Riga» 39: Maurizio Cattelan
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Ex Africa: l’arte dell’ineffabile

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Non sono mai stato in Africa. Ho letto e visto molto: soprattutto le mostre curate dal grande studioso e collezionista Ezio Bassani (come La grande scultura dell’Africa Nera, al Forte Belvedere di Firenze, nel 1989, e la mostra Africa. Capolavori da un continente, nel 2003, alla Galleria d’Arte Moderna di Torino), deceduto, all’età di 94 anni, mentre stava preparando, assieme a Gigi Pezzoli, la mostra Ex Africa. Storie e identità di un’arte universale appena inaugurata a Bologna. 

Difronte all’arte africana ho la strana sensazione di toccare un oggetto attraverso un guanto, avendo l’impressione che il tatto sia falsato da non esser mai stato in Africa e dalle mille incrostazioni equivoche che l’Occidente ha imposto a quel mondo. 

Però, forse, questa mancanza di “conoscenza sul campo” mi aiuta a guardare e apprezzare l’arte africana con uno sguardo libero, come pura arte e non come documenti etnografici. Anche se si tratta di un’“arte tradizionale”, fatta di opere non create espressamente per il mercato, ma in risposta ai bisogni religiosi, rituali, politici ed estetici delle società africane del passato. 

L’arte africana per esistere non ha infatti bisogno di categorie derivate da altri contesti, e neppure del riconoscimento della cultura occidentale. Come ha scritto William Fagg, uno dei più grandi africanisti del Novecento: “l’arte nella sua forma più pura riguarda la comunicazione dell’ineffabile, che è al di là delle parole”.

 

La bellissima mostra presentata al Museo Civico Archeologico di Bologna (dal 29 marzo all’8 settembre), curata da Bassani e Pezzoli (con la collaborazione di Anne Vandestraete, Elio Revera, Malcolm D. McLeod, François Neyt, Bernard de Gryunne, Micol Forti, Alessandra Brivio, Pierre Amrouche, Claudia Di Tosto), è la più ampia mostra d’arte africana mai realizzata in Italia e aiuta a considerarla finalmente come un’arte universale.

Fino al Novecento, ciò che ha impedito di apprezzare le espressioni della creatività africana come arte è stato la conseguenza di un lungo processo di incomprensione della diversità e di disprezzo, che ebbe il suo tragico culmine con la tratta degli schiavi tra il XVI e il XIX secolo. Come scrive Gigi Pezzoli nell’Introduzione al Catalogo della mostra (edito da SKIRA): “L’Occidente, per secoli, ha deliberatamente costruito un immaginario negativo sull’Africa e sugli Africani, un processo nel quale una rappresentazione falsificata ha creato il paradosso di una pseudo-conoscenza di verità nel momento stesso in cui produceva finzione. Quell’immaginario è giunto fino ai nostri giorni, ha impedito di riconoscere ed apprezzare la diversità e la creatività dell’Africa e quindi – in ultima analisi – di costruire quel dialogo di reciproco rispetto e di riconoscimento, quanto mai indispensabile nella realtà multiculturale e complessa del mondo contemporaneo. (…) Per dare supporto al commercio in grande scala di esseri umani, serviva una giustificazione per così dire ‘morale’, supportata da un potente immaginario. (…) Valentin Mudimbe l’ha sintetizzato efficacemente già nel titolo di una sua celebre opera: L’invenzione dell’Africa, cioè una rappresentazione distorta e stereotipata del Continente Nero e dei suoi abitanti.” 

 

Con l’avvento del colonialismo e poi, soprattutto, dalla metà dell’Ottocento, moltissimi oggetti africani arrivarono in Europa: erano destinati alle Esposizioni e ai Musei Coloniali e ai nascenti Musei Etnografici. Manufatti di cultura materiale e opere d’arte giunsero senza attestati di nobiltà, nella massa indifferenziata di ciò che veniva considerato prevalentemente, se non unicamente, “documenti etnografici” di culture inferiori. Come tali, furono ammassati e anche esposti senza alcuna distinzione qualitativa. 

Micol Forti, nel saggio XX secolo: l’Europa guarda l’Africa, racconta come il cambiamento di atteggiamento verso l’arte africana avvenne con le Avanguardie del primo Novecento (Espressionismo tedesco, Cubismo francese, Surrealismo e Metafisica): “La sperimentazione, indirizzata a travolgere i concetti di tradizione e di ‘classicità’, trovò nelle testimonianze delle culture primitive, ed in particolare nell’art nègre, stimoli e conferme per la definizione di nuovi canoni estetici. La straordinaria sintesi formale e le potenzialità espressive di materiali poveri espressi nelle opere provenienti dal continente africano, si intrecciavano con il fascino per la magia e l’occulto, per un senso originario della natura e della religione, per una rappresentazione assoluta del potere”.

Acquisito il riconoscimento del valore dell’arte dell’Africa, nel Novecento si è avviato il laborioso processo, tuttora in corso, per costruirne una vera e propria storia delle Arti del Continente Nero, dovendo combattere contro due pregiudizi difficili da superare: 

1) che l’arte africana sia un’ARTE SENZA TEMPO (alle opere d’arte in legno, che sono la maggioranza dei manufatti, veniva fino a oggi attribuita una modesta anzianità adducendo come spiegazione la caducità del materiale in condizioni climatiche sfavorevoli e la sostituibilità delle opere nelle società d’origine); 

2) che sia un’ARTE ANONIMA, frutto di un generico sapere collettivo (come scrive Pezzoli: negare l’individualità della creazione a favore di una paternità diffusa e impersonale, altro non era che l’eredità di una certa visione adatta all’immagine dell’Africa primitiva).

 

Visitando la mostra di Bologna (che comprende 270 pezzi provenienti da 50 prestatori), la prima cosa che si apprende è che quasi nessuna statua è fatta per stare appoggiata da qualche parte. Come sostenne, nel 1940, l’etnologa austriaca Etta Becker-Donner: “Nel mondo delle arti africane, pochissime statue sono opere d’arte pura, create appositamente per l’amore della creazione”. Abbiamo a che fare con una concezione dell’oggetto artistico assolutamente dinamica: quelle figure lignee sono compagne di danze rituali, strumenti di potere, idoli che vengono continuamente spostati, maschere, oggetti “vivi” che vengono vestiti, strofinati, puliti ecc. È un’idea d’arte che per secoli in Occidente si è persa e che soltanto nel Novecento va riscoprendosi con le performance e le istallazioni.

Traendo spunto dalle schede descrittive degli oggetti in mostra, che per la sezione arte “tout-court” sono state redatte da Elio Revera, alcune opere meritano di essere segnalate.

Il primo incontro che si fa è con una coppia di statue di donne dalle braccia smisuratamente lunghe, gambe corte e i seni accuminati: Figure femminili (XIX secolo) del popolo Bamana, etnia della savana del Mali. Queste statue esaltavano la bellezza muliebre alla quale aspiravano gli uomini. Esse servivano per celebrazioni iniziatiche (rito jo), che avvenivano ogni sette anni. I danzatori portavano in giro queste statue tra canti e movenze tradizionali.

 

Poco più in là, sempre nel grande salone iniziale, troneggiano due imponenti Figure pombilbélé, una maschile e una femminile, della Costa d’Avorio. Le braccia allungate e arcuate servivano per essere afferrate come “maniglie” durante le danze rituali che si concludevano con la distruzione di questi feticci. Il copricapo della figura maschile è piuttosto singolare: una figura geometrica iscritta in un quadrato irregolare a sua volta inserito in un grande cerchio ligneo.

Assai interessanti, oltre che dal punto di vista artistico, anche da quello storico-antropologico, sono le vetrine con i piccoli Pesi figurati per la polvere e le pepite d’oro, prodotti dai popoli Akan (Ghana e Costa d’Avorio), tra il XVI e il XIX secolo. La funzione di questi pesi, inizialmente di forme geometriche e poi con figure, non era limitata all’essere strumenti di misura, ma anche, in diversi casi, di trasmissione, in un linguaggio allusivo ma chiaro ai destinatari, di messaggi sotto forma di proverbi o di detti legati alla saggezza popolare oltre che al mito. Anche questi piccoli oggetti rivelano una connessione tra scultura e tradizione orale. È assai probabile, inoltre, che alcuni di questi pesi siano stati utilizzati anche come talismani a scopo terapeutico e apotropaico e che fossero essi stessi merce di scambio. 

Sempre nel campo delle “micro opere”, più avanti si incontrano gli Amuleti Luba (Repubblica Democratica del Congo, fine XIX inizio XX secolo). Piccole sculture antropomorfe in avorio dal potere magico, destinate a proteggere chi le indossa: un busto con silhouette femminile sul quale si innesta il collo che sostiene una testa ovoidale. Gli occhi sono socchiusi, il naso è schiacciato, la bocca ovale è sporgente e l’acconciatura quadrilobata si ripiega sulla nuca. Il corpo liscio, spesso inclinato in avanti, in una postura di riflessione, è talvolta decorato con losanghe e, in qualche caso, presenta un’adiposità verso il basso ventre. Le braccia ad arco sono protese in avanti con le mani posate sui seni. Ancora oltre si possono ammirare le Figure in stile “Bibendum” del popolo Lega (Repubblica Democratica del Congo), sempre in avorio. La denominazione curiosa di questo stile è l’ulteriore dimostrazione del grande ruolo giocato dai collezionisti nella storia dell’arte africana: Bibendum infatti era il nome dell’omino Michelin (il simbolo della società francese di pneumatici fondata nel 1898). In origine questo nome è stato dato da André “Jo-Jo” Rasquin, che collezionava opere Lega ed è vissuto a Kindu negli anni sessanta, e da Jean-Pierre Lepage, un mercante di arte africana che aveva la sua attività a Parigi. Le figurine nello stile “Bibendum” hanno un corpo dalle linee arrotondate; una testa sferica e grosse membra rigonfie. Cerchi con puntini indicano gli occhi, il naso è piccolo e più o meno rettangolare, nella bocca sono delineati i denti, e anche seni e ombelico sporgente. 

Uno dei capolavori della mostra, straordinario nella sua simbolica essenzialità e modernità, è la Maschera zoomorfa del popolo Gbaya (Repubblica Centrafricana), probabilmente posta sulla testa del danzatore: una testa animale con corna volte antinaturalisticamente in avanti. La testa di questa bestia sembra un aratro leggerissimo.

 

Di sicura attribuzione autoriale è la Figura femminile lü me (Costa d’Avorio: inizio XX secolo). Zlan, nato a Gangwebe (al confine tra la Costa d’Avorio e la Liberia), alla fine dell’Ottocento, era uno degli scultori più rinomati del popolo Dan. Di sé diceva: “Il mio nome significa Dio, e come Dio capace di dare vita alle cose belle con le mani”. 

Simbolo della dignità femminile, e denominato wunkirle (“la moglie più ospitale del villaggio”, è il Cucchiaio antropomorfo cerimoniale wakemia (“il cucchiaio che agisce”) del popolo Dan (Costa d’Avorio: prima metà del XX secolo). Esso simboleggiava la generosità e il talento: era il collegamento tra la donna che lo deteneva e l’aldilà. Il cucchiaio rappresentava l’equivalente della maschera per gli uomini. L’equilibrio delle gambe semiflesse si coniuga con le masse muscolari delineate. Più avanti si incontra un altro, quasi fiabesco, Cucciaio rituale kulukili del popolo Boa (Congo), in avorio e fili di ottone, anche questo creato con finalità rituali. 

 

 

Proseguendo nella visita, ci si imbatte in due Figure magico-religiose nkisi n’kondi (fatte di legno, specchi, conchiglie, tessuto, rame e piene di chiodi), e una specie di grande porcospino, Figura zoomorfankisi n’kondi: create nel XIX secolo e provenienti dalla Repubblica Democratica del Congo. Queste opere, come le si osservano oggi, sono il risultato di almeno tre interventi successivi.
 La scultura infatti diventava uno nkisi n’kondi soltanto quando conteneva specifiche sostanze medicali e lo spirito di antenati. Lo scultore realizzava la statua, poi interveniva l’uomo di magia che poneva la sostanza magica nella barba e nel contenitore posto sull’addome e protetto da uno specchio (bilongo), infine agiva il divinatore (nganga). Toccava a quest’ultimo invocare e provocare lo spirito dello n’kondi che era nella scultura. Per infastidirlo e suscitarne la reazione, gli veniva esplosa addosso della polvere da sparo. Poi, nel corso della consultazione, lo nganga piantava chiodi, viti, lame e altri oggetti in ferro nel corpo stesso della statua per rendere lo spirito arrabbiato nei confronti dei nemici che si intendeva colpire. Ogni ferro inserito era l’esito di una richiesta, un accordo, la sottoscrizione di particolari voti o il suggello di alleanze. Nel momento in cui il divinatore enunciava l’esito della consultazione, il rito implicava di norma il sacrificio di un animale. Lo n’kondi fungeva altresì da deterrente contro eventuali atti antisociali, assumendo pertanto anche la funzione di controllo del benessere della comunità.

Colpisce per la perfezione delle forme e la grande tecnica dell’artista la Maschera soko mutu,
Hemba (Repubblica Democratica del Congo). Era presumibilmente utilizzata dalle società segrete bugado e bambudye durante le cerimonie funebri. Testimoniava il caos delle temute forze dell’invisibile, contrapposto al mondo ordinato dei viventi. Per metà umana e per metà scimmiesca, l’enorme bocca dal labbro superiore piatto, atteggiata a una sorta di grottesco sorriso, esprime le caratteristiche zoomorfe dello scimpanzé, considerato dagli Hemba un animale infido e feroce,
a volte predatore anche di uomini.
Le maschere soko mutu erano di due dimensioni: quelle più grandi venivano usate per le danze rituali, mentre quelle piccole, come questa, erano conservate nelle abitazioni, fatte oggetto di riti e cerimonie per onorare la memoria degli antenati e invocare la loro protezione. 

 

 

Nella sala successiva c’è una delle sezioni più interessanti della mostra perché il curatore, Bernard de Grunne, ha cercato di raggruppare le opere secondo uno stile simile e ipotizzare la mano di uno stesso artista. Ad esempio, le sorprendenti Figure Mumuye (Nigeria) sono create da un grande maestro (detto il “Maestro di Tara”, dal nome della prima collezione alla quale una di queste statuette appartenne): uno scultore di evidente talento che riuscì a reinventare il volto umano secondo un peculiare approccio analitico-cubista. La caratteristica formale più specifica di questo stile è la straordinaria soluzione della testa plasticamente composta come una bandiera del Regno Unito. La dorsale del naso e l’acconciatura a cresta definiscono il piano verticale, gli occhi quello orizzontale, mentre le orecchie si proiettano a croce con un’angolazione di quarantacinque gradi sotto gli occhi. Un altro specifico elemento stilistico è la presenza di segni di scarificazione costituiti da linee parallele con un motivo frastagliato sulla parte superiore del petto. 

 

 

Sempre de Grunne ha curato la sala successiva dove si dimostra l’“antichità” dell’arte africana. Le sculture prodotte da artisti del popolo Mande, il cui baricentro può essere collocato nel santuario di Kangaba, nel Mali meridionale, fanno infatti parte di una tradizione scultorea estremamente antica e sofisticata, detta Soninke, che si è espressa in opere di terracotta e legno in un periodo compreso tra il 1000 e il 1750. Tra le vette della creazione artistica fiorita nell’antico mondo dei Mande, si annoverano: lo stile architettonico “sudanese” (fusione dell’architettura islamica con l’iconografia di antichi altari e santuari subsahariani); l’apprezzato corpus di letteratura orale, tramandato da poeti e bardi di professione; i centri tecnologici e artistici di lavorazione del ferro; le ricche tradizioni scultoree delle società di iniziazione Bamana. 

Le opere Soninke sono scolpite in modo assai più naturalistico rispetto allo stile dei Dogon (la cui presenza nella regione risale al XIV secolo) e mostrano una grande ricchezza di dettagli iconografici: tuniche, calzoni, copricapi, armi e stivali di pelle. Un’altra caratteristica di questo stile è la presenza sulle tempie delle figure di un motivo peculiare di scarificazione consistente in tre linee lievemente sporgenti. Questo motivo si collega ai nobili Soninke del clan Kagoro, che fuggirono dal regno del Mali meridionale in seguito a complesse contese dinastiche e alla crescente influenza dell’islam presso la corte dell’imperatore del Mali. 

Alcune delle opere in mostra in questa sala, attribuite al cosiddetto “Maestro Soninke della maternità rosa”, sono di una bellezza assoluta e dimostano l’antica grandezza dell’arte africana. La statua lignea più antica, Figura ancestrale (datata 1040) è anche una delle più antiche sculture lignee dell’Africa occidentale: un uomo magro e lungo che è quasi un “ombra della sera” o una statua di Giacometti. Grande importanza hanno il mento e il ventre. Colpiscono le grandi mani attaccate ai fianchi quasi a tenere assieme tutto il corpo.

 

 

In queste figure ancestrali si notano anche una grande varietà dei gesti, posture dei corpi e dettagli iconografici. Ho particolarmente apprezzato quelle, già appartenenti alla cultura degli invasori Dogon, che tengono le braccia alzate verso il cielo, obbligando il corpo a inarcarsi leggermente, piegando appena le ginocchia.

Ci sono poi le pregevoli statue in terracotta della cultura di Djenne, del delta interno del Niger. Perfetta è la Figura femminile gravida e inginocchiata (Mali, 950-1250), ma davvero ammirevoli per la perfezione tecnica e l’originalità della raffigurazione sono la Figura inginocchiata con pustole (Mali, 1330-1490) e l’altra Figura inginocchiata con pustole (Mali, 1030-1270): le pustole che coprono tutto il corpo, come delle borchie di una corazza, producono un singolare gioco di ombre e rilievi.

Ciò che accomuna queste fragili, ma molto ben conservate, statue di terracotta è descritto bene da de Grunne, nel suo secondo saggio compreso nel Catalogo della mostra: “La maggior parte delle sculture esibisce un cranio cilindrico stretto e allungato, con la parte inferiore del volto appiattita lungo l’asse del mento. Gli occhi sporgono dal piano del viso, di solito su una dorsale mediana orizzontale. Il naso triangolare è arrotondato all’estremità, mentre una serie di linee parallele, incise in un quarto di cerchio, rappresenta le narici. La bocca, composta di una doppia sporgenza arrotondata o vagamente triangolare perpendicolare al volto, è di solito socchiusa. Le spalle tendono a essere dritte e le membra ben definite”. 

La stanza successiva, intitolata Un’arte di corte, dedicata all’arte del Benin contiene gli oggetti sicuramente più conosciuti e apprezzati dal pubblico non di specialisti, come le terrecotte e i bronzi di Nok, Igbo-Ukwu, Ife e Owo, che hanno riscosso grande ammirazione alla mostra dei Tesori dell’Antica Nigeria presentata nelle più prestigiose sedi espositive del mondo (tra cui Palazzo Strozzi a Firenze nel 1984). Bronzi come la Testa di Oni Ife, quartiere di Wunmonije, (Nigeria, XII-XV secolo), la Testa di Oni con corona Ife, quartiere di Wunmonije (Nigeria, XII-XV secolo), il Busto di Oni Ife, quartiere di Wunmonije (Nigeria, XV-XVI secolo), la Testa commemorativa di Oba Edo (Nigeria, XVI secolo) o la suggestiva Testa di leopardo Edo, regno del Benin (Nigeria, XVII-XVIII secolo).

 


Non hanno davvero niente da invidiare alla grande arte occidentale dello stesso periodo. Questi volti in ottone, percorsi da striature regolari che sottolineano delicatamente le varie parti della testa, appaiono come il risultato della cultura e della sensibilità di una grande civiltà che ha saputo rappresentare nei volti le varie pieghe dell’anima.

Agli inizi del Cinquecento lo studioso portoghese di origine morava Valentim Fernandes scriveva che “in Sierra Leone ci sono uomini molto raffinati e ingegnosi [che] fanno opere di avorio molto meravigliose da vedere di tutte le cose che si comanda loro di fare, ossia alcuni fanno cucchiai, altri saliere, altri impugnature per daga” La sala dedicata agli oggetti in avorio però mi ha lasciato piuttosto freddo. Delle arzigogolate saliere e dei delicati olifanti si ammira la grandissima tecnica artigianale, la precisone minuziosa degli intarsi, ma non si riesce a liberarsi da un senso di inutile spreco di lavoro e materiale fine a se stesso: roba da Wuderkammer.

Dopo tutto questo biancore eburneo, si entra in una piccola stanza semibuia dove è proibito, per rispetto, fare fotografie. Si tratta infatti della sezione dedicata all’arte del vodu: una delle poche tradizioni culturali africane che adattandosi, modificandosi e modernizzandosi, ma mantenendo una relazione profonda con le problematiche e le paure dell’uomo contemporaneo, è sopravvissuta all’impatto con la cultura occidentale con la quale piuttosto cerca di dialogare. Gigi Pezzoli, che dell’arte del vodu africano è uno dei massimi esperti e collezionisti, ha montato tre “isole” ricche di figure e oggetti che presentano un’estetica “diversa”, apparentemente disordinata, materica, accumulativa, impregnata di sacralità e in persistente divenire (nel Catalogo, l’articolo di riferimento di Pierre Amrouche è intitolato Scultura Fon-vodu del paese di origine. Un’arte profondamente apotropaica).

Nella sezione “L’arte negra”, sempre Gigi Pezzoli, racconta (come già aveva fatto in una sezione della mostra Il cacciatore bianco, a cura di Marco Scotini, ai Frigoriferi Milanesi nel 2017) di come l’Italia, ultimo tra i paesi coloniali, si sia avvicinata all’arte Africana, ricostruendo, con l’esposizione degli oggetti allora esposti, un isolato episodio alla XIII Esposizione Internazionale d’Arte Venezia (1922), quando, alla vigilia dell’avvento del Fascismo, accanto a una mostra di Modigliani e una di Canova, furono mostrate maschere e statue assai significative, accompagnate da didascalie ridicolmente razziste. Poi, per quasi quaranta anni, in Italia non si parlerà più di arte africana. Per rivederla bisognerà attendere il 1959, con l’esposizione Arte del Congo allestita a Roma.

 

Con questo problematico “ponte” tra l’antico e il contemporaneo si entra nelle due ultime sale. Forse le più “deboli” della mostra. Un po’ perché, dopo aver visto opere bellissime, anche un arazzo come quello di un grande artista ghanese come El Anatsui (1944), intitolato Then, the Flashes of Spirit (2011) e fatto di lluminio, tappi di bottiglia e filo di rame, un po’ sfigura. Ma, soprattutto perché, anche dai pochi pezzi esposti, si comprende come, ormai, il mondo tradizionale dell’Africa Nera non esista più, definitivamente mutato nell’impatto con la modernità e con il modello culturale e consumistico dell’Occidente.

A conclusione, nella rassegna delle influenze dell’arte africana sull’arte occidentale, vogliosa di trovare una nuova strada per rompere con il canone classico, spicca la bellissima e inquietante litografia di Paul Klee, Die Heilige vom inneren Licht (La Santa dalla luce interiore, 1921) che interpreta bene questo possibile dialogo-viaggio alla ricerca del senso dell’ineffabile. 

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