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Il volto e le metamorfosi

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I quasi duecento dipinti che ci ha lasciato Tetsuya Ishida, pittore giapponese morto nel 2005 a soli 31 anni, ritraggono persone che hanno in comune lo stesso identico volto. Il modello originario e di gran lunga più ricorrente è un giovane uomo o ragazzo dai capelli corti, l’espressione malinconica e lo sguardo trasognato, ma i soggetti raffigurati includono anche altri uomini, donne, anziani e bambini che condividono le medesime caratteristiche. «All’inizio era un autoritratto» annotava nel 1999 Ishida sul suo taccuino. «Volevo provare a fare di me stesso – del mio sé debole, patetico e ansioso – qualcosa di buffo, di cui si potesse ridere. […] Allargai poi la prospettiva ai consumatori, agli abitanti della città, ai lavoratori e a tutti i giapponesi.»

 

Come indica il nome Komon, il protagonista di un racconto di Kōbō Abe intitolato “Dendrocacalia” (1950) è l’uomo comune, o in altre parole un personaggio privo di una reale individualità, nel quale si riflettono i problemi e le contraddizioni di un intero corpo sociale. È esattamente come il sasso sul ciglio della strada che lui stesso calcia all’inizio della storia – «un sasso qualsiasi, insignificante» –, sperimentando poi la prima premonizione degli avvenimenti successivi: «Un comportamento del tutto naturale gli parve, d’un tratto, bizzarro». Il dettaglio chiarifica un modo di procedere tipico dell’opera di Abe, ed è presente in una delle storie che meglio denotano il suo talento nella descrizione iper-realistica di situazioni surreali, a cominciare dalla memorabile trasformazione in pianta in cui culmina la vicenda del protagonista.

 

Diversi tubi strisciavano lungo la serra dividendola in comparti. Komon venne condotto in un angolo; il direttore e il giardiniere lo presero di peso da entrambi i lati e lo piantarono in un grande vaso. Non aveva più la forza di opporre resistenza. Intanto iniziava ad albeggiare. L’umidità si accumulava pesante sui vetri, il vapore colava gocciolando come cera. Dietro di lui stava prostrata una rara pianta tropicale che frusciava come un ventilatore ad ogni suo movimento.

«È pronto signor Dendrocacalia?»

Komon annuì con un debole cenno del capo.

Chiuse gli occhi e alzò le mani, acquietato, verso il sole non ancora sorto.

Poi scomparve e al suo posto rimase un albero non bello, con le foglie simili ai petali di un crisantemo. 

«Me la aspettavo più bella, non è un granché!», pensò il nuovo giardiniere.

 

Can’t Fly Anymore (1996).


Il tema della metamorfosi inquietante, di primaria importanza sia nella narrativa di Kōbō Abe che nei dipinti di Tetsuya Ishida, si sviluppa in entrambi i casi a partire da una riflessione sulle alienanti condizioni di vita contemporanee. L’uomo-macchina che compare in molti dipinti di Ishida è l’individuo isolato come milioni di altri suoi simili all’interno di città sempre più grandi e spersonalizzanti, o il comune impiegato oppresso dalla burocrazia e dall’inarrestabile processo di automazione del lavoro, ed è soggetto a una reificazione più o meno invasiva che l’ha tramutato in uno strano ibrido meccanico dotato di un volto. È quasi sempre immobile e costretto in spazi angusti come un prigioniero, e nelle rare situazioni che implicano un tentativo di fuga la sua impotenza emerge con accenti addirittura patetici, come quando in un dipinto lo vediamo correre sul rullo di una catena di montaggio, o in un altro, dal titolo Can’t Fly Anymore (1996), mentre mima il volo all’interno di un modellino di aereo che ha tutta l’aria di essere l’attrazione di un vecchio e anacronistico parco a tema.

 

Rispetto all’imprescindibile modello kafkiano, le numerose metamorfosi presenti nei racconti giovanili di Abe colpiscono soprattutto per la netta predominanza del regno inorganico su quello animale. Un uomo in preda alla disperazione per l’impossibilità di trovare una casa si trasforma in un bozzolo (Il bozzolo rosso, 1950); una donna risucchiata dagli ingranaggi dell’arcolaio viene ridotta a un filo di lana (La vita di un poeta, 1951); un padre diventa un bastone (Il bastone, 1955); e così via. In un bel saggio di Gianluca Coci queste metamorfosi sono ricondotte al tema della standardizzazione dell’individuo nel mondo industrializzato, accostate a un’osservazione di Marx che risulta illuminante: «L’operaio ripone la sua vita nell’oggetto, d’ora in poi la sua vita non appartiene più a lui, ma all’oggetto». Nel racconto L’inondazione (1950), del resto, Abe aveva immaginato perfino una surreale allegoria della rivoluzione proletaria, descrivendo la metamorfosi collettiva degli operai che di colpo cominciano a liquefarsi e a provocare una serie di catastrofiche conseguenze.

 

Recalled (1998).


La lettura sociale corrisponde al livello di fruizione più immediato dei dipinti di Ishida, ma è spesso inadeguata per descrivere la loro singolare bellezza. In soli dieci anni di attività, dal 1995 al 2004, Ishida non si limitò ad affinare una tecnica stilistica già stupefacente, ma continuò a rielaborare un repertorio di motivi che pur mantenendo una grande coerenza interna divenne via via più ampio e complesso. Le figure della metamorfosi includevano fin dagli esordi alcune varianti peculiari, che vanno dalle differenti incarnazioni dell’uomo-oggetto a quelle dell’uomo-animale (insetto, ragno, crostaceo…); di anno in anno, però, nonostante il perfezionamento dello stile iper-realistico, alla concretezza delle trasformazioni iniziali subentrò una maggiore enfasi simbolica, accompagnata da una ridefinizione delle figure umane e degli ambienti che vide il progressivo emergere di scene collettive, di spazi aperti e della natura, nelle due forme dell’erba e dell’acqua. «Da un paio d’anni ho smesso di concentrarmi sul significato» osservò l’artista nel 2001, «e ho cominciato a dipingere con le immagini».

 

Anche in Abe il tema della metamorfosi è soggetto a mutamenti, e soprattutto a partire dai romanzi esistenzialisti degli anni ‘60 si arricchisce di valori che travalicano l’orizzonte allegorico. Il nucleo simbolico del capolavoro La donna di sabbia (1962), una casa edificata tra le dune sul fondo di una buca, è un luogo ambiguo dove il protagonista viene accolto da una donna e fatto prigioniero, ma dove impara anche a conoscere una libertà interiore nei confronti del mondo esterno: «Benché si trovasse tuttora in fondo alla buca, l’uomo si sentiva ormai come in cima a una torre altissima. […] La trasformazione della sabbia significava la sua trasformazione. Aveva estratto dalla sabbia, insieme all’acqua, un nuovo se stesso». In L’uomo-scatola (1973) la metamorfosi riguarda invece il diverso punto di vista di un uomo che decide di spiare il mondo da una finestrella ricavata in una scatola di cartone, nella consapevolezza però di una conturbante reversibilità dei ruoli: «se chi viene guardato restituisce lo sguardo, la persona che stava guardando a sua volta finisce col trovarsi dalla parte di chi viene guardato».

 

Prisoner (1999); Rescue (2003).


L’uomo dai capelli corti dei dipinti di Ishida ha uno sguardo perso nel vuoto che a un esame più accurato, spesso, somiglia allo sguardo di una persona in attesa di qualcosa. Anche se i suoi occhi non sono rivolti in modo diretto allo spettatore, l’impressione è che l’uomo si predisponga a essere osservato, in una sorta di appello silenzioso che può far pensare a una richiesta di aiuto. In alcuni dipinti la dinamica di questa osservazione reciproca è tradotta in figura, con l’uomo che guarda e che diviene oggetto dell’altrui sguardo. In Prisoner (1999) è un gigante che osserva i bambini nel cortile di una scuola, e per il quale l’edificio in cui è intrappolato – come in altri dipinti un numero incalcolabile di oggetti e animali – sembrerebbe una specie di guscio protettivo. In Rescue (2003) una donna accompagnata da un bambino tende le mani verso una persona non mostrata, che si suppone essere l’uomo dai capelli corti o una sua incarnazione infantile: il punto di vista di quest’ultima, per via dell’ennesimo capovolgimento, coincide con quello dello spettatore.

 

Abe scrisse che la sua passione per le cose irreali era dettata esclusivamente «dalla volontà di guardare sempre in faccia la realtà», andando oltre il muro di stereotipi che compone la nostra vita quotidiana. Il suo modello ideale di romanzo rifiutava anche a livello strutturale le convenzioni del genere, era privo di una trama definita e si componeva mediante associazioni ispirate alla logica onirica: «Mi piace mettere insieme frammenti di svariate immagini, uno accanto all’altro, intelligibili se presi singolarmente ma non nell’insieme. All’inizio sono allineati orizzontalmente, ma di colpo possono spostarsi verticalmente, come una specie di labirinto in movimento». L’esperienza dell’Abe Kōbō Studio, una compagnia teatrale fondata nel 1973 e attiva per sette anni, consentì all’autore di esplorare possibilità espressive che non fossero basate soltanto sulla parola, e che orientarono anche la sua attività di romanziere verso una sperimentazione sempre più radicale. Abe era particolarmente interessato a mettere in scena e a tradurre in narrazione il linguaggio dell’inconscio, e aveva preso l’abitudine di tenere un piccolo registratore sul comodino accanto al proprio letto, così da poter registrare nel modo più fedele possibile i suoi sogni.

 

Untitled (2001).


Diversi dipinti di Ishida, come testimoniano le migliaia di schizzi trovati nei suoi taccuini, nacquero da visioni oniriche. Negli ultimi anni di attività questo metodo diede origine a opere particolarmente complesse, dove emergono contrapposizioni e sovrapposizioni di figure e ambienti che paiono appartenere a vari livelli di realtà. Uno dei motivi cruciali di questi lavori è la dialettica tra spazio interno ed esterno, resa per mezzo di nuove soluzioni espressive date dalla contaminazione dei due piani e dal loro rovesciamento. In un dipinto che è stato interpretato come una sinistra profezia della sua morte, Untitled (2001), l’interno della camera si è trasformato in un giardino, mentre l’unica cosa che si distingue nel panorama bianco e spettrale dell’esterno è la sagoma di un treno. Nella stanza un ragazzo è seduto sul proprio letto di pietra, sotto il quale si intravede il cadavere del suo doppio, e sembra attendere a una commemorazione funebre. Per una volta, come in pochissimi altri dipinti, il suo volto non è mostrato e sembra sottrarsi alla vista altrui.

 

Nell’ultimo romanzo pubblicato da Abe, Il quaderno canguro (1991), il topos dell’uomo-vegetale si carica di suggestioni legate a una simbologia di morte e rinascita, perché rimanda all’ambito della sepoltura e della crescita di nuove piante dal suolo. Il romanzo si apre con la comparsa di alcuni germogli di daikon, o ravanello giapponese, sulle gambe di un uomo, e narra poi della sua visita in ospedale e del suo assurdo viaggio in un limbo sotterraneo al confine tra la vita e la morte. L’idea del “quaderno canguro” vagheggiata dal protagonista – ovvero di un quaderno dotato di una tasca in cui inserire un altro quaderno dotato di una tasca… e così via – riflette al tempo stesso un’immagine ideale della letteratura “labirintica” cara all’autore e un suggestivo esempio di vertigine onirica, confrontabile con quella che nel finale del romanzo riprende e amplifica le riflessioni sullo sguardo sviluppate in L’uomo-scatola:

 

La scatola non è di normale cartone. È solida e resistente, come plastica dura.

Sul davanti c’è una piccola apertura. Una fessura simile a quella delle buche delle lettere.

Provo a guardare fuori. Vedo me stesso da dietro. E l’altro me stesso sta guardando anche lui attraverso un buco.

Sembra terrorizzato.

E io sono terrorizzato almeno quanto lui.

 

Ishida venne investito da un treno presso un passaggio a livello. La dinamica dei fatti lascia pensare a un suicidio, ma non è comunque possibile escludere che si sia trattato di un incidente. I dollari americani trovati nelle sue tasche e un presunto progetto di trasferirsi in America, per alcuni, sarebbero dettagli sufficienti per avallare questa seconda ipotesi. Diverse figure che attraversano le sue ultime opere, del resto, colpiscono come espressioni ossessive di un disagio interiore che mai prima di allora si era manifestato in forma altrettanto acuta. Nei dipinti in cui l’uomo dai capelli corti è ritratto nudo, l’assenza della barriera protettiva che anche la più alienante metamorfosi gli concedeva si accompagna all’impressione di una vulnerabilità ancora più estrema. In alcuni dipinti compaiono sul suo corpo le linee di una mappa, e in altri, come in Metastasis (2004), il volto ripetuto di una ragazza, che è forse la stessa che lo sta tenendo per mano. Talvolta sono gli elementi del paesaggio esterno a invadere l’intimità di una camera senza pareti, mentre minuscole figure di bambini adombrano il tema della perdita e del lutto. In questo scenario desolato, privo di coordinate e dove ogni confine è stato abbattuto, l’immagine ricorrente di uno zaino dalle numerose tasche sembra evocata dall’artista come una forma di talismano: l’involucro protettivo, qui, non coincide più con l’oggetto responsabile di una dolorosa immobilità, ma è un simbolo di passaggio e transizione che l’uomo porta con sé per raggiungere nuove mete. Il guscio e la gabbia, in altre parole, non sono più la stessa cosa. Ora l’uomo-macchina ha abbandonato la sua mostruosa metamorfosi, ha lo sguardo rivolto davanti a sé, ed è un viaggiatore.

 

Lost Child (2004); Metastasis (2004). 

 

Note di lettura

 

Le opere di Kōbō Abe tradotte in italiano sono: La donna di sabbia (Longanesi 1962; Guanda 1990); L’arca ciliegio (Spirali 1989); L’uomo-scatola (Einaudi 1992); Tre metamorfosi (Marsilio 1996; contiene i racconti “Dendrocacalia”, “L’invenzione di R62” e “L’appendice”); L’incontro segreto (Manni 2005); Il quaderno canguro (Atmosphere 2016). Altri suoi racconti tradotti in italiano si possono leggere in Novelle e saggi giapponesi (a cura di Takata Hideki, Istituto Giapponese di Cultura 1985; contiene “Il bozzolo rosso” e “Il bastone”), in Cent’anni di racconti dal Giappone (a cura di Cristiana Ceci, Mondadori 1992; contiene “Il gesso magico” e “L’uovo di piombo”) e in La leggenda della nave di carta. Racconti di fantascienza giapponese (Fanucci 2002; contiene “Il diluvio”). Quest’ultimo racconto era stato già pubblicato col titolo “L’inondazione” su «Linea d’ombra», nel numero di ottobre 1989. Per la saggistica in italiano si segnalano in particolare un saggio di Gianluca Coci, Abe Kōbō e il labirinto dell’esistenza, «Il Giappone», 39, 1999, e una recente monografia dello stesso Coci, Utopia, sperimentalismo e rivoluzione nell’opera di Abe Kōbō, Atmosphere 2016.

 

Il volume più esauriente sull’opera di Ishida è Tetsuya Ishida – Complete (Kyuryudo 2010), che oltre alle riproduzioni di tutti i suoi dipinti contiene testi in giapponese e in inglese. Un’alternativa più economica è il volume Tetsuya Ishida Posthumous Works (Kyuryudo 2006), che include una selezione di dipinti e contiene solo testi in giapponese. La stessa casa editrice ha pubblicato nel 2013 un volume che riproduce molti schizzi ritrovati sui taccuini dell’artista, accostandoli ai dipinti corrispondenti e a un apparato di note in giapponese. Alcuni dipinti di Ishida furono esposti nel 2015 alla Biennale di Venezia. La prima mostra europea interamente dedicata all’artista sarà ospitata a Madrid, nel Palacio de Velázquez, dal 12 aprile all'8 settembre 2019.

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Elogio del neokitsch (berlinese)

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In linea di principio, l’opera d’arte è sempre stata riproducibile. Una cosa fatta dagli uomini ha sempre potuto essere rifatta da uomini. (W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica.)

 

Da una decina d’anni (a ottobre 2019 saranno esattamente dieci) il busto di Nefertiti (Nofretete per i tedeschi) è tornato sull’isola dei musei berlinesi al Neues Museum, ristrutturato in pieno centro storico-culturale. La bella regina dagli zigomi alti e dal collo lunghissimo fa ormai parte del repertorio di oggetti d’arte che sono passati dalla fruizione elitaria a quella massificata e che attirano folle di visitatori interessati esclusivamente a identificare quei certi pezzi (Gioconda, Primavera, Partenone ecc.) restando totalmente indifferenti a quanto stia loro intorno e al gusto di scoprire cose nuove. Metafora dell’industria culturale che sposta orde di viaggiatori da un’opera (luogo di memoria, monumento, artefatto) eccellente all’altra senza far perdere tempo prezioso tra le banali infrastrutture che costituiscono il tessuto connettivo di un museo, città o paese. Una catena di montaggio senza fine, priva di sorprese, belle o brutte, trionfo dell’armonia banalizzata. L’apollineo ridotto a mediocre convenzionalità che conosce come esperienza dionisiaca soltanto il pathos di rubare un selfie di fronte al capolavoro di turno sfuggendo al controllo dei custodi. Recente è l’invito dei responsabili di Auschwitz a evitare foto scattate in equilibrio sui tristemente famosi binari. Protagonisti di tali prodezze sono quegli stessi visitatori che inneggiano a Basquiat o Banksy purché ibernati tra le mura di una galleria, unico contesto in cui, dal loro punto di vista, la street art perde la sua minacciosa natura di indegnità da strada. In altre parole, si perpetua il concetto di album o antologia che raccoglie il meglio (o ciò che i responsabili hanno ritenuto tale) di un determinato ambito culturale e lo fornisce selezionato, ripulito, isolato da ogni vile contesto, liofilizzato. Pronto per il consumo, immediato e appagante, per chi capacità di scelta non abbia mai elaborato e di senso critico sia sprovvisto. Così anche un reperto di portata sublime come il busto della regina egiziana del 1345 ca. a. c. perde la sua valenza primaria e si abbassa fino ad assomigliare a una sua qualunque replica distribuita nei vari empori di souvenir.

 

Addirittura, la vera opera d’arte non è più quella originale, piccola, difficile da vedere per la folla che le si ammassa davanti, spesso deludente per gli occhi affamati di emozioni immediate, ma la riproduzione patinata e disponibile per tutti, in vendita nei gettonatissimi punti strategici. Questa modalità di fruizione, che trasforma le opere d’arte in icone mediatiche, allontana dal pensiero interpretativo (inutile e impegnativo) e invita ad adeguarsi all’apprezzamento puramente viscerale (facile e immediato), che prevede tra l’altro nel suo kit frasi fatte di commento, reazioni pseudo-estetiche preconfezionate e, soprattutto, la tanto agognata condivisione immediata con tutte le altre persone, fisicamente presenti o idealmente partecipi, che spartiscono l’ennesima finta emozione, universale ma vuota. Non si corrono rischi in questo modo, nessuno potrà essere messo in crisi o posto di fronte a complesse responsabilità. Assieme al piacere di aver goduto del “bello”, sciorinato senza alcun trauma, si porta a casa l’illusione di essere entrati a far parte della schiera dei colti intellettuali, indifferenti al fatto di aver liquidato il tutto con un paio di aggettivi seriali o di avere spiccicato, nel migliore dei casi, una sequela di luoghi comuni spacciati per pensieri profondi. Conformismo di massa sub specie di finto individualismo illuminato. Vladimir Nabokov aveva analizzato questo atteggiamento (1941) identificandolo come specifico di una certa cultura russa, pošlost’ (filisteismo). Più volgare che ruttare in pubblico è chiedere pardon in francese dopo aver ruttato. Oggi le sue considerazioni si sono allargate a coprire il mondo intero e la sua categoria etico-estetica dialoga da tempo con il kitsch sulle pagine di studi internazionali. Scrive Vanni Codeluppi: “In realtà, le motivazioni che orientano i comportamenti di consumo sono ancora quelle che derivano dalla ricerca di differenziazione sociale. Sono cioè quelle che derivano dal bisogno degli individui di credersi diversi da ciò che si è”.

 

Torniamo a Berlino e ad alcune realtà della capitale tedesca in cui l’analisi del kitsch, consapevole o inconscio, può offrire originali spunti di riflessione. L’idea per queste pagine è nata mentre visitavo per l’ennesima volta, attratto dal fascino di tanta e diversificata merce riunita sotto un solo tetto, un centro commerciale vietnamita che sorge nella periferia est della capitale: il Dong Xuan Center. Otto padiglioni uguali e distinti che si ergono a Lichtenberg sul territorio che, ai tempi della Repubblica Democratica Tedesca, era occupato da VEB Elektrokohle, l’industria che forniva prodotti di grafite all’intero Paese e impiegava circa 3000 operai. Il crollo del muro portò alla chiusura dell’impresa e all’abbattimento delle sue strutture. Un giovane vietnamita, Minh Nguyen Huu, faceva parte di quella grossa comunità asiatica in terra germanica che la DDR aveva accolto come popolo amico, a cui aveva fornito istruzione o contratti di lavoro ma per un massimo di cinque anni. Dopo la caduta del socialismo reale, si parla di circa 60.000 vietnamiti presenti nella Berlino riunificata, molti di questi per sopravvivere si diedero alla delinquenza o ai traffici illegali. Fu nel 2006 che l’idea di riscatto del giovane si concretizzò. Il centro commerciale, chiamato Dong Xuan (Prato di primavera) come quello di Hanoi, aprì le sue porte e offrì inusitate occasioni di lavoro ai concittadini, affiancandosi ai molti ristoranti nascenti e fornendo loro anche le preziose materie prime per cucinare autentico cibo vietnamita.

 

Il Dong Xuan Center di Berlino.


Oggi, sotto le volte degli otto padiglioni, fervono attività commerciali all’ingrosso e al minuto, gestite da vietnamiti (cica 16.000 nella Berlino odierna, 4000 dei quali stanziati a Lichtenberg), pakistani, indiani, turchi che propongono abbigliamento, elettrodomestici, oggettistica, giocattoli, parrucchieri, fiori di plastica, strutture per saloni di manicure, ristoranti e negozi di alimentari. Il tutto in una sequenza caotica e avvincente allo stesso tempo, tra tempietti buddisti votivi all’ingresso dei singoli reparti e afrori misti che vanno dagli olezzi dei centri estetici ai profumi di cibo emanati dalle cucine. Inevitabile parrebbe il giudizio di kitsch, per lo meno a una prima osservazione superficiale: ridondanza, ripetitività, accumulo, finto autentico, finto bello trionfano ovunque.

 

Trionfo di fiori di plastica al Dong Xuan Center di Berlino.


Uno dei negozi al Dong Xuan Center di Berlino.


E Nefertiti? Che c’entra? Ebbene, c’è posto anche per lei. Accanto a cento altri personaggi riprodotti in serie, vero inconsapevole omaggio a Walter Benjamin, troneggiano pure le copie della regina. 

“Moltiplicando la riproduzione, essa pone al posto di un evento unico una serie quantitativa di eventi”. Ecco allora le replicanti vendute per tre soldi, in diverse dimensioni e, particolare non trascurabile, dotate di entrambi gli occhi. Come dire, non solo vi offriamo una Nefertiti abbordabile, ma le rendiamo ulteriore giustizia rimediando al difettuccio dell’originale, quell’orbita oculare destra così vuota e inquietante. 

 

Lo scaffale delle Nefertiti in uno dei negozi del Dong Xuan Center di Berlino.


Come interpretare diversamente la volontà dei creatori delle riproduzioni? Il kitsch più autentico si compiace di rimuovere il brutto, lo scomodo, la merda, come scriveva Milan Kundera. Mette tutto a posto in modo da garantire che l’esperienza estetica sia distensiva e spensierata. Quanto funestamente attuale, anche al di fuori dei casi specifici di cui mi occupo in questa sede, risulta tale atteggiamento. E in settori e ambiti della vita, dalla politica allo spettacolo, dalla scuola alla stampa, che in teoria dovrebbero prenderne nette distanze anziché assecondarlo. La semplificazione, la riduzione di concetti complessi e importanti a nozioni banali per favorirne la divulgazione, l’innalzamento della convenzionalità a valore, l’elargizione di emozioni fasulle trionfano, ben al di fuori del centro commerciale in questione e pongono allarmanti incognite rispetto al futuro dell’umanità. Torniamo al nostro problema, solo apparentemente folcloristico e settoriale, e riprendiamo il ragionamento.

 

È noto e dimostrato che siano fruitore e fruizione a rendere kitsch un oggetto o un’esperienza. E dunque, chi sono gli acquirenti del centro vietnamita? Che cosa li porta là? Partiamo da chi vietnamita non è. Tedeschi, russi e polacchi non ricchi in prima istanza, attratti dai prezzi concorrenziali, che puntano ai reparti abbigliamento (l’acrilico trionfa, la vera lana o la vera seta non esistono), ai settori giocattoli e regali, agli articoli per la casa, molto più scarsamente alle sezioni commestibili. E scopriremo presto il perché. Gli unici tratti autentici, dove “l’hic et nunc dell’opera d’arte” ancora “costituisce il concetto della sua autenticità” (Benjamin), sono proprio i ristoranti e gli empori alimentari. Là non si fanno sconti al turismo, al gusto straniero. Nei giorni feriali centinaia di vietnamiti convengono al centro per rifornire sé stessi o i propri ristoranti di materie prime. Nei giorni festivi centinaia di vietnamiti si danno appuntamento al centro per celebrare le ricorrenze convivialmente. Nessun prodotto o piatto viene semplificato o adeguato perché piaccia a ogni costo a eventuali stranieri, anzi. Ci si fonda proprio sul gusto e sull’orgoglio di essere autentici, quindi, per molti palati non DOC, scomodi o fastidiosi. Responsabilità che affonda le proprie radici anche nella storia politica. I locali del Dong Xuan citano Hanoi e non Saigon, come fanno invece molti loro omologhi di Kant Straβe, a Berlino Ovest, dove anche il cibo servito ha subito parecchi adattamenti al gusto indigeno. Il muro di Berlino è caduto trent’anni fa, ma certe percezioni di confine e appartenenza non demordono. Il ritratto di Ho Chi Minh è presente in quasi ogni ristorante del centro commerciale di Lichtenberg, a differenza di quanto si riscontra nell’ex settore occidentale della città. Verdure, carni, salse, spezie, prodotti freschi e conservati si ammassano nei corridoi tra i banconi, fino alle vasche che contengono pesci vivi, brutalmente accoppati sul pavimento dagli inservienti dopo che il cliente ha compiuto la propria scelta. Le foto di queste operazioni non sono gradite, anzi vivacemente contestate. Eventuali denunce per maltrattamento di animali non mancherebbero, ma si scontrerebbero con quell’idea di veridicità che in questi territori ancora resiste. Acquirenti dei gadget più grotteschi sono invece quegli avventori, non attratti dalla prospettiva di una visita museale e non particolarmente colti che, dopo le imperative spese discount, si concedono un piccolo extra estetico-ornamentale in un ambiente loro più sintonico di quanto sarebbe una galleria d’arte.

Ha senso dopo queste considerazioni guardare con occhi diversi anche la moltiplicazione delle Nefertiti? Accanto a loro, secondo lo stesso principio, fianco a fianco con il trash più estremo (scheletri osceni, figure femminile discinte, mostri erotico-funerari), si allineano anche simulacri di Buddha e di altre divinità orientali. Difficile diventa discernere tra il blasfemo e il religioso. Come in molti banchi-souvenir annessi a cattedrali o abbazie cattoliche, per altro.  

  

  

Banchi di oggettistica al Dong Xuan Center di Berlino.


Riprenderò il problema del kitsch religioso nelle puntate successive. Accantoniamo la Nefertiti vietnamita, elemento di “omaggio” a Berlino in mezzo a un universo di paccottiglia variegato e indistinto, e torniamo al punto da cui abbiamo preso le mosse. Per essere più precisi, al sito webshop del Neues Museum in cui si illustrano, e vendono, i gingilli legati all’esposizione museale. Dopo cataloghi, porta chiavi, gioielli, carte da gioco, magneti e segnalibri che riprendono e riproducono svariati elementi in mostra (gettonatissima è la dea-gatta Bastet), si arriva a lei, Nefertiti, prima in forma di maschera proteggi occhi (come quelle fornite in aereo per poter dormire), poi di busto in copia conforme all’originale. La prima, in questo caso l’occhio sinistro è risolto con un ambiguo chiaro-scuro (permane evidentemente l’idea kitsch di non perturbare l’utente), si ferma a 9,95 euro.

 

Il secondo, in grandezza naturale e a colori, raggiunge la considerevole quotazione di 8.900 euro e, forse per questo, non ripara la mancanza oculare ma rispetta l’orbita vuota mai portata a termine.

 

Come a voler dire, per un cliente che si possa permettere una cifra tanto ragguardevole il rischio di cadere nel kitsch non è previsto. E invece no. Il kitsch sta anche in questo. Anzi, qui si torna alla pošlost’ nabokoviana perché la supponenza in questione coinvolge l’etica oltre che l’estetica. A questo punto la differenza tra il negozio del centro vietnamita e quello del museo sta solo nel fatto, non trascurabile, che il secondo, a poche decine di metri dai falsi, possa vantare la presenza dell’originale, mentre per quanto riguarda il primo abbiamo visto che l’originalità è concentrata in tutt’altri articoli. Ma all’eventuale acquirente della copia interessa qualcosa dell’originale? Probabilmente no, esattamente come per il suo omologo del centro commerciale, ma con quali differenze di base. Non è un tradimento dell’arte vera, un insulto proprio all’originale pretendere di venderne una replica in sede e a un prezzo che di primo acchito può sembrare caro, ma che in realtà altro non è che uno specchietto per allodole danarose e ignoranti? Strizzando l’occhio al filisteo di passaggio a cui non paia vero di portarsi a casa un pezzo di museo, più che da museo, per adornare il comò in camera da letto o l’alzatina nel salone. Da fare invidia al Castello delle cerimonie e al boudoir di donna Imma. Il compratore proletario è sicuramente più autentico e immediato nelle sue scelte, meno proiettato verso retrive aspirazioni. Il vero fruitore camp, nel suo sprezzante snobismo da conoscitore, non avrebbe dubbi tra la copia da pochi euro, arricchita dall’aura kitsch in cui è immersa, e questo tanto falso quanto pretenzioso reperto, se proprio volesse una Nefertiti in casa per ironizzare sulla volgarità. Ma la legittimazione del costo notevole altro non è che un’ennesima freccia nella faretra della volgarizzazione a oltranza. A cui contribuiscono, nel caso del museo, le note illustrative: “Questa copia è l’unico modello disponibile in commercio realizzato da un museo e sviluppato in un processo di lavorazione di 2 anni. La copia del museo è stata creata in cooperazione con il laboratorio di ricerca Rathgen e in stretta collaborazione con il Museo egizio e la Collezione di papiri dei Musei Statali di Berlino. La nuova replica del museo è disponibile per 8.900 euro e può essere ordinata qui”. Insomma, una copia con certificato di autenticità. Concludo questa prima escursione citando Andrea Mecacci quando commenta la pošlost’ nabokoviana nel suo bel libro dedicato al kitsch. Un oggetto come questo stimola “la volgarità del parvenu, l’atteggiarsi a ciò che realmente non si è, l’arrivismo ammantato di eleganza: è la contraffazione del soggetto”. A dispetto del portafoglio. O, forse, proprio grazie a quest’ultimo.

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Capre e design. L’ecologia vintage

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L’ambizione del designer inglese Thomas Thwaites è di essere una capra. Si è fatto aiutare da esperti, ha studiato a fondo abitudini e attitudini delle capre, ha progettato e costruito uno stomaco artificiale, una protesi che gli permette di sistemarsi nella posizione giusta, a quattro zampe, e finalmente nel 2016 è andato sulle Alpi per passare tre giorni interi da capra. Questa e molte altre esperienze e progetti sono riuniti nella mostra Broken Nature, visitabile alla Triennale di Milano fino al 1 settembre 2019. La Triennale è uno dei crocevia fondamentali da cui transita il popolo del design durante la settimana del mobile milanese. Io sono qui a caccia di ecologia, voglio capire che fine ha fatto nel design del 2019 e ho deciso di iniziare dalla Triennale. 

 

Milano, Settimana del mobile 2019.


Entrando nel magnifico palazzo di Muzio, non posso fare a meno di passare dal neonato Museo del Design Italiano, qualcosa che dovrebbe esistere da decenni, e di cui questa sarebbe la prima parte. Cerco i 500.000 euro spesi per l’allestimento ma vedo solo cubi in idropittura bianca su cui stanno appoggiati alcuni oggetti iconici dagli anni ’50 agli ’80, illuminati da faretti. Arrivo a Broken Nature. L’esposizione curata da Paola Antonelli riunisce esperienze, proposte, idee, opere provenienti da tutto il mondo intorno al tema del rapporto uomo-natura. Gli organizzatori parlano di design, architettura e arte ricostituente. La sensazione che se ne ricava è quella dell’urgenza. Qualcosa ci è sfuggito di mano, ormai l’abbiamo capito tutti, quello che non abbiamo capito è come fare a rimediare prima che sia troppo tardi, e allora, ognuno a suo modo, ci prova. In questa agitazione che assomiglia terribilmente a un grido di aiuto, i primi che focalizziamo e a cui chiediamo aiuto, sono gli animali. Ecco allora chi vuol essere capra alla ricerca di una selvatichezza perduta, chi lavora sui bonobo perché risolvono i conflitti amandosi sessualmente, chi cerca di aumentare la comprensione dell’altro inventando indumenti di metallo che permettono anche ai maschi di conoscere i dolori che accompagnano i cicli femminili. Su tutti incombe l’ombra della catastrofe imminente. Questi sono gli anni della fortuna delle distopie e, immaginando un futuro terribile, ci consoliamo del presente, magari con progetti che permettono di rendere commestibili i rifiuti, mentre ovviamente riciclo, riuso, risparmio, recupero, riduzione, la cultura della R, la Rultura, la fa da regina. 

 

Broken Nature. Thomas Thwaites, protesi da capra.


A ricordarci quanto ancora la nostra percezione del mondo sia condizionata, parziale e lontana dal reale, ci pensa la mostra che sta di fianco, La nazione delle piante, curata da Stefano Mancuso, fondatore del LINV, Laboratorio di Neurobiologia Vegetale, che da anni lavora sulla sensibilità delle piante. La mostra si apre ricordando alcuni dati che da soli basterebbero a ridicolizzare ogni delirio di onnipotenza dell’uomo. Siamo lo 0,01 % di tutto ciò che vive sul pianeta, parte di quello 0,3 % che è formato dagli animali. Tolto un 17,9 % di funghi e batteri, il resto sono piante. L’esposizione è una spettacolarizzazione della parte più pop del lavoro dell’équipe di Mancuso e mira a cambiare la nostra percezione delle piante, proposte come portatrici di soluzioni per il futuro dell’uomo.

 

Broken Nature. Materiali da costruzione alternativi da vegetali.


Gli eventi del Fuorisalone, cioè tutto quello che accade in città durante la manifestazione fieristica, sono oltre 400 e, come succede quasi sempre in queste occasioni, il programma che mi sono fatto viene stravolto e la mia ricognizione alla ricerca dell’ecologia oggi continua in luoghi inaspettati. L’appuntamento è al Planetario. C’è una fila di oltre trenta metri. Poi saprò che aspettavano di vedere ragnetti che producevano ragnatele ben illuminate. Il delirio da maratona del design è una fase obbligatoria per gli operatori. È in quel turbine che a un certo punto cominciano a prendere forma le tendenze dell’annata. Dopo diverse ore e una trentina di mostre, seduto su una panchina non di design in mezzo alla folla di zona Tortona, la situazione lentamente si chiarisce e il sapore si rivela. Direi un’annata particolarmente insipida, si conferma un deciso retrogusto anni ’50, colore tendente al nature, assenza di sorprese, da segnalare la presenza su tutte le etichette della parola sostenibile

 

Broken Nature. Installazione in vetro.


La maniera migliore per neutralizzare un nemico è farselo amico, dargli un posto in squadra, e questo il design l’ha capito egregiamente. Il vero problema tra cultura ecologica e sistema industriale è che sono semplicemente incompatibili. L’ecologia, come cultura di attenzione all’ambiente, nasce perché e quando il sistema industriale comincia a distruggerlo a metà dell’Ottocento. L’unica cosa che può fare è distruggere di meno e allora ecco che quando la pressione dell’opinione pubblica diventa impossibile da ignorare, tra le soluzioni proposte dalla cultura ecologica si scelgono quelle che riescono a rientrare nella logica produttiva industriale. I soli concetti che si incontrano sono: riduzione degli sprechi, riciclo, materiali di riuso e, sparsa ovunque come una spezia magica, la sostenibilità, meraviglioso termine contenitore che, come il nero, va su tutto. 

 

Broken Nature. Scultura ispirata ai bonobo.


All’orto botanico di Brera m’imbatto in una curiosa domanda: può un materiale partire dalla terra e tornare alla terra? La risposta parrebbe ovvia: certo che sì, basta usare, appunto, la terra, non a caso è uno dei primi materiali da costruzione, è totalmente riciclabile, è un ottimo isolante e ha un costo irrisorio, lo sanno anche i bambini. Invece, per un gruppo di progettisti piuttosto noto a Milano, la risposta passa attraverso un materiale di scarto derivato dalla lavorazione dei funghi. Ottimo sperimentare sui nuovi materiali, stupisce però come le forme prodotte risultino identiche a quelle ottenute costruendo in canna palustre e terra cruda, con un rapporto non paragonabile in termini di economia dei costi.

 

Fratelli Campana. Allestimento.


L’idea di cultura ecologica si sta aprendo per includere anche quelle operazioni che negli anni precedenti hanno fatto emergere concetti come “condivisione” e “sociale” per arrivare in questi ultimi tempi al tema imprescindibile delle migrazioni e dello sguardo sui mondi che rende visibili. In questa direzione va l’operazione che da qualche anno sta portando avanti la Moroso che ha scelto alcuni fra i suoi oggetti e li fa produrre in Senegal da artigiani locali. Una nota poltrona di Ron Arad, nata in lamiera saldata e diventata imbottito, ora si è smaterializzata con la tecnica usata da questi artigiani, basata su un intreccio di corda teso su una struttura di metallo. 

 

Da qualche anno i brand del fashion sono molto presenti nella zona dell’abitare. Arrivo da Gil Sander. Contrariamente alle altre mostre, pur essendo davanti al Castello Sforzesco, non c’è nessuno. So che c’è un allestimento green. Quest’anno il green non va più molto, ho visto un giardinello allestito in modo carino a Brera e poco altro. Entro, l’ambiente è meno che minimalista, cemento lucido, pareti bianche. Due piani di scale da fare, continua il nulla bianco, al secondo piano una fila di buttafuori in nero e auricolare su sfondo vetrata sopra Milano. Vado a destra. Una grande sala vuota, cesti di plastica nera pieni di vasi con piante da prato. Davanti, in contemplazione estatica, gruppi di giovani giapponesi e fashion victims internazionali. Dall’espressione di meraviglia si potrebbe dedurre che sia la prima volta che vedono un prato dal vivo. Possibile, vista la loro certa provenienza metropolitana. In un’altra sala, in una casa in legno, la collezione, tele dai colori crudi. Mi stupisce, perché la moda solitamente è sempre qualche passo avanti nel prevedere le tendenze, ma questa proposta, per la vetustà dell’allestimento, sembra ormai inesorabilmente vintage. 

 

Sedia dal Nordafrica.


Ecco il punto: ecologia vintage, quelle care vecchie cose che appartenendo al passato ottengono un gradito effetto rassicurante. Nell’ecologia vintage, oltre al green alla Sander, una parte importante spetta certamente al riciclo. Le mostre sul riciclo sono particolarmente rassicuranti, specialmente quelle organizzate con la formula vip: si scelgono i designer più in voga del momento e gli si dà un tema. Ro plastic master’s pieces, curata da Rossana Orlandi, usa questa formula. La mostra risulta interessante soprattutto perché una parte è inserita nel glorioso contesto del Museo della scienza e della tecnica, tra veicoli d’acqua degli anni Trenta, navi scuola, piroghe fossili e locomotive. 

 

Chi frequenta la settimana del mobile da anni non può fare a meno di avvertire una lacerante assenza, irrimediabile, incolmabile, indicibile. Alessandro Mendini non c’è e non ci sarà più. Tutto il mondo del design si è appoggiato per decenni sulla sua intelligenza che come un grande altipiano ha accolto, messo in contatto, vitalizzato e dato forma a intere generazioni. Alessandro non è stato un designer ma colui che il design ha tenuto fra le mani, scaldandolo e facendolo crescere. A lui Marcel Wanders in collaborazione con Milano Design Film Festival ha dedicato un tributo proiettando una serie di film e corti. 

 

Una presenza sottile ma costante in giro per la città è quella dei paesi dove l’industrializzazione non ha ancora impregnato completamente la vita. In angoli inaspettati, dentro i cortili dove si capita per caso, si trovano stanzette piene di cose improbabili fatte a mano in paesi dell’Africa o, passando dalla grande mostra sul design del Brasile, accade di fermarsi perplessi davanti a oggetti che ancora conservano, ribadiscono, rivendicano la mano di chi li ha fatti, senza minimamente curarsi se saranno o meno notati dalla cultura del design, sfidando ogni sorriso di sufficienza. Ma qui il vintage non c’entra. Qui si sente un profumo di futuro che viene da molto lontano. 

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Bilancio del Salone del Mobile 2019
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Grafica: Giancarlo Iliprandi

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Giancarlo Iliprandi era uno che non buttava via neanche un biglietto del tram obliterato. Aveva cominciato già nell’adolescenza a metter via disegni, diari, piccole collezioni di oggetti, un’attività che proseguì nel corso della sua lunga esistenza. Mettere mani nel suo archivio è cosa che può spaventare chiunque, ma non Marta Sironi, la miglior storica della grafica e dell’illustrazione italiana della sua generazione, che con metodo sta passando in rassegna tutti i materiali rimasti nello studio di via Vallazze a Milano. Il primo esito di questo ordinamento sono due mostre milanesi, una in corso presso gli spazi espositivi della Cartoleria Fratelli Bonivini, serigrafie dedicate alla storia dei caratteri tipografici (1986-1992), l’altra che inaugura a metà maggio da Nuages, in corrispondenza di Orticola, il Chelsea Flower Show di casa nostra, dedicata al “profumo delle ortensie”. Inediti per avvicinare un nuovo pubblico, si spera, a quello che è stato il decano dei grafici milanesi e un personaggio molto noto in città. Quando l’ho conosciuto era considerato una leggenda vivente.

 

 

Era l’ultimo esponente della stagione aurorale della grafica italiana, poi trascolorata nel mito. Aveva lavorato con Bruno Munari, Max Huber e i Castiglioni. Era nel gruppo che contribuì a creare, tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, l’Italian Style nell’Ufficio Stile della Rinascente dei Borletti e dei Brustio. Ma non gli bastava. Il telefono dello studio non suonava più e allora aveva inventato il personaggio dell’“Ili”, il giovane veterano, l’eterno bastian contrario, il polemista pubblico, ma anche il venerato maestro che i giovani del Politecnico ascoltavano incantati, soprattutto quando prendeva in mano la biro e si metteva a disegnare, cosa che gli riusciva sempre benissimo. Giancarlo Iliprandi (1925-2016), passati gli 85 anni, era ancora magro e scattante, soprattutto nell’eloquio, e l’humour di marca milanese, secco e tagliente, era il sale di una conversazione irta di paradossi, con i freddi occhi azzurri che si accendevano a intermittenza di lampi di complice divertimento. Quando era in forma, poteva essere irresistibile. Ad alimentare la leggenda contribuivano una compagna con la metà dei suoi anni, la designer Monica Fumagalli, sua socia di studio, i viaggi nel deserto da dove riemergeva con cahiersdes notes pieni di coloratissimi acquarelli, i racconti dove personaggi illustri erano chiamati, a seconda, col nome di battesimo o solo col cognome: Emilio Tadini era Tadini, Enzo Jannacci solo Enzo, Munari era sempre e soltanto Munari, e così via. Per Iliprandi lo stile era una parte importante del suo modo d’essere, ma non era tutto. Non poteva esserlo perché era un apolide di classe; aveva sempre vissuto in ambienti alto-borghesi ma senza un vero senso di appartenenza. Era cresciuto, da “signorino”, nella prima periferia industriale di viale Monza, dove il padre aveva una grande autorimessa e gli immigrati arrivavano allora dal Veneto.

 

 

Poi le scuole, l’iscrizione alla facoltà di Medicina, la Seconda guerra mondiale, quando schiva il richiamo alle armi della Repubblica Sociale e vive a Varese da sfollato in uno stato di semiclandestinità. È qui che comincia a studiare arte col maestro Augusto Colombo e decide, finita la guerra, di abbandonare Medicina e frequentare l’Accademia di Brera. I maestri sono Aldo Carpi, Funi, Messina, gli astratti Soldati e Reggiani, Carrà. Frequenta due cicli: i quattro anni di pittura e i quattro di scenografia. È indeciso se diventare pittore (il culmine della carriera è una personale nel 1957 alla Galleria dell’Ariete di Beatrice Monti) o applicare ciò che ha imparato a Brera nella Milano che rinasce dalle macerie e dove non mancano le occasioni professionali. Il suo spirito inquieto si manifesta collaborando ai giornali (col tempo preciserà uno stile di scrittura epigrammatico, molto evocativo), o a spettacoli teatrali di cui disegna le scene (collabora anche con Gianfranco De Bosio), ma è la vita a decidere.

 

 

Si sposa, mette su famiglia e, dopo aver dato prova di abilità negli allestimenti per le Fiere Campionarie (il grande volano per le professioni “creative” milanesi), non può rifiutare l’offerta di lavoro della Rinascente. Attraverso una proprietà illuminata (“i Borletti e i Brustio che passavano tra i banchi di vendita osservando la merce come se uscisse tutta dal loro guardaroba. E dovesse tornarci”) , è il luogo dove diventa adulta la nostra società dei consumi e Iliprandi ha, negli anni Cinquanta, colleghi come Roberto Sambonet e Lora Lamm quando si usa il disegno come principale strumento di comunicazione, con Amneris Latis come art director. Poi, negli anni Sessanta, con l’arrivo di Adriana Botti al posto della Latis, si passa a utilizzare la fotografia al posto del disegno e i grafici sono Salvatore Gregorietti e, per un periodo, Massimo Vignelli, mentre i fotografi sono Sergio Libiszewski (‘Libis’), Carlo Orsi, il giovane Oliviero Toscani. Si potrebbero aggiungere tanti altri nomi, ma Iliprandi non fa mai una cosa sola, non mai è soltanto un progettista grafico.

 

 

La notte gira per la città illuminata dai neon con la sua spider, una Triumph TR 3 (la stessa di Mastroianni nella Dolce Vita) e frequenta i primi locali notturno (il Santa Tecla) e i primi cabaret (il Derby’s). Prende la cattiva abitudine di scolarsi una bottiglia di Ballantyne’s ogni sera. La mattina è puntuale alla scrivania e, oltre al lavoro per La Rinascente, impagina libri e riviste, fotografa, inventa pubblicità. Quando, nel 1969, La Rinascente passa alla famiglia Agnelli, viene smembrato il gruppo creativo e Iliprandi comincia a lavorare sempre più da indipendente, mentre la sua diventa sempre più di una professione necessaria nella Milano del capitalismo maturo: Fonda, con alcuni colleghi (Pino Tovaglia, Daniele Baroni, Till Neuberg), l’Arts Director Club Milano.

 

 

“L’art director è un regista che utilizza il lavoro di altri, art e copy, per la progettazione dei prodotti di comunicazione ed editoriali. Era una cosa nuova per l’Italia. L’art director di contrapponeva ai pubblicitari delle società americane che sbarcavano allora in Italia e che dividevano le competenze tecniche da quelle artistiche”. La sua versatilità gli consente di progettare una cucina monoblocco per Rossana, presentata nella celebre mostra Italy the New Domestic Landscape, curata da Emilio Ambasz al MOMA nel 1972.

 

 

È però un periodo buio: nel 1973 si separa dalla moglie. Pratica l’haikido come forma di disciplina interiore e si rinnova anche dal punto di vista professionale. Importante è il periodo dell’insegnamento all’ISIA di Urbino, dove collabora con Bob Noorda; è un’occasione per ripensare al proprio mestiere dalle radici, così come lo è il lavoro per la Fonderia Nebiolo di ridisegno dei caratteri utilizzati per le macchine da scrivere, un’attività che l’elettronica, ancor prima che il digitale, spazzò via. L’attività di Iliprandi, a partire dagli anni Ottanta, segnala un ritorno al disegno che prosegue nella calligrafia, arrivando a risultati originali che contrastano lo spirito dei tempi che tendono verso la piattezza e l’uniformità. È il momento in cui nasce l’idea di costruire la propria leggenda, ma anche le leggende vanno prima o poi verificate, che è il compito cominciato con le mostre di questi mesi. Bisognerà ritornare su Iliprandi, la cui parabola esistenziale disegna la nascita e l’evoluzione di una professione e che merita una mostra antologica che ne storicizzi l’opera al di là del personaggio.

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Ed ognuno ha il suo corpo

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1958-1982: venticinque anni di canzoni italiane

Di musica mi sono occupato ogni giorno tante ore al giorno per 30 anni: dirigevo un mensile che ha cessato le pubblicazioni quattro anni fa perché non lo comprava più abbastanza gente per pagare il mio stipendio. Da allora con la musica il mio rapporto si è fatto difficile: non ho più messo un disco di vinile sul mio giradischi, li ho regalati al mio figlio dj e compositore; non ho più messo cd nel mio lettore cd: stanno prendendo polvere; ogni tanto ascolto la radio in auto, ma sono molto esigente e spengo quasi subito. Quindi posso dire che non ho elaborato il lutto. Quando a scuola i ragazzi vogliono ascoltare musica cedo raramente, in occasioni pre-vacanziere, per curiosare cosa stanno ascoltando, reggo come loro solo tre minuti di pezzi che hanno un testo interessante, una storia che dice qualcosa ben raccontata nel videoclip. Si può dire quindi che nella mia regressione abbia setacciato l’essenza di quello che la musica mi può ancora dire: parole più che melodie, storie più che ritmi, emozioni più che canti.

Quando ho letto i primi report sulla mostra NOI… non erano solo canzonette (pensata da Gianpaolo Brusini con la consulenza storica di Giovanni De Luna e quella discografica di Lucio Salvini, alla Promotrice delle Belle Arti di Torino fino al 7 luglio 2019, con un catalogo fotograficamente stupendo di Skira) ero molto scettico sull’effetto emozionale, di memoria che attraversare quelle stanze pareva evocare nei visitatori. Per mestiere inoltre so quanto sia complesso parlare di musica, raccontare di musica, scrivere intorno alla musica: sono pochissimi coloro che dedicano ormai tempo all’approfondimento critico, culturale del loro ascolto.

 

Gianna Nannini, America.


 E così come tutto si è frantumato nel puzzle agitato della lettura internet su smartphone, anche l’ascolto musicale è diventato un fai-da-te di playlist che ulteriormente chiude i mondi personali alla curiosità della scoperta e al bisogno di approfondimento. Come è possibile, infine, mettere in mostra la musica? Brusini si avvale di una narrazione storica che dal video di ingresso con De Luna vuole raccontarci un pezzo di storia di NOI italiani attraverso le canzoni che LORO scrivevano e NOI ascoltavamo alla radio, dai 45 giri di vinile, ai concerti. Il taglio di De Luna va dal boom economico che ci allontana dalla miseria e dalla prostrazione perdente della Seconda Guerra Mondiale e ci porta prima all’eccitazione “americana” della tv, della pubblicità, dei consumi, della automobile, del frigo, della Vespa e dei pic-nic, poi all’esplodere prima del Sessantotto (la canzone politica è lontana dal melodico sanremese e radiofonico) e infine al cupo decennio del terrorismo che con il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro mette una pietra tombale su ogni illusione di rivoluzione felice; la narrazione si stoppa all’inizio degli Ottanta, quindi a tutti i post- che allora ci narcotizzarono: post-moderno, post-politico, post-melodico, post-coppia per portarci in edonismo reaganiano e craxiano, discoteca solipsistica, ritmo più che intonazione, Oriente più che Occidente, Battiato e De Gaetano più che De André e Celentano.

L’allestimento apre le stanze tematiche con i disegni di Francesca Seminatore: la luce è soffusa, regna il silenzio; alle pareti le eccezionali fotografie selezionate dall’immenso e ampiamente inesplorato Archivio Storico di Intesa Sanpaolo, che custodisce chilometri di pellicole per lo più mai stampate e riprodotte: il catalogo con la sua alta qualità di stampa rende addirittura più giustizia a questa miniera di volti e scene del nostro passato (nostro di noi che eravamo vivi dopo il 1958). Al centro di ogni sala un faretto illumina una postazione dove uno pseudo vinile bianco anziché nero racconta con parole essenziali e intelligenti perché è stata scelta quella canzone che possiamo ascoltare in solitaria reminiscenza in una coppia di cuffie. Chi cammina vede qua e là altri visitatori danzare immobili con gli occhi chiusi, cantare a bassa voce voci che risalgono da pozzi della memoria. 

 

Quindi, non ci volevo andare, alla mostra sulle canzonette; per giunta canzonette! Non la musica che oggi ricordo di avere ascoltato: Velvet Underground, Pink Floyd, The Doors, Genesis, Le Orme, Premiata Forneria Marconi, CCCP… o la musica che ricordo di aver cantato imparato il giro di Do alla chitarra acustica: Inti Illimani, Ivan Della Mea, Francesco Guccini, Fausto Amodei, Paolo Pietrangeli… Invece, piano piano le emozioni mi hanno prima accarezzato, poi risvegliato ricordi subliminali soprattutto di quando ero bambino e ragazzino e la musica ancora non la sceglievo ma la sentivo nel mondo famigliare radiotelevisivo, poi profondamente rattristato nel tratto della militanza politica che vivo come un fallimento immane, infine commosso da una canzoncina del 1973 di cui non avevo mai inteso le parole: Minuetto, con le parole stupefacenti di Franco Califano, la musica di Dario Baldan Bembo, la voce e la bellezza dolce e radiosa di Mia Martini:


Mina a La Bussola di Marina di Pietrasanta, 5 luglio 1968 - Archivio Publifoto Intesa Sanpaolo - foto Alfredo Tessi.

 

E cresce sempre più la solitudine
nei grandi vuoti che mi lasci tu

Rinnegare una passione no
ma non posso dirti sempre sì e sentirmi piccola così
tutte le volte che mi trovo qui di fronte a te

E la vita sta passando su noi, di orizzonti non ne vedo mai
Ne approfitta il tempo e ruba come hai fatto tu
il resto di una gioventù che ormai non ho più
E continuo sulla stessa via, sempre ubriaca di malinconia
Ora ammetto che la colpa forse è solo mia
avrei dovuto perderti, invece ti ho cercato

Io non so l'amore vero che sorriso ha
Pensieri vanno e vengono, la vita è così

 

Vorrei che tutte le ragazze andassero a capire questa mostra: se le lotte operaie e studentesche sembrano così invecchiate e tristemente tramontate nell’inganno terroristico, stanza dopo stanza, canzone dopo canzone, vedo crescere la donna e le donne, pagare la propria debolezza, e poi la propria indipendenza, attraversare la solitudine, rivendicare il proprio diritto di dire no, fino al 1982 in cui Gianna Nannini per prima, coraggiosa, racconta di una ennesima frustrazione sessuale, stufa di quanto lui sia incapace di amare il corpo di una donna; a differenza della donna succube cantata da Mia Martini, Gianna Nannini fa da sé (parole, musica, voce e clitoride) nel 1979:

 

Per oggi sto con me mi basto
e nessuno mi vede

e allora accarezzo la mia solitudine
ed ognuno ha il suo corpo
a cui sa cosa chiedere

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1958-1982: venticinque anni di canzoni italiane
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Disegni degli abissi

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Ci sono dei territori che ancora si sottraggono alla visione e alla conoscenza, scrive Emanuele Garbin nel suo libro Bathygraphica. Disegni e visioni degli abissi marini (Quodlibet, Macerata 2018) paragonandoli ai fondali della nostra coscienza: “Così come c’è un abisso che possiamo dire esteriore – in fondo all’oceano, nello spazio interstellare, nei minimi interstizi della materia –, ce n’è anche uno interiore, che è stato provvisoriamente mappato e nominato con il nome di inconscio” (p. 12). Le creature che si agitano sul fondo oscuro degli oceani sono le stesse che si agitano sul fondo altrettanto oscuro della nostra mente.

 

Lewis Carrol, OCEAN-CHART in The Hunting of the Snark, 1876.


La visione dell’abisso è impossibile se non attraverso i disegni che lo rappresentano. Uno di questi è quello pubblicato nel 1876 in The Hunting of the Snarck di Lewis Carroll: il disegno di una doppia cornice, con scala metrica e riferimenti geografici che racchiude il vuoto, il nulla. La carta vuota del mare consultata dall’equipaggio nel poemetto di Carroll è naturalmente un divertissement, riprodotto da Garbin nel suo libro per esemplificare con un paradosso come il disegno degli abissi marini sia “pieno di vuoto”. Le mappe batigrafiche che rappresentano le profondità oceaniche attestano infatti grandi lacune nella conoscenza dissimulate dalla completezza della rappresentazione grafica, sostiene l’autore documentando la sua tesi con un apparato d’immagini formidabile. Garbin porta l’attenzione sull’ignoto che si nasconde dietro e dentro il noto. Le carte degli abissi marini, anche le più recenti, hanno la caratteristica di essere incomplete e disomogenee, di accogliere in loro stesse un’oscurità abissale. 

 

Jonathan Delafield Cook, Sperm Whale II, 2013. Particolare di un disegno a grafite su tela riprodotto in Bathygraphica, pp.198-199.


Sfoglio le pagine, illustrate da riproduzioni di carte oceaniche una più affascinante dell’altra. Senza nessun preavviso, una creatura marina attraversa il libro fra pagina 198 e 199. È la riproduzione di un particolare di un disegno a grafite su tela dell’artista australiano Jonathan Delafield Cook (Sperm Whale II, 2013). L’aspetto della creatura è quello di un fossile. Qui il disegno tende all’impronta, a un contatto con il suo oggetto, come le immagini prodotte da alcune tecniche di visualizzazione del fondo oceanico. Qualche anno dopo la fine della seconda guerra mondiale, il perfezionamento delle tecniche di ecoscandaglio e il loro interfacciamento con le stampanti automatiche rese possibile una nuova visione degli abissi oceanici (p. 104). Le immagini prodotte con questa tecnologia sono impronte acustiche dei fondali tradotte graficamente. 

Anche alcuni artisti hanno esplorato il rapporto fra immagine visiva e acustica nel senso dell’impronta che l’onda sonora può lasciare su una superficie. L’installazione Sound on Paper (1985) di Alvin Lucier esposta a Documenta 14 (Kassel) si compone di fogli di carta incorniciata che vibrano in risonanza con i suoni trasmessi da altoparlanti e modulati da oscillatori. Allo stesso modo nelle opere di Rolf Julius la vibrazione delle membrane degli altoparlanti rende visibile una delle componenti fisiche del suono.  

 

Rolf Julius, Orange Cello (Sound Cooking), 1984/2017. Courtesy Galerie Thomas Bernard / Cortex Athletico. Photo: Rebecca Fanuele.


L’impronta nasce da un contatto con la materia. Gaston Bachelard sostiene che le immagini prodotte dalla rêverie o fantasticheria sognante, intesa come uno dei due modi fondamentali del pensiero umano, è sollecitata dalla materia delle cose. La materia sostiene la forma e attraverso l’immaginazione, scrive Bachelard, l’homo faber“vive” questo sostegno.

L’impronta, così come il disegno che tende all’impronta, richiama l’esperienza primaria del contatto con la materia. Il disegno che invece se ne allontana richiama l’idea, il concetto “che si ha nell’animo, e di quello, che altri si è nella mente immaginato, e fabricato nell’Idea”, scrive Giorgio Vasari nella seconda edizione delle Vite, riferendosi agli schizzi e soprattutto alle linee di contorno (Della Pittura, in Vite de' più celebri pittori, scultori e architettori, Firenze 1568, I, XV, p. 43). In polemica con il linearismo pittorico del Quattrocento Leonardo da Vinci esorta il pittore: “Non fare i termini delle tue figure d’altro colore che del proprio campo, con che esse figure terminano, cioè che non faccia profili oscuri infra il campo e la tua figura (Trattato della Pittura, a cura di Raphael du Fresne, Parigi 1651, ed. it. Milano 1995, a cura di Ettore Camesasca, p. 79). Queste linee non esistono nel mondo fisico e perciò non possono essere percepite. Possono essere solo concepite in rapporto all’uso di specifici codici visivi ai quali la necessità del senso, della cultura e della storia hanno educato. Queste linee appartengono al mondo astratto delle idee e dei concetti. Distinguono e mettono in luce ma nel far questo entrano in rapporto con l’ombra.

 

Gaio Plinio Secondo racconta che la pittura “nacque dall’uso di tracciare con delle linee il contorno dell’ombra umana” (Naturalis historia, XXXV, 15). Anche l’arte del modellare in creta nacque allo stesso modo: “Butade Sicionio, vasaio, per primo trovò l’arte di foggiare ritratti in argilla, e questo a Corinto, per merito della figlia che, presa d’amore per un giovane, dovendo quello andare via, tratteggiò i contorni della sua ombra, proiettata sulla parete dal lume di una lanterna; su queste linee il padre impresse l’argilla riproducendone il volto” (XXXV, 151). La linea di contorno nasce quindi come segno di una deprivazione della luce, di una sottrazione, nasce come segno del vuoto lasciato dal giovane nel cuore della figlia del vasaio.

“Il disegno della natura e del mondo è sempre più un disegno fatto di contorni, è fatto per affermare ed esporre i contorni delle cose, primo tra tutti quello che separa le cose da chi le guarda e le disegna”, scrive Garbin (p.13), ma poiché la linea di contorno è anche il segno di una sottrazione, da questa forse discende la lacunosità del disegno batigrafico, dove i contorni che rappresentano le isobate o curve di livello si separano o si fondono a profondità maggiori di 3.000 fathom.

 

Richard Owen, Descriptive and Illustrated Catalogue of the Fossil Reptilia of South Africa, 1876.


La concretezza dell’impronta che alimenta l’immaginazione e l’astrazione concettuale della linea di contorno entrano in rapporto con l’ignoto e il profondo in due modi diversi fra loro. Alcuni disegni tendono all’impronta, come quelli pubblicati nel 1876 in Descriptive and Illustrated Catalogue of the Fossil Reptilia of South Africa di Richard Owen, disegni che portano nelle viscere della Terra (uno di questi illustra la copertina del precedente libro di Garbin: Palaeontographica. Il disegno e l’immaginario della vita antica, Quodlibet, Macerata 2016, dedicato a ciò che “nell’immagine [scientifica] c’è ma non è stato ancora davvero pensato e capito”). 

 

Quadranti polari australi orientali in Carte Générale Bathymétrique des Océans, 1905.


Altri disegni si allontanano dalla materia, se ne distaccano per “vederla” e studiarla da lontano, come i quadranti polari australi orientali pubblicati nella prima edizione della Carte Générale Bathymétrique des Océans del 1905, che nella compiutezza della loro rappresentazione nascondono grandi lacune, sostiene Garbin, portando l’attenzione sulla porosità del pensiero scientifico e delle sue rappresentazioni, nei casi documentati da Bathygraphica principalmente mappe, ma anche diagrammi.

Uno studioso che utilizza il diagramma come strategia di pensiero e ha affrontato il tema dell’abisso è Narciso Silvestrini, che considera il diagramma una forma di scrittura non alfabetica, che con quella alfabetica pur interagisce sulle pagine del testo scientifico. Sua è la teoria del volume d’ombra: una porzione di spazio compresa fra l’ombra propria, che appartiene alla geometria descrittiva, e l’ombra portata, che appartiene alla geometria proiettiva. La prima è misurabile, la seconda non lo è a causa delle innumerevoli varianti: il piano orizzontale, verticale o inclinato sul quale si proietta e la direzione della sorgente luminosa. Tra le due ombre, tra il misurabile e l’incommensurabile, c’è il volume d’ombra, inteso come una progressiva deprivazione della luce. Entrando in questo volume si passa progressivamente dall’ombra all’oscurità, dall’oscurità al buio, dal buio alle tenebre e da lì all’abisso. L’abisso è definito da una parte sola, dall’altra non c’è confine.

Sottoposto alla prova di rappresentare l’abisso, il disegno si muove in direzioni diverse. Una porta verso l’immaginazione, l’altra verso l’astrazione, in entrambi i casi entrando in rapporto con ciò che sta in profondità. Nel primo caso attraverso l’impronta alla quale talvolta il disegno tende, nel secondo attraverso la linea che indica la lacuna, il vuoto lasciato dal giovane nel cuore della figlia del vasaio. In un modo ancora diverso anche attraverso i diagrammi, strumenti grafici di un pensiero distinto da quello linguistico, che con questo pur interagisce sulla pagina del testo scientifico. 

 

Charles Joseph Minard, mappa di dati della campagna di Russia condotta da Napoleone nel 1812. La mappa che Minard disegna nel 1869 rende visibili sei tipi di dati: il numero delle truppe napoleoniche, latitudine e longitudine, la temperatura, la distanza percorsa, il senso di marcia, la posizione relativa in giorni precisi.


In Senza parole. Ragionare con le immagini (Bompiani, Milano 2008) Valeria Giardino e Mario Piazza difendono l’idea che il pensiero umano attivi costantemente un sistema di rappresentazioni visive o spaziali e linguistiche che interagiscono fra loro. In questo saggio i due autori analizzano il ruolo svolto dalle “mappe di dati”, che intorno al diciassettesimo secolo estesero statisticamente il concetto di mappa cartografica, e anche quello svolto dal diagramma che nella dimostrazione matematica “viene letto, per essere usato come parte integrante della logica dell’argomento [il diagramma è una rappresentazione grafica convertibile in un discorso], mentre il testo a sua volta si configura come un artefatto visuale” (p. 73).

Sulle pagine del libro di Garbin, l’ambivalenza dei diagrammi, la spazializzazione delle mappe e la linearità crono-logica della scrittura alfabetica entrano così in rapporto fra loro e con le immagini suscitate da similitudini, metafore e analogie, caratterizzando la forma di una “disordinata e lacunosa esplorazione dell’immaginario abissale” (p. 332), una forma di esplorazione e ricerca che ben si adatta all’interpretazione e alla mappatura del mondo contemporaneo, oscuro quanto il fondo oceanico.

L’abisso al quale Garbin ha dedicato il suo libro è infatti anche quello del nostro tempo. Il paesaggio arido di una Terra prosciugata dall’acqua dei mari e degli oceani, sul fondo dei quali giacciono ossa e relitti, è l’immagine di una catastrofe non solo geologica e geografica, ma anche ambientale, umana, sociale e politica: “L’immagine di una Terra ridotta allo scheletro di sé stessa fa venire in mente altre visioni macabre degli abissi, in cui le ossa e i crani sono quelli dei morti annegati che giacciono innumerevoli sul fondo del mare” (p. 24). 

 

L’immagine evocata da Garbin ricorda le tragedie delle recenti migrazioni e al tempo stesso anche quella delle ossa che i mulinelli della corrente marina sollevano e poi fanno ricadere sul fondo in The waste land di T. S. Eliot: “A current under sea / Picked his bones in whispers. As he rose and fell / He passed the stages of his age and youth / Entering the whirlpool.” (Una corrente sottomarina / Gli spolpò le ossa in bisbigli. Come affiorava e affondava / Traversò gli stadi dell’età matura e della giovinezza / Entrando nel vortice – IV Morte per acqua, trad. A. Serpieri, Rizzoli 1982). Anche la nostra è una Terra desolata

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Tre autori italiani a Fotografia Euopea 2019

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Laura Gasparini in occasione di Fotografia Europea 2019 a Reggio Emilia dal tema LEGAMI. Intimità, relazioni, nuovi mondi ha intervistato Marta Giaccone che espone nella mostra Giovane fotografia italiana #07; Michele Nastasi che espone Arabian Transfer e Valerio Polici autore della mostra Ergo sum.

 

1. MARTA GIACCONE

 

Laura Gasparini: I tuoi studi letterari ti hanno portato a una lettura documentale della realtà che hai affidato alla fotografia. Qual è stato il tuo percorso?

Marta Giaccone: Ho studiato lingue e letterature straniere a Milano, poi ho fatto un Master in fotografia alla University of South Wales a Newport, in Galles. Evidentemente gli studi letterari mi hanno sollecitato, dopo aver letto alcuni libri, ad adottare un metodo visuale che dalla parola mi porta all’immagine.

 

Marta Giaccone, Ritorno all'isola di Arturo.


LG: Quali libri, in particolare?

MG: Qualsiasi libro leggo – se mi piace! – tengo a tradurlo immediatamente in progetto fotografico nella mia testa, non posso farci nulla… ovviamente poi non sempre (quasi mai) si realizza, ma in generale il mio lavoro prende largo spunto dalla lettura. Questo è di certo in gran parte grazie alla biblioteca di casa che è ricchissima e che mi ha posto nella direzione della letteratura come fonte non solo di arricchimento, ma anche d’ispirazione. Il primo libro che mi ha spinto a realizzare un progetto è stato L’isola di Arturo di Elsa Morante (1957), nel 2015. Il tema dell’adolescenza è una dimensione molto interessante, quel momento della vita di transito, pieno di entusiasmi, di germinazioni; è per me di grande stimolo. Ho trascorso un’adolescenza in una grande città, anni tranquilli, normali, quasi banali, non ero ribelle. Forse è per questo che mi interessa osservare da vicino adolescenze “alternative” alla mia. Ci ho lavorato per la prima volta a partire dal 2014 quando vivevo in Galles e mi sono concentrata su un gruppo di mamme adolescenti, che seguo tutt’ora. Quando ho letto L’isola di Arturo ho intravisto un’altra interessante possibilità di (ri)scoprire il mondo adolescenziale, e sono rimasta colpita dalla storia che si svolge in un microcosmo del tutto particolare: l’isola di Procida. Elsa Morante, nelle parole di Arturo, descrive l’isola come un luogo magico e ho subito sentito la necessità di visitarla. Nel romanzo non ci viene indicato un esatto periodo storico, anche se si intuisce che la storia si svolge alla fine degli anni Trenta, e mi è piaciuto molto quest’aspetto atemporale. Nel 1962 il regista Damiano Damiani realizzò un film basato sul romanzo, che vidi appena prima di leggere il libro, e che mi suggerì una prima sceneggiatura per il mio lavoro: desideravo seguire un ragazzo dai capelli scuri, scoprire il suo mondo, raccontare la sua vita attraverso fotografie in bianco e nero. Ma erano solo idee, ipotesi di lavoro. Il giorno dopo aver terminato la lettura del libro sono andata a Procida, senza conoscere nessuno sull’isola, e nella luce dorata di fine settembre, sulla spiaggia della Chiaiolella, ho incontrato una ragazza di 13 anni, il mio primo preziosissimo contatto con Procida. Le ho chiesto di farmi conoscere i suoi amici e i loro luoghi: mi ha presentato tutti.

 

Marta Giaccone, Ritorno all'isola di Arturo.


LG: Cosa è nato?

MG: È nata un’amicizia e una collaborazione che mi ha visto a Procida tantissime volte dal 2015 ad oggi. Sto creando, credo, spero, un lavoro parzialmente atemporale, certamente non un reportage, composto di fotografie quasi mai costruite, scattate nei momenti dopo la scuola, nei luoghi di ritrovo dei ragazzi. Sono fotografie realizzate in un’atmosfera di amicizia e di gioco. Ora, parte di queste sono esposte in mostra.

 

LG: Com’è crescere a Procida?

MG: È molto diverso da una metropoli, ma molto simile alle piccole cittadine sul mare, immagino. La differenza è che, per spostarsi, qui serve la nave o l’aliscafo. Una ragazza mi ha detto pochi giorni fa: “per me sarebbe stranissimo prendere la metropolitana… invece la nave per noi è normale, la prendiamo anche tutti i giorni se serve!”. Ho osservato come, a Procida, i bambini sin da piccolissimi vanno in giro da soli tranquillamente, è una comunità molto piccola (11.000 abitanti su 4km2) in cui tutti si conoscono e si prendono cura l’uno degli altri. Quando i ragazzi crescono, però, forse questa dimensione inizia a diventare stretta, e allora in molti, tradizionalmente i maschi e ora anche alcune femmine, si iscrivono all’Istituto Nautico per poi diventare macchinisti o capitani di navi. Altri invece si spostano sulla terraferma per studiare, e in molti poi ritornano sull’isola per iniziare una famiglia. Altri rimangono. Nelle grandi città la dinamica è opposta: da piccoli viviamo protetti ma poi siamo soggetti a più stimoli e occasioni di apertura al mondo più facilmente.

 

Marta Giaccone, Ritorno all'isola di Arturo.


LG: Ho letto una cosa interessante nella tua biografia e cioè che sei molto interessata allo sguardo, alla prospettiva femminile.

MG: L’essere donna mi ha indubbiamente aiutato a entrare nelle relazioni delicate tra giovani madri e figli nel mio lavoro gallese. Mi interessa fotografare le madri senza i padri dei bambini perché, in quel contesto, spesso i padri non sono presenti, mentre le madri restano, sempre. Credo che anche per il lavoro di Procida il fatto di essere donna mi abbia aiutato a farmi accogliere dalle famiglie dei ragazzi.

 

LG: Hai svolto lavori di documentazione anche con il linguaggio cinematografico, in quale direzione hai svolto le tue ricerche?

MG: In Galles ho realizzato dei video insieme alle giovani mamme; ne facciamo di nuovi ogni volta che torno. A Procida ho integrato brevi video in cui ho fatto leggere ai ragazzi alcuni paragrafi di L’isola di Arturo per dare voce alle immagini e per far sentire il loro particolare e bellissimo accento. In particolare ho scelto dei brani in cui viene descritta l’isola di Procida e il rapporto tra Arturo e il padre, e i ragazzi hanno scelto i pezzi che più sentivano vicini. Inoltre ho anche fatto fare loro delle polaroid raffiguranti i loro luoghi preferiti dell’isola.

 

 

2. MICHELE NASTASI

 

Laura Gasparini: Michele Nastasi, curatore [Luigi Ghirri. Il paesaggio dell'architettura. Triennale di Milano, 2018], saggista, fotografo, redattore, docente universitario, storico dell’arte. Come ti sei avvicinato alla fotografia tanto da farne una professione?

Michele Nastasi: Fotografo da quando ero ragazzo perché, a livello amatoriale, era una pratica diffusa nella mia famiglia. All'università ho iniziato a fotografare, più seriamente, persone e spazi... Mi sono laureato in Industrial Design, ma per un lungo periodo non ero contento dei miei studi perché li sentivo allo stesso tempo astratti dal mondo reale e troppo orientati al marketing, per cui ho unito il mio interesse per la fotografia al desiderio di fare qualcosa di concreto cominciando a lavorare come assistente di fotografi professionisti a Milano. Da lì è nata la mia doppia anima che progressivamente si è sviluppata, come fotografo e come ricercatore in senso più ampio. Innanzitutto come redattore di Lotus International, rivista di architettura in cui lavoro da quando ero ancora studente, e poi con un dottorato in storia dell’arte. Anche come fotografo ho sviluppato un profilo di ricerca, perché mi sono sì specializzato nella fotografia di architettura lavorando per le riviste e per gli architetti, ma allo stesso tempo ho sviluppato una serie di ricerche autonome legate a questo ambito, che sono variamente intrecciate al lavoro commissionato. La fotografia, di fatto, per me è un mezzo per entrare in relazione e comprendere la realtà, o almeno una sua parte che si rende accessibile attraverso la visione. In questo l'architettura offre un canale più diretto di altri.

 

Al Satwa, Dubai, Dubai, UAE, 2015 ∏ Michele Nastasi.


LG: Di recente hai pubblicato un saggio sulla penisola araba ["A Gulf of Images. Photography and the Circulation of Spectacular Architecture". In The New Arab Urban. Gulf Cities of Wealth, Ambition, and Distress. A cura di Harvey Molotch e Davide Ponzini. New York University Press, New York 2019] dove hai spiegato in modo serrato, attraverso testo e immagini, il significato del tuo lavoro. Potresti parlare di questa tua metodologia di analisi e di restituzione?

MN: Ho riflettuto su come alcune città del mondo arabo, Dubai, Abu Dhabi e altre, negli ultimi decenni sono stati dei laboratori di architetture spettacolari e, più in generale, di un certo immaginario urbano contemporaneo che si esprime attraverso immagini fotografiche sensazionali. Mentre tutti i luoghi hanno una loro complessità, una loro storia – e nel caso di luoghi “nuovi” come queste città può essere difficile da decifrare – la rappresentazione dell'architettura attraverso fotografie e rendering tende a eliminare tutto quello che turberebbe una restituzione astratta degli edifici nel paesaggio. Nel mio saggio ho tentato di spiegare cosa succede quando, grazie alla fotografia, metti a confronto progetti formalmente simili in luoghi diversi, evidenziandone la diversità non tanto sul piano architettonico, ma nel rapporto tra i nuovi edifici e il contesto e la vita della città in cui si trovano. Come fotografo, quando mi reco in quei luoghi, cerco di capirli e di decifrarli per come mi appaiono, e uno degli sforzi è proprio di non seguire i percorsi visivi di chi mi ha preceduto. Le fotografie di queste città, Dubai in particolare, sono ben note a livello professionale, dove protagonista è sempre l'architettura: il singolo edificio senza contesto, il luccicare astratto dello skyline, la strada non si vede mai, i gesti stereotipati delle persone. Altri tipi di fotografie, che afferiscono alla sfera e al mercato dell’arte, insistono sistematicamente sull'idea del sublime, dato dall’enormità delle architetture, dalle loro forme stravaganti, al contrasto tra quelle architetture e il deserto. Tutti temi ormai classici che raccontano solo una parte di quei luoghi. Nelle città, infatti, c’è una vita minuta che si svolge e, al di là di queste grandi visioni, esiste una quotidianità grazie a cui è possibile tentare di capire alcuni fenomeni, come si stanno sviluppando, perché in quelle città accadono certe cose e non altre, e anche stabilire un rapporto con le città occidentali. La possibilità che ho avuto di sviluppare questo lavoro, ma anche il mio metodo di lavoro, è scaturita dal continuo scambio con altre discipline – per esempio l'urbanistica e la sociologia. Per me la ricerca deve avvalersi di una molteplicità di strumenti e non solamente di un linguaggio fotografico che si esaurisca nella bellezza o compiutezza dell’immagine. Credo che costruire immagini forti, iconiche e coinvolgenti dal punto di vista emotivo, sia importante perché le rende più immediate, ma anche più persistenti, contribuendo a comunicare a più persone i messaggi che desidero esprimere, ma in realtà non è questo l'obiettivo del mio lavoro. Si tratta piuttosto di costruire un gruppo di fotografie, una serie di immagini, una sequenza in grado di attirare persone diverse coinvolgendole nel dialogo e dibattito. Ho iniziato a lavorare nella penisola araba nel 2010 proprio perché insieme a Davide Ponzini, che è un urbanista, avevo cominciato una ricerca su come e perché l'architettura spettacolare è utilizzata in diverse città del mondo, tra cui Abu Dhabi [pubblicata nel volume Davide Ponzini, Michele Nastasi. Starchitecture: Scenes, Actors, and Spectacles in Contemporary Cities. The Monacelli Press, New York 2016 – seconda edizione]. Lavorando sul campo ho cominciato a chiedermi più consapevolmente cosa volessi rappresentare e perché, e lo scambio con altri ricercatori, per esempio il sociologo Harvey Molotch, mi ha aiutato a considerare aspetti del mio stesso lavoro a cui non avevo dato la giusta importanza. Anche lo scambio con te, Laura, è stato importante per orientare un diverso editing del lavoro, che è poi confluito in questa mostra. In questo senso di scambio, anche con persone che hanno un approccio molto semplice e diretto, la fotografia diventa uno strumento importante per interpretare la realtà, e acquisisce via via una maggiore profondità di significati.

 

Doha, 2017, Skyline View Point, photograph by Michele-Nastasi.


LG: Ha importanza, ad esempio, la figura umana che appare, nelle tue fotografie, non solamente come misura spaziale di queste architetture e di questi paesaggi ma è… qualcosa di più.

MN: La figura umana per me rappresenta un incontro e dunque significa molto all'interno di un paesaggio.

 

LG: Io la vedo come una testimonianza della condizione umana di quel luogo, non solo un elemento per la composizione.

MN: Certamente, la figura umana, così come la messa in posa, il ritratto, non è un tema che cerco a tutti i costi, ma è fondamentale per la restituzione dell’architettura e dei luoghi, perché mi aiuta a rendere nelle fotografie la loro particolare intensità. Il che non vuol dire fare solo ritratti, ma piuttosto di essere in grado di fotografare una situazione più o meno come si presenta nella realtà, con le persone e tutto il resto. È come una fotografia turistica, che sembra spontanea ma che in realtà è molto artefatta. Nel momento in cui tiri fuori la macchina fotografica professionale, tutto intorno a te cambia... come il principio di indeterminazione: nell'osservare c’è già qualcosa che sta cambiando. A seconda del tuo comportamento e dell’attrezzatura che utilizzi, influenzi le persone sulla scena che, banalmente, a volte si allontanano da te. Per me è importante stare all'interno della scena e trovare un equilibrio tra la mia presenza e il modo in cui potrebbe essere se io non ci fossi. Questa intensità dei luoghi è un aspetto che a me interessa molto perché desidero trasmettere un senso di vicinanza al soggetto, al tema che esprimo. Non è un caso che spesso chi osserva le mie fotografie mi dice che gli “sembra di essere lì”, perché riconosce un proprio punto di vista, personale, individuale, nel mio. È per me un profondo senso di presenza. Se nelle mie fotografie ci sono delle persone, inoltre, è importante perché documentano la quotidianità di quei luoghi, che è raramente rappresentata e che ha infinite forme. 

 

Michele Nastasi, Plant Souk Riyadh, Arabia Saudita, 2017.


LG: In Arabian transfer, hai lavorato molto sul tuo archivio e hai riscoperto nelle immagini che non hai mai esposto prima, parte di quel laboratorio vivente dove l’oriente e l’occidente si sono incontrati, mescolati e insieme hanno costruito un mondo, se non nuovo, diverso, in luoghi in cui il deserto era apparentemente inviolabile, ma che poi queste architetture hanno violato. Ora, quel deserto, si sta riprendendo lembi di quella città. 

MN: Questi due temi ci sono... lavorare in queste città ti induce a una riscoperta della natura nella città, una natura estrema fatta di deserto con temperature proibitive, e che in effetti tende a riprendersi gli spazi non appena non c’è più attenzione. C'è poi un tema geopolitico delle migrazioni, che è molto ampio: sono città e spazi abitati da diverse popolazioni, persone venute da lontano per lavorare o per sfuggire alle guerre o alla miseria, costituendo così un melting pot di culture diverse, anche molto antiche. Nell’immaginario europeo ci sono già state, in effetti, situazioni analoghe: Londra, Parigi, New York, Amsterdam, ecc. sono città dove questi fenomeni si sono già presentati nel passato, sia per la storia coloniale che per le migrazioni. Quello che è interessante nella penisola araba è che quella terra largamente inospitale, che non ha alle spalle la storia dell’Occidente e dell’Europa in particolare, sta vivendo un fenomeno simile in un mondo ampiamente globalizzato, quindi in un modo del tutto inedito, al punto che l'immigrazione arriva a toccare, in una città come Dubai, il 90%. Sono luoghi di approdo, di partenze e ripartenze... Ormai queste città hanno assunto un nuovo tipo di centralità a livello globale, e in molti paesi, soprattutto asiatici, le città di riferimento non sono Parigi, Roma o Londra, ma Dubai, Doha e Riyadh. Questo è molto interessante perché, se sei disposto a farlo, ti costringe a riconsiderare molti aspetti della cultura Occidentale e delle nostre abitudini, convenzioni sociali legate alla nostra etica, che noi europei tendiamo a dare per scontato. In fondo viaggiare non è sempre stato una fonte di riflessioni di questo tipo? Basti pensare a Montaigne.

 

LG: La fotografia come scrittura.

MN: Nella mia pratica la fotografia e la scrittura sono due cose diverse, ma certamente la fotografia ti costringe a essere là, a stare nei luoghi, e la mia è certamente una fotografia in cui c'è un aspetto narrativo, un'esperienza che si costituisce come narrazione sia all'interno di singole immagini che attraverso le sequenze e i gruppi di fotografie. È un aspetto che cerco di affrontare con grande attenzione e responsabilità rispetto a ciò che voglio comunicare, perché i messaggi della fotografia possono essere davvero molto diversi.

 

 

3. VALERIO POLICI

 

LG: Valerio Polici è nato artisticamente negli anni Novanta come graffiti writer, la pratica illegale di dipingere a spray il proprio nome sui treni. A margine dell’esperienza da writer ha avuto il suo primo incontro con la macchina fotografica.

Ergo sum è il risultato di questo incontro, una prima indagine del medium combinata con la ricerca intima di una consapevolezza artistica nuova.

VPErgo Sum cerca di raccontare e di tradurre in fotografia l’immaginario della mia post adolescenza. Io nasco come writer ed ho dipinto treni per circa 10 anni; anni intensissimi, di lunghi viaggi alla ricerca di una forma di libertà. Ad un certo punto però, qualcosa si è rotto: claustrofobia e mancanza di respiro hanno preso il sopravvento, la libertà si era trasformata in una prigionia fatta di stessi gesti, luoghi, rituali. Quasi per caso, senza consapevolezza tecnica del mezzo o del linguaggio della fotografia ho iniziato un nuovo percorso.

 

LG: Quindi la fotografia ti ha permesso di prendere distanza dalla tua ricerca di writer

VP: Sì, in effetti è stato così: mi ha permesso di fare un passo indietro e, attraverso un linguaggio nuovo, comprendere cosa stessi facendo davvero.

 

LG: Sicuramente la fotografia in bianco e nero, quella che tu utilizzi in particolare in Ergo sum, concettualizza molto la realtà aggiungendo altre distanze.

VP: Assolutamente sì. Astraendo, riduce ancora di più la linea spazio temporale e trasforma questi sei anni di viaggio tra Europa ed Argentina, in un unico grande istante. 

Ergo sum è il mio primo lavoro fotografico; un lavoro che solo su un primo livello racconta una comunità, ma è soprattutto un’indagine interiore. Anche per questo motivo, ho prediletto per la selezione finale, immagini più aperte e metaforiche. Allontanate da un contesto specifico, amplificano il loro potere aprendo la strada ad un carattere più ambiguo. L’ambiguità mi interessa molto, permette in quella sua incollocabilità di instaurare un rapporto più libero tra fruitore e prodotto finale. Ho accettato di esporre allo spazio C21, uno spazio privato, perché utilizza una formula inedita per supportare con continuità l’etica e l’estetica del mondo del writing e dell’arte urbana nel quale io sono vissuto. Lo ringrazio molto per questa preziosa occasione così come Pietro Rivasi che attraverso il suo prezioso testo offre un punto di vista del tutto inedito e fa chiarezza in questo fenomeno molto complesso.

 

Ph Valerio Polici.


LG: Ma come è stato possibile passare dalla dimensione del graffito, dei treni, delle tag... alla distillazione alchemica dell’immagine fotografica che qui in mostra presenti come una grande installazione e che suggerisce un possibile andamento in espansione infinita… L’impressione è che le tue fotografie desiderino riprendersi quei vasti spazi del writing

VP: La transizione, tra questi due mondi è stato un processo abbastanza inconsapevole e naturale. In principio, la fotografia e il video mi sembravano solo linguaggi interessanti. Rispondevano ad una mia ulteriore urgenza espressiva. Inoltre la fotografia, come il graffito, riguarda un’organizzazione degli spazi, e può essere un gesto molto violento. 

 

LG: …quindi era l’esperienza dell’arte ad interessarti…

VP: Quello che mi interessava era indagare una condizione di prigionia esistenziale, un bisogno di fuga, una necessità di perdizione, un’urgenza di sentirsi speciali. 

Te lo dico perché io appartengo alla generazione nata negli anni ottanta; una generazione cresciuta nel benessere, che ha visto lentamente sgretolarsi tutte le promesse fatte. Il mondo dei graffiti da questo punto di vista ti offre un riscatto, la possibilità di ricreare una nuova identità nelle viscere delle metropoli, fuori dai tracciati pre impostati. I sotterranei sono spazi magici, terre di nessuno nelle quali ci si muove con incertezza e spavalderia, scenari di gesta eroiche e storie folli spesso al limite del reale, più vicine a quelle di un commando militare altamente organizzato che di un gruppo di giovani amici: incursioni, scalate, una via d'entrata una via d'uscita, odori insopportabili, sporcizia ovunque, corse infinite, è come un videogioco, ma terribilmente reale.

 

LG: Nella tua biografia hai fatto riferimento a Rafal Milach, fotografo documentarista polacco. Come mai vi siete incontrati? Quali sono i punti di vicinanza o di lontananza che vi accomunano?

VP: Ho voluto incontrare Rafal quando ho deciso di far diventare Ergo Sum un libro, perché mi piaceva la sua sperimentazione linguistica. Con lui abbiamo ragionato sull’editing, con sua moglie Ania, che si occupa di book-design, sulla forma. È stata un’esperienza interessantissima e il risultato molto soddisfacente. In un secondo momento, durante una mostra che avevo in Germania, mi è stata proposta la pubblicazione da una casa editrice tedesca (Dienacht publishing) ed abbiamo presentato il lavoro al Paris Photo nel 2016. 

La scelta di fare un libro è nata da un bisogno di dare una forma più definita ad un pensiero. Questo progetto ha incontrato una buona accoglienza editoriale (Washington Post, Newsweek, L’Espresso tra i vari), ma mi rendevo conto che ad ogni pubblicazione, il photoeditor della rivista in questione, metteva in campo la sua storia, che non era mai veramente la mia. 

Per il resto, direi che il forte amore per Lynch è la cosa che più ci avvicina, la nostra ricerca invece è molto diversa: lui è un grande documentarista, sperimentatore e riflessivo, io sono istintivo, ossessivo, il mio sguardo si rivolge sempre all’interno, Mi interessa il senso d’oppressione costante che mi accompagna e gli strappi che provo a dargli.

 

Ph Valerio Polici.


LG: E con Antonio Biasiucci?

VP: Antonio l’ho conosciuto dopo aver chiuso Ergo Sum. Era un periodo di grande confusione per me. Avevo appena terminato il mio primo progetto, ne ero felice ma mi chiedevo chi fossi io come autore, quale fosse il punctum della mia ricerca. Sono stato selezionato per la seconda edizione del suo Laboratorio Irregolare, ed è iniziata un’altra grande avventura. Antonio, oltre ad essere un grande artista, sa essere un grande maestro. Per due anni e mezzo ho frequentato il suo studio 

sbattendo la testa al muro come poche altre volte in vita. Il suo è un laboratorio speciale perché ti mette di fronte a te stesso, senza inganni e in silenzio. La mia è anche una generazione manchevole di maestri purtroppo, la fortuna di averne avuto uno, per giunta di questo calibro, è un enorme dono e un enorme responsabilità. 

Con fare discreto, ci ha aiutato a fare pulizia, nel cuore e negli occhi. Solo così puoi arrivare al centro delle questioni. L’onestà prima di tutto, poi il resto. Era vietato parlare di altri fotografi, si parlava solo di rigore e di disciplina. Il suo maestro era Antonio Neiwiller, grande regista teatrale napoletano scomparso prematuramente, che a sua volta ha trasmesso a Biasiucci questo metodo di indagine interiore. Metodo che essenzialmente si fonda sulla ripetizione ossessiva di un gesto o di una parola in un lasso di tempo notevole. Questa ripetizione comporta una scarnificazione del soggetto in esame, e attraverso un senso rinnovato si giunge all’essenza. 

Terminato il laboratorio, siamo tutti entrati in un’altra profonda crisi, il peso che la sua presenza ha avuto in ognuno di noi ha lasciato anche un grande vuoto. Ma le crisi sono necessarie. Oggi, a due anni dalla fine di questo percorso, posso dire di aver digerito a pieno ed aver trovato esattamente la mia misura. La gratitudine che provo, non sarà mai abbastanza. 

 

LG: Oltre le modalità di installazione che hai elaborato mi interessa approfondire anche l’utilizzo della tecnica al platino palladio. Perché questo ritorno a una manualità colta e raffinata di fare la fotografia?

VP: L’installazione della mostra è stata ideata in collaborazione con una meravigliosa curatrice napoletana, Chiara Pirozzi, nell’intento di regalare ai visitatori un’ esperienza strutturata su diversi linguaggi.

La prima sala che accoglie il visitatore, è un ambiente asettico e privo di riferimenti, per aiutare una prima sensazione di smarrimento. Varcata la soglia d’entrata, un’installazione musicale che riproduce i suoni dei sotterranei avvolge e catapulta direttamente in un’altra dimensione, suggerendo un sentimento ansiogeno e claustrofobico. La sola fonte luminosa è un box al centro dello spazio che spinge ad avvicinarcisi perché l’unico in grado di svelarci qualcosa. Quasi come un monolite proveniente da un’altra dimensione, imprigiona sei schermi che riproducono in loop le esplorazioni nei sotterranei. Senza mai giungere ad un punto definito, mostrano un peregrinare inquieto e senza meta.  

Nella stanza a fianco, un polittico di 26 foto, un’opera unica che si sviluppa nella congiunzione di due piani e si estende in più direzioni. 

Provando a dare forma a quella duplice forza di attrazione e repulsione, prigionia e libertà che sta alla base del mio discorso. Una scala vortice al centro, risucchia come un buco nero tutto quello che le sta attorno. Man mano che si arriva alle estremità, la forza diventa centrifuga, la materia si dirada e si perde come in una deflagrazione. 

Le quattro fotografie esposte all’esterno, che rimarranno per tutta la durata del festival, sono la sintesi di tutto questo, lasciando maggior spazio all’immaginazione. 

La stampa utilizzata per queste ultime, è quella del platino palladio, realizzata da uno straordinario artigiano di Milano, Giancarlo Vaiarelli; l’unico maestro stampatore in Italia, in grado di farle. È una tecnica antica molto complessa, che permette di ottenere il livello qualitativo più alto possibile per la stampa in bianco e nero. Ognuna è una copia unica perché il composto chimico è steso con delle pennellate fatte a mano. Mi piaceva l’idea di questa dicotomia, tra una tecnica così raffinata e un soggetto così violento e sporco. 

 

LG: Quindi hai recuperato il gesto del dipingere, oltre che dello scrivere. Hai recuperato una grande fisicità.

VP: Si, questa tecnica ha permesso di recuperare anche quel gesto deciso, rabbioso, dell’azione con la bomboletta. La stesura del colore e la matericità che ritornano e fondono due linguaggi, due periodi differenti della mia vita, la fotografia che dialoga con la pittura. 

 

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Interviste a Marta Giaccone, Michele Nastasi e Valerio Polici
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Jean-Claude Lebensztejn, Figure piscianti

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Nel 2013 Jean-Claude Lebensztejn aveva raccolto in volume una serie d’interventi disparati (e alcuni inediti) che tracciavano un perimetro d’azione a prima vista difficilmente identificabile. Vi si trattava, fra l’altro, della punteggiatura di Lautréamont, delle diverse versioni di Perdita del centro dello storico dell’arte nazista Hans Sedlmayr, della magia dell’arte secondo Diderot. Osservando il sommario si poteva essere colti dalla stessa sensazione di spaesamento suscitata da un’ideale bibliografia completa dell’autore. Che cosa riusciva, infatti, a tenere assieme quelle pagine? Tutti gli scritti del volume erano riuniti esplicitamente sotto il segno degli “spostamenti” – Déplacements, appunto, il titolo del libro. Fra i testi si poteva scorgere un contributo, centrale, sul decorum, scaturito da una rilettura della lettera (novembre 1545) di Pietro Aretino a Michelangelo. Per le brevi: l’accusa a Michelangelo era di aver dipinto figure che avrebbero dovuto stare altrove – «in un bagno delitioso, non in un choro supremo si conveniva il far vostro». Da qui, in Mauvais lieu (p. 136 e sg.), Lebensztejn ripercorreva proprio le occorrenze e possibili accezioni di “decoro” in italiano. Baldinucci (1681) l’apparentava al verosimile, mentre il teorico neoclassico Francesco Milizia ne avrebbe fatto un sinonimo di convenienza e una necessità dell’architettura. 

 

Esiste un’architettura del buon gusto? La metafora non è oziosa. Passare da ciò che è decoroso al suo opposto: in fondo è una questione di spostamenti – appunto –, di passaggi, di frontiere. Questa è la topografia scientifica di Jean-Claude Lebensztejn, un autore che sulle soglie, sui parerga (cioè, secondo la rilettura kantiana di Derrida, su tutto ciò che è al tempo stesso parte dell’opera ed estraneo a essa) ha scritto pagine di una precisione encomiabile. Ricordiamolo: negli anni settanta e ottanta sono apparsi i suoi studi sulla cornice e sulla firma (racchiusi poi in Annexes – de l’Oeuvre d’art, 1999) che sarebbe auspicabile vedere tradotti, un giorno, in italiano. Da lì si dispiega una produzione scientifica, letteraria e di ricerca, cospicua e multiforme, un lavoro che vede nelle frontiere disciplinari e nei margini il suo territorio d’elezione. 

 

L’operazione compiuta con questo nuovo saggio, Figure piscianti, si palesa proprio a partire da un celebre spostamento. Citando la pagina del New York Herald (14 aprile 1917) su Fountain di Marcel Duchamp, Lebensztejn ritrova la questione centrale del decorum evocata più sopra. Fountain, l’orinatoio rovesciato, dovrebbe stare altrove, forse in un gabinetto, ma certo «il suo posto non è in una mostra d’arte». L’indecoroso Duchamp addita così nel ventesimo secolo qualcosa che in realtà non ha sempre assunto i tratti dello scandalo né tantomeno della perversione. La storia dell’arte è popolata di figure che pisciano – questo libro ne osserva le molteplici apparizioni e gli altrettanto significativi occultamenti a partire dal 1280 fino ad oggi. 

 

Jérôme Duquesnoy il Vecchio, “Manneken-Pis” (1619), Bruxelles. Ph. Wikimedia Commons.


Figure piscianti ha già ottenuto un certo successo in Francia (dove è pubblicato da Macula) e anche grazie alla traduzione americana per i tipi di David Zwirner. Scriverne ora, al momento della sua pubblicazione in italiano (UTET, 2019; traduzione di Rinaldo Censi), permette di notare come una buona parte dell’attenzione venga dal suo soggetto, considerato tabù per un saggio di storia dell’arte. In realtà Figure Piscianti dimostra paradossalmente il contrario, specialmente nei primi capitoli. Prendendo come punto di partenza la fontana del Manneken-Pis a Bruxelles (commissione del 1619 a Jérôme Duquesnoy il Vecchio), Lebensztejn imbastisce un’indagine minuziosa sulla circolazione e la trasmissione della figura del puer mingens. In questa prima fase, la ricognizione sul motivo e sulla sua manifestazione fisica (spesso come statua di una fontana) tende a rivelare e a commentare, confrontandole, le fonti letterarie. Nel dettaglio, particolare importanza è attribuita alla simbologia contenuta nell’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna (1499), e il sogno esoterico di Polifilo, del resto, così fitto di emblemi da decifrare, non può non essere il punto di partenza ideale per questa programmatica investigazione iconologica. 

 

L’urina abbonda proprio nel repertorio figurativo del Cinquecento, diventando una sorta di catalizzatore di fonti mitologiche e sapere alchemico. Le pagine dedicate a Lorenzo Lotto vanno lette in questo senso. L’epitalamio del Met (1525-1530) mostra una complicità giocosa, posta sotto il segno dell’allegoria. Il Cupido che col suo zampillo centra una corona di mirto prima di approdare al monte materno di Venere è un tentativo di figurare la fecondità. Negli stessi anni (1524) Lotto aveva sistemato nell’oratorio Suardi a Trescore un putto visto dal basso per fargli prendere di mira, col suo getto, l’acquasantiera. Tuttavia, nota Lebensztejn, il liquido non è dorato, bensì verde come il motivo vegetale che lo circonda – verde, soprattutto, «per analogia con il leone verde, la rugiada degli alchimisti» (p. 35). Gesto inappropriato? Forse, ma l’umorismo, il divertimento basso, non annulla il sotto testo alchemico: semplicemente, i due aspetti si mescolano assieme. 

 

Lorenzo Lotto, “Venere e Cupido” (1525-30), New York, Metropolitan Museum. Ph. Wikimedia Commons.


L’indecidibilità del genere – alla frontiera del comico e dell’allegoria – pare una cifra caratterizzante della rappresentazione dei piscianti. L’aveva ben compreso Erwin Panofsky, discutendo nei suoi Studi di iconologia uno dei disegni offerti da Michelangelo all’amico Tommaso de’ Cavalieri. Un Baccanale di putti alla sanguigna (ispirato direttamente dal Baccanale del rivale Tiziano, visto a Ferrara) sul quale non è possibile pronunciarsi chiaramente: il contenuto simbolico, se c’è, è difficile da spiegare. Non è una messa in scena della lussuria; il contenuto moralistico non si addice a Michelangelo. Forse, la messa in scena delle funzioni primitive rinvierebbe a una rappresentazione della vita animale, il grado più basso della scala neoplatonica. Nel disegno, in alto a destra, un putto piscia in una coppa, ma si direbbe che l’urina sia destinata a mescolarsi col vino con cui armeggiano i bambini circostanti. Così, chiasmaticamente, in basso a sinistra, un putto viene allattato dal seno penzolante di una vecchia satiressa, mentre un altro pare accingersi a defecare sulla sua coscia caprina. A Panofsky non era sfuggita questa copresenza delle funzioni più basse, ma aveva indicato le produzioni escrementizie con una perifrasi, senza additarle direttamente: «eating, drinking (and the opposite of both)». 

 

Il passaggio è puntualmente commentato da Lebensztejn ed è da qui, da quel che Panofsky non riteneva neppure di dover menzionare direttamente, che si esplicita l’operazione di Figure piscianti: concentrare il programma iconologico sul suo stesso rimosso. Tuttavia la radicalità del progetto non è esclusivamente relativa allo spostamento verso un oggetto “basso”, quale la minzione. Del resto il topos non è stato certo alieno alle preoccupazioni della storia dell’arte classica. Piuttosto, il sistematico accumulo di pezze documentarie, l’uso raffinato della letteratura secondaria, la meticolosità nell’analisi dei dettagli visivi (che arriva fino a calcolare, con la complicità di David Monteau, p. 64, la curva del getto di piscio nell’Età dell’oro di Jacopo Zucchi, agli Uffizi) offre ai lettori qualcosa di vertiginoso. L’analisi iconologica come atto interpretativo, nel sistema di Panofsky, doveva corrispondere a uno «studio del modo in cui […] le tendenze essenziali dello spirito umano sono espresse mediante temi e concetti specifici». Spostando lo studio verso il basso, Lebensztejn svela, in fondo, la parte maledetta dell’iconologia. Ed è indicativo che il dispiego di erudizione, uno sforzo eccezionale di ricerca e precisione documentaria, si faccia dapprima proprio sugli oggetti più classici, a ribadire cioè come tutto quell’armamentario teorico in fondo potesse essere facilmente riconvertito per trattare di quel che vi è – in apparenza – di meno nobile nelle tendenze essenziali dello spirito umano. 

 

Andy Warhol, “Oxidation Painting (in 12 parts)” (1978), Pittsburgh, Andy Warhol Museum © The Andy Warhol Foundation for the Visual Arts, Inc.


Sull’essenziale, del resto, Lebensztejn si pronuncia esplicitamente. «Nulla è da prendere più sul serio del riso e del disgusto», si legge in una delle poche dichiarazioni programmatiche del suo saggio (p. 84). Se il riso suscitato dall’urina pare immemorabile, il disgusto si rivela invece, nel corso della lettura, come relativamente moderno. Per sprazzi e frammenti s’inseriscono così, all’interno dei capitoli più eruditi, brevi considerazioni politiche sul rimosso dell’urina, una rimozione che ha «gradualmente annullato i numerosi usi, religiosi, pratici, magici, medicinali, un tempo attribuiti all’urina». Soprattutto, per quel che riguarda la storia dell’arte, il gesto di occultamento tematico, cioè lo spostamento della rappresentazione delle funzioni corporali nell’alveo dell’indecenza, rivela qualcosa di inedito. Forse non è più dal punto di vista del soggetto, del motivo, che si debbono osservare i piscianti. Jackson Pollock ne è l’esempio princeps. Questo «figlio di fattori americani del West, abituato a pisciare all’aria aperta» piscia anche, in senso figurato (ma forse non solo), sulle tele posizionate al suolo, siglando il commiato definitivo dalla pittura da cavalletto. Eppure l’epica del gesto del pisciante astratto si rovescia ancora una volta: ad Andy Warhol il compito di eseguirne la parodia.

 

Nei primi anni sessanta così come negli Oxidation Paintings della fine degli anni settanta, Warhol urina, lui stesso, su alcune tele, in un gesto di rivendicazione autoriale singolarissimo per chi ha saputo, altrove, delegare una parte importante della produzione artistica. Nel getto di piscio si ritrova una cifra stilistica e forse, sotto le spoglie della traccia ossidata, quasi una firma dell’autore. Ed è qui che le fantasie diuretiche raccolte da Lebensztejn si chiudono, nell’incontro eloquente fra il gesto artistico e la minzione. Un ultimo spostamento: in sede espositiva, sotto il calore dei riflettori le Ossidazioni di Warhol colano – piangono come pitture sacre. Un dettaglio non da poco. Per Aby Warburg, padre dell’iconologia e maestro di Panofsky, il buon Dio stava nel dettaglio. E in queste secrezioni allora? Difficile non vedervi il rovescio ideale del buon Dio che albergava nei dettagli – nel piscio che scorre attraverso la storia dell’arte si riflette il demonio dell’iconologia. 

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Il demonio dell’iconologia
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Basilico: un fotografo

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La fotografia è un’arte che ha permesso a Basilico di cogliere il mondo-città in divenire. Gabriele Basilico è il fotografo della città, è evidente, ma di quale città? Una città strana, che abbiamo sempre l’impressione di riconoscere, e che spesso riconosciamo, ma senza essere certi di poterla situare, una città che si trova ovunque e da nessuna parte. Ci succede d’identificarne in modo molto preciso un elemento (tale edificio all’angolo di questa o di quella via), ma non saremmo tanto sorpresi e sicuramente non scioccati se ci mostrassero che ci siamo sbagliati e che, per esempio, tale quartiere periferico in cui pensavamo di riconoscere un sobborgo di Roma appartenga invece alla regione di Parigi. Questa sensazione mescolata di riconoscimento e non riconoscimento, queste evidenze affette da incertezza sono di fatto il prodotto di un partito preso e di un approccio sistematico che si sforza di cogliere le trasformazioni del mondo contemporaneo, un mondo che può essere definito indifferentemente come globale o come urbano.

 

Poiché l’urbanizzazione del mondo è oggi il grande fenomeno che interessa principalmente l’umanità, un fenomeno della stessa portata, è stato fatto notare, del passaggio all’agricoltura e alla sedentarizzazione del Neolitico. Tale urbanizzazione è caratterizzata da tre processi simultanei. Parallelamente alla trasformazione dei “centri storici” in settori preservati e riservati al consumo turistico, i quartieri d’affari e il settore terziario si sviluppano e occupano oggi più spazio delle attività produttive in senso stretto. Inoltre, lungo le vie di comunicazione, i fiumi e il litorale marittimo, si prolungano dei nastri, dei filamenti urbani, nei quali coesistono imprese, industrie, centri commerciali, zone incolte, aree abbandonate e quartieri popolari.

 

Gabriele Basilico ha innanzitutto privilegiato i settori industriali e operai della città in cui era nato e viveva, Milano. In seguito, ha portato il suo sguardo verso altre città europee, privilegiando spesso i margini e le periferie, ma interessandosi anche, talvolta, a quanto abbiamo l’abitudine di chiamare “centri storici”. Le sue fotografie sono prive d’indulgenza. Si danno per oggetto gli aspetti più “duri” della città o del tessuto urbano, non cedono alla tentazione del pittoresco. Ma, se rispondono al desiderio di seguire e osservare il mutamento urbano in corso su scala planetaria, questo desiderio è sottoposto a sua volta a un certo numero di scelte estetiche che preesistono e vi si riflettono.

 

Le fotografie di Basilico sono immagini di ampio respiro. Il fotografo è ispirato dalla monumentalità e dal paesaggio urbano e, in entrambi i casi, dalla geometria che li regge: linee rette e angoli acuti oppure vaste curve e arrotondamenti. I materiali utilizzati oggi, il vetro – le sue trasparenze o i suoi riflessi –, il metallo e il cemento ben si prestano a un tentativo di questo tipo, ma la pietra e il marmo scolpiti dei secoli precedenti, fonte di un’altra monumentalità, coniugano a volte armoniosamente le loro forme con quelle privilegiate, ormai da alcuni decenni, dall’urbanistica e dall’architettura. Ed è perché il fotografo è prima di tutto sensibile a questo gioco di forme che il miracolo si produce e che l’utopia di una città planetaria, unica e diversa, presente e passata, emerge poco a poco sotto i nostri occhi quando guardiamo le sue fotografie di seguito, una dopo l’altra, con la strana e contraddittoria sensazione di perderci e di ritrovarci.

 

Gabriele Basilico coglie innanzitutto gli edifici e i monumenti che ritrae nella loro verticalità. Questa verticalità altera è ciò che avvicina i grattacieli attuali ai grandi edifici del XIX secolo. Anche se questi ultimi sono meno alti, rispetto al loro ambiente circostante suscitano la medesima impressione di orgoglio e dominazione. Tale impressione può nascere alla vista dell’hotel Capitol di Madrid come a quella di un grattacielo della Défense. Nell’architettura industriale o nei paesaggi devastati delle zone industriali dismesse, invece, è l’orizzontalità che predomina. S’impongono allo sguardo le linee di fuga degli alti muri diritti delle fabbriche, il tracciato dei muri spogli o ricoperti d’iscrizioni che ritaglia nel paesaggio improbabili frontiere, lo slancio che sembra spingere i binari della ferrovia e le banchine delle stazioni verso l’orizzonte che l’opacità delle costruzioni urbane sottrae alla vista. Nel cuore della città, le forme giocano fra loro, come giocano fra loro i tempi della storia.

 

Foto di Gabriele Basilico.


Nei quartieri d’affari più recenti, lo slancio verso l’alto delle torri rettilinee dagli angoli acuti si compone con gli arrotondamenti degli altri grattacieli e con le curve del sistema autostradale che li serve e li stringe. Ma questo gioco di forme è ugualmente presente nella profonda intimità dei centri urbani penetrati da autostrade sopraelevate, e nei centri storici dove, come a Roma, le colonne dei templi crollati e le rotondità delle cupole cristiane dialogano con il paesaggio moderno. La geometria del paesaggio s’impone al fotografo che la scopre e conferisce alla sua opera uno stile caratteristico.

 

Quali che siano i miglioramenti eventuali che nel futuro dovranno essere apportati al nostro ambiente di vita dagli urbanisti e dagli architetti, questo ambiente assomiglierà a quanto possiamo osservare sin d’ora. Se cediamo al pessimismo, diremo che, malgrado il mantenimento apparente della diversità, tutti i luoghi urbani continueranno sempre più a uniformizzarsi e che le variazioni che ci si sforza di creare abbiano tutte un’aria di déjà-vu. Se siamo ottimisti (e mi sembra sia il caso di Basilico, malgrado il rigore delle sue scelte e delle sue vedute, malgrado la decisione a priori di escludere gli esseri umani, ma non le macchine, dalla maggior parte delle sue fotografie), noteremo che questa sensazione di déjà-vu è più complessa di quanto non sembri a prima vista. Nella diversità delle città ci sono elementi che, per lo meno presi e visti da una certa angolatura, come accade nella fotografia, sembrano richiamarsi e richiamarci: un cavalcavia sulla corsia rapida che evita la Défense a Parigi evoca Eiffel e il ponte di Porto; dei pezzi di muro ricoperti di graffiti su un terreno abbandonato in fondo al quale s’indovinano alcuni edifici fatiscenti sono parte di un paesaggio berlinese che è anche un paesaggio madrileno… 

 

Storicamente, molte città europee sono state create con uno stile proprio, e un viale di Madrid non assomiglia a un viale di Parigi o a un corso di Roma. Potremmo pensare che oggi tutto ciò che le avvicina fugacemente le une alle altre – siano solo le mura cieche di una fabbrica dismessa, la banalità di un parcheggio o i riflessi della città su una parete di vetro – conferisca loro una dimensione propriamente poetica per lo sguardo che le scopre. Sono proprio questi la forza e il fascino dello sguardo di Basilico: non si lascia ingannare dalle apparenze, continua a cogliere la diversità sotto l’apparente uniformità e le somiglianze – le “corrispondenze”, per usare una parola cara a Baudelaire – nell’apparente diversità. La poesia, si sa, non è nelle cose, ma nello sguardo che sa coglierle. La fotografia, che isola e avvicina gli elementi che ci mostra, al termine di una doppia operazione di selezione, funziona dunque un po’ come la memoria ma, diversamente da colui che ricorda, il fotografo opera delle scelte in maniera intenzionale, sistematica e deliberata. È un artista che non si accontenta di registrare: fa, crea, inventa. È immediatamente dalla parte dell’immaginazione e dell’utopia. Ma come il poeta, e a differenza dell’utopista puro, è nel mezzo della realtà, anche quella più triviale, che attinge la materia della sua opera e, con essa, le ragioni per vivere e per sperare. C’è sempre un po’ di tempo sospeso e di futuro possibile in un’opera d’arte o in una poesia.

 

Ciò che è particolarmente notevole nel lavoro di Basilico è che riguarda la realtà più evidente e imponente della nostra epoca, quella che è associata a tutte le nostre paure e timori. Lungi dall’evitarla, vi si confronta. Ci ha abituati a osarla guardare e ci ha insegnato a vederla. A questo proposito, oserei quasi parlare di pedagogia poetica. Domani il mondo sarà urbano, lo è di già. Non per questo bisogna mettersi a sognare paradisi perduti: questi sono sempre illusori, non sono mai esistiti. Non abbiamo perso nulla; abbiamo tutto da conquistare e, di conseguenza, tutto da immaginare. Ma possiamo immaginare solo a partire da ciò che esiste già. Il mondo è diventato una città, ma si tratta di una città in cui diverse città hanno ancora il loro posto, con le loro vestigia, le loro rovine, la loro personalità. Certo, tutte queste città si sviluppano e si trasformano, e possiamo temere, non senza solide ragioni, che presto arriveranno ad assomigliarsi tutte nei loro elementi meno personali – penso in particolare a quegli spazi di circolazione, di comunicazione e di consumo che ho chiamato nonluoghi. Ma mi sembra che la scommessa di Basilico sia diversa, opposta. Per quanto affascinante possa essere, non bisogna accontentarsi di una delle sue fotografie; occorre guardarne molte per comprendere meglio ciascuna di esse. Ciò che distingue l’insieme della sua opera è, in effetti, la proiezione di una città composita e in divenire. Questa città è indubbiamente una città planetaria, ma è sempre in trasformazione, in essa le innovazioni continuano a dialogare fra loro e con il passato; una città grande come il mondo ma dove non sono assenti il fascino del ricordo e della nostalgia e sentimenti confusi, equivoci ed esaltanti di speranza, timore e attesa.

 

Gabriele Basilico non credeva al ripiegamento del mondo su se stesso, alla fine della storia e al regno delle copie conformi. Detto altrimenti, anche se le sue immagini hanno un rigore formale che le mette al riparo da ogni dimensione aneddotica, non sanciscono una non so quale morte della città – e dell’arte. Al contrario, la loro forza coinvolgente e contagiosa dipende dal fatto che, giocando con le forme spaziali, ci aiutano a vedere la storia da cui scaturiscono e a immaginare il futuro che le aspetta. Sono anche delle immagini del tempo.

 

Questo articolo è tratto dal volume di Marc Augé, Chi è dunque l’altro?, a cura di Annalisa D’Orsi, Raffaello Cortina Editore, 2019.

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Il Leone d’oro alla Lituania

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Immaginare una spiaggia senza mare

 

Sun & Sea (Marina) è il titolo dell’opera-performance scritta da tre artiste lituane: la filmmaker e regista teatrale Rugilė Barzdžiukaitė, la scrittrice, drammaturga e poetessa Vaiva Grainytė, l’artista, musicista e compositrice Lina Lapelytė. Assieme hanno già lavorato a Have a Good Day! (2013), opera e pièce teatrale per dieci cassiere del supermercato che cantano a cappella la routine del loro lavoro tra i bip dei prodotti scansionati, assieme a vicende più intime. Elaborata durante una residenza all’Akademie Schloss Solitude di Stoccarda, presentata al Padiglione lituano della 58ima Biennale di Venezia curato da Lucia Pietroiusti, Sun & Sea (Marina) ha ottenuto il Leone d’oro. 

Il Magazzino 42 si trova in una zona defilata dell’Arsenale, nelle mani della Marina Militare e non del Comune, mai utilizzato finora per un evento artistico. Dei tre indirizzi che circolano il primo che tento è sbagliato: la guardia del circolo della marina è già stufo, dopo soli due giorni, di dire che no, lì dentro non c’è nessun padiglione lituano, che è una zona militare protetta e che bisogna fare il giro dell’Arsenale – che, per inciso, occupa il 15% della città.

All’interno del padiglione giacciono 35 tonnellate di spiaggia lituana che, alla fine della Biennale, confluiranno al Lido. Si osservano dal ballatoio del piano superiore che corre su quattro lati; immerso nel buio, rende ancora più luminosa la scena che si apre sotto ai miei occhi. Su questa spiaggia non manca nulla: asciugamani e qualche sdraio, ciambella e braccioli, racchette da tennis, bocce e carte da gioco, bottigliette d’acqua e termos, una bicicletta e un cane pacioso. E ci sono anche gli zainetti con dentro, tiro a indovinare, qualcosa da leggere, qualcosa da sgranocchiare e qualcosa da mettersi addosso quando più tardi si alzerà il vento. 

Non è poco, eppure lo spazio non è sovraccarico; è una spiaggia libera, affollata nelle intenzioni delle artiste ma ariosa agli occhi di un italiano abituato allo spazio centellinato e delimitato dalla sfilza d’ombrelloni dei nostri litorali.

La soffusa luce artificiale si amalgama con quella veneziana. Ho la fortuna di trovarmi qui in una giornata soleggiata; il primo giorno hanno dovuto aggiungere alcune stufe a fungo per i performer intirizziti che qui trascorrono tutta la giornata in costume. Non abbagliante come quella di mezzogiorno, non chiaroscurale come quella del tramonto, la luce è tersa, quella di un sole che non scotta, che non necessita di una crema che filtra le radiazioni ultraviolette.

 

Rugilė Barzdžiukaitė, Vaiva Grainytė, Lina Lapelytė, Sun Sea Marina, performance, Biennale Arte 2019, Venice, Andrej Vasilenko.


Penso alla luce sensuale della pittura tonale veneziana, agli squarci limpidi dei cieli, ai riverberi dell’acqua, alle pietre dei palazzi e al loro riflesso ondulato nella laguna. Trattandosi del padiglione lituano, sarebbe tuttavia più giusto evocare le spiagge baltiche: il sole che tramonta tardi, le dune mobili di sabbia come nel deserto, i pezzetti d’ambra a riva, l’acqua gelida in cui si mette un piede per ritirarlo subito e che stravolge il rapporto poroso col Mediterraneo.

A causa della spossatezza che attanaglia corpo e mente nei giorni dell’inaugurazione, non mi accorgo subito che in Sun & Sea (Marina) manca qualcosa, l’elemento più iconico della vita da spiaggia: gli ombrelloni. Non ci sono perché coprirebbero o comunque filtrerebbero la visuale da sopra, ma anche perché non c’è alcun solleone, quello che squaglia la palla di gelato, bensì nient’altro che gli sguardi di una cinquantina di spettatori. E, in questo deposito dalle pareti scrostate, manca un elemento ancora più essenziale, come realizzo quando un bambino indossa una maschera da immersione: il mare. Sun & Sea (Marina)è una spiaggia senza mare, in una città costruita sulla laguna, sorta e circondata dall’acqua. 

È curioso perché il mare è a portata di mano: basta girarmi per vedere, attraverso le finestre oscurate, la laguna salmastra. In lontananza scorgo il bacino di carenaggio delle Gaggiandre e l’ingresso del Padiglione Italia e mi sento sollevato di trovarmi qui e non lì. Perché tanto qui la curatela è discreta quanto lì è imponente, così che molti ricorderanno, dell’Italia, più l’accrocco labirintico che il suo contenuto, cioè le opere degli artisti.

 

Presente all’orizzonte, il mare resta inaccessibile in quanto noi spettatori – come i performer – siamo al chiuso. Il mare è nel retroscena, nell’immaginazione dei bagnanti e nel testo di Marie Darrieussecq nel catalogo-vinile, Précisions sur les vagues, “un catalogo enciclopedico delle onde, che descrive il modo in cui si formano. Si tratta di un luogo importante: raccordano l’acqua e la terra”. Senza mare, quella di Sun & Sea (Marina) è così una spiaggia artificiale non meno che metafisica, in una biennale che rigurgita di ambientazioni oniriche e allucinanti, da Laure Prouvost al Dream Journal di Jon Rafman.

 

Costruire l’inoperosità

 

Metafisica, però, lo è fino a un certo punto, perché la spiaggia di Sun & Sea (Marina) è popolata da una ventina di performer. Ne conto 23 più un cane, corpi di una spiaggia qualsiasi: in costume e in maglietta, giovani e invecchiati, magri e corpulenti, glabri e pelosi, atletici e pingui, pallidi e abbronzati. E soprattutto indolenti. A chi mi chiede cosa fanno i performers rispondo niente in particolare, cioè tutto quello che ci si aspetta dai bagnanti, micro-azioni di corpi su una spiaggia soleggiata. In ordine sparso: mangiano fave, leggono libri, fanno cruciverba, consultano il cellulare, si spalmano creme solari, schiacciano un pisolino, giocano a tennis, si stirano, disegnano, portano a spasso il cane, puliscono il telo da mare dalla sabbia o creano un montarozzo di sabbia a mo’ di leggio. Manca giusto – elemento della promiscuità mediterranea – la radiolina che, gracchiante, trasmette tormentoni estivi allo stesso ritmo con cui i giornali riportano fatti di cronaca nera.

 

Rugilė Barzdžiukaitė, Vaiva Grainytė, Lina Lapelytė, Sun Sea Marina, performance, Biennale Arte 2019, Venice, Andrej Vasilenko.


C’è però qualcosa che fanno tutti, o meglio che non fa nessuno: essere assorbiti dall’opera-performance. I bagnanti infatti parlottano bellamente, come se niente fosse, senza però coprire la musica e il canto. I bambini, i più vispi, giocano come se fossero veramente al mare: che siano inconsapevoli di entrare nella storia della biennale? Lo penso prima di rendermi conto che, in oltre un’ora d’osservazione, non li sorprendo mai a sbirciare col naso all’insù quelle cinquanta facce adulte che non smettono di osservarli e fotografarli e riprenderli. Non diversamente dagli adulti più navigati, stanno lì come se non avessero occhi addosso, come se fossero sul mar Baltico.

Noi, vestiti, affacciati alla balaustra; loro distesi, in costume. A vederli dall’alto mi viene in mente meno un drone che un acquario, la cui trasparenza c’inganna sulla possibilità di stabilire un contatto con chi sguazza al suo interno. Perché il pesce, da che mondo è mondo, è muto e inconsapevole di vivere nell’elemento acquatico.

Non solo i performer non fanno niente di non-ordinario, niente che non mi aspetti (l’azione più concitata – la più fotografata – è il signore anziano che si alza in piedi per stirarsi), ma non sembrano affatto recitare. C’è una certa fluidità sulla loro presenza non-mediata: c’è chi esce e c’è chi entra in modo saltuario, segno di una coreografia snella, perlomeno per le comparse che non cantano, tra cui non mancano parenti delle artiste.

 

Alcuni persino sbadigliano, dove lo sbadiglio, per la sua natura contagiosa, contiene comunque il germe dell’empatia e del far comunità. “Bisognerebbe anche vedere che cos’è la pigrizia nella vita moderna. Ha notato che si parla sempre di un diritto agli svaghi ma mai di un diritto alla pigrizia? Mi domando del resto se da noi, occidentali e moderni, esista: non far nulla. Anche persone che hanno una vita completamente diversa dalla mia, più alienata, più dura, più laboriosa, quando sono libere non fanno: ‘nulla’; fanno sempre qualcosa” (Roland Barthes).

Sun & Sea (Marina) circoscrive un lembo di spiaggia quieto, senza musica pecoreccia, senza puzza di fritto, senza schiamazzi e senza romantici tramonti; non è la spiaggia di “con le pinne fucile ed occhiali”, e nemmeno quella di “sapore di sale”. Ognuno di noi può proiettarci le proprie memorie estive. Lo stesso vale per i performer, cui è stato chiesto di comportarsi come se fossero al mare – ma cosa c’è di meno naturale del senso di naturalezza ricercato dalle artiste lituane?

Torpore del corpo, ozio della mente, inoperosità, sospensione del tempo: di questo parla Sun & Sea (Marina). Solo che, trattandosi di un’opera cantata, questa sospensione è ritmata da un libretto in inglese e da una musica suddivisa in 23 arie di una durata complessiva di circa un’ora e dieci. Assistiamo così non all’inoperosità ma alla sua costruzione, non alla sospensione del tempo ma alla sua costruzione, tanto più abile quanto più discreta e, da molti, inavvertita. Affacciati al ballatoio come al balcone di un teatro, di questa pièce musicale disponiamo persino del libretto, così da poterne seguire per filo e per segno lo svolgimento. A casa scarico e riascolto la musica, registrata su disco da 87 cantanti da Vilnius e Venezia, come se fosse Arvo Pärt.

 

Rugilė Barzdžiukaitė, Vaiva Grainytė, Lina Lapelytė, Sun Sea Marina, performance, Biennale Arte 2019, Venice, Andrej Vasilenko.


Cantare la pelle sensibile

 

Se nessuno sembra assorbito dall’opera-performance, quasi tutti – bambini e comparse esclusi – cantano assoli o arie, indossando microfoni quasi invisibili. Lo fanno con tale discrezione che non capisco mai chi sta cantando e, assieme ai miei vicini, andiamo alla ricerca di una bocca aperta che tradisce la sorgente canora. Restano distesi, al massimo si siedono, nessuno prende la posa di chi sta intonando un assolo.

“Songs of almost nothing”, come si legge in catalogo? Sì e no. Una storia è abbozzata: un viaggio in aereo, un vulcano che erutta – Eyjafjöll nel 2010? –, un atterraggio d’emergenza, un contrattempo, una sosta da amici, una coppia che si forma. Una storia imprevedibile come l’amore, insomma. Per il resto si toccano questioni ecologiche: a) il cambiamento climatico, con temperature pasquali a natale: “The beginning of May brought frost and snow / And winter gives us buds and mushrooms”; meduse galleggianti accanto a bottigliette e buste di plastica colorate, fuse in un unico paesaggio policromo: “O the sea never had so much color!”; b) l’impatto del turismo di massa, con visite guidate della Grande barriera corallina, piña colada inclusa nel pacchetto; c) l’industria alimentare, come nel “Commento del filosofo” che, mangiando una banana, specula sulla strada che ha compiuto per arrivare tra le sue mani.

Non mancano due gemelle uscite da una stampante 3D che piangono la distruzione della natura. Immortali, saranno ristampate “in un pianeta vuoto, senza uccelli, animali e coralli”; non resterà loro che ristampare in 3D tutto ciò che sarà ormai estinto.

 

Rugilė Barzdžiukaitė, Vaiva Grainytė, Lina Lapelytė, Sun Sea Marina, performance, Biennale Arte 2019, Venice, Andrej Vasilenko.


Stravaganze di chi, passando la giornata col naso all’insù, guarda il cielo e avvista gabbiani e rondini di mare o inveisce contro chi sporca la spiaggia (“What’s wrong with people?”). Ma, come una nuvola, fanno capolino anche le preoccupazioni legate al lavoro, l’angoscia di essere considerato un loser dai colleghi, la spossatezza dei workaholic. Uno sfinimento da camuffare perché sul luogo di lavoro l’ingiunzione è sorridere – Have a Good Day! come recita la pièce precedente delle artiste lituane. Inesistente “come un mammut”, questo senso di sfinimento, alla fine, erompe “come lava”, secondo le parole del libretto. Ecco che non dell’otium ma dei giorni di ferie è la spiaggia, quella del tempo libero come tregua dal lavoro: “People have been planning / All year long their ten days off vacation, / which they only take once every year”.

Ritroviamo le preoccupazioni proprie alla generazione dei trentenni: le tre artiste sono nate nella metà degli anni ottanta, e Rugilė Barzdžiukaitė ha da poco girato il documentario Acid Forest. Nella bossa nova finale di Sun & Sea (Marina) una signora canta in quattro lingue – l’unica sezione multilingue – le istruzioni di una crema per proteggere la pelle ipersensibile: quella dei bagnanti, certo, ma anche quella altrettanto fragile della Terra. Con un salto di scala, quei corpi che scruto dall’alto non sono lontani dall’immagine della Terra dai satelliti. Ciononostante, ed è questa la bellezza ipnotica di Sun & Sea (Marina), emana un senso di leggerezza vacanziera che, malgrado la più fredda inaugurazione della biennale di tutti i tempi, sento avvicinarsi.

 

Rugilė Barzdžiukaitė, Vaiva Grainytė, Lina Lapelytė, Sun Sea Marina, performance, Biennale Arte 2019, Venice, Andrej Vasilenko.


Addomesticare il mare

 

Sun & Sea (Marina) inscena un locus amoenus marino, lontano dal tema delle bagnanti in pittura, con la sua erotizzazione dello sguardo sul nudo femminile, disinibito e inconsapevole di essere guardato e concupito.

In un libro ormai classico, lo storico delle sensibilità Alain Corbin ha ricostruito il fascino dell’uomo per quei territori-limite che sono il mare e le sue rive, prima considerati come aberrazioni della Creazione divina (non diversamente dalle montagne), ostili, abissali, indomabili, diabolici secondo una visione teologica debitrice del Diluvio. A partire dalla metà del XVIII secolo, con l’evoluzione della sensibilità, della geografia degli affetti e della medicina che lega la salute dell’uomo all’ambiente in cui vive, il mare e le sue rive diventano luoghi salutari, alla stregua delle campagne, fino allora unico riparo dalle patologie urbane. 

Il mare del Nord è preferito al miasmatico e pestifero Mediterraneo. Esposizione agli elementi, terapia balneare, bagni terapeutici che esaltano i benefici della pelle esposta alla luce e bagnata dalle onde. Sentimento romantico del paesaggio marino (leggasi sublime, là dove prima si vedeva solo orrore) che persegue la rêverie, l’introspezione psicologica e soprattutto il punto di fusione tra lo sguardo e l’immensa distesa acquatica che si spalanca davanti. Nascono il pittoresco, le stazioni balneari e la società Belle Epoque, un teatro a scena aperta, nonché il turismo che considera questo territorio vuoto – o del vuoto, come precisa Corbin – un terreno di caccia.

 

Se prima si veniva al mare durante l’inverno per curarsi, per la cultura e per il sesso, nel XX secolo si frequenta d’estate per il sole, per il calore e per vari piaceri. Si comincia ad amare il sole piuttosto che la luce, secondo la lettura di Jean-Didier Urbain. Ancora un passo e arriviamo al culto del corpo abbronzato, agli sport nautici e, siamo al de profundis, a Venezia come location per matrimoni esclusivi organizzati da zelanti wedding planner.

 

Espandere la performance

 

Sun & Sea (Marina) reinventa il tableau vivant– l’irruzione del vivente nell’immagine – all’epoca dei reality show. È, ipotizzo, una performance espansa non per la sua durata reale, visto che un ciclo si compie in poco più di un’ora ma anzitutto per la sua messinscena. 

Se l’improvvisazione è tenuta a bada, Sun & Sea (Marina)è una performance disinvolta e a tratti scafata. Ad esempio, mentre sono lì, una sdraio di colpo s’affossa; il bambino si siede allora composto sulla spiaggia finché un adulto l’aggiusta, senza che quest’imprevisto stoni con l’insieme o interferisca in qualsiasi modo col suo svolgimento. Oppure le due gemelle – decisive in quanto al centro della scena, catalizzatrici del nostro sguardo –, stufe di stare a terra vanno in un angolo a giocare a tennis. Per non parlare delle comparse che, in tempo reale, rispondono ai messaggi sul cellulare.

Ora, ed è qui che volevo arrivare per concludere, espansa lo è, Sun & Sea (Marina), anche rispetto alla storia della performance. Se non è facile iscriverla all’interno di questa pratica artistica, non lo si deve solo alla natura ibrida del padiglione lituano, nato dalla riuscita fusione di universi eterogenei, ma anche al destino della performance. Oggi include un po’ di tutto, estendendosi al di là della sfera artistica, diventando sinonimo di efficienza, che sia in campo commerciale, sportivo o sessuale. 

 

Rugilė Barzdžiukaitė, Vaiva Grainytė, Lina Lapelytė, Sun Sea Marina, performance, Biennale Arte 2019, Venice, Andrej Vasilenko.


La performance storica è inscindibile dalla postura concettuale di quegli artisti che volevano scavalcare la produzione di un oggetto, il modello produttivo della merce che l’arte mutua dall’economia, il sistema dell’arte sostenuto dal mercato. Tino Sehgal lo ha colto lucidamente parlando della necessità di non produrre qualcosa di materiale al fine di smarcarsi dal “modello di produzione economica predominante”. Che Sun & Sea (Marina) debba qualcosa alle “situazioni costruite” di Tino Sehgal? Diversa l’interazione tra i performer e il coinvolgimento degli spettatori; diverse le intenzioni e i temi trattati; diverso l’uso del contesto espositivo e la riflessione critica sull’istituzione. Eppure entrambi usano il motivo musicale come filo conduttore, l’intensità della dimensione live, il corpo come strumento sonoro…

 

Sin dagli anni sessanta i performer si sono rivolti alla musica, alla danza e al video, introducendo la temporalità come elemento centrale delle loro azioni effimere e facendo del corpo – del loro corpo messo a nudo – un medium non reificato. Un corpo eroico messo alla prova, meno “soggetto di” che “soggetto a”, che sia la ripetitività del gesto, la ferita e il dolore, lo sfinimento fisico, la durata infinita.

Con Sun & Sea (Marina) le tre artiste lituane hanno dato vita a una performance espansa o a quella che Marie de Brugerolle, riflettendo sullo stato della performance nel primo ventennio del XXI secolo, all’epoca del re-enactment, ha chiamato post-performance. Sul modello del post-medium, il “post” non indica qui un “after”, come tiene a precisare, ma una continuità storica. Un passaggio “dal monumentum al momentum”, a una fase “antieroica, non-tragica, che indaga spazi e residui negativi”. È una performance consapevole di essere rappresentata, capace di prendere le distanze da se stessa, di giocare con la sua messinscena. 

Una performance, aggiungo, che immagina il mar Baltico in laguna con una semplice spiaggia. E in assenza del mar Baltico e della laguna. Quello che resta, credetemi, non è poco.

 

Rugilė Barzdžiukaitė, Vaiva Grainytė, Lina Lapelytė, Sun Sea Marina, performance, Biennale Arte 2019, Venice, Andrej Vasilenko.


Nota

 

Per non girare tutto il Sestriere Castello, l’indirizzo del padiglione lituano è Calle de la Celestia 2737/B, https://www.sunandsea.lt/en. Ringrazio Meta Maria Valiusaityte per aver condiviso con me alcuni retroscena sulla realizzazione di Sun & Sea (Marina).

Have a Good Day!è stato visto al Teatro Argentina di Roma nel maggio 2018, nell’ambito di FLUX – Festival delle Arti. Lina Lapelytė è stata già esposta in Italia in diverse occasioni: la performance Ladies (2015-17) al padiglione baltico della Biennale d’Architettura di Venezia nel 2016, alla mostra Magma. Il corpo e la parola nell’arte delle donne tra Italia e Lituania dal 1965 ad oggi a cura di Benedetta Carpi De Resmini e Laima Kreivytė all’Istituto centrale per la grafica di Roma (2017-18); la performance Yes. Really! (2015) in Exploring… Step 1, a cura di B. Carpi De Resmini, AlbumArte, Roma 2017.

 

Roland Barthes intervistato da Christine Eff, in “Le Monde Dimanche”, 16 settembre 1979, in italiano su doppiozero: https://www.doppiozero.com/materiali/lettura/osiamo-essere-pigri?fbclid=IwAR13uV4kA24AU3_Ee35eVi6hLMxHTl0RPeSnQ1kFeg9Skcdsqi570WCXe-Q

 

Alain Corbin, Le Territoire du vide. L’Occident et le désir du rivage, 1750-1840, Aubier 1988

 

Jean-Didier Urbain, Au soleil. Naissance de la Méditerrannée esitvale, Payot 2014

 

Marie de Brugerolle, Post-performance Future, Mousse Magazine, 63, April-May 2018, pp. 266-275

negli speciali in home: 
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Sabbia baltica sulla laguna
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Costruire la vita con le immagini: Lee Miller e Inge Morath

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In apparenza non c’è alcun legame fra Lee Miller e Inge Morath, se non che alle due fotografe, nate a distanza di circa vent’anni, l’una austriaca cresciuta in una famiglia di scienziati e l’altra americana con la passione per Parigi, sono dedicate due mostre, la prima a Bologna, a Palazzo Pallavicini (Surrealist Lee Miller), l’altra a Treviso presso la Casa dei Carraresi (Inge Morath, La vita. La fotografia). Non sono le uniche mostre, in Italia, in cui protagoniste sono delle fotografe: Berenice Abbott a Lecco, Eve Arnold ad Abano Terme, Tina Modotti (conclusa una mostra da poco a Parma, se ne aprirà un’altra a Jesi), mentre a Milano, presso i Frigoriferi Milanesi, “Il soggetto imprevisto” celebra un periodo in cui l’arte e il femminismo dialogano intensamente; il Brescia Photo Festival è interamente dedicato alle donne, mentre a Venezia Letizia Battaglia viene celebrata, finalmente, non più solo come fotografa della mafia.

 

Cosa sta accadendo? Si tratta soltanto di una tendenza à la page, o la domanda che si pose nel 1971 Linda Nochlin, “perché non ci sono state grandi artiste?”, torna ad abitare i dubbi di critici e curatori? Le risposte meriterebbero uno spazio a sé. Per ciò che riguarda, invece, Inge Morath e Lee Miller, la prima cosa da dire è che non sono affatto sconosciute e che hanno incarnato un modello di new woman, emancipata e consapevole, quasi una risposta al mito della donna musa, isterica o femme-enfant che si era moltiplicata nelle opere dei surrealisti: La femme 100/sans tête(s) e La Poupée di Hans Bellmer ad esempio, o che veniva celebrata ossessivamente, unica dea folle, seppur mantenuta a distanza, come la Nadja di André Breton. 

 

L’intervallo temporale che le separa, un ventennio quasi, segna anche una sorta di linea immaginaria che distingue le loro vite da ciò che hanno ritratto. Inge Morath non fotografa la Seconda guerra mondiale e i suoi drammi, mentre Lee Miller finirà risucchiata proprio nel nero di quel vortice temporale e l’esperienza da lei vissuta sui fronti di guerra inghiottirà per sempre le sue fotografie e lei stessa sino all’oblio. L’ultima foto di Inge Morath è un autoritratto che sembra esprimere la volontà di restare innanzitutto dentro il suo sguardo. Se la prima si perderà metaforicamente nel pozzetto della sua Rolleiflex, la seconda riuscirà a sopravvivere all’obiettivo della sua Leica. 

 

Lee Miller, Self Portrait, © Lee Miller Archives England 2018. All Rights Reserved. www.leemiller.co.uk.

 

Iniziamo da Lee Miller, o meglio da un’opera d’arte che la rappresenta. Un metronomo che non scandisce solo il tempo, ma lo inghiotte, così come il tempo ha inghiottito la fotografa. Nel 1932 Man Ray ritaglia un occhio di Lee da una fotografia e lo colloca alla sommità dell’asta di un metronomo. Si intitola Objet à détruire. Sul retro di questo oggetto, la cui realizzazione risale al 1928, egli scrive: “Legenda: ritagliare l’occhio dal ritratto di una persona che si è amata ma non si vede più. Attaccare l’occhio al pendolo di un metronomo e regolare il peso secondo il tempo desiderato. Farlo andare fino al limite di resistenza meccanica. Con una martellata ben assestata cercare di distruggere il tutto in un solo colpo”. 

 

Non accade. Lee Miller lo lascia e torna a New York dove apre uno studio e inizia la sua nuova vita da fotografa indipendente. Nata a Poughkeepsie il 23 aprile 1907 nello stato di New York, giovanissima diviene una star di Vogue grazie al suo incontro fortuito con Condé Nast, che la salva dall’essere investita sulla Fifth Avenue. Ma tutto questo non le basta. Dopo un primo soggiorno a Parigi nel 1925, ci ritorna nel 1929 con una lettera dell’editore che la raccomanda al fotografo di riferimento di Vogue a Parigi, il barone George Hoyningen-Huene, e con un’altra raccomandazione di Edward Steichen, che la indirizza a Man Ray. Per tre anni, a Parigi, ne sarà la musa, l’amante e la modella. 

 

Lee Miller, Man Ray Shaving, © Lee Miller Archives England 2018. All Rights Reserved www.leemiller.co.uk

 

Lo segue, lo osserva, e impara in fretta, ma se ne distacca sin da subito. Le sue foto non subiscono l’influenza del surrealismo, sebbene nella sua opera siano presenti solarizzazioni, doppie esposizioni e fotomontaggi. Le basta la realtà. Non è forse vero che le fotografie documentarie sono in grado di “produrre degli enigmi visivi” o delle “immagini indovinello”, come le chiamava Breton? O che il loro carattere ambiguo e il senso non immediatamente leggibile insinuano la possibilità di suscitare un dubbio? 

 

Ciò che permane nelle sue fotografie è la convivenza di ordinario e straordinario, di disgusto e perfetta armonia, di forza e fragilità. Quattro topi appollaiati su un’asticella, che sembrano sospesi nel vuoto, come fossero uccelli: Rat Tails (1930), il volto di Man Ray coperto di schiuma da barba, che esprime allo stesso tempo noncuranza e vulnerabilità. Stesse sensazioni espresse in maniera inequivocabile in un’altra immagine del 1942, si intitola Good and bad posture e rappresenta il volto di una donna che sovrasta la sua stessa immagine. Il corpo entra in due bolle di vetro: bad? good? Dov’è il punto in cui lo sguardo si arresta? Non esiste. Tutto è in movimento, tutto è fermo, nel medesimo istante. 

 

Questo non accade solo alle fotografie parigine, realizzate dal 1929 al 1932, considerate più vicine al surrealismo, ma anche a quelle scattate tra il 1932 e il 1934, nella New York alla moda. Basti pensare alla testa fluttuante di Mary Taylor, giovane attrice di Broadway, sospesa nel vuoto – idee in volo o metaforica decapitazione? – , o a quelle scattate in Egitto, dal 1934 al 1939, dove Lee Miller viveva dopo aver sposato Aziz Eloui Bey, un uomo d’affari che si era innamorato di lei. Le dune si trasformano in montagne da percorrere con gli sci, la siccità del deserto sembra un mare ondoso, l’ombra di una piramide si sostituisce a quella reale e nello stesso tempo ne evoca la presenza. 

 

Ma è un altro oggetto a spingerci verso il mistero delle sue foto. Nella sala centrale della mostra ci sono le immagini della guerra e al centro della sala c’è la sua Rolleiflex. Un altro objet à détruire. Anch’essa è oscillante. O meglio il suo funzionamento evoca una oscillazione. Il visore per l’inquadratura, posto nella parte superiore della macchina, rende necessario impugnarla più o meno al centro del corpo, evitando il contatto visivo con il soggetto, anche se, proprio per il fatto che si può inquadrare dall’alto, lasciando libero lo sguardo del fotografo, è possibile entrare in connessione con chi viene fotografato. Si guarda senza essere visti. E quindi cosa prevale: prossimità o distanza?

 

C’è anche un’altra cosa. Un ulteriore movimento. Guardare dentro il pozzetto della Rollei ricorda il gesto di chi scende in profondità. Il dubbio rimane anche in questo caso: si penetra nel soggetto o dentro se stessi? Nel fondo oscuro del pozzetto della Rollei si rintanano le immagini più drammatiche: un groviglio da cui non verrà più alcuna luce. 

 

Le foto dell’orrore vengono scattate in Germania e precisamente nel campo di concentramento di Dachau, in cui entra il 30 aprile del 1945. Lei è la prima americana a varcare la soglia di un lager. David E. Scherman, amico e fotografo di Life, è al suo fianco. Scatta incessantemente: cataste di cadaveri, treni che trasportavano i condannati, forni crematori con i resti dei corpi. Il nostro sguardo corre lungo le pareti. Si resta sempre increduli. E poi tutto si arresta di nuovo. I nostri occhi si spingono con la fotografa dentro un canale di scolo a Dachau. Ci galleggia il corpo di un soldato tedesco. È di fianco, come se dormisse. Lee Miller racconta che il canale era pieno di SS con tute mimetiche e stivali borchiati, cani morti e fucili rotti. L’acqua lo accoglie, e allo stesso tempo ne lambisce il corpo come un sudario. Non importa se le fotografie non possono dire tutta la verità, se sono lacunose e impotenti, qui la fotografa riesce a prendere di mira l’inimmaginabile, a confutarlo in maniera lacerante, attraverso il conflitto tra l’orrore e la pietà nei confronti del nemico, raffigurato nel momento della sua vulnerabilità più estrema. Tutto è sospeso, come accade in un’altra foto. 

 

Non è di Lee Miller, ma è l’immagine che immediatamente si associa alla sua storia. Forse è la sua foto più famosa. Viene scattata da David E. Scherman nell’appartamento di Hitler a Monaco, che solo poche ore prima era stato preso dall’esercito americano come luogo deputato alla comunicazione. Lee abbandona i suoi anfibi militari, si immerge nella vasca da bagno, il posto più impuro d’Europa, e con un gesto liberatorio ne inverte la polarità: la sua bellezza purifica quel luogo e nello stesso tempo, nel tempio dell’orrore, compie il gesto di liberarsi per un istante dal dolore che, nel cuore dell’Europa, ha inghiottito il suo sguardo. 

Si percepisce la convivenza tra ethos e pathos, puro stato affettivo e possibilità dell’azione. Un’altra oscillazione. Qui sembra che la sua celebre frase: “preferisco fare una foto che essere una foto”, venga messa in discussione dalla stessa fotografa. Essere e fare si confondono. Il soggetto, la fotografa, si sovrappone all’oggetto, o meglio si sdoppia nell’oggetto, poiché in questo tempo e in questo spazio, essere una foto è più importante che farla. 

 

Sta qui la dimensione contemporanea delle sue immagini. Tanto le fotografie parigine, quanto quelle di moda o di guerra, non sono solo immagini di guerra o di moda, ma rappresentano il fondo oscuro di un’indecidibilità. L’objet à détruire sopravvive. Lo sguardo continua a oscillare. Ciò che resta dinnanzi a noi non ha tempo, come non ha una risposta. Le immagini di Lee Miller rappresentano la manifestazione di una forma che è innanzitutto la forma di un dilemma, qualcosa di inarticolabile, che resiste ad ogni definizione. Le sue fotografie producono un segno che va al di là di se stesso e, per questo, oltrepassano i confini del loro tempo. Tutto è instabile, come l’illusione di una coincidenza perfetta tra il tempo della fotografia e quello dell’evento da cui essa trae la sua esistenza. 

 

Dall’in-decidibilità il passo successivo è quello dell’in-dicibilità. Dopo aver fotografato Dachau, Lee Miller intraprende un viaggio nell’Europa devastata dai totalitarismi. Ha tanti volti: un bambino morente in un ospedale pediatrico privo di medicine a Vienna, László Bardossy, l’ex primo ministro fascista ungherese davanti al plotone d’esecuzione a Budapest nel 1946, e poi verso la Romania, alla ricerca di Harry Brauner, che si era salvato da anni di prigionia e che Lee fotografa mentre registra la canzone di una famosa cantante popolare. Da qui in poi il mondo che la circonda entra solo marginalmente nel suo obiettivo. Tutto si è perduto negli anni della guerra e di questo suo ultimo viaggio. L’indicibilità dell’immagine assurge ora a simbolo di una violenza che ha spazzato via ogni traccia di civiltà, insieme allo splendore ermetico delle sue immagini. E alla sua vita.

 

Lee Miller, Revenge on Culture, Grim Glory, London, England, 1940, © Lee Miller Archives England 2018. All Rights Reserved.

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Diventa madre nel 1947 e si trasferisce in una fattoria, Farleys Farm, nell’Est Sussex, meta di amici e artisti, che fotografa. Working Guestsè l’ultimo articolo per Vogue e il penultimo della sua vita: l’esaltazione dei tempi della guerra è irripetibile. Si appassiona alla cucina, verso cui sembra poter far confluire la sua carica creativa e con la quale cerca di contrastare il declino psichico e fisico, dovuto anche all’abuso di alcol. Lentamente smette di fotografare. Muore nel luglio del 1977. Le parole dell’amico Roy Edwards, che le dedica una poesia intitolata “Lee e le fotografie”, sembrano condensare in poche righe i conflitti che hanno attraversato la sua esistenza: 

 

“lei volta la testa

a sedurre specchio e obiettivo

(…)

lei volta la testa

giorno e notte si danno appuntamento sulla sua nuca”.

 

Per Inge Morath costruire la propria vita con le immagini è un processo meno drammatico. Nasce a Graz in Austria nel 1923. I genitori sono scienziati, cresce in un ambiente colto e intellettuale, fatto di buone letture, viaggi e studi. Studia lingue romanze all’università di Berlino e ama viaggiare. Non teme barriere culturali o linguistiche. Nel corso della sua vita giungerà a parlare sette lingue. Due sono i documenti esposti in mostra che circoscrivono la sua lunga attività da fotografa: un breve dattiloscritto in tedesco e l’elenco della sua attrezzatura, per un viaggio negli Stati Uniti all’Europa, nella primavera del 1978, redatta dall’agenzia Magnum. 

Nel foglio senza data Inge Morath descrive la storia del suo primo rullino sviluppato a Venezia. Il tono dimesso riduce tutto il discorso fotografico a pochi gesti: la giusta combinazione tra esposizione e diaframma, una buona messa a fuoco, il pulsante di scatto pronto a catturare il soggetto giusto che entra nel posto giusto. A quel punto scrive: “devo diventare una fotografa”.

 

Tra il 1945 e il 1947 lavora per il Servizio d’informazioni americano come redattrice e traduttrice, prima nell’ufficio di Salisburgo e poi a Vienna. Dal 1948 fa la reporter per Heute e inizia a collaborare con il fotografo Ernst Haas. Lavora come traduttrice e giornalista. La mostra di Treviso è estremamente dettagliata: ci sono molte fotografie che testimoniano i suoi viaggi, gli incontri, una linea del tempo visiva che corre parallela a quella stampata sulla parete. Il reportage che pubblica insieme ad Haas nel 1949, dedicato ai prigionieri austriaci di ritorno dai campi di prigionia russi, viene riproposto anche sulla rivista Life

 

E questo attira l’attenzione di Robert Capa che li invita ad unirsi alla neonata agenzia Magnum a Parigi, Haas come fotografo e Morath come ricercatrice e redattrice. Da qui il passo è breve. Nel 1953 Inge realizza il suo primo reportage intitolato “Preti lavoratori”, ed entra a far parte dell’agenzia come membro associato. Tra il 1953 e il 1954 avviene un altro incontro importante: Henri Cartier-Bresson, che accompagna nel 1960, per diciotto giorni, in un viaggio in auto che li porta da New York a Reno, nel Nevada, sul set di Gli Spostati, con Marilyn Monroe e Clarke Gable. Qui scatta uno dei suoi più bei ritratti: una Marilyn quasi scomposta che da sola, lontana dal set, esegue dei passi di danza, e conosce lo scrittore e drammaturgo Arthur Miller, sceneggiatore della pellicola, che diventerà suo marito. 

 

Inge Morath, Marilyn Monroe durante le riprese del film “The Misfits” a Reno, Nevada, USA, 1960 © Fotohof archiv/Inge Morath Foundation/Magnum Photos.


Negli anni seguenti viaggia in Europa, Nord Africa e Medio Oriente. Ritrarre, scrivere e fotografare significa stendere una linea. Una lunga linea che non conosce interruzioni: Cina, Russia, Austria, Regno Unito e Irlanda, Romania, Francia, Stati Uniti, Iran, Spagna, dove nel 1960, riesce a immortalare Lola, la sorella di Pablo Picasso, e l’avvocatessa Doña Mercedes Formica, la quale si batteva per i diritti delle donne nella Spagna della dittatura franchista. 

 

Volti che seguono altri volti: tantissimi artisti (Henri Moore, Jean Arp, Pablo Picasso), scrittori (André Malraux, Doris Lessing, Philip Roth) ma anche gente comune. O interi paesi, come accade con il viaggio in Russia, insieme ad Arthur Miller, alla ricerca dei grandi romanzieri ottocenteschi e dell’anima russa, che poi finiscono nelle pagine dei suoi numerosi libri. La foto-grafia viene intesa come atto di scrittura, ovvero nella sua componente di azione e movimento. In termini fotografici si direbbe sviluppo, l’operazione che rivela ciò che è, ma che non appare ancora. Ma c’è di più: l’idea che accanto ad ogni immagine sviluppata sopravviva un’immagine latente. 

 

Inge Morath, Lama vicino a Times Square, New York, USA, 1957, © Fotohof archiv/Inge Morath Foundation/Magnum Photos.


E questo lo si comprende quando si osservano i suoi ritratti. Tra l’immagine di Marilyn Monroe e quella di un lama che si sporge dal finestrino di un taxi nel traffico di New York si collocano le linee e le maschere di Saul Steinberg, fotografate da Inge nel 1958 e poi raccolte nel libro Masquerade. “Nel 1956, finalmente arrivai a New York e Saul Steinberg accettò di incontrarmi e posare per un ritratto. Suonai il campanello e lui uscì con in testa un sacchetto di carta sul quale aveva disegnato un autoritratto”, racconta la fotografa.

 

I disegni del famoso illustratore sono ritratti, ed il ritratto, che nel suo senso ordinario designa la rappresentazione di una persona, in particolare del suo volto, e in senso più ampio, figurazione, iscrizione o incisione, si volge verso la sostituzione del disegno alla cosa disegnata. La pittrice Hedda Sterne, moglie di Saul Steinberg, sollevava l'una o l'altra maschera di gatto, inclinando leggermente la testa di lato come fanno i gatti quando ascoltano, si appuntava un fiocco di velluto nero sulla nuca e diventava una gatta che sembrava una ragazza, o una ragazza che impersonava una gattina. Allo stesso modo le fotografie di Inge Moraht si sovrappongono al soggetto rappresentato. Sono facies, figure, ma anche cose “fatte”, pagine di un libro. Superfici, narrazioni, storie.

 

Il ritratto racconta i loro volti. Ne rivela l’essenza. Proprio come la notorietà, anche la “palpitazione intima” chiede di essere figurata. L’esteriorità perché “partecipa a una proiezione e a una simbolizzazione; l’intimità, perché si sottrae essenzialmente all’esteriorità della forma e dell’esposizione”. Ma entrambe sono necessarie, anche se sembra che si escludano: “l’intimità vuole essere segnalata, riconosciuta per essere rispettata; la notorietà vuole che la si intuisca abitata da un segreto”, scrive Jean-Luc Nancy, nel suo saggio L’altro ritratto. Questa tensione insondabile è ciò che il ritratto attraversa ed espone: “Rendere visibile l’invisibile”. 

 

E il mezzo per ottenere questo segreto è la tenacia di uno sguardo che si aggrappa al soggetto, come un oggetto desiderato che si vuole immortalare senza tregua. Philip Roth esprimeva quasi la medesima idea, pensando a se stesso nella foto scattata da Inge e insieme al volto della fotografa: “Inge Morath è il voyeur più attraente, vivace e apparentemente inoffensivo che conosca. Se sei uno dei soggetti che vuole fotografare, senza quasi accorgertene, appena abbassi la guardia, lei afferra il tuo segreto prima che possa essere troppo tardi”. Lo stesso pensava Warren Trabant che per primo l’assunse come giornalista: “Aveva gli occhi più brillanti e intelligenti che avessi mai visto”. E infine lei stessa su di sé: “cerco di esprimere le cose che voglio dire, dando loro forma attraverso i miei occhi”. “La chiusura dell’otturatore è un momento di gioia, paragonabile alla felicità di un bambino” diceva la fotografa. E proprio come quello di un bambino il suo sguardo è insistente. 

La gioia di scattare coincide con la parte oscura, il suo vorace voyeurismo. Inge Morath desidera e scatta. E questo desiderio si spinge oltre la fotografia, poiché la pulsione scopica, ovvero l’irrefrenabile impulso a vedere, coincide con il suo desiderio di conoscenza. 

 

Le sue immagini nascono qui. “Prima di buttarmi su un progetto, voglio conoscere il contesto, immergermi nella civiltà in cui mi devo muovere e conoscere almeno i rudimenti della lingua. In quel momento riesco ad arrivare con grande libertà a quello che Henri Cartier-Bresson definisce l’atteggiamento decisivo del fotografo: scattare la fotografia con un occhio ben aperto, che osserva il mondo attraverso il mirino, mentre l’altro è chiuso e scruta nella sua anima”, racconta Inge. Non è un caso che la mostra si apra con un autoritratto scattato in Israele nel 1958 dove si vede il volto della fotografa accostato alla sua fotocamera e si chiuda con la foto di una foto: il medesimo autoritratto sul quale Inge appoggia una pianticella secca da cui spuntano i suoi occhi vivaci. 

 

Un congedo, si potrebbe dire. Molto diverso da quello di Lee Miller, che invece aveva sepolto i suoi occhi e se stessa dentro il fondo oscuro della guerra e della sua Rolleiflex. Ciò che resta è la consapevolezza che la fotocamera, per entrambe, è stata l’interlocutrice privilegiata con cui rappresentare la propria visione del mondo, oscillatoria, indecidibile, drammatica, per Lee Miller e vorace, gioiosa e insistente per Inge Morath. Sapere, vedere, conoscere, ha coinciso con l’atto di fotografare, e l’atto di fotografare ha permesso loro di appropriarsi del mondo. È questo che per ciascuna ha significato costruire la propria vita con le immagini. 

 

 

Mostre:

 

Surrealist Lee Miller, Palazzo Pallavicini, Bologna, 14 marzo – 9 giugno 2019.

 

Inge Morath. La vita. La fotografia, Casa dei Carraresi, Treviso, 28 febbraio – 9 giugno 2019.

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Legami. Intimità, relazioni, nuovi mondi

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Se negli anni successivi alla fine del secondo conflitto mondiale il neorealismo si occupò di illustrare una nazione in ginocchio nella crudezza un po’ romantica delle sue condizioni di estrema povertà e arretratezza, il movimento artistico degli anni Settanta esplorò invece, in modo quasi esasperante, la condizione intellettuale del Paese, ponendo il pubblico dinanzi a sollecitazioni visive e sensoriali mai percorse prima.

Fu una rivoluzione per l’ambito del costume borghese dell’epoca tanto incisiva quanto quella del movimento del ’68, forse anche di più. Erano gli anni in cui l’emergente artista serba Marina Abramović e l’artista tedesco Ulay, attraverso l’opera icona dell’arte performativa Imponderabilia (Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna, 1977), tanto per citare una delle più forti performance per il cattolico pubblico italiano, misero in evidenza una questione tanto intima quanto pubblica: l’interazione dell’individuo con il “corpo”, il proprio e quello dell’altro: il privato con il pubblico, il dentro con il fuori

 

Nuove figure in un interno, la mostra in corso allo CSAC di Parma, curata da Paolo Barbaro, Cristina Casero e Claudia Cavatorta nell’ambito del Festival di Fotografia Europea di Reggio Emilia “LEGAMI. Intimità, relazioni, nuovi mondi”, si sviluppa attraverso una serie di opere che affrontano proprio la rappresentazione di questa dicotomia che si rivelerà in maniera prorompente e contrastante al tempo stesso. 

L’esposizione appare subito come un dialogo tra l’esterno e l’interno, inteso qui come rappresentazione della relazione tra l’individuo, con tutte le sue apparenti innocue contraddizioni, e la collettività vissuta come condivisione della lotta per il bene comune. 

Due sono gli autori immediatamente visibili al pubblico perché esposti in cornice: Luigi Ghirri con la famosa serie Identikit (1976-78) che ritrae la sua libreria personale e Giovanni Chiaramonte del quale viene proposta una serie di immagini pressoché inedita, Finestre (1978), scattate dall’interno di altrettante abitazioni private.

 

Luigi Ghirri, Identikit, 1976-78, C Print, mm215x299.

 

Giovanni Chiaramonte, S.t., da “Finestre”, 1978, C Print, 240x305 mm.


Carla Cerati, Paola Mattioli, Gianni Berengo Gardin, Guido Guidi, Marzia Malli, Mario Cresci, Luciano D’Alessandro e Giovanna Nuvoletti si trovano invece all’interno delle cassettiere dell’Archivio, le loro immagini sono nascoste alla vista dello spettatore che le deve scoprire aprendo i cassetti contrassegnati dalla figurina di un occhio.

 

Diversi sono gli elementi che già solo attraverso questa modalità di esposizione ci conducono a una analisi del guardare. Innanzitutto le fotografie esposte al di fuori dei cassetti rappresentano due situazioni interne: una biblioteca privata e la veduta di un esterno filtrata da una finestra. Entrambe sono frutto dello sguardo dell’autore il quale mostra una visione intima di ciò che in qualche modo gli appartiene creando una sorta di autoritratto: i libri che delineano l’identikit dell’autore nel caso di Ghirri e ciò che in quel momento sceglie di ritrarre Chiaramonte oltre la finestra dell’ambiente in cui si trova (il fuori da dentro). Entrambi sono autori di genere maschile e questo non è privo di importanza in quanto l’introspezione, il guardare con la propria sensibilità interiore, non è in quegli anni prerogativa del fotografo maschio che si trova piuttosto in prima linea. Abbiamo quindi a che fare con una versione femminile dello sguardo maschile

Le fotografe donne, invece, sono chiuse nei cassetti (anche alcuni uomini per la verità, ma noi qui vogliamo occuparci principalmente delle “fotografe”). Sia Carla Cerati sia Marzia Malli entrano in una situazione che non appartiene loro da un punto di vista personale poiché ritraggono interni (le famiglie che abitano le case di ringhiera la Cerati e la preparazione a un matrimonio la Malli) dove entrambe mostrano il loro punto di vista interiore che osserva fuori da sé. Rispetto ai due precedenti lavori vi è qui la volontà di mostrare cosa avviene in una determinata situazione domestica e privata, dalla quale però le autrici prendono in qualche modo distanza: l’osservazione è esterna, diventa pubblica.

 

 

Carla Cerati, S.t., da Donne di ringhiera, 1977, stampa fotografica in bianco e nero, 398x300 mm.


Marzia Malli, s.t. (matrimonio), 1977-78, stampa fotografica in bianco e nero, 175x238 mm.


La perfetta sintesi dell’elemento esterno (il fuori) con quello interno (il dentro) è data però dal contesto fotografato da Paola Mattioli con il suo famoso lavoro “Le immagini del NO”. Il “NO” del titolo fa riferimento al referendum cardine di quegli anni, quando la maggioranza degli italiani votò affinché la legge che introduceva l’istituto del divorzio venisse mantenuta. Paola Mattioli affronta qui il tema con un doppio registro linguistico, altamente contrastante, utilizzando il bianco e nero per il reportage più classico e il colore per ritrarre le case occupate del quartiere Gallaratese di Milano dipinte con colori primari, opera dell’architetto comunista Carlo Aymonino.

All’interno dei cassetti che racchiudono le immagini di Mattioli, notiamo almeno due diversi livelli di scoperta. Il primo riguarda la consapevolezza intellettuale di usare un linguaggio preciso, il colore, per ritrarre altrettanto consapevolmente una situazione; il secondo mostra come la fotografa riesce a unire l’esterno con l’interno senza dover necessariamente “cercare una storia”, un nesso, ma addirittura cambia stile. 

Dall’analisi che Mattioli stessa fa delle sue immagini attraverso un video esposto in mostra, veniamo introdotti in una lettura molto precisa degli elementi evidenziati nelle fotografie. La bandiera rossa posta all’ingresso dell’abitazione occupata ad esempio riflette il senso non soltanto della lotta collettiva ed esterna (il fuori) è altresì posta a difesa di un interno umano che racconta la quotidianità di una famiglia (il dentro). 

 

Paola Mattioli, s.t., da “Immagini del NO”, 1974, Cprint.


Lo scenario è quindi quello di un esterno collettivo in cui ci si prepara a manifestare e si mostrano i simboli del contrasto elettorale e un interno privato dove il materasso è posto per terra in un angolo, le pareti sono ricoperte di una tappezzeria molto semplice, un bambino piange perché cadendo si è rotto un dente. L’interno diventa quindi “una situazione di occupazione estremamente umana e precaria – dice l’autrice – testimonia l’umanità della lotta”. 

 

Paola Mattioli, s.t., da “Immagini del NO”, 1974, Cprint.


Lo stupore che la fotografa esprime nel descrivere la situazione oggettuale della famiglia qui ritratta indica il carattere ideologico dell’associazione privato/politico (e dunque pubblico); ma la sua capacità di osservare ci fa capire in qualche modo che i due aspetti non necessariamente collidono.

Nel momento in cui il reportage, passando dall’utilizzo del bianco e nero che ritrae le situazioni di lotta collettiva – dove gli individui appaiono “anonimi” (sono il fuori che resta dentro) – giunge a una situazione “privata”, l’uso del colore trasforma gli appartamenti occupati e gli individui stessi in “visibili” (sono il dentro che esce fuori). 

Il fuori generalizzato, seppure identificato chiaramente, diviene così il dentro personale e le due condizioni giungono a sovrapporsi. Ma tale sovrapposizione durerà lo spazio di pochissimi anni. 

 

Il tema della relazione con il corpo attraverso la sua evidenza anonima prima e visibile poi affrontato all’epoca, colloca lo sguardo del fruitore in una dimensione ben precisa e consapevole, quella della posizione dell’essere umano nel contesto collettivo. L’affievolirsi dell’esperienza di quegli anni la cui causa primaria è in massima parte riconducibile all’espansione della TV commerciale e alla caduta dei muri a difesa del comunismo, ben presto partorirà miliardi di immagini impregnate di ipervisibilità provocando l’effetto contrario a quello rivoluzionario d’allora: la capitolazione del senso a favore del nulla. La Fine delle trasmissioni.

 

Nuove figure in un interno, nell’ambito dell’edizione 2019 di Fotografia Europea dal titolo Legami. Intimità, relazioni, nuovi mondi. CSAC – Centro Studi e Archivio della Comunicazione, dal 13/05 al 21/07/2019.

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Camp. In eccesso di senso

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Vi si accede attraverso un corridoio stretto, dalle pareti colorate di rosa. Non un rosa pallido, confetto, bensì un rosa acceso, vivace. Un rosa neon, o shocking; credo si chiami così. Anzi, scelgo di adottare proprio questo aggettivo, shocking, perché ben si presta a calare il lettore nell’atmosfera eccentrica, a metà strada tra il comico e il grottesco, tra l’eccesso e il virtuosismo, che domina l’esposizione Camp: Notes on Fashion in scena al Metropolitan Museum di New York fino all’8 settembre.

Chi si appresta ad accedervi, camminando lungo quel corridoio, non può fare a meno di portare sotto braccio un testo critico prezioso, tanto ammirato quanto criticato, un testo che campeggia, per stralci, anche sulle pareti che ora, gradualmente, si mutano di colore, e traghettano lo spettatore dritto verso la stanza centrale, thecamp eye. Il luogo dove il camp va propriamente in scena. 

Il testo a cui faccio riferimento è “Notes On Camp”, un saggio scritto da Susan Sontag nel 1964 in forma di appunti – perché questa, secondo lei, era la forma migliore da utilizzare per quello che sarebbe diventato, di lì a poco, il primo tentativo di spiegazione di una sensibilità tanto complessa, eterogenea, quanto elusiva. E in effetti, Sontag è “il narratore fantasma” dell’intera esposizione – come ha dichiarato lo stesso Andrew Bolton, curatore del Costume Institute – un punto di riferimento teorico imprescindibile (il lettore italiano può trovare la traduzione di questo saggio, insieme ad altro prezioso materiale critico, nei due volumi di Pop Camp, usciti per la rivista “Riga” della Marcos y Marcos, a cura di Fabio Cleto che ora firma anche l’introduzione al catalogo ufficiale dell’esibizione).

 

 

In “Notes On Camp” Sontag propone cinquantotto punti, in forma di lunga lista, un catalogo rigoroso ma consapevolmente provvisorio che vuole definire – termine mai più inappropriato in questo contesto – un luogo abitato da tensioni, conflitti, scontri; un luogo abitato da uno sguardo obliquo, prospettico, che sottende quella “differenza tra la cosa in quanto significa qualcosa, qualunque cosa, e la cosa come puro artificio”. Un luogo, dunque, dove la realtà si riduce a sfilata di segni, che sopravvivono nella loro materialità come puri significanti… significanti di cui ognuno si appropria, prelevando qualcosa, un pezzo, per poi gettarlo nel vortice irrequieto della sua incessante ri-significazione.

 

Da qui, da questo saggio di Sontag – e prima di lei, dalle pagine di Il mondo di sera (1954) di Christopher Isherwood – la critica a venire non ha fatto altro che cercare una definizione di camp, tentando di imbrigliare un concetto di per sé sfuggente, e di offrire una cornice intellegibile a quella sua fastidiosa ineffabilità. Si tratta di posizioni teoriche per lo più contrastanti, tutte però accomunate dalla volontà di situare in quella parola, camp, un concetto chiave, una categoria estetica di importanza epocale. Che cos’è il camp? E come riconoscerlo? Sono queste le domande, spinose se non anche imbarazzanti, che sottendono alla questione. Dopotutto, la mente umana ha bisogno di categorie a cui aggrapparsi. Cosa saremmo noi, fragili esseri umani, senza categorie? Le categorie costituiscono il fondamento di tutta l’attività cognitiva umana, e proprio grazie ad esse, diventa possibile individuare e riconoscere tutto ciò che ci circonda, assegnandogli un nome. Si potrebbe affermare che, senza dubbio, la categorizzazione rappresenta una capacità non solo innata, ma anche necessaria, dal momento che presiede a qualsiasi nostra attività di organizzazione della conoscenza, e al nostro rapporto con il mondo. È lo stratagemma che abbiamo convenzionalmente adottato per darci forma, conferirci una struttura chiara e riconoscibile. È fors’anche un’attività alla quale per molto tempo abbiamo delegato la sicurezza della nostra esistenza. E della nostra sopravvivenza. Ebbene, di tutto questo il camp si prende gioco.

 

 

 “Il camp vede ogni cosa tra virgolette”. Se qualcosa esiste, questo qualcosa esiste solo fra virgolette. Al mondo, si volge lo sguardo solo in senso prospettico, mai assoluto. Meglio ancora se buffonesco. Le categorie tradizionali di maschile/femminile, alto/basso, dentro/fuori, sotto/sopra, vengono tutte messe radicalmente in discussione. Ma non vi è, mi pare, nel camp un tentativo di decostruzione, o di smascheramento del carattere puramente ideologico delle opposizioni tradizionali. Non si generano significati nuovi, sensi nuovi attraverso il camp. Semmai, il camp sospende il senso, in favore di una molteplicità di senso sfrenata, parodica, talvolta incongruente. Non una critica alla realtà, ma una sospensione, non si sa quanto momentanea, di questa stessa realtà per farle dire cose differenti. Per sondare quel lato prismatico, sfaccettato, duplice di ogni esistenza, quel lato che se da una parte suscita un sorriso, dall’altra può trasformare quello stesso sorriso in “senso di revulsione”.

 

Che cos’è allora il camp? Si tratta di un’estetica, qualcuno ha detto, o di un gusto. Qualcun altro preferisce parlare di sensibilità, prospettiva, o modo d’essere. Susan Sontag, nel suo catalogo, ne fa una questione di stile: “Il camp rappresenta la vittoria dello stile sul contenuto”. Qualcun altro, ancora, di performance, tale per cui il camp non è, ma accade. 

Di una sola cosa v’è certezza: coloro che, come me, si apprestano a parlarne, non possono fare altro che compiere un atto di tradimento. E oserei dire, anche di fallimento, verso un qualcosa che per sua natura non appartiene all’ordine dell’essere, dello spiegabile, restando al di sopra di ogni didascalismo.

 

Alla nota cinque del proprio catalogo, Sontag dichiara: “Il gusto camp ha affinità con certe arti, più che con altre”. E tra queste cita immediatamente l’abbigliamento, e più in generale tutti gli elementi del décor visivo. L’esposizione sembra prendere le mosse proprio da qui: 250 pezzi, per lo più capi d’abbigliamento che hanno contribuito nella loro essenza a delineare, con un’attitudine più o meno deliberata, una performance camp. Tra questi, si trovano creazioni di Armani, Versace, Dolce&Gabbana, Prada, Ferragamo, Balenciaga, Vivienne Westwood, Moschino… Veri e propri quadri, disposti lungo le pareti di uno spazio organizzato su due piani, in nicchie variopinte con colori pastello.

Saggiamente, però, prima di condurre lo spettatore nelle declinazioni più contemporanee del camp, la mostra espone anche dipinti, sculture e pezzi d’artigianato capaci di giustapporre in uno spazio dopotutto ristretto un arco temporale assai vasto, che va dal XVII secolo a oggi, senza soluzione di continuità. In altre parole, l’esposizione offre una rapida visione di tutti quei luoghi in cui il camp è accaduto prima ancora che fosse tale; le sue manifestazioni inconsce a Versailles, presso la corte di Re Sole; le sue molteplici apparizioni nella cultura dandy e nella poetica di Oscar Wilde, prima ancora che Sontag provvedesse a farne l’outing.

 

 

Caravaggio trova così posto accanto al marinaio in paillettes di Jean-Paul Gautier. Le foto di Oscar Wilde vengono sistemate accanto a un mantello con pavoni arabescati in oro di Alexander McQueen. Il camp, dopotutto, ha contribuito anche a questo: alla ridefinizione del concetto di bello; l’oggetto artistico ha perso completamente la sua aura. In scena, ora, compaiono “pessimi oggetti pseudoartistici” – come ha detto una volta Gillo Dorfles – che mirano alla magnificazione dell’artificio, si fondano sulla ridondanza, sulla sublimazione dell’esagerazione kitsch. E così facendo, appoggiandosi alla magnificazione dell’artificio, finiscono con l’innescare un processo schizofrenico di feticizzazione che anziché ripetere, ripresentare un’immagine, riesce a minare anche il più saldo dei principi logici, il principio di non-contraddizione, celebrando il travestimento delle “cose che sono ciò che non sono”.

 

L’esposizione riprende l’idea di camp in termini di linguaggio del corpo, un modo di vestirlo, di presentarlo, sullo sfondo di una performatività diffusa, volutamente esagerata. Una teatralità ironica, e divertita, di cui reca traccia la derivazione etimologica (dal francese camper, ma anche se camper, posare), che rimanda tanto all’idea di riproducibilità quanto alla posa, e dunque, ancora una volta, all’artificio. E mai più appropriato poteva essere il parallelo con il mondo del fashion, della moda, che in sé rende la materialità di quell’idea – esposta anni fa da Kristeva e destinata a rivoluzionare la semiotica – di testo come tessuto, insieme di fili per farne un abito, più o meno credibile. Si tratta a mio parere di un’immagine in sé molto evocativa, che ben rende l’idea di complessità, di intreccio e intersezione di fili, di stratificazione di significati. 

 

 

Un trionfo del narcisismo, forse. Ma qui, al mio speculum molle di studioso di psicoanalisi, sia concessa una precisazione. È un narcisismo, quello a cui si assiste nel camp, da intendersi secondo un’accezione peculiare, anche un po’ straniata. Mi riferisco all’accezione teorizzata da Lou-Andres Salomé, che proprio su questo punto si sentì di prendere le distanze dal padre della psicoanalisi, perché a ben vedere, il narcisismo a lei pareva presentare una doppia struttura: se da una parte è coscienza profonda dell’Io, dall’altra è anche identificazione panica col Tutto, piacere per l’indifferenziato. La vita non è altro che questo, una ricerca continua di quel piacere del Tutto. E guai se così non fosse. Se Narciso vedesse riflesso nello specchio solo la propria immagine speculare separata, esiliata da tutto il resto. Questo, mi pare, è il narcisismo professato dal camp. Corpi paradossalmente non assorbiti da alcuna immagine, né propria né altrui, ma disposti a mettersi in discussione affidandosi al vortice della ricezione contingente, in un dissidio costante tra dimensione simbolica e dimensione immaginaria. 

 

E a sua volta, uscendo dalla mostra, lo spettatore avrà lui pure sperimentato la disponibilità del proprio corpo, il suo potere di fascinazione e seduzione – da intendersi nel senso etimologico del termine, se ducere– attraverso la posa di manichini che conducono il suo sguardo nel gioco infinito della rappresentazione, del verosimile, mentre di questi stessi concetti il camp esplora l’effimero, i limiti e le contraddizioni.

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Margherita Moscardini. Abitare senza appartenere

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Il Parco Cervi di Reggio Emilia è affollato da un capannello di persone riunite attorno a un’“isola” di marmo, disposta in maniera obliqua rispetto al terreno. Una targa informa i visitatori che la fontana sarà attiva in una precisa fascia temporale durante la settimana.

Tra i visitatori giunti appositamente per assistere all’inaugurazione del nuovo progetto dell’artista Margherita Moscardini, patrocinato dalla Collezione Maramotti, si mescolano curiosi, addetti ai lavori e cittadini. Tra questi, una signora con un volpino ben pettinato si tiene in disparte rispetto al capannello dei presenti e osserva l’opera, per poi sbottare in un’espressione salace che condensa tutto il suo disappunto. Prima che io possa aprire bocca, la signora si volta stizzita e se ne va, trascinandosi dietro il volpino. Rimango interdetta di fronte al giudizio apodittico, figlio di uno sguardo distratto, sputato per respingere un oggetto che ai suoi occhi ha la colpa di essere uno “spreco di soldi”. L’idea che un’opera d’arte possa ancora creare disagio in uno spettatore mi appare, un attimo dopo, un merito, soprattutto nella misura in cui il lavoro di Margherita Moscardini non presenta alcun carattere formale ascrivibile a una dichiarata volontà provocatoria. Mi chiedo se qualcosa in questo dispositivo, decisamente radicale nella proposta, non sia riuscito a scalfire l’indifferenza della donna, e se nell’incomprensione interpretativa non sia intervenuto qualcosa di diverso, qualcosa in grado di dare vita a un glitch. L’inserimento di un dispositivo “problematico” in un contesto controllato come quello di un giardino pubblico ne altera la natura rassicurante e ne modifica la fruizione, e sebbene la spettatrice non abbia fatto una riflessione strutturata di fronte all’oggetto, qualcosa si è infiltrato generando un disturbo, una problematica potenzialmente fertile.

 

Margherita Moscardini Inventory. The Fountains of Za’atari 2018 still da video, formato 4k, 31 min. / video still, 4k format, 31 min. Il video-documento è stato girato in Giordania tra il settembre 2017 e il marzo 2018 / The video-documentary was filmed in Jordan between September 2017 and March 2018 Winner Italian Council 2017 MiBAC- DGAAP Courtesy Fondazione Pastificio Cerere, Roma © the artist.


Il progetto che Margherita Moscardini ha dedicato a uno dei più grandi campi profughi del mondo, il complesso di Za’atari, in Giordania, si intitola The Fountains of Za’atari: sviluppato a partire dal 2015, è un lavoro ambizioso che nasce dall’osservazione dei campi profughi quali insediamenti abitativi temporanei che acquistano un carattere di permanenza. Con i suoi 80.000 residenti (ma nel 2014 aveva toccato quota 150.000), Za’atari è il secondo campo più grande al mondo dopo Dadaab, in Kenya, aperto nel 1998 (che si stima ospiti circa 500.000 persone), e rappresenta la quarta città della Giordania per numero di abitanti. Situato al confine nord del paese, ospita i profughi del conflitto che dilania la Siria sin dal 2011. 

Nel 2017 sono stati stimati oltre 65 milioni di rifugiati in tutto il mondo, un numero che supera il totale dei rifugiati delle due Guerre Mondiali del secolo scorso. Secondo il report annuale dell’UNHCR, “l’85% dei rifugiati risiede nei paesi in via di sviluppo, molti dei quali versano in condizioni di estrema povertà e non ricevono un sostegno adeguato ad assistere tali popolazioni. Quattro rifugiati su cinque rimangono in paesi limitrofi ai loro”. Sempre l’UNHCR attesta che la durata media di un campo è di diciassette anni, un tempo che mette in crisi il concetto di temporaneità dell’insediamento. Moscardini, la cui ricerca ruota attorno alla dimensione politica degli spazi, alla relazione tra architettura e contesto e ai processi di trasformazione che coinvolgono il tessuto delle città, ha osservato da vicino il modello di Za'atari e l'ha messo al centro di un progetto articolato e complesso, che prosegue con coerenza la linea di ricerca tracciata dai suoi precedenti progetti.

 

Ph Bruno Cattani.


Moscardini è un’artista difficilmente classificabile: in lei la formazione pittorica si fonde con l’interesse per l’architettura e l’analisi sociologica e politica. Già assistente di Massimo Bartolini, approfondisce i suoi interessi relativi alla dimensione ambientale dell’arte sotto la guida di Yona Friedman, per poi trasferirsi a Parigi e studiare l’opera di Etienne Louis Boullée. La riflessione sul contesto urbano, sulla gentrificazione e sui processi di stratificazione che segnano la storia delle città, così come il rapporto tra gli individui e la configurazione degli spazi urbani, sono al centro del progetto dedicato alla città di Istanbul intitolato Instanbul City Hills – On the Natural History of Dispersion and States of Aggregation (2013), nato da una residenza d’artista e frutto di un’intensa riflessione legata ai moti di piazza Taksim. Nel 2016, alla ricerca di “solidi abitabili la cui natura permanente ne esprime l’appartenenza al contesto”, realizza un focus sui bunker dell’Atlantic Wall, insieme delle fortificazioni sorte durante la II Seconda Guerra Mondiale che costellano la costa nord della Francia e da cui scaturisce 1XUnknown, opera nel quale convergono temi geopolitici, analisi storica, utopia e arte processuale.

Tra il 2017 e il 2018 l'artista si reca presso Za’atari e insieme alla giornalista Marta Bellingreri e all’ingegnere Abu Tammam Al Khedeiwi Al Nabilsi, conduce un lavoro di mappatura. Durante il periodo di residenza nel campo prende contatto con abitanti, i quali accolgono con favore la sua presenza e l’idea di utilizzare l’arte come strumento di emancipazione e di divulgazione della vicenda di Za'atary. Moscardini procede passo passo, seguendo il lavoro di Kilian Kleinshmidt, sindaco della città nel 2013-14 e funzionario UNHCR, instaurando una relazione con gli abitanti e censendo i cortili dell’insediamento che possiedono una fontana. Secondo la prassi, al loro arrivo gli ospiti ricevono una tenda; successivamente sono destinatari di un container abitativo; i container vengono raggruppati in modo da offrire degli spazi che fungono da cortili, nei quali sovente viene costruita una fontana, un elemento che caratterizza la vita quotidiana pre-guerra. Si tratta di un tentativo da parte dei rifugiati di ricostituire uno spazio familiare, che ricalchi la struttura tradizionale della casa araba e che nella realtà del campo assume un chiaro valore simbolico.

 

Moscardini parte dai modelli dei cortili con fontana per realizzare delle sculture destinate ad acquisire una giurisdizione speciale con elementi di extraterritorialità. La visione dell’artista è semplice e dirompente allo stesso tempo: la domanda da cui muove l’operazione è se sia possibile tradurre in termini plastici l’apolidismo, la condizione di chi è senza stato, e se sì che cosa significhi in termini estetici e nella propria effettività assegnare tale statuto speciale a un oggetto, dotandolo di una condizione extra-ordinaria. 

Successivamente, le opere verranno vendute alle municipalità europee o a privati e i proventi saranno versati direttamente alle famiglie a cui appartiene il cortile che funge da modello per l’opera. La fontana permanente ospitata a Reggio Emilia è il primo soggetto su cui è stato avviato l’iter giuridico per l’assegnazione di extraterritorialità, un iter complesso e il cui esito, tutt’altro che scontato, solleva delle contraddizioni di difficile soluzione. Presentato nella sua prima fase al Pastificio Cerere di Roma in qualità di vincitore del bando Italian Council organizzato dal MiBAC, The Fountains of Za’atari, approda a Reggio Emilia grazie al sostegno della Collezione Maramotti. Il progetto espositivo comprende l’opera pubblica installata presso il Parco Cervi e una mostra aperta nella Pattern Room della Collezione, dove sono raccolti disegni, materiali documentali e un video. Il progetto verrà completato con la pubblicazione di un libro suddiviso in due volumi: la mappa non autorizzata della città con il catalogo dei cortili riproducibili in scala 1:1, strumento che nelle intenzioni dell’artista sarà anche funzionale alla vendita delle opere, e la raccolta dei contributi teorici e critici, tra cui la ricostruzione del complesso iter legale intrapreso per l’attribuzione di uno statuto speciale alle opere. 

 

La fontana collocata a Reggio Emilia è una scultura ma è anche uno spazio, un luogo (o meglio, un non-luogo) e una condizione. Tocca numerosi punti nevralgici e innesca un necessario ripensamento dell’oggetto scultoreo in quanto tale, un oggetto che contiene in sé più stati dell’essere, un paradosso alle cui spalle si allunga l’ombra di tradizione concettuale che riguarda la vendita di beni immateriali, di azioni, idee, energie, fiato d’artista; nel tentativo dichiarato di superare l’impasse di un’arte autoreferenziale, che da tempo soffre una condizione di marginalizzazione, percependosi come impotente, Moscardini individua nel rapporto con le urgenze del reale una possibile via di riqualificazione delle arti. Interrogarsi sui temi della territorialità, della rivendicazione della sovranità che agita gli stati nazionali, sul paradosso di una democrazia che si auto-nega e sul fenomeno delle migrazioni attraverso una proposta estetica significa forzare i limiti di un recinto diventato ormai troppo angusto, individuando nell’urgenza della condizione storica una strada percorribile per tornare a significare. Un indirizzo che non a caso informa la stessa Biennale d’Arte di Venezia, inaugurata a pochi giorni di distanza, che individua nelle turbolenze del tempo attuale (quegli interesting time che danno il titolo alla mostra) il macro tema che alimenta la produzione più rilevante nel panorama delle arti visive.

 

Margherita Moscardini Inventory. The Fountains of Za’atari 2018 still da video, formato 4k, 31 min. / video still, 4k format, 31 min. Il video-documento è stato girato in Giordania tra il settembre 2017 e il marzo 2018 / The video-documentary was filmed in Jordan between September 2017 and March 2018 Winner Italian Council 2017 MiBAC- DGAAP Courtesy Fondazione Pastificio Cerere, Roma © the artist.


Secondo il World Organization Prospect del 2018, ogni anno 76 milioni di persone si spostano a vivere dalle zone rurali alle città, una percentuale in costante crescita e che nel 2018 rappresenta il 55% della popolazione mondiale (pari a 4,2 miliardi di persone su un totale di oltre 7 miliardi). Le città e le megalopoli sono organismi sempre più complessi che possono essere inscritti nella categoria degli iperoggetti, laboratori di cittadinanza dove i conflitti sono esacerbati e dove i bisogni delle persone emergono con sempre maggiore urgenza: per questo rappresentano un osservatorio privilegiato per capire come processi virtuosi di partecipazione e integrazione possano influire su un più ampio scenario di innovazione sociale e impattare sulle politiche nazionali. ll ruolo sempre più centrale delle città rispetto ai bisogni abitativi ed organizzativi della società contemporanea, la dicotomia tra centro e periferia ma anche tra i bisogni delle persone e la capacità degli stati o delle città di assolverli deflagra nella questione abitativa dei campi profughi. Riallacciandosi a una riflessione dedicata all’Appennino di Matteo Meschiari, nella proposta di Moscardini è possibile rinvenire un’idea del disabitare che ci suggerisce pratiche ancora inesplorate. Disabitare inteso come rinuncia a un’idea precostituita dell’abitare, a favore di forme alternative, leggere ma non di meno portatrici di senso. Se la perdita di radici è un trauma, come si può radicare in una condizione di temporaneità forzata come quella rappresentata da un campo profughi? Una traccia si può rinvenire nella costruzione di un teatro della città, un luogo che metta in scena i paesaggi familiari, il luogo degli affetti, e ne mutui i simboli – la fontana, ad esempio, o la struttura del cortile, che è spazio di relazione e di riposo, di conoscenza e di ozio.

 

Mettere in scena e fare “come se”, anche se le case sono container prefabbricati e la moneta è frutto di una economia parallela, se l’orizzonte è quello di una terra straniera e i vicini parlano altri dialetti o altre lingue. Cosa sarebbe accaduto agli “okie” di Furore, che Steinbeck scrisse nel 1939, se avessero potuto organizzare i loro accampamenti liberamente, senza lo spauracchio delle ronde della polizia e l’ostilità di uno stato che li condannò a morire di stenti? Se il campo gestito dall’autorità federale, dove i Joad stabiliscono legami di solidarietà e vivono dignitosamente per un breve periodo, senza subire le violenze della polizia locale, fosse cresciuto e prosperato, non sarebbe diventato un insediamento e poi una città, con la sua economia interna, le famiglie che stringono alleanze e legami affettivi, il lavoro come collante esistenziale? 

Za’atary è in questo senso un modello, l’esempio di come un campo profughi possa superare la semplice condizione emergenziale per dare forma a una città in cui le esigenze degli abitanti trovino accoglimento e non siano schiacciate dalla pur comprensibile necessità di ordine e sicurezza. Sulla scorta di altre esperienze come Sustainable Development Zones, progetto a cura di Politas in cooperazione con i governi locali, che persegue lo sviluppo di zone di sviluppo sostenibile che coinvolgono i migranti in politiche attive per il lavoro e il reddito, si delineano nuovi modelli aggregativi che possono riscrivere la narrazione dell’emergenza migratoria. Di certo, ciò che sembra oggi essenziale è un ripensamento bottom to top degli insedimenti, partecipato, che si opponga alle biopolitiche disumanizzanti che si allargano a divorare lo spazio delle cittadinanze e all’“ingegneria sociale del campo profughi” (Meschiari). 

 

Mentre Ralph Rugoff presenta la sua Biennale dichiarando “l'arte non può fermare l'avanzata dei movimenti nazionalisti e dei governi autoritari, né può alleviare il tragico destino dei profughi in tutto il pianeta (il cui numero ora corrisponde a quasi l'un percento dell'intera popolazione mondiale)”, Moscardini prova a dimostrare che un’operazione estetica può concretizzare un’utopia e creando degli spazi non sottoposti a una governance, dei “power vacuum”, si possono aprire degli spazi di immunità che possono mettere in crisi lo stato delle cose. Un’idea maturata a partire dall'analisi profetica di Hanna Arendt, che per prima intravide la mutazione della figura del migrante dall’antichità, in cui presenta un carattere di elitarietà, di individuo destinato a lasciare una patria per abbracciarne un’altra, alle migrazioni di massa, un fenomeno che caratterizza precipuamente il XXI secolo e che ha una natura politica completamente differente: oggi il migrante è l’odradek kafkiano, un paria, il soggetto della nuda-vita che, privato della propria cittadinanza, è destinato all’ostracizzazione, al non poter mai più avere una patria. Una volta uscito dalla comunità, l'individuo perde la propria umanità, perché i diritti umani si rivelano nella loro contraddittorietà come esclusivo appannaggio di chi è già cittadino. Se il migrante sconta “la colpa originaria che è la migrazione stessa, atto politico-esistenziale di natura irreparabile” (D. Di Cesare, Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione, Bollati Boringhieri, pag 151) e il suo essere un “corpo fuori posto”, ciò dipende anche e strettamente da una prospettiva sempre orientata univocamente: lo sguardo e il giudizio sul migrante si materializzano sul limitare di una frontiera, da una riva, una demarcazione invalicabile che separa chi è dentro lo Stato da chi è fuori, tra civiltà e disordine, tra centro e periferia dell’impero.

 

Moscardini azzarda un movimento diverso, prova ad assumere su di sé una prospettiva differente, prova ad agire dall'altra riva. Attinge dalla filosofia di Giorgio Agamben, ripreso nelle sue riflessioni scaturite dalla pagine di Il tramonto dello stato nazionale e di We refugees della Arendt dove immagina una nuovo paradigma politico in cui l’apolide rappresenta non un’eccezione ma una possibilità, prospettando l’immagine di un’Europa “traforata”:“Solo in una terra in cui gli spazi degli Stati saranno stati in questo modo traforati e topologicamente deformati e in cui il cittadino avrà saputo riconoscere il rifugiato che egli stesso è, è pensabile oggi la sopravvivenza politica degli uomini” (G. Agamben, Al di là dei diritti dell’uomo, in Mezzi senza fine, Bollati Boringhieri, Torino, 1996). L’analisi della figura del migrante di Agamben che emerge dall’archeologia filosofica dell’Homo Sacer rileva la contraddizione bruciante di un’Europa chiusa in una empasse che si allarga fino ad abbracciare tutto il mondo governato dal modello tardo-capitalista, liberale in termini di transito delle merci ma non in grado di concepire una libera circolazione degli esseri umani e un superamento di quel paradosso inscritto nella democrazia per il quale proprio chi si trova nella condizione di maggiore fragilità vede sospesi quei diritti di cui può godere ogni cittadino che vive invece sotto la protezione del proprio Stato-nazione, al di fuori del quale l’essere umano sembra non aver diritto di esistere. Se il rifugiato segna quindi il limite, superato il quale la politica attuale frana e trascina con sé la forma assunta dal mondo dopo le due Guerre, come intuito da Arendt egli rappresenta allora anche una potenzialità, una figura simbolica che racchiude una condizione esistenziale per il futuro a venire. 

 

Il buco nero evocato da Moscardini è allora anche un foro stenopeico che proietta e ribalta l’immagine della realtà e che ci sorprende, come una rivelazione, quando mostra altre coordinate. Le sue fontane rovesciate, dove la fontana diviene il piedistallo del cortile, evidenziano la separazione dalla terra e la metafora di chi abita i luoghi senza appartenervi. Oltre la moltitudine di corpi che popola in assenza il progetto dedicato a Za'atari, in lontananza si scorgono figure dimenticate, fantasmi che parlano di altre cittadinanze, rapporti tra popoli e libertà. Sono il gher, colui che è straniero ma abita dentro le porte della Gerusalemme biblica, figura complementare all’ézrakh, il cittadino, e opposta al nokerì, “raffigurazione tragica dell’autoctono assiso nelle sue certezze, del proprietario che difende e reclama la proprietà” (ib., pag. 217), quello che oggi si definirebbe un orgoglioso sovranista. Il gher è un archetipo così potente da incarnarsi nella figura di Ruth la moabita da cui discende la dinastica davidico-messianica e l’idea stessa della sovranità ebraica (ib., pag. 213). Memorie bibliche parlano di vuoti che rendono possibile l’ospitalità, assenze che sono aperture, mistica e realtà che trovano una corrispondenza: nella Gerusalemme di Ruth “la comunità è messa costantemente alla prova dell’estraneità, come se al fondo di sé ci fosse sempre un altro” (ib., pag. 214). Come sembra distante oggi quel vuoto, custodito in attesa dell’avvento dell’altro, dalle nostre città sature e barricate, tanto da non riuscire neppure a immaginare l'ipotesi dello straniero se non a patto della normalizzazione e la successiva cancellazione della sua estraneità. 

 

Ripenso alla signora con il volpino e al tempo che non ha concesso al suo sguardo di fronte all'opera di Moscardini, uno sguardo che non ha saputo cogliere la linea dell’orizzonte che va da quella fontana che ora dimora nel parco di una città della pianura padana e si protende fino alla Siria e alla Giordania, gli stessi luoghi dove la cultura mediterranea ha visto la luce migliaia di anni fa. Moscardini ha chiesto a sé stessa e al pubblico presente se un cambio di politica, un cambio di indirizzo dell’Europa possa prendere il via da una scultura, magari proprio da Reggio Emilia. Di sicuro, questa domanda continuerà a risuonare ogni volta che uno sguardo si poserà sull’acqua della fontana del Parco Cervi, la stessa fontana che abita il cortile n.32, distretto n.4, del campo di Za’atari.

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Paola Pivi. World record

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Anche se veloce e sommaria, una visita del sito web di Paola Pivi (Milano, 1971), consente di cogliere immediatamente una delle principali particolarità che caratterizza il suo lavoro. Al centro della nivea homepage, compare semplicemente il suo nome scritto in stampatello, e il menù della pagina è realizzato con disegni e balloon fumettistici. Infatti, sin dagli inizi della sua attività artistica, in modo quasi inconfondibile, l’aspetto gioioso e delicato attraversa tutte le sue opere, fatte di elementi comuni in contesti inediti, con ribaltamenti di dimensioni e situazioni. Per questo, del lavoro di Paola Pivi, si è sempre parlato di “realismo magico”, di un mondo bizzarro e singolare.

Quell’aspetto, pressoché infantile, che rende possibile l’impossibile, l’incredibile credibile, che trasforma in reali delle candide fantasie, calandole nella vita vera e riconosciute, senza incertezza, come certe e concrete. 

 

Ph Attilio Maranzano.


Quell’innocente immaginazione che le ha fatto mettere il cacciabombardiere ricognitore Fiat G-91 (che vinse il concorso NATO, nel 1953, per la sua leggerezza, ed in seguito fu utilizzato dalle nostre Frecce Tricolore) a pancia in su, come un enorme cucciolotto che, ormai mansueto, mostra il proprio ventre per essere accarezzato, riproposto nella piazza Alighiero Boetti del MAXXI. 

Originalità che nella 48.Biennale di Venezia, curata dal compianto Harald Szeemann, le permise, insieme a Monica Bovincini, Grazia Toderi, Bruna Esposito e Luisa Lambri, di conquistare il Leone d’Oro come migliore partecipazione. Quella creatività che spesso fa associare il suo nome alle fotografie di grande formato che, nella 50^ Biennale di Venezia, rasentando il paradosso, ponevano un asino in barca, solo, perso nel blu del mare (per precisione, quello di Alicudi). E, sempre nella stessa serie, sistemava un paio di zebre in mezzo alla neve delle montagne del Parco del Velino-Sirente, in Abruzzo. O mostravano dei grossi glutei, assurdamente adagiati sui modelli in miniatura delle sedie della collezione di Vitra.

 

Inventiva che la esorta ad avvalersi di un’ampia gamma di materiali e di tecniche artistiche, dalla fotografia alla scultura, alla performance, dal design all’oreficeria. Tanto che, a volte, i suoi lavori sembrano realizzati da artisti diversi. Poiché la sua ricerca, nonché la sua attenzione, spaziano ad ampio raggio, si soffermano sugli svariati aspetti della realtà, individuando i diversi elementi di cui l’esistenza è composta. Tutte prerogative, quelle elencate, che le hanno aperto le porte di rassegne internazionali (tra cui Manifesta) e di numerosi importanti musei (con mostre al MOMA, alla Tate, all’Hamburger Banhof, a Palazzo Grassi). Tuttavia, come i fanciulli amano divertirsi con i loro giochi fino allo stremo, Paola Pivi, che Massimiliano Gioni ha battezzato come la sacerdotessa di Cockaigne, raramente considera esaurite le sue opere esclusivamente nell’esposizione che le presenta.

 

 

Per questo, molto spesso, le ripropone in mostre successive, affinché siano riviste. E la personale World record, al MAXXI di Roma, rientra in questa casistica. Infatti, molte delle opere in mostra, sono state esposte in precedenti esibizioni e, in sintesi, qui rimodulate nell’insolito spazio della Galleria 5 del muse. Nella mostra, curata da Hou Hanru e Anne Palopoli, la disposizione dei lavori selezionati ricorda gli elementi di arredo di un curioso ma equilibrato spazio domestico, il cui climax è la possente installazione che titola la mostra stessa. Il visitatore, oltrepassata la soglia, è accolto da Share, but it’s not fair, 2012, un reticolo di 500 nodi di tessuto imbottito, appeso al soffitto, che ne ridisegna l’altezza e l’andamento, nonché, attraverso l’ombra della sua trama, il pavimento stesso. Tutto ciò, oltre all’iniziale meraviglia, trasmette l’avvolgente sensazione di ritrovarsi all’interno di un colorato pergolato. Presentata nella mostra di Shangai, questa estesa installazione è anche un delicato riferimento alla sfera privata dell’artista stessa, in un intreccio tra personale e pubblico. I colori delle stoffe, con le quali sono confezionati questi morbidi cilindri allungati, richiamano il giallo e il rosso delle tuniche dei monaci tibetani, area geografica cui l’artista è sentimentalmente legata, relazione suggellata dai nodi modellati da questi cuscini. Attraverso la loro serialità unisce così privato e pubblico, singolo e collettivo. Però, l’installazione si interrompe all’improvviso, senza ricoprire per intero il soffitto, infondendo l’impressione di qualcosa di non finito, di qualcosa di sistemato in uno spazio non suo. 

 

 

Sotto questo colorato soffitto, sono stati collocati alcuni tra i primi lavori, come Scatola umana, 1994, e Untitled (gold and pink sofa-bed), 1999. Posti entrambi su un piedistallo, solitari nell’immenso spazio della galleria, sono praticamente inghiottiti dall’ambiente e appaiono come sparuti elementi riempitivi. La prima, è una piccola scultura di appena 10x10x9 cm, da sempre considerata una sorta di manifesto artistico di Paola Pivi, perché contiene in nuce tutti quelli che saranno i caratteri futuri delle sue opere, ovvero un oggetto essenziale e astratto, la cui trasparenza non impatta con lo spazio circostante, ma anzi lo assorbe al suo interno; la seconda, un sofà in miniatura, originariamente impregnato di profumo, adesso sotto una teca di plexiglass, oltre a ricollegarsi all’affermarsi del design nel nostro paese alla fine degli anni Novanta, miniaturizzandolo, lo sottrae alla sua funzione originaria e lo trasforma in una sorta di giocattolo, finanche adatto ad abbellire una dollhouse. 

 

 

E in questo surreale interno domestico, non poteva mancare uno dei suoi celeberrimi orsi. Did you know I am single, 2010, anziché essere di piume di colori fluo, è ridotto a tappeto, come quelli visti a centinaia nei salotti nei film americani degli anni Cinquanta. Ma, invece di utilizzare la pelle dell’animale, ironicamente e artificialmente è realizzato con pelliccia sintetica, diventando così un divertente manufatto di arredo che, sottilmente, critica la valenza di status symbol attribuita a determinati oggetti e, al tempo stesso, denuncia l’inutile e ingiustificato maltrattamento perpetrato sugli animali in assenza di una reale esigenza. 

 

 

Ma, come anticipato, la parte del leone di tutta la personale, la fa World record, 2018. Già presentata a Dallas, e qui suggestivamente sistemata in fondo alla sala, a ridosso della grande vetrata, una delle note distintive dell’intera architettura di Zaha Hadid e da cui può godere di un’affascinante vista sulla città. Una sorta di grande lettone doppio, come se quello sul pavimento si riflettesse nel soffitto, con un interstizio fra i due elementi, che sembra uscito direttamente dal mondo sottosopra di Alice. Nessuno, da 0 ai 99 anni, a dispetto delle notevoli dimensioni, può resistere alla seduzione di interagire con questo elemento, alla tentazione di sfilarsi le scarpe, arrampicarsi sull’alto palco, gattonare e sdraiarsi sul morbido e immenso materasso, per rotolarsi, sonnecchiare, ammirare il panorama, rilassarsi. In poche parole, sorridere e giocare, come solo i bambini sanno fare. Ciò che maggiormente sorprende dei lavori dell’artista, è che ogni opera sembra quella definitiva, con lo stesso spirito giocoso di Claes Oldenburg, raggiunga il livello massimo dell’impossibile, come è stato per Untitled (Project for Echigo-Tsumari), la gigantesca e coloratissima scala gonfiabile di 20m presentata alla Triennale di Echigo-Tsumari in Giappone, nel 2015, e poi riproposta, sempre nello stesso anno, nel cortile di Palazzo Strozzi di Firenze. Dopo di essa cos’altro poteva ideare? Ha creato questo smisurato materasso. Perché in fondo, all’immaginazione non c’è limite. 

 

Paola Pivi – World record, Roma, MAXXI, fino all’8 settembre 2019

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Il “nuovo” museo del design italiano

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Nella prima metà del Novecento, il modernismo ha avuto una notevole diffusione in Europa e negli Stati Uniti. Portava con sé l’idea di una forma e un’estetica degli oggetti strettamente legata alla funzione svolta. L’oggetto non era più un simbolo di appartenenza famigliare, ma si legava strettamente al suo valore d’uso. La Scuola del Bauhaus ha avuto un ruolo centrale nella messa a punto di tale concezione, ma è stata l’Italia ad applicarla sistematicamente, a partire dal secondo dopoguerra, attraverso una diffusa rete di piccole imprese capaci di trasformarla in prodotti industriali realizzati in serie. Come ha scritto il designer Ettore Sottsass nella recente raccolta di scritti Molto difficile da dire (Adelphi), era un’Italia dove “finito di fare cannoni bisognava pure far qualcosa”. Il design italiano ha così preso vita per effetto dello stabilirsi di un magico equilibrio tra la rete delle piccole imprese e giovani e creativi designer. Grazie alla presenza di tale equilibrio, per circa un trentennio il design italiano ha potuto godere di un momento particolarmente felice. 

 

Ma in seguito per il modello del modernismo è arrivata una fase di crisi e così anche il design italiano ha cominciato a perdere slancio. Il fondamentale legame tra forma estetica e funzione utile della merce ha smarrito gran parte della sua forza. È stato messo in difficoltà dalla comparsa di nuove generazioni di oggetti multifunzionali o in grado comunque di adattare di volta in volta le loro prestazioni alle diverse istruzioni di funzionamento collocate al loro interno. Si è presentata così un’ulteriore fase di vita dell’oggetto: la fase in cui questo ha visto indebolirsi il suo valore d’uso e ha cominciato a trasformarsi in uno strumento di comunicazione. 

 

Per il modello italiano del design, la risposta a questa situazione è stata negli anni Ottanta il colorato e vivace design postmoderno di gruppi come Memphis e Alchimia. Cioè una estremizzazione della forma a scapito della funzione. L’equilibrio però tra produzione industriale e creatività dei designer si era ormai definitivamente rotto e ne è derivato un processo d’indebolimento e disseminazione del design italiano. Un processo che, grazie alla facilità d’uso e alla crescente diffusione degli strumenti digitali di progettazione, ha fatto sempre più comparire degli oggetti frutto di designer anonimi, un vero e proprio “design senza designer”, come ha dimostrato Chiara Alessi nel suo libro dal titolo omonimo (Laterza). Ed è andato progressivamente scomparendo anche il “made in Italy”, dato che per ragioni di costi i prodotti sono stati sempre meno realizzati all’interno del nostro Paese. 

 

 

Durante gli anni di successo, il design italiano non aveva avuto la capacità di celebrare i rilevanti risultati ottenuti sul piano commerciale e di costume attraverso un processo di istituzionalizzazione. Ma aveva comunque trovato i suoi spazi di valorizzazione e di riflessione, soprattutto all’interno delle attività svolte dalla Triennale di Milano. Ed è qui che nel 1996 circa 1000 oggetti sono stati selezionati da parte di Giampiero Bosoni e hanno dato vita a una collezione permanente di oggetti del design italiano, poi collocata nella sede del Politecnico alla Bovisa e portata anche in tour in Europa e nel resto del mondo. Da tale collezione hanno costantemente attinto varie mostre della Triennale e soprattutto le undici mostre del Triennale Design Museum, volutamente concepito a partire dal 2007 come un insieme di momenti espositivi di riflessione sul design. Perché, quando era stata mostrata in Triennale, la collezione permanente del design italiano aveva suscitato uno scarsissimo interesse e attratto pochissimi visitatori. Probabilmente perché gli oggetti esposti, avendo ottenuto un grande successo commerciale e una conseguente notevole diffusione nella vita quotidiana delle persone, erano visti come poco interessanti. Questa perlomeno è la tesi sostenuta da Renato Besana nella sua preziosa storia della Triennale intitolata La grande T rossa. La Triennale di Milano 1923-2015 (Triennale-Istituto Ortopedico Gaetano Pini). Così sono state concepite le mostre del Triennale Design Museum, affidate ai migliori progettisti e dotate solitamente di un alto livello spettacolare e di coinvolgimento dei visitatori. Realizzando perciò il progetto delineato dal presidente della Triennale Augusto Morello in un documento strategico del 2002: “Non si deve pensare a un museo ottocentesco caratterizzato dalla continua e fredda esposizione di tutta la dotazione, bensì a un museo attivo che, sulla base di un nucleo centrale di classici, attui continue manifestazioni tematiche e contestualizzanti” (Besana, p. 173). 

 

Nelle scorse settimane, si è molto parlato dell’apertura in Triennale del nuovo Museo del design italiano. Evidentemente però un museo del design italiano esisteva già, era stato mostrato in numerose occasioni ed era visitabile da tempo nello spazio del Belvedere della Villa Reale di Monza (dove la Triennale è nata quasi un secolo fa). Era la collezione di oggetti della Triennale, che, data la mancanza di spazio dentro l’edificio milanese progettato da Giovanni Muzio negli anni Trenta, aspettava solamente la realizzazione di una nuova sede sotterranea nel giardino della Triennale, soluzione ipotizzata da tempo. 

Dunque quello che è stato di recente presentato come il nuovo Museo del design italiano non è altro che una nuova tappa della ormai lunga storia della collezione permanente di oggetti della Triennale. Una tappa, oltretutto, in cui è stato scelto di adottare un allestimento minimalista che valorizza poco gli oggetti. Certo, in mostra sono presenti alcuni telefoni Grillo in cui si può sentire la voce dei progettisti e sono esposti anche alcuni dei celebri prototipi in legno di Giovanni Sacchi. E ci sono alcune scritte poco visibili sul muro a fianco, che mescolano eventi della storia del design ed eventi sociali. Ma non c’è molto altro. Sembra cioè di essere ritornati a quel modello di “museo ottocentesco caratterizzato dalla continua e fredda esposizione di tutta la dotazione” dal quale nel 2002 il presidente Morello voleva prendere con forza le distanze. Ma un’importante istituzione culturale come la Triennale dovrebbe aiutare i visitatori a comprendere il senso di quello che viene mostrato loro. Dovrebbe cioè inserire gli oggetti di design all’interno di narrazioni istruttive e coinvolgenti, adottando quel modello espositivo che viene da tempo impiegato da parte di tutti i musei internazionali più importanti. 

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Paolo Pellegrin. Gridare con gli occhi

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C’è un verso di René Char in Fogli d’Ipnos che fa pensare alla fotografia contemporanea, e in particolare a quella di Paolo Pellegrin: “Solo gli occhi sono ancora capaci di gettare un grido”. Guardando le immagini che il fotografo romano ha scattato a Lesbo tra i migranti, oppure a Gaza, nei campi profughi del Medio Oriente, negli innumerevoli scenari di guerra intorno a noi, negli slums americani, si è portati a pensare che Pellegrin vuole far gridare i nostri occhi. Non lo fa mettendo in scena lo scempio dei corpi, le violenze perpetuate sulle persone in modo continuato e perverso, bensì fissando pietre, persone di schiena, visi, panni stesi, rotoli di filo spinato, muri, lamiere. 

La fotografia contemporanea, in particolare quella dei fotoreporter e degli inviati di guerra, ha dovuto affrontare un problema che Susan Sontag aveva segnalato anni fa: il contenuto etico delle fotografie appare molto fragile. Forse solo mettendo in mostra i massacri, a partire dal massacro dei massacri che sono stati i Lager nazisti, ovvero esibendo l’orrore, solo così la fotografia può raggiungere e accrescere il nostro senso morale. Tuttavia Susan Sontag è stata perentoria nel suo saggio raccolto in Sulla fotografia: “Il limite della conoscenza fotografica del mondo è che, se può spronare le coscienze, non può essere alla lunga, conoscenza politica o etica. La conoscenza raggiunta attraverso le fotografie sarà sempre una forma di sentimentalismo, cinico o umanistico”. 

 

Persone in fuga dalla Libia durante gli scontri tra ribelli e forze armate pro Gheddafi. Valico di frontiera di Ras Jdir nei pressi di Ben Gardane. Tunisia, 2011. © Paolo Pellegrin/Magnum Photos.


Il pensiero implicito della scrittrice americana riguarda il valore estetico della fotografia, la sua capacità di mobilitare, nonostante tutto, la bellezza, e quindi di elidere il messaggio etico che l’immagine potrebbe o vorrebbe veicolare. Il problema si pone davanti a molte delle immagini che quotidianamente vediamo sui giornali, nelle riviste, nel web, oppure esposte nelle gallerie e nei musei. 

La fotografia sembra aver oscurato la nostra capacità di guardare grazie all’eccesso degli scatti quotidiani di cellulari e macchine digitali. Non siamo più in grado di gridare con gli occhi? No, lo siamo; i nostri occhi continuano comunque a gridare. E questo anche dopo l’immagine del piccolo Alan steso sulla spiaggia di Bodrum il 2 settembre 2015, reiterata in milioni di schermate nei social di tutto il mondo. 

Allora cosa sono esattamente le fotografie di Paolo Pellegrin esposte in questa mostra? Sono descrizioni di tragedie, di avvenimenti dolorosi e luttuosi: un popolo che fugge dalla sua patria devastata dalla guerra, un altro che s’accampa in un lembo di terra di nessuno, un uomo che combatte per la sua libertà, altri uomini e donne che si ribellano, tutte realtà che conosciamo a distanza sul visore del nostro computer o nello schermo del televisore. Paolo Pellegrin fa urlare gli occhi attraverso dettagli, visioni improvvise, attimi colti al volo in momenti irripetibili, eppure salienti: qualcosa è già accaduto e continua ad accadere. Egli ha compiuto il percorso inverso di quello descritto da Susan Sontag: per potere mostrare ciò che non si può mostrare, è ricorso alla bellezza e all’arte. Si è fatto artista, là dove la fotografia ha preso storicamente a proprio carico la funzione del testimone. Per questo Pellegrin non fa vedere, bensì immaginare. 

 

Edifici residenziali si ergono oltre il cancello divelto di un ristorante sul mare. Questa spiaggia era animata da pescherecci e caffè, ma il blocco navale israeliano, i liquami e la carenza di risorse per la ricostruzione hanno avuto conseguenze disastrose. Gaza, 2011. © Paolo Pellegrin/Magnum Photos.


Sappiamo che lo statuto della testimonianza è assai incerto, sia quando è affidata alla memoria e alla voce umana, sia quando è un’istantanea scattata in un momento e un luogo precisi. Un altro scrittore, John Berger, ci ha ammonito circa il potere di testimonianza delle immagini: possono mentire. Le immagini, ha scritto Berger, hanno bisogno di parole per dire quello che vogliono dire. Tra Scilla della bellezza e Cariddi della testimonianza, Pellegrin ha scelto in queste immagini esposte a Pistoia la strada dell’immaginazione. Più che far vedere, queste fotografie fanno immaginare: muovono i nostri sensi in direzione di un fantasma che non c’è. Usano quello che c’è – l’immagine di un gruppo di uomini immersi nell’acqua intorno a un’imbarcazione vicino a riva – per farci immaginare il viaggio di chi è arrivato sin lì attraversando deserti, campi profughi, mari procellosi. Solo l’immaginazione può suffragare tutto quello che precede e segue un’immagine. L’immaginazione muove l’empatia e la compassione. 

 

Queste immagini esposte a Pistoia usano la bellezza per far immaginare e pensare. Cosa sono quelle pietre per terra, la lamiera rinforzata da un palo di legno, lo scudo di metallo tenuto dalla mano aperta, il viso attonito di una ragazza? Sono immagini, appunto, di qualcosa che non vediamo, ma che possiamo immaginare. In questo Pellegrin fa ricorso alla nostra memoria e alla fantasia, cita senza mostrare tutto quello che noi già sappiamo del mondo, della vita, degli oggetti, delle innumerevoli situazioni possibili e impossibili. Fa persino ricorso alla nostra esperienza, per quanto limitata, frammentaria e incompleta. La completa suggerendoci di immaginare a cosa servono quelle pietre o cosa è accaduto a quell’uomo visto di spalle o ai volti degli uomini e delle donne che s’accalcano in una fila scomposta e angosciata in un’isola greca. Sono istanti vissuti che rinviano al nostro vissuto e al nostro immaginario, dove da tempo si sono accumulate altre immagini, sensazioni e pensieri. La bellezza, come ci mostrano ad esempio i quadri di Caravaggio – le immagini di strazio che quel pittore ci ha trasmesso con la sua pittura –, risiede in qualcosa che trascende l’estetico in senso stretto, per proiettarsi in uno spazio altro, dove l’immagine vive di una propria specifica bellezza. 

 

© Paolo Pellegrin/Magnum Photos.


In questo Pellegrin ha scavalcato l’obiezione di Susan Sontag proprio perché non ha cercato di mobilitare il nostro senso etico, e al tempo stesso non si è preoccupato di darci delle belle immagini. Ci ha fornito piuttosto immagini incomplete, frammentarie, sottratte al flusso della vita per farci immaginare cos’è la vita, quella che abbiamo vissuto e quella che abbiamo solo immaginato. La nostra vita e quella degli altri, perché sono sempre gli altri che vediamo raffigurati in queste immagini, gli altri che siamo noi, se solo la vita che avremmo potuto vivere fosse stata la vita degli altri, gli altri che pure non conosciamo e che ora vediamo solo per un istante fissati nel riquadro della fotografia: “Solo gli occhi sono ancora capaci di gettare un grido”.

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Il Rinascimento parla ebraico

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“Il Rinascimento italiano non esisterebbe senza l’ebraismo” sostiene Giulio Busi, uno dei due curatori della mostra Il Rinascimento parla ebraico allestita al MEIS – Museo Nazionale dell’Ebraismo italiano e della Shoah di Ferrara (fino al 15 settembre). La mostra ricostruisce il confronto fra cultura ebraica e cristiana in età rinascimentale attraverso oggetti, documenti e opere d’arte. Particolare rilievo è assegnato all’inserimento di testi in ebraico nelle opere d’arte sacra, in alcuni casi riprodotte con rielaborazioni grafiche e movimenti di camera simulati da software di ultima generazione. La Madonna in trono della pala Roverella, dipinta dal ferrarese Cosmè Tura nel 1474, sparisce in dissolvenza dallo schermo insieme al suo trono, per dare risalto alle due tavole dei comandamenti scritti in ebraico poste ai lati dello scomparto. La Disputa del SS. Sacramento dipinta da Raffaello nel 1509 slitta lateralmente mentre una transizione porta l’attenzione su un dettaglio. 

 

Veduta parziale della mostra con riproduzione della Madonna in trono dipinta da Cosmè Tura nel 1474.


La “coinvolgente scenografia concepita dai progettisti dello studio GTRF di Brescia” testimonia come le tecnologie di registrazione e riproduzione dell’immagine abbiano modificato il nostro sguardo. Attraverso la Madonna in trono dipinta a olio, o la sua riproduzione rielaborata con tagli e movimenti di camera, non vediamo allo stesso modo.

 

John Berger, frame tratto da Ways of Seeing, una serie di episodi trasmessi in quattro puntate dalla BBC nel 1972.


L’esperienza di trovarci a tu per tu con la quattrocentesca Madonna in trono, o con qualsiasi altra opera d’arte, è intraducibile. Lo aveva reso noto al grande pubblico John Berger attraverso Ways of Seeing Modi di vedere, una serie di episodi trasmessi in quattro puntate dalla BBC nel 1972. Nell’episodio 1, ispirato al saggio di Walter Benjamin L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica (Einaudi, Torino 2000), Berger dimostra come la riproduzione di un’opera attraverso movimenti di camera modifichi radicalmente il suo significato. Lo slittare, ingrandirsi e dissolversi delle immagini nell’allestimento al MEIS di Ferrara fa altrettanto. Il progetto espositivo illustra la tesi dei curatori, illustra cioè un testo senza tener conto del fatto che la nostra è anche e soprattutto una cultura visuale, la cui problematicità necessita di un approccio critico, senza il quale la cultura visuale rischia di precipitare in quella dell’intrattenimento. La “coinvolgente scenografia” che accompagna il visitatore lungo le sale del MEIS, trascurando le conseguenze della riproduzione dell’opera d’arte sulla sua interpretazione, ha l’attenuante che la cultura ebraica, alla quale la mostra fa riferimento, è una cultura del testo, anzi del Libro, nella quale non solo vige il divieto di “farsi immagini”, ma talvolta anche la grafia stessa del testo è soggetta a restrizioni.

 

Veduta parziale della mostra con Nascita di Maria di Vittore Carpaccio, circa 1502-1507, Bergamo, Accademia Carrara.


A questo proposito è interessante notare come in Nascita di Maria, dipinta da Vittore Carpaccio e bottega, la forma grafica delle consonanti che compongono il Tetragramma (la sequenza delle quattro lettere ebraiche che formano il nome del Dio d’Israele: YHWH) sia imperfetta. Per un effetto percettivo di tipo illusionistico, l’imperfezione fa apparire scritto per esteso ciò che il realtà non lo è. L’espediente tradisce la preoccupazione ebraica di evitare la grafia completa del Nome divino. Questo dettaglio, apparentemente secondario, rivela come un approccio critico al visuale sia inscindibile da un approccio critico alla lettura. 

 

Andrea Mantegna, La Sacra Famiglia e la famiglia del Battista, 1504-1506, basilica di Sant’Andrea, Mantova.


A differenza di quella di Cosmè Tura, l’opera di Carpaccio è presente. In mostra anche Cristo e i dottori e Gesù dodicenne al Tempio di Ludovico Mazzolino, Il profeta Elia e Il profeta Eliseo di Sassetta, La Sacra Famiglia e la famiglia del Battista di Andrea Mantegna esposta nella sezione diciasettesima della mostra, ma per comprendere al meglio ciò che l’imperfezione grafica nel dipinto di Carpaccio ha rivelato è necessario tornare alle sezioni quarta e quinta, dove sono esposti degli arredi sacri sinagogali e un Rotolo della Sefer Torah in pergamena risalente al 1250 circa.

 

Arredi sacri sinagogali e rotolo in pergamena della Sefer Torah (Francia settentrionale, 1250 circa), Vercelli, Comunità Ebraica.


La lettura di questo Rotolo, ancora oggi in uso nella liturgia sinagogale, rivela alcuni punti di contatto con la lectio divina cristiana, nel corso della quale il lettore modulava la voce mentre percorreva le pagine concepite come un pagus, una circoscrizione rurale posta al di fuori dei confini della città. Secondo Ivan Illich, autore del saggio Lectio divina. La lectio nel mondo antico e tardo antico in Origine della scrittura. Genealogie di un’invenzione (a cura di Gianluca Bocchi e Mauro Ceruti, Bruno Mondadori, Milano 2002), questa concezione della pagina come luogo affonda le sue radici nell’utopia ebraica per la quale non c’è altra casa al di fuori del Libro. 

Al piano superiore del MEIS è allestita la mostra permanente Ebrei, una storia italiana. I primi mille anni, che racconta con un apparato di documenti, immagini e interviste come la distruzione del Tempio di Gerusalemme, avvenuta nel 70 d.C., fece della religione degli ebrei una cosa diversa da prima. La spiritualità della cultura ebraica e la connessa utopia del “sentirsi a casa senza casa nel testo” si appoggiano al fatto che non c’è il Tempio. Il Tempio unico è stato sostituito dalle sinagoghe sparse per il mondo e il culto sacrificale dallo studio e dalla lettura intonata della Torah.

 

Veduta parziale della mostra permanente Ebrei, una storia italiana. I primi mille anni. Piano superiore del MEIS.


Prima della lettura silenziosa o mentale era in uso quella ad alta voce. In età greco-romana la modulazione espressiva della voce era indispensabile per far emergere il senso del testo nella scriptio continua, una scrittura sprovvista di interruzioni o spazi fra le parole. Con il Cristianesimo, il termine lector passò ad indicare un ruolo associato al titolo di vescovo, prete o diacono impegnato nella lettura in pubblico. La lettura ad alta voce divenne così la lectio divina, di cui Illich ha messo in evidenza il rapporto con l’utopia ebraica, finché una nuova tecnologia rese possibile un diverso tipo di lettura: la lectio scholastica, silenziosa e mentale. Educato alla lettura ad alta voce, Agostino ricorda il suo stupore nel vedere Ambrogio impegnato nella lettura silenziosa, spiegandosi che forse lo faceva per “evitare d’esser costretto da un uditore attento e curioso a spiegare qualche passo oscuro” o “per conservare la voce, che facilmente gli si abbassava” (Confessioni, VI, 3.3). La separazione prima fra piccoli gruppi di parole, poi di frasi e infine fra parola e parola e successivamente, a partire dal XIII secolo, la suddivisione dell’opera in capitoli e paragrafi, la distinzione fra lettere maggiori e minori, i sistemi di rimando fra testo e commento e gli indici analitici fecero della pagina così organizzata uno strumento che trasformò le strategie di pensiero e la mente stessa del lettore. Sul passaggio dalla lettura ad alta voce a quella silenziosa può essere utile anche la lettura del saggio di Guglielmo Cavallo Del rotolo, del codice e di altri aspetti della cultura scritta antica e medievale in La forma del libro. Dal rotolo al codice secoli III a.C-XIX d.C., pubblicato in occasione della mostra alla Biblioteca Medicea Laurenziana (Mandragora, Firenze 2008). La lectio scholastica nacque nelle università insieme a una nuova tecnologia di lettura silenziosa che ancora oggi caratterizza il nostro rapporto intellettuale, critico e speculativo con la pagina scritta, assai diverso da quello fisico e sensuale della lettura ad alta voce, della vox paginarum, della voce che percorreva le pagine come se fossero un frutteto dove cogliere e assaporare le parole.

 

Jacopo della Quercia, Madonna col Bambino (Madonna della melagrana), 1403-06, Museo della Cattedrale, Ferrara.


Nel Museo della Cattedrale di Ferrara, quasi nascosta dietro le quattro tele che compongono San Giorgio e la principessa dipinto da Cosmè Tura, si trova la quattrocentesca Madonna col Bambino (Madonna della melagrana) scolpita da Jacopo della Quercia. L’opera è chiamata dagli abitanti della città Madonna del pane per il Rotolo della Legge, impugnato dal Bambino con la mano sinistra, che assomiglia al tipico pane ferrarese chiamato ciopa o ciupeta. La devozione popolare ha conservato l’idea della parola scritta come nutrimento, nonché l’idea propriamente ebraica d’incorporare la pagina masticandola (manducatio) nel corso della lettura.

La mostra organizzata al MEIS ha il pregio di portare l’attenzione sul fatto che un approccio critico al visuale sia inscindibile da un approccio critico alla lettura, sollecitando al contempo una riflessione su come le tecnologie di scrittura e lettura abbiano modificano il nostro modo di pensare.

Alla lectio scholastica, che ancor oggi impegna docenti, ricercatori e studenti, si affianca la lettura in Internet la cui struttura ipertestuale è principalmente associativa. Ogni link lancia verso altri argomenti e, dopo alcuni passaggi, si perde la capacità di cogliere le relazioni strutturali che intercorrono fra il contenuto di partenza e quello di arrivo. Inoltre, come osserva Boris Groys nel testo Google: Words beyond Grammar (Google: le Parole oltre la grammatica) pubblicato nel 2012 per la mostra Documenta 13, il sistema di domanda e risposta è completamente cambiato: “Se vogliamo fare delle domande al mondo agiamo come utenti Internet. Se vogliamo rispondere alle domande che il mondo ci pone agiamo come fornitori di contenuto. In entrambi i casi il nostro comportamento dialogico è definito dai modi e dalle regole specifiche in cui si possono fare domande e si può rispondere all’interno del quadro di Internet [...] secondo queste regole ogni domanda deve essere formulata come una parola o una combinazione di parole. La risposta viene data come un insieme di contesti in cui questa parola o combinazione di parole può essere trovata dal motore di ricerca” (pp. 4-5 della versione in lingua inglese qui tradotta). Groys nota che nell’uso freudiano del linguaggio le singole parole funzionano quasi come link d’Internet: “si liberano dalla loro posizione grammaticale e cominciano a funzionare come connessioni con contesti altri, subconsci” (p. 13). 

La lettura in Internet sostituirà quella scholastica

Così come un approccio critico al visuale potrebbe contrastare il meccanismo che fa precipitare la cultura visuale in quella dell’intrattenimento, forse anche un approccio critico alla lettura potrebbe sviluppare un atteggiamento consapevole, utile per navigare nel flusso di parole e immagini in Internet senza correre il rischio di naufragare. 

 

Pergamena dell’Albero Sefirotico (1533), Biblioteca Medicea Laurenziana, Firenze. L’esposizione della pergamena è corredata da schemi grafici esplicativi.


I due approcci critici sono correlati, come suggerisce la sezione tredicesima della mostra al MEIS, dove è esposta una pergamena dell’Albero Sefirotico lungo il quale discende l’energia divina per dieci gradi o sefirot. Il suo prototipo è l’albero di Porfirio. Se pur usato dai filosofi ebrei come immagine mistica, questa figura ha valore logico e fornisce uno schema grafico per una catena di subordinazione dei concetti. Giulio Busi è anche l’autore del saggio Qabbalah visiva (Einaudi, Torino 2005), dove analizza questa figura grafica (pp. 76-78) nel contesto di uno studio del disegno mistico nella tradizione ebraica. Mettendo in parallelo la lettura del libro di Busi e la visita alla sezione tredicesima della mostra, si può notare che l’Albero Sefirotico ha l’aspetto della mappa di un sito web. Rimuovendo i collegamenti ipertestuali è possibile mettere a nudo l’albero sottostante: la catena di subordinazione dei contenuti, che la sovrastruttura ipertestuale invece porta alla deriva. 

Non può esserci un approccio critico al visuale senza un approccio critico alla lettura e – per chi sappia leggere– le parole nel Rotolo, impugnato dal Bambino scolpito da Jacopo della Quercia, hanno ancora il gusto e la fragranza della ciopa o ciupeta ferrarese.

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MEIS, Ferrara, fino al 15 settembre
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Marconi VS De Carlo

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La visita di Sanguine alla Fondazione Prada qualche mese fa mi aveva lasciato perplesso. Un artista considerato così acuto come Luc Tuymans mi è sembrato fiacco come curatore. Non ho letto il catalogo, che sicuramente approfondiva tutto, ma la guida all’esposizione e l’esposizione stessa mi sono apparsi generici e pretestuosi. Si tratta di accostamenti, di “montaggio”, di associazioni e slittamenti tra opere, tempi e luoghi di autori diversi. Ho pensato che forse è ora di reagire a un “warburghismo” che sta diventando di maniera, un alibi pretestuoso se non è preciso o almeno chiaro. Per carità, capisco tutte le ragioni della creatività e della libertà, ma per chi e per che cosa? Lì io non ho capito da quello che vedevo e leggevo, ho chiesto anche ad altri. Certo, c’erano opere belle e qualche “scoperta”, delle “chicche”, specie per chi frequenta solo l'arte contemporanea, e poi delle opere spettacolari come quella dei Chapman e l’arditezza di alcuni accostamenti... ma Tuymans è quel pittore sottile, fine intellettuale che dipinge figure storiche ma enigmatiche, quasi monocrome, uno di quelli che ha ridato ragioni alla pittura figurativa senza chiassi né clamori spettacolari, insomma tutto il contrario di questa sua Sanguine. L’avrà fatto apposta!

 

Opera di Giò Marconi.


Può darsi, l'argomento essendo il barocco, l'arte dei contrasti, dei cortocircuiti: d'altro canto l'argomento dichiarato era proprio di quelli opposti alla sua personale apparente posizione defilata, ovvero il ruolo dell'artista nella società, questo sì, ma "la ricerca dell'autenticità, il turbamento indotto dall'arte, l'esaltazione della personalità dell'autore", il sanguigno insomma, appunto. Si vedeva?

Poi qualche settimana fa Massimo De Carlo inaugura una sua nuova sede milanese, la terza, in una bellissima casa d’epoca e d’autore. Operazione di restauro encomiabile e splendida idea di mettere il contemporaneo a confronto con un’architettura d’epoca, del XX secolo – non ci si pensa allo stesso modo quando lo si fa in un palazzo antico, dove prevale un fascino separato, intontente: qui scatta anche la materia grigia, come diceva qualcuno. Con elegante operazione pubblicitaria e grafica – i manifesti sono sparsi per tutta la città – la mostra, curata dallo stesso Massimo De Carlo e Francesco Bonami, si intitola MCMXXXIV, che è la data in numeri romani – come una lapide, rimando allo stile modernista, ma anche come un marchio (come la stessa galleria ormai nota come MDC, che farebbe 1600!) – della costruzione della casa Corbellini-Wasserman in Viale Lombardia al numero 17.

 

Opera di Massimo De Carlo.


Per la casa, svuotata dei mobili, non si spendono altro che superlativi, è uno spazio fantastico; la visita è già appagante per questo, ma di che cosa si tratta? Un’altra operazione di accostamenti. Qui l’idea è chiara e precisa, opere dell’epoca della casa e opere di oggi degli artisti rappresentati dalla galleria, ma non è scontata, perché ha un assunto critico ambizioso: “sottolinea una visione laterale della storia fondendo elementi di storicismo con la modernità. MCMXXXIV presenta uno sguardo sulla storia con la S maiuscola ma allo stesso tempo ne presuppone uno più intimo e borghese: in Italia, ancora oggi, queste due visioni della storia si intrecciano e si sovrappongono”. Un anno drammatico, il 1934, viene fatto notare – forse un parallelo con questo in corso? – che sottende gli accostamenti “apparentemente innocui”, di dice, tra opere dai contenuti più evidenti in un caso e meno in altri, sia di oggi che di allora: il tavolo da guardino di Rudolf Stingel, lo scoiattolo di Sirio Tofanari, ma anche il busto di Mussolini sul caminetto e l’Hitler di Yan Pei-Ming.

 

Opera di Massimo De Carlo.


Le opere sono tutte selezionate e molto ben valorizzate nell’allestimento curatissimo, l’idea è molto interessante, questa di una storia del gusto “borghese” che ha segnato e segna tuttora molto il collezionismo e la visione italiana dell’arte. Audace anche, visto quanto il termine “borghese” ha significato di negativo nell’ultimo secolo, post-postmodernista inoltre, con quella rimessa in gioco del modernismo, e postideologica, con quell’esibizione di tabù storici. Ma... ma tutto pare messo sullo stesso piano, tutto risulta estetizzato, direbbe Benjamin, rischia di diventare giustificativo, un’operazione revisionista mascherata di postidelogia, una commerciale mascherata di eleganza manifesta. Così Wildt è “grande” come Kounellis, Tofanari come Stingel... e/o viceversa?

 

 

È interessante, lo ripeto: il cinismo, la doppia morale, la retorica, il carrierismo, l’attaccamento al denaro “borghesi” è giusto che vengano ripensati senza pregiudizi e proprio come chiave storica che permette di riesaminare autori del passato ma anche visioni del presente. Ma se questo ha come esito una pacificazione, un livellamento in cui tutto è uguale, non si torna al lato peggiore del postmodernismo? Valorizzare non significa distinguere, precisare, analizzare, essere giusti con tutto? O mescolare, contaminare, come si dice, accostare liberamente, di nuovo, magari fingere di farlo? O è appunto una “finta”, per attirare l’attenzione, per accendere un dibattito, la versione borghese e postavanguardista della provocazione? Oddio, sarò più conservatore io di loro a dire così? Altro effetto del warburghismo, anche questo?

 

Opera di Massimo De Carlo.


Un’altra mostra ancora: nella sua galleria che è composta da un’entrata e un’unica grande stanza bianca – uno whitecube, come si suol dire –, Giò Marconi, ha inaugurato da poco una mostra intitolata I campi magnetici, riprendendo il titolo del famoso libro protosurrealista (1920, anticipo di centenario dunque), curata da Cecilia Alemani. Anche qui la scelta del titolo è ottima: funziona bene anche oggi la metafora dei campi magnetici – anche se chissà a che punto è la scienza sulla questione – e soprattutto in questo contesto, per cui il prima e l’ora sono in rapporto magnetico di attrazione e repulsione, influenza e deformazione. Ebbene, l’effetto è riuscitissimo. Personalmente non conosco la maggior parte degli artisti recenti che sono qui in mostra, se non per averne visti alcuni nelle loro personali alla stessa galleria (detto tra parentesi, una delle programmazioni da anni più discutibili ma interessanti e aggiornate di Milano), ma qui davvero non si riesce a distinguere, nell'ingorgo stilistico-teorico, il vecchio dal nuovo... Certo quelli storici li so riconoscere e alcune opere sono davvero famosissime, come certi Man Ray, ma per il resto è difficile, l’amalgama è perfetto.

 

Opera di Giò Marconi.


Una parte dell’allestimento sembra rievocare la famosa mostra surrealista degli “oggetti a funzionamento simbolico” del ’36. In questo contesto, mi si permetta la spavalderia visto che ci siamo, anche Baj esce dal suo provincialismo ed è perfettamente integrato nell’insieme e d’altro canto la coloritura surrealista curva la visione di artisti insospettabili come Richard Hamilton e Louise Nevelson. L’insieme, appunto, lascia una bella impressione di “mostra” pensata, in cui gli artisti sono sullo stesso piano non per pretesa elevazione storica ma per visione interpretativa produttiva, altro aspetto dell’attrazione magnetica in gioco. Starei per dire che invece di sembrare tutti storicizzati o storicizzabili-museificabili, sembrano tutti di oggi, proponibili, tutti “giovani” (stavo per dire non “imborghesiti”).

Sarà effetto del rimando al Dada-Surrealismo invece che agli anni 30 nostrani? Se sì, non sarà un caso. Quel periodo fa ancora scattare idee, e non solo idee, al di là davvero di ideologia e postpost. Lo so che non siamo mai stati moderni, come dice Latour, e che non c’è argomento più massacrato delle avanguardie, ma, quanto a me, proprio l’altro giorno uscivo da un dibattito su situazionismo e fallimento delle avanguardie, per sintetizzare – era la presentazione di un libro di Stefano Taccone pieno di spunti di riflessione politica sull’arte, intitolato La radicalità dell’avanguardia (editore Ombre corte) –, e mi dicevo: A me pare invece che solo le avanguardie si siano salvate dal massacro mentre è tutto il resto ad essere fallito!

 

Opera di Giò Marconi.


E per far capire che non sono un avanguardista ad oltranza e che c’è un animo borghese anche in me, faccio notare che c’è poi un’altra dimensione, magari più privata ma non troppo, nella mostra da Giò Marconi che ne implementa il senso: è che Giò ha innescato un campo magnetico anche tra sé e il padre Giorgio, titolare della storica galleria, le cui strade sono corse fin qui autonome e parallele e per la prima volta, vorrei dire sensibilmente, affettuosamente, comunque non pretestuosamente né dimostrativamente, qui si mescolano davvero, attraendosi e respingendosi a vicenda, disegnando una nuova configurazione come fa la limatura di ferro sotto l’effetto del magnetismo.

Ah, dimenticavo, l’argomento dichiarato della mostra è il corpo, “in particolare di quello femminile” si specifica, che in questo caso rende la stanza abbastanza uterina – ribaltando lo white cube della galleria –, avvolgente e al tempo stesso conturbante. Un abito da posa al centro segna il punto di rotazione delle forze in gioco, che in qualche modo dunque si sposano, s’épousent, diceva Duchamp, cioè più s’exposent che se marient.

Insomma alla fine mi son detto: meglio l’azzardo e l’irriverenza che la disinvoltura o il flirt. Qui Warburg non c’entra – o forse sì?

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Tutto quel nero

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Tutte le immagini che abbiamo ospitato nei nostri occhi, da quando siamo nati, si sono accumulate, giustapposte, sovraimpresse, assorbite, sovrapposte, mescolate nella memoria della nostra retina, delle cellule recettoriali o nel nostro cervello? E le immagini di rango superiore cosa hanno mosso nel nostro processo evolutivo? Molte sono state volutamente rimosse, dimenticate, perdute? Anche le idee che arrivano dall’esterno e le questioni concettuali rimangono impigliate nella visione retinica? Immaginiamo un riavvolgimento a ritroso per ripercorrere il loro passaggio in noi. Probabilmente questo viaggio nel sedimentato figurativo dà luogo a una narrazione o a una serie di collegamenti o a una riattivazione di ricordi e di emozioni, o solo a un miscuglio di cose. Oppure, e forse dipende dalla velocità del percorso au rebours, il risultato di queste immagini sovrapposte suggerisce un indecifrabile buco nero o forme astratte. Figuriamoci allora un lento fermo immagine ritmico, una scansione in grado di innescare un’azione catartica. Oppure – visto l’epoca che viviamo in cui la proliferazione su larga scala di materiale visivo disponibile in rete e l’iperproduzione di immagini ci induce una sorta di rifiuto o un desiderio di pace momentanea – proviamo a sacrificare le immagini futili, un numero randomico di figure e fotografie anonime, per dare forma a nuove immagini, selezionate, necessarie, da preservare nell’interiorità. 

E se invece da questo viaggio nella storia delle immagini interiori scoprissimo la presenza di immagini fuori controllo, la trama di pixel che ha lasciato segni e forme astratte, un ritmo cromatico indisciplinato e caotico, le imperfezioni, la microsporcizia, indizi fuorvianti, la polvere o altro? In questi paesaggi immaginali prendono forma anche diverse atmosfere. 

 


Alessandro Calabrese, Untitled 12, 2014.


Abbiamo incontrato Alessandro Calabrese, artista che da anni conduce la sua ricerca in questi stati liminali, sondando la natura ambigua delle immagini, le presenze lasciate e abbandonate in superfici provviste di memoria. In una delle sue mostre erano esposti grandi pannelli, bianchi o neri, – dove, erano poste domande tipo: “What can you remember of your childhood summers?”, “What is the most boring thing you can think of?” – con grafici stilizzati delle possibili risposte che avrebbero potuto dare i fruitori. E quali risposte può dare ora un livello più evoluto della fotografia? Calabrese non prova interesse per le narrazioni e per le opere che raccontano qualcosa, ma cerca di trasformare un momento della realtà in una sorta di azione purificatrice e perturbante al contempo. Proviamo a seguire il suo percorso concettuale, per cercare di comprendere quale possa essere il valore catartico delle immagini e come metterlo in azione nella vita quotidiana.

 

Mauro Zanchi: Proseguendo oltre le teorie di Warburg e le dinamiche della postfotografia, cosa èper te, in questo momento, un'immagine, e come la relazioni con il medium che hai scelto di utilizzare?

Alessandro Calabrese: Questa tua prima domanda mi permette di parlare praticamente di tutto quello di cui mi sono occupato nei primi anni di pratica, da quando ho terminato gli studi fino al 2017, quando ho presentato The Long Thing, in occasione della prima personale nella galleria Viasaterna. 

Ho iniziato utilizzando la fotografia, che per me rimane un mezzo in grado di registrare “qualcosa” (scegliendo il momento, il soggetto, l’inquadratura, etc…) con una macchina fotografica, sottraendola alla realtà che ci circonda, senza particolari artifici. Tutto quello che non passa attraverso un obiettivo e finisce registrato su una pellicola o su di un sensore digitale è “altro” e rientra nel più vasto mondo dell’immagine. Per questo dico sempre che negli ultimi due progetti che ho realizzato, The Long Thing e A Failed Entertainment, non mi sono occupato strettamente di fotografia ma di immagine, e non lo dico per distaccarmi da tutto quello che riguarda la scena fotografica, ma, al contrario, per rispettarla. L’immagine è davvero tante cose: può essere un dipinto, un meme, uno still da video, uno screenshot del monitor, una serie di figure e colori generate da un’intelligenza artificiale, e anche, ovviamente, una fotografia classica.

 

Alessandro Calabrese, Untitled 15, 2014.


Quale èil tuo punto di vista sullo spostamento verso un'altra possibilitàdella fotografia?

La fotografia sicuramente sta cambiando forma. Però se guardiamo alla sua storia, possiamo dire che questo tentativo è stato ciclico fin dalla sua nascita. Ha avuto picchi in alcuni periodi e in altri meno, ma da parte della fotografia c’è sempre stato un sentimento di stare stretta a se stessa (sui motivi potremmo discuterne a lungo). Ogni sistema trova il suo equilibrio per un po’, dopodiché arriva qualcosa a perturbare la stabilità, qualcosa di “punk”. Questo stesso elemento si stabilizzerà a sua volta diventando ordinario/moda, fino al prossimo ciclo. Oggi siamo in un momento particolarmente burrascoso, mi pare, ma credo sia anche perché abbiamo la possibilità di esserne partecipi su larga scala. Siamo tutti in mare anziché sulla costa. Possiamo vedere da vicino quello che combina ogni singola persona al mondo dotata di connessione internet, e più o meno tutti possono potenzialmente sperimentare con l’immagine. Un secolo fa era ovviamente diverso, però oggi guardo i lavori di Christian Schad, Man Ray, Moholy-Nagy, o prima ancora Talbot, e allora mi chiedo quante volte sia già morta e risorta (e quante ancora continuerà a farlo) questa disciplina.

 

In cosa consiste secondo te questo spostamento e l’andare oltre il medium fotografico?

Rappresenta il liberare un proprio punto di vista, inteso come pensiero, per darlo in pasto al mondo, renderlo collettivo, accettando anche il possibile cambio di significato.

E consiste semplicemente nell’abbracciare i cambiamenti del mondo stesso. Tocca alla nostra generazione andare oltre (anche se io direi che stiamo andando un po’ attorno, a lato, più che oltre), perché siamo i primi a fare i conti con questa realtà, radicalmente cambiata di recente, come mai prima. In fotografia è utopico costruire da zero, ma si deve, invece, sempre attingere dal reale. Una volta che quest’ultimo ha qualcosa di nuovo da offrire allora anche la fotografia stessa può mutare. Ho delle riserve sulle modalità, eventualmente, nel senso che mi interessano soltanto quelle derive che hanno come fine principale una riflessione sul mezzo stesso, cioè che si perdono oltre/attorno/a lato, per poi tornare alla base. Stavo ascoltando un’intervista a Edoardo Sanguineti di recente. Sul finale parla di cinema, del quale era molto appassionato, e ricorda la potenza della scoperta nel periodo Lumiere relativa al filmare da un treno, quindi il nuovo punto di vista, non tanto il riprendere un treno in arrivo o in partenza (che comunque in quell’epoca rappresentava ancora il progresso, quindi poteva suscitare un certo tipo di stupore nello spettatore) ma il piegare quel mezzo di trasporto (senza mostrarlo nemmeno) a proprio vantaggio, per innovare il cinema linguisticamente e creare uno stupore più sofisticato. Questo per dire che a me interessa di più quella cosa là, il filmare da un treno anziché filmare il treno.

 

Alessandro Calabrese, 20140104 Mina from A failed entertainment 2015, courtesy Via Saterna.


Nella tua ricerca quanto èimportante il procedimento mentale che porta a risultati illogici?

Direi molto, e conducono all’inatteso, quindi alla sorpresa, che in termini più tecnici credo sia un mio modo di sublimare banalmente il non usare la camera oscura o il saper dipingere, quindi il perdere un po’ il controllo. Questo si contrappone e al tempo stesso va di pari passo con la parte più concettuale/scientifica della mia ricerca, che invece lascia molto meno spazio al randomico. 

 

Lo sviluppo di qualcosa non si puòesaurire in una sola immagine, ma ha bisogno di seguire un ulteriore svolgimento, in una serie o in altre derive?

Recentemente la mia risposta è sempre più affermativa, almeno per quanto riguarda le “altre derive”, nel senso che, se ho capito bene la tua domanda, inizia a non bastarmi più l’immagine bidimensionale, ma sto passando dal dare vita a immagini per riflettere sul mezzo (evitando ogni forma di narrazione come ho fatto fino all’anno scorso) a voler riflettere (anche raccontando) su qualcosa “altro dall’immagine”, utilizzando diversi media. Riguardo invece alla serie, ti dico di no. Io credo che si possa esaurire lo sviluppo di qualcosa anche in una sola immagine. Però questo atteggiamento credo appartenga più alla fotografia che guarda nella direzione dell’arte, se così si può dire, piuttosto che a quella che guarda alla forma “racconto”, che invece oggi si fa con lunghe serie che finiscono tendenzialmente nel “photobook” e in cui ci si mette un ritratto, un paesaggio, uno still life, una foto vernacolare, un’immagine del web etc…

 

Mi interessano molto i meccanismi legati alla sensazione. Quali sono i termini evocativi che ricrei nelle tue fotografie?

Ti posso dire che negli ultimi anni mi sono sempre più interessato al tema della sensazione più che della comprensione. La fotografia classica più si faceva chiara ai miei occhi e meno la trovavo interessante, se non in termini storico-documentativi. La fotografia tradizionale continua a interessarmi, anzi, mi interessa ogni giorno di più, ma da “studioso”, se mi concedi il termine. Invece la questione del sentire, non solo nell’immagine ma anche nella parola, ha iniziato a diventare preponderante: il suggerire piuttosto che il dire, il sussurrare piuttosto che il parlare, il vedere sfocato piuttosto che il vedere nitidamente, il non vedere affatto, il buio, come quando usavo lo scanner, sono tutte questioni che mi intrigano e che si legano alla poesia, all’incomprensione in prima battuta. Penso alla scuola, ho sempre trovato un controsenso parafrasare per comprendere il più possibile a livello linguistico qualcosa che era stato concepito invece per essere percepito. Ad ogni modo tutte queste cose sono sfociate in una mia produzione quasi astratta, per lo più, ma che cerca di non lasciare totalmente per strada il figurativo. C’è sempre un riferimento al reale insomma, che può essere anche soltanto nel punto di partenza, come ad esempio il mondo del lavoro, dell’ufficio, nel progetto The Long Thing.

 

Alessandro Calabrese, 20141118 Sandro from A failed entertainment 2015, courtesy Via Saterna.


Come procedi nell’ideazione di un lavoro?

Passo la maggior parte del tempo a vagliare concettualmente quello in cui mi voglio imbarcare, procedendo a priori. Una volta verificato che più o meno tutto regge, il risultato allora deve uscire nel minor tempo possibile e con uno sforzo pratico, che non sia eccessivo per la mia bassa soglia di sopportazione. Dopodiché, a posteriori, tiro le conclusioni e talvolta sono costretto a tornare indietro e ripartire.

 

Si cela qualcos’altro oltre ciòche sembra apparire in modo chiaro nelle tue opere?

Mi piace parlare in modo abbastanza chiaro allo spettatore, senza prendere in giro. Sono consapevole del fatto che senza un apparato testuale a supporto sia difficile capire precisamente le mie intenzioni, però sono quasi certo che all’osservatore curioso, una volta fornita la chiave di accesso al mio viaggio, non risulti così complicato capirmi. Quindi in realtà, la risposta in versione brevissima a questa domanda potrebbe essere che si cela semplicemente la ragione d’essere di quel che si vede. Dopodiché, per tornare a una risposta precedente, non a tutti interessa arrivare al nocciolo della questione, infatti sono stato abbastanza fortunato finora a trovarmi tra le mani, quasi casualmente, una componente visiva intrigante. 

 

Come ti stai allontanando dai meccanismi percettivi dell’immagine? 

Ora sento davvero che la mia ricerca sulla percezione per il momento si è un po’ esaurita, non mi interessa più molto. Continuo a ragionare in termini visivi ovviamente, ma, come ho detto prima, vorrei aprirmi all’utilizzo di diversi media, per raccontare qualcosa che sia altro dal discorso sul linguaggio. In realtà ci sto già lavorando: è un tema preciso che si può riassumere con il termine empatia, e il caso studio da cui sono partito è l’evento del 9/11/2001 a New York.

 

Alessandro Calabrese, Die deitsche punkinvasion 2015, courtesy Via Saterna.


Come utilizzi l’empatia nei tuoi più recenti lavori?

Più che farne utilizzo mi interrogo su cosa sia l’empatia e soprattutto se esista davvero. Ritengo sia la chiave di molte questioni contemporanee, sia a un livello micro, quindi interpersonale nelle questioni di tutti i giorni, sia, soprattutto, a un livello macro, quindi globale, nelle questioni geopolitiche. Da vocabolario significa essere in grado di mettersi nei panni dell’altro. Va bene, ma quello che mi chiedo io è ad esempio quasi l’opposto, ovvero se sia possibile che il soggetto sofferente percepisca in maniera tangibile la vicinanza dell’empatizzante tanto che si abbia la percezione di soffrire in due, e sinceramente/sentitamente, per la stessa cosa che ha origine in uno solo dei soggetti. Sto vagando attorno a questa cosa, partendo da un saggio di Mauro Carbone, Essere morti insieme: l'evento dell'11 settembre 2001 (Bollati Boringhieri, 2007), passando per la fine del postmoderno, all’utilizzo/rifiuto dell’ironia e ad altri temi a me già cari nei lavori precedenti. Il sottotitolo semplificativo potrebbe essere una cosa tipo: di quel giorno dovevamo capire tutto, ripartire con un passo differente verso la formazione di una società migliore, invece dopo 17 anni pare che non si sia capito nulla, dove abbiamo fallito? Mentre ti rispondo con queste cose sento una vocina dentro di me che un po’ se la ride e mi prende in giro, perché oggi parlare di queste cose può suonare naif o romantico.  Ecco, sto lavorando per metterla a tacere in un certo senso.

 

Nei tuoi progetti hai indagato il linguaggio nelle sue declinazioni visuali, i temi dell’autorialità nell’essere umano e nella macchina, la sovrapproduzione di immagini nell’era dei social media, il rapporto tra figurativo e astratto in fotografia, hai riflettuto riguardo al mondo del web.

Sì, e come ti ho detto, mi sono un po’ stancato di lavorare su questioni legate esclusivamente al linguaggio visivo/fotografico, o a una riflessione sul mezzo. Quest’estate ho realizzato un progetto molto semplice in occasione della residenza Casino Palermo promossa da Viasaterna, utilizzando la scrittura: bel suo piccolo è stata un’autentica rivelazione per me. La cosa che mi ha stupito di più è stato il commento di una persona che mi conosce molto bene. Mi ha detto che per la prima volta ha visto tutto quello che sono solitamente, al di fuori della mia pratica, inserito e messo finalmente a dialogare con quella che è la mia ricerca. Era fondamentalmente una critica che suonava negativa ma che voleva essere costruttiva, mi ha fatto molto riflettere e sto cercando di capire cosa volesse davvero dire in concreto. Per tornare alla tua domanda, tutti i temi indagati in precedenza sono legati a un periodo in cui dovevo capire quanto più possibile riguardo il mondo dell’immagine, prendere le misure in maniera molto clinica, in più una mia ritrosia nel tornare su questioni già trattate mi ha sempre spinto a cambiare quanto più possibile in ogni progetto, però se mi guardo indietro mi sembra di aver comunque mantenuto una certa coerenza. Per tornare all’esempio del treno, credo che in questi anni io mi sia spostato continuamente all’interno del treno guardando sempre fuori, oggi invece mi sembra di essere entrato in una fase in cui la questione del “filmo il treno” o “filmo dal treno” non importa più, mi importa provare a lavorare sul concetto di viaggio piuttosto, ha senso?

 

Alessandro Calabrese, Installation view 1 from The long thing 2017, courtesy Via Saterna.


Ci interessa capire qualcosa di più rispetto al tuo progetto The Long Thing, esposto in Viasaterna, e all’idea di corrompere la struttura dell’immagine fotografica attraverso operazioni effettuate con l’uso dello scanner, rapportandoti a qualcosa di tangibile come la noia, il lavoro d’ufficio, l’automatismo, l’alienazione.

Dopo aver passato del tempo a lavorare a A Failed Entertainement, usando lo scanner in maniera meccanica e noiosissima, per riflettere su questioni legate all’intrattenimento, ho deciso di divertirmi nel progetto The Long Thing usando lo scanner in maniera piuttosto libera e sbagliata, riflettendo invece sul tema della noia, insomma una sorta di positivo-negativo. Avevo ancora un interesse legato prettamente al visivo (quando ho iniziato, nel 2016), alla corruzione dell’immagine, all’eterno camminare in bilico tra figurativo e astratto da parte della fotografia e dell’arte, che in quel periodo avevo trovato spiegato particolarmente bene nel saggio di Deleuze su Bacon (Logica della sensazione, Quodlibet, 2008). Lo scanner e l’uso improprio che ne ho fatto mi ha permesso di muovere un ultimo passo verso l’astratto, che volevo raggiungere o almeno intravedere in quel momento, tenendo però una base di partenza estremamente figurativa. Inoltre l’intenzione era quella di perdere un po’ il controllo, utilizzare un automatismo ma lasciando anche molto spazio al caso. Mi serviva un terreno di battaglia per questa cosa. Ho scelto il mondo del lavoro, dell’ufficio nello specifico, quello da cartellino timbrato allo scadere delle 8 ore, un ambito noioso per eccellenza, con tutti i suoi elementi quotidiani, che vanno da piante finte a “schiscette” per il pranzo, materiali da imballaggio a cartellette per archiviare documenti, etc…, il tutto infilato volta per volta all’interno dello scanner e mosso manualmente, mentre lo scanner è in funzione e legge l’oggetto in questione.

 

Osservando attentamente le tue opere mi sembra di individuare diversi riferimenti alla letteratura. Ci puoi svelare qualcosa rispetto alle tue fonti letterarie, e al passaggio dalle suggestioni letterarie all’idea di svolgere un’intuizione attraverso la realizzazione di un progetto visuale?

La letteratura è una delle tante cose dalle quali mi interessa attingere a livello di riflessione sul mezzo, da tradurre poi in termini visivi o processuali. Negli ultimi anni ho letto soprattutto saggistica, di diverse discipline, che trovo poi molto stimolante provare a piegare ai miei interessi. Spesso sono solo intuizioni. Magari leggo un saggio sulla teoria della musica, della quale non capisco nulla, e credo di vederci cose utili a quello che faccio e procedo per similitudini, probabilmente sbagliando, chissà. Sicuramente tra le varie discipline la letteratura (o per meglio dire la parola, perché mi interessa anche la poesia, che è quasi più importante per la mia pratica, o analizzo parola per parola i testi di molta musica, soprattutto quella rap ben fatta) è la disciplina che più mi sembra influenzare quello che faccio. Nei primi lavori c’è stata una forte influenza di David Foster Wallace, sia per come usa la prosa in maniera quasi poetica (per tornare al concetto di sensazione di cui si parlava prima), nei punti più alti, sia per i temi trattati che uniscono cultura alta e cultura pop. A oggi non credo sia il mio autore preferito da un punto di vista letterario, però è stato sicuramente il più utile per ciò di cui mi sono occupato, quello più facilmente traducibile da un registro letterario a uno visivo, forse perché non sarà stato il miglior scrittore della sua generazione, come spesso si dice, ma sicuramente è stato il più artistico. Per il resto ho gusti molto vari, anche se la corrente postmoderna, soprattutto statunitense, prevale assieme alla poesia italiana del ‘900.

 

Alessandro Calabrese, Installation view 2 from The long thing 2017, courtesy Via Saterna.


Ci puoi parlare della “stand-up comedy” che hai indagato?

La stand-up comedy è davvero difficile da far rientrare tra le discipline di cui sopra, però alcuni utilizzi della parola in pochissimi autori li trovo interessantissimi e di alto livello. Penso a Steven Wright o Eddie Izzard, e poi in riferimento ad A Failed Entertainment ho sempre pensato che quel lavoro, totalmente antinarrativo, mi ricordasse uno spettacolo di un comico one-liner, come si suol dire, ovvero quello che costruisce uno spettacolo intero fatto solo di battute slegate tra loro ma comunque efficace, coerente nell’insieme non per il tema trattato per tutto lo show ma per la scelta stilistica. Azzardo, Guido Guidi sarebbe un comico di questo tipo, per capirci.

 

In questa serie di interviste sulla metafotografia italiana è emersa una questione: La fotografia è una scultura? E mi riferisco, a proposito del tuo lavoro, alla serie di immagini che hai realizzato utilizzando uno scanner e inserendovi all’interno materiali legati al mondo del lavoro da scrivania. Cosa c’è che unisce sottilmente, secondo il tuo punto di vista, la fotografia al medium della scultura (sia secondo il punto di vista tradizionale sia quello che apre alle connotazioni che va vanno oltre gli aspetti della bidimensionalità, e quindi verso le ulteriori dimensioni)?

La fotografia in generale, se stampata, quindi se ha uno spessore (seppur minimo), può essere considerata una scultura, solo che è sempre più o meno la stessa, si ripete nella forma cambiando le dimensioni e le proporzioni, quindi, da un punto di vista tradizionale, è poca cosa. In termini più concettuali, in riferimento al mio lavoro e a quello di tanti altri, quello che succede può essere considerata la sintesi scultorea di un oggetto. Oggi vanno molto di moda le stampe 3D, il mio lavoro può essere visto come una scultura 2D, però se c’è un media di cui capisco davvero poco a livello teorico, quello è la scultura. Dopodiché ci sono immagini che possono prendere derive scultoree in fase di output, soprattutto negli ultimi anni, ma ancora una volta mentre lo fanno ci stanno parlando di fotografia o immagine più in generale. Quello che trovo invece meno interessante, e che non riesco a considerare fotografia autoriale (qualunque cosa questo voglia dire), è la scultura che si fa fotografia, o peggio ancora il design che si fa fotografia, un’altra tendenza che va molto nel contemporaneo, perché per me è semplicemente decoro, o professione (con tutto il rispetto per i professionisti consapevoli di fare comunicazione e non arte), non c’è molto altro.

 

Alessandro Calabrese, Untitled 4 from The long thing 2017, courtesy Via Saterna.


Mi sento un po’ un conservatore da questo punto di vista. Sempre tornando alla storia della fotografia, la scultura è sempre stato un soggetto ritratto dai fotografi sin dagli albori, però o era consapevolmente documento oppure la scultura veniva usata e piegata al volere dell’autore per parlare di fotografia/composizione/aspetti visivi insomma o rari casi che si pongono a metà come un capolavoro, Equilibries, di Fischli & Weiss. La terza via di cui parlo sopra, invece, quella che non mi convince, è un documento travestito da immagine di ricerca, ma il più delle volte non c’è alcuna ricerca. Su queste questioni però mi piacerebbe sapere cosa ne pensi tu, perché io sto ragionando di pancia e poi mi è stato insegnato che quando si risponde a una domanda si deve parlare di quel che piace piuttosto che sottolineare ciò che non piace.

 

Alessandro Calabrese, Installation view 1 from The long thing 2017, courtesy Via Saterna.


Quanto è importante per te sentirti in impasse alla fine di una tua ricerca? 

Credo che più di sentirsi in un’impasse alla fine della ricerca sia importante sentircisi durante, ogni giorno, per tornare indietro e prendere altre vie fino a quando non si conclude un progetto in una maniera coerente. Questo può essere a sua volta un’impasse certo, ma deve necessariamente avere almeno una crepa al suo interno per permettere una via di fuga verso qualcosa di nuovo. È piuttosto astratta come risposta, ma credo che renda l’idea.

 

Cosa pensi dell’anti-autorialità e dell’autonomia tecnologica del mezzo?

Per anti-autorialità intendi la negazione di essa? Non credo sia possibile, se penso ad A Failed Entertainment, la parola fallimento al suo interno non è casuale. Nel senso, quel lavoro parla esattamente del demandare la propria autorialità a una macchina, a lasciare molto spazio al casuale, al procedere in maniera opposta a quella dell’autore, che sceglie tendenzialmente ogni singolo elemento che compone il suo incedere. Cosa succede però alla fine di tutto questo mio negare? Metto in mostra con il mio nome delle immagini nuove, che seppur siano state scelte da un algoritmo sono state influenzate dal mio lavoro in precedenza. E soprattutto ho scelto quali stampare e esporre in uno spazio espositivo, il tutto in maniera molto consapevole. Insomma è stato un fallimento cercato, una dichiarazione di resa, infatti non si può rinunciare a mettere in mostra se stessi, a meno che non si scelga di fare l’eremita, nel vero senso della parola. Ma qui si potrebbe aprire un discorso più ampio sull’essere umano in generale, non tanto sull’artista. 

 

Alessandro Calabrese, Untitled 3 from The long thing 2017, courtesy Via Saterna.


Per quanto riguarda l’autonomia tecnologica del mezzo si stanno facendo passi molto rapidi in quella direzione, penso agli ultimi lavori, che hanno delle tangenze impressionanti tra l’altro, di due artisti importantissimi come Pierre Huyghe e Trevor Paglen. È un tema che mi è importato qualche anno fa. Oggi non seguo moltissimo quello che sta succedendo da un punto di vista strettamente tecnologico e comunque sia non mi è mai importato l’aspetto scientifico in sé e per sé, ma soltanto in relazione a una riflessione sul fotografico. Credo che quando si lavora su certi temi iper-contemporanei si debba essere consapevoli che un progetto si esaurirà brevemente. Sono guerre lampo certe questioni e io la mia, nel mio piccolissimo, l’ho già combattuta.

 

Alessandro Calabrese, John Wayne from The long thing 2017, courtesy Via Saterna.


Mi sembra molto interessante il lavoro che hai realizzato utilizzando lo strumento di ricerca di Google (Reverse Image Search), che permette di operare una ricerca non per parole chiave ma per immagini. Ce ne puoi parlare? Soprattutto anche alla luce delle strade completamente svincolate dal tuo controllo come autore della foto.

Effettivamente abbiamo parlato finora di qualcosa che chi legge probabilmente non conosce a livello pratico se non conosce già il mio lavoro. In A Failed Entertainment ho inserito fotografie realizzate da me durante i primi anni milanesi (fotografie ragionate, a pellicola, sulla città, di dettaglio per lo più) all’interno di Google Immagini, effettuando appunto una ricerca inversa per immagini. Quello che succede è che tu carichi una fotografia nel motore di ricerca e lui risponde fornendoti una serie, spesso molto lunga, di immagini esistenti nel web “simili”, stando a un algoritmo che legge pixel per pixel, a quella da te caricata. Successivamente ho utilizzato un plugin, realizzato da un amico informatico, che scegliesse per me un numero sempre diverso di immagini, sempre casuali tra tutte quelle presenti nel web, che fossero simili alla mia di partenza. Queste venivano stampate nella loro proporzione originale su dei fogli di acetato trasparenti, sovrapposte in un unico blocchetto di fogli, che in ultimo inserivo nello scanner e facevo scansione, dando il la alle immagini che sono visibili oggi.

 

Alessandro Calabrese, Untitled 2 from The long thing 2017, courtesy Via Saterna.


Oltre ai motori di ricerca per immagini e agli archivi d’immagini d’epoca, immagino che tu attinga (consciamente o inconsciamente) alla memoria universale che sta dentro alla memoria del tuo corpo e del tuo pensiero. Mi evocheresti qualche passaggio del tuo viaggio in te mentre stai immaginando le tue visioni?

Sarò molto onesto, forse non dovrei, nel dirti che ho sempre lavorato in maniera troppo cerebrale finora, quindi non ci sono state molte visioni generatrici ma letture dei risultati a posteriori. Infatti, ad esempio in A Failed Entertainment, ogni immagine ha una sigla, che è la data in cui è stata realizzata la ricerca e un nome proprio che ho scelto una volta osservate le immagini finite, nomi propri di persone o cose legate a quelle persone, alle quali pensavo quasi istintivamente guardandole. Quindi non ci sono state visioni che hanno dato vita a qualcosa, ma visioni scaturite da qualcosa che aveva preso forma indipendentemente da me, all’interno delle quali io ritrovo memorie della mia cultura ed esperienza.

 

Alessandro Calabrese, Meme 6 from The long thing 2017, courtesy Via Saterna.


Potresti suggerire qualche immagine che possa collegare la nostra immaginazione a quello che hai pensato tu quando hai creato le tue immagini?

L’unica immagine nitida, più uno stato mentale, che avevo in testa quando ho lavorato ad A Failed Entertainment era quella di me a letto la sera, mentre chiudo gli occhi e mi scorrono davanti tutte le fotografie viste durante il giorno, che si sovrappongono e non si sedimentano mai. È la traduzione visiva di una frustrazione, tutto quel nero.

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