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Lina Bo Bardi, o dell’architettura mitopoietica

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Se fosse ancora in vita, il 5 dicembre compirebbe centocinque anni, ma è soltanto da vent’anni o poco più che il mondo dell'architettura e del design è tornato ad occuparsi di lei. Si scrivono libri, si allestiscono mostre, si tengono convegni e conferenze: attorno alla figura di Lina Bo Bardi (1914 - 1992), una delle più significative del modernismo, anche se è riduttivo etichettarla così, l'interesse è in crescita esponenziale. Attualmente, nel mondo, ci sono ben tre eventi che la riguardano: il primo, a New York, è espositivo (suoi mobili sono in mostra fino al 15 giugno alla Gladstone Gallery, con la consulenza della galleria Nilufar di Milano, che ne ha messi in produzione alcuni); il secondo è una conferenza al Design Museum di Londra dedicata al design brasiliano che l'ha vista protagonista (18 giugno a cura di Chris Larsen, curator del Met Museum); il terzo, il più importante, è una retrospettiva sulla sua opera, dal titolo Lina Bo Bardi: Habitat, in corso al Museu de Arte de São Paulo (MASP), da lei progettato nella città in cui aveva scelto di vivere e di lavorare (fino al 28 luglio. A gennaio 2020 l’esposizione sarà poi visitabile al Museo Jumex di Città del Messico e a giugno al Museo di Arte Contemporanea di Chicago). La mostra celebra l’opera di Lina Bo Bardi nel cinquantesimo anno dalla inaugurazione del MASP.

 

Salvo quest’ultima, le altre occasioni sono incentrate sul suo lavoro di designer, ma lei ha fatto molto di più: il suo campo d’applicazione prediletto, infatti, è stata senza dubbio l'architettura, ma si è dedicata anche al cinema, alla didattica, all’illustrazione, alla scenografia, agli allestimenti. Soprattutto in età giovanile, quando viveva a Milano, dove è giunta a maturazione la sua formazione intellettuale e professionale, si è cimentata anche nella scrittura. In ogni suo lavoro, d’architettura o d’altro, l’occhio di Lina è stato costantemente puntato sul côté umano e sociale del progetto. Al centro delle sue realizzazioni, infatti, ha sempre collocato la vita dell’uomo, senza tuttavia mai rinunciare alla ricercatezza formale, anche se il più delle volte esplorata sul crinale che separa il grazioso dall'antigrazioso di matrice espressionista. E neppure ha mai declinato il piacere della sperimentazione di forme inconsuete e di tipologie innovative, né quello dell’impiego di nuovi materiali, senza escludere una nota ludica e allo stesso tempo lirica, così come proprio dei suoi interventi architettonici è il loro colloquio con la natura.

 

Uno scorcio della mostra Lina Bo Bardi: Habitat, in corso al Museu de Arte de São Paulo (MASP).


Achillina Bo nasce a Roma nel 1914 in una famiglia di origini genovesi e nel 1939 si laurea in architettura alla Sapienza; l’anno successivo si trasferisce a Milano, dove sarà fondamentale il suo incontro con Gio Ponti, “l'ultimo architetto umanista" come lo stesso maestro amava definirsi. Nella città meneghina collabora con importanti riviste di architettura e di costume, tra cui Stile (insieme al  gruppo di lavoro formato da: GIo Ponti, ENrico Bo, LIna Bo e CArlo Pagani ne cura quasi tutte le copertine; firmate con l’acronimo GIENLICA, risultante dalle prima due lettere del nome proprio di ciascuno di loro), Grazia, L’Illustrazione Italiana, Bellezza, Vetrina e Negozio, Cordelia e Tempo. Nel 1944 con Carlo Pagani è vicedirettore di Domus. L’anno successivo i due (che avevano avuto uno studio in Via del Gesù, 12, distrutto dai bombardamenti del 1943), fondano e dirigono la collana Quaderni di Domus e, con il sostegno di Bruno Zevi, creano il settimanale A- Attualità, Architettura, Abitazione, Arte, per far conoscere anche al grande pubblico il modo di abitare “razionale”. Partecipa alla resistenza ed è tra i fondatori del Movimento Studi Architettura (MSA).

Al termine del conflitto, Elio Vittorini, per il quotidiano Milano Sera da lui diretto, la incarica di redigere un reportage in giro per l’Italia che documenti le distruzioni causate dalla guerra. Sarà pubblicato su A con le foto di Federico Patellani (fotografie del maestro, tra cui un ritratto di Lina del 1945, sono al Museo della Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo), mentre la grafica, i disegni e i testi sono di Lina che, tra l'altro, scrive: “Fu allora, quando le bombe demolivano senza pietà l'opera e il lavoro dell'uomo, che capimmo che la casa deve essere per la vita dell'uomo, deve servire, deve consolare e non mostrare, in un'esibizione teatrale, le vanità inutili dello spirito umano”.

 

Sarà per lasciarsi alle spalle gli orrori della guerra e il ricordo delle efferatezze del fascismo che nel 1947, con suo marito, Pietro Maria Bardi, prima critico, storico dell'arte e giornalista; poi gallerista (Galleria di Roma) e quindi illuminato e moderno mercante d'arte (fonda e dirige il prestigioso Studio d'Arte Palma), decide di abbandonare l’Italia e di trasferirsi definitivamente in Brasile. Lì Pietro Maria Bardi era stato invitato dal magnate della stampa e mecenate Francisco de Assis Chateaubriand, uno degli uomini più ricchi e potenti del paese, a fondare e a dirigere il nuovo museo d'arte di São Paulo. Più tardi (1957-1969) sarà Lina stessa a realizzarne il progetto: un grande parallelepipedo di calcestruzzo e vetro che appare come sospeso nel vuoto, sorretto com’è da due giganteschi pilastri-trave rossi a forma di C, una scatola di luce che, elevata dal suolo, sta a mezza strada fra la terra e il cielo. Inoltre, a voler ben guardare, questo prisma reca in sé la memoria di un’antica stoà greca, quel luogo pubblico della polis dove gli artisti potevano mostrare a tutti le proprie opere, qui con tanto di agorà antistante (e sottostante), ancora oggi prediletta dal popolo paulista quale sede di eventi canori e di manifestazioni a carattere collettivo. Ma ricorda anche un monumentale altare arcaico, nel quale si celebra il rito laico dello scambio creativo tra gli umani. Quasi fosse un fratello moderno del mitico Altare di Pergamo, dove a fare le veci di Zeus Sotér, cui quello ellenistico è dedicato, c'è invece l'Arte intesa come salvatrice dell’umanità e al posto di Atena Nikephor, a portare la vittoria, non già sui Galati, ma sull’ignoranza e sull'isolamento, c’è la Cultura condivisa.

Lina, infatti, ha concepito il museo non soltanto quale contenitore che ospita le opere d'arte, ma soprattutto come un luogo fatto per la gente. E così il MASP non è per nulla il consueto museo-mausoleo, ma è piuttosto un edificio dotato di spazi aperti, di pareti mobili, di supporti trasparenti, circondati da pareti trasparenti, e di ambienti di relazione e di incontro che favoriscono il dialogo sociale.

Improntato ad uno spiccato carattere divulgativo e didattico, ospita anche teatri e un auditorium. Insolito e innovativo è pure l'allestimento delle opere, al contempo spartano e di sorprendente attualità (minimalista, brutalista) con i quadri collocati su lastre di cristallo trasparente sorrette da blocchi cubici di cemento grezzo.

All'interno di questa scatola di luce Lina ha infatti concepito spazi ‘fluidi', aperti a possibilità di fruizione degli oggetti esposti non stabilite a priori ma fluttuanti, libere in uno spazio in grado di cambiarne la percezione a seconda della creatività di chi ne gode e non già in base a quella impostagli dal suo ideatore, come in genere accade.

Inoltre, questo edificio, a tutt'oggi, costituisce un esempio insuperato di efficiente e straordinaria architettura museale, oltre ad essere uno degli esempi più significativi dell’architettura moderna dell’America Latina. 

 

Museu de Arte de São Paulo (MASP) progettato da Lina Bo Bardi tra il 1957 e il 1969. In alto: due vedute aeree da cui si coglie la presenza della natura strettamente connessa all’architettura. In basso: una veduta dell’esterno; l’allestimento in una foto degli anni cinquanta, con i cubi di cemento a sostegno dei pannelli di cristallo trasparente su cui sono appese le opere d’arte.


Appena arrivata in Brasile, Lina si occupa di architettura degli interni e di design. Tra i suoi oggetti più noti si annovera la Bowl Chair o poltrona scodella, progettata nel 1951 e realizzata in due soli esemplari per la sua meravigliosa abitazione di São Paulo, la Casa de Vidro. Arper nel 2014 l’ha rimessa in produzione in occasione del centenario della nascita dell’artista. Edita in serie limitata, ogni esemplare è numerato e certificato con il placet dell'Istituto Lina Bo e Pietro Maria Bardi. Oltre alla storica versione in pelle nera, sono state realizzate varianti in tessuto in sette colori. 

Di questa poltrona, Lina ha scritto: “Ciò che è nuovo in questo mobile è il fatto che la seduta può muoversi in tutte le direzioni senza alcun mezzo meccanico, solo attraverso la sua forma sferica”.

 

 

Lina Bo Bardi, Bowl chair, 1951. Sopra: disegni di progetto. Sotto: veduta della poltroncina e Lina stessa seduta su uno dei due esemplari realizzati per la sua casa di San Paolo, in una foto di Francisco Albuquerque.


Intanto, nel 1950 aveva fondato con il marito la rivista quadrimestrale Habitat, diretta da entrambi, incentrata sul tema delle arti e della cultura del Brasile e anche sulle sue riflessioni intorno al Modernismo.

Sul fronte dell’architettura, il suo primo progetto di casa unifamiliare risale al 1951 ed è la sua propria abitazione, universalmente nota come Casa de Vidro, come l'avevano battezzata i paulistanos, ovvero gli abitanti di San Paolo, anche se illustri artisti, che vi sono stati ospitati, l'hanno definita nei modi più diversi. Saul Steinberg, ad esempio, preferì chiamarla casa poetica; un poeta locale l’aveva invece denominata vasca per i pesci perché durante la stagione delle piogge tropicali, immersa come è nella foresta, a chi vi si trovava, dava davvero l’impressione di star dentro un acquario; un filosofo amico dei Bardi l'aveva poi soprannominata casa vedetta, per la sua posizione sopraelevata, quasi fosse stata costruita lì, una palafitta a guardia della foresta. 

In questa opera, come poi nel MASP e in molte altre successive, è ben presente anche uno dei motivi predominanti della poetica di Bo Bardi: il rapporto tra natura e architettura, e ciò in forte anticipo sui tempi. Oggi, a distanza di settant'anni dai primi lavori di questa progettista all’avanguardia, la liaison è arrivata ad essere al centro del dibattito culturale chi si occupa di architettura, come ben si evince, ad esempio, dal tema scelto per la XXII Triennale, Broken Nature, così come anche da edifici simbolo, quali il bosco verticale di Stefano Boeri, tanto per citare soltanto casi milanesi, ma nel mondo ve ne sono moltissimi altri. 

Lina Bo Bardi intende la natura wrightianamente, o forse è più giusto dire ‘alla maniera minoica’, visto il suo colto interesse per tutte le stagioni dell'architettura. E così, nei suoi interventi natura e architettura vengono a configurarsi come paritetici scenari del teatro della vita, come spazi comprimari dell’agire umano, in cui nessuno dei due elementi sopravanza o domina l'altro, ma si rapportano tra di loro in modo dialettico, anzi osmotico, se non addirittura transustanziale. 

Oggi, la Casa de Vidroè la sede dell'Istituto Lina Bo e P. M. Bardi.

 

Lina Bo Bardi, Casa de Vidro, 1951, San Paolo, arredata con i mobili da lei progettati.


Bo Bardi tratterà ancora altre volte il tema dell’abitazione monofamiliare, affrontandolo in modi sempre differenti e sorprendenti, come nella quasi fiabesca Casa di Valeria Cirell (1958) o nella Casa do Chame-Chame (1959), purtroppo demolita nel 1984. Uno dei suoi temi prediletti è però quello della casa popolare, in cui si cimenterà a più riprese nel corso della sua vita

 

Rientrata a San Paolo da Salvador de Bahia, dove aveva trascorso alcuni anni, compiendo esperienze lavorative dirette su disparati fronti, dall’urbanistica, alla direzione museale, senza mai rinunciare a progettare architetture, tra il 1977 e il 1986 realizza la sua opera più impegnativa. Si tratta del megaprogetto noto come SESC-Fábrica da Pompéia, un’opera a destino pubblico in cui si inverano tutti i principi nei quali Bo Bardi ha sempre creduto di un'arte e di un'architettura fatte dall’uomo per l'uomo. 

In un’area industriale dismessa realizza infatti un gigantesco centro sociale, ricreativo, culturale e sportivo, con teatri, biblioteche, laboratori fotografici, laboratori per la ceramica e per altre attività artistiche, studi musicali e spazi per la danza, con campi di basket e zone adibite ad altri sport di gruppo.

Dal punto di vista architettonico si tratta di un’opera magniloquente, di grande impatto espressivo, in cui si mescolano, così come avviene anche per le varie attività a cui il luogo è destinato, le citazioni e i riferimenti culturali ai quali questa architettura si ispira: dalle memorie di Sant'Elia, all'architettura costruttivista di El Lissitzky; da Le Corbusier, a Mies van der Rohe; da Terragni a Wright; da Aalto a Gaudì; dalla casa contadina italiana, a quelle della cultura indigena latino-americana, in un meticciato culturale, paratattico e dissonante, di prorompente fascino e di indubbia modernità. Un’architettura libera. Inconfondibile. Impensata. In-conclusa. In divenire. Mitica, anzi, come direbbe Lévi-Strauss, mitopoietica.

D’altra parte, la stessa Bo Bardi, a proposito del tempo, scrive: “Il tempo lineare è un’invenzione dell’Occidente: il tempo non è lineare, è un meraviglioso accavallarsi per cui, in qualsiasi istante, è possibile selezionare punti e inventare soluzioni, senza inizio né fine”. 

Ed è questa dimensione temporale continua a presiedere alle sue architetture, così ricche poi di sorprendenti invenzioni tipologiche, di insuperata modernità, ancora oggi motivo di riflessione e di studio per chi si occupa di questa disciplina. 

 

Lina Bo Bardi, SESC-Fábrica da Pompéia, San Paolo, 1977-1986.


Quella di Lina Bo Bardi è stata soprattutto l’architettura dell'impegno civile, contro ogni moda fine a se stessa, tecnologica o formale che fosse; libera dai dettami di una scuola di pensiero, così come dalle maglie delle consorterie accademiche, sia europee che nordamericane. Un'architettura dell'uomo per l'uomo; moderna e antica (greca e umanistica) allo stesso tempo; popolare (amazzonica, meticcia, afro-latina) e colta; disvelata e misteriosa; originata dallo studio della forma e non generata dai numeri; topologica e non geometrica; artigianale e non industriale; rispettosa delle tradizioni ma anche innovativa; razionale, sì, ma soprattutto evocatrice di poesia.

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Roy Lichtenstein: la creatività nel grande acquario dei cliché

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Mudec, Milano

Perché un'altra mostra su Roy Lichtenstein? Perché per il grande pubblico è la Pop Art per antonomasia: facile, colorata, divertente, positiva, spettacolare, popolare. E non importa se per i critici apocalittici rimane il caso più paradigmatico di «predazione generale sfrenata delle immagini della cultura pop commerciale e pubblicitaria americana» (Marc Fumaroli, Paris-New York e ritorno, Adelphi, 2011). Questa è un'arte ancora oggi di successo e di facile richiamo, un'arte che i mercanti d'aura hanno osannato e l'immaginario collettivo ha fagocitato con voracità. Quei fumetti e quei frammenti di immagini pubblicitarie ingigantiti e dipinti in modo freddo e distaccato, ce li ricordiamo bene. E non c'è niente da capire.

Eppure ci sarebbe molto da capire, perché Lichtenstein ci ha spiattellato davanti agli occhi, e quindi nascosto nel modo più subdolo, una questione che riguarda da vicino la nostra cultura e il senso dell'arte in essa: noi viviamo letteralmente immersi nei cliché. Come si fa ad essere artisti in un mondo di cliché? C'è davvero differenza tra le immagini prodotte da un grafico “creativo” e quelle prodotte da un artista “creatore”? E se sì, qual è? 

 

Nei testi di presentazione della mostra da poco inaugurata al Mudec (Roy Lichtenstein, Multiple Visions, 1 maggio-8 settembre) uno degli aggettivi ricorrenti è “iconico”, usato nel senso di qualcosa che si riconosce immediatamente, un'immagine talmente nota da esser colta in un colpo d'occhio e far scattare automaticamente una serie di associazioni: una tavola di fumetto stilizzata e ingrandita è ri-conosciuta subito come “Pop Art”, “America anni sessanta” e, per i più colti, “un Lichtenstein”. È quel senso di déjà vu che fa dell'icona un'immagine “consumata” e la trasforma in un logo, un brand: un cliché appunto. (Sull'opera di Lichtenstein come «immagine-cliché» è illuminante Hal Foster, Pop Art, Postmedia, 2016).

 

Per cominciare bisognerebbe dunque cercare di disattivare l'effetto-icona che ha colpito pesantemente l'artista-dei-fumetti, come molti altri artisti famosi che sono stati inglobati nell'immaginario mediatico contemporaneo: Picasso, Pollock, Magritte, Dalì, Mondrian, Mirò (per citare alcuni nomi omaggiati dal nostro). Cosa nient'affatto facile nel caso di Lichtenstein, proprio perché tutto il suo lavoro è una parodia dell'immagine mediatica e gioca col paradosso della copia che diventa originale e dell'originale che aspira all'impersonalità della copia. (Un discorso analogo, ma con differenze sostanziali, vale anche per Warhol). 

 

«Riprodurre un Lichtenstein è come ributtare un pesce nell'acqua», ha scritto Richard Hamilton, il precursore inglese della Pop art americana. Oggi però siamo tutti dentro un grande acquario in cui sembra ci siano solo pesci-copia (le stampe firmate e numerate esposte al Mudec, i manifesti della mostra affissi in città, i quadri fotograti milioni di volte e messi in rete... E questo non vale solo per l'artista pop). Eppure c'è stato un momento in cui, a dispetto della sua apparente banalità, Lichtenstein ha pescato qualcosa di veramente sbalorditivo, che oggi non riusciamo più a vedere e sentire. Dobbiamo immaginarcelo, facendo un salto nel tempo e mettendoci nei panni dei frequentatori d'arte moderna a New York, quasi sessant'anni fa.

 

Alla metà del secolo scorso la grande pittura americana, quella che aveva spostato a New York il baricentro del mondo dell'arte, è violentemente espressiva o profondamente metafisica, piena di pathos e drammi individuali, anche se priva di figure. È la pittura di Pollock, de Kooning, Barnett Newman, Kline, Rothko... Altrettanto drammatica e sofferta è la grande arte esistenzialista europea, come quella di Alberto Giacometti e Francis Bacon, esposta al MoMA nel 1959. 

Ci sono poi alcuni giovani rivoluzionari che cercano di spodestare il predominio dell'espressionismo astratto: i più famosi sono Bob Rauschenberg, che accumula detriti di realtà imbrattati di pittura in composizioni caotiche, e Jasper Johns, che dipinge enigmatici bersagli e piatte bandiere americane. Le loro opere suscitano molto scalpore e mettono in crisi l'idea stessa di arte.

Nessuno però avrebbe potuto immaginare un oltraggio più blasfemo di quello che l'appassionato si trova di fronte, nel febbraio del 1962, varcando la soglia della galleria di Leo Castelli: sulle pareti, allestite con tutta la cura riservata ai capolavori, ci sono grandi tele sulle quali campeggiano solo fumetti e frammenti di immagini pubblicitarie, ingigantiti e dipinti coi colori squillanti e piatti della stampa dozzinale. Qui non solo non c'è più traccia di Arte con la maiuscola, ma nemmeno dell'alterità rivoluzionaria dell'arte moderna. Dov'è finita la visionarietà che la eleva al di sopra del banale immaginario quotidiano? La profondità e l'originalità dello sguardo dell'artista? La sua passione incarnata in una forma?

 

La reazione dei critici è dura: banalità e plagio sono le accuse più ricorrenti. Eppure una porta è stata sfondata e una corrente artistica irrompe sulla scena con una rapidità mai vista prima. Come voltando la pagina di un libro pop-up, nel giro di pochi mesi e indipendentemente l'uno dall'altro, assieme a Lichtenstein spuntano fuori (per citare solo i più famosi) Claes Oldenburg, James Rosenquist e infine Andy Warhol, destinato a diventare l'incarnazione più sfacciata e radicale della Pop Art. Le opere di Lichtenstein vengono esposte in varie collettive in tutto il paese e vendono benissimo, anche senza il sostegno di critici o curatori ben disposti. Alla fine del 1962 il MoMA organizza perfino un simposio sulla Pop Art, ma il coro degli addetti ai lavori è pressoché unanime: quella non è arte. (Il museo comunque si accaparra presto un Warhol e un Lichtenstein).

 

Col senno di poi, potremmo dire che lo shock di Lichtenstein non è altro che una variante commerciabile dello shock tentato da Duchamp in quella stessa città trentacinque anni prima con il famigerato orinatoio. Solo che questi sono readymade “fatti a mano”, immagini pronte all'uso ma ridipinte accuratamente. In quei quadri è dunque ben presente la pittura “retinica” aborrita da Duchamp; però è usata nel modo meno artistico, meno emotivo, meno soggettivo: una riproduzione meccanica (almeno apparentemente: in realtà le differenze rispetto agli originali ci sono e non sono irrilevanti).

L'effetto è reso ancora più violento dal fatto che quella tecnica artistica “alta” (la pittura su tela e il quadro con la sua unità formale) è applicata a un soggetto e uno stile “basso” (fumetti, pubblicità e grafica commerciale). Per il mondo dell'arte del tempo è una blasfema introduzione del Kitsch consumistico e commerciale nel recinto sacro dell'arte d'avanguardia, un recinto ben fortificato dal grande sacerdote del modernismo Clement Greenberg col suo Avanguardia e Kitsch del 1939. E il fatto che le opere vendano, non fa che confermare il giudizio di condanna. 

Ma forse c'è una colpa ulteriore. Se l'uso anti-artistico della riproduzione di immagini commerciali è evidente anche in Warhol, in Lichtenstein c'è un ossimoro più urticante: da una parte, una fedeltà piena e consapevole alla tradizione della pittura modernista, con un'attenzione rigorosa alla forma (i colori primari di Mondrian, il contorno marcato dei cubisti, l'insistenza sulla superficie materiale della tela dei minimalisti); dall'altra, una drastica rinuncia a un assunto profondamente radicato in quell'arte: la “creazione” di qualcosa di assolutamente originale, che prima non c'era.

 

 

Il concetto di creazione è antico e impegnativo, impregnato di implicazioni mitologiche e teologiche. Quello di originalità è legato soprattutto all'estetica sette-ottocentesca. Entrambi si fondono nella figura del genio, culmine di quel processo di “sacralizzazione” romantica di cui è ancora impregnato il nostro modo di pensare l'artista. Nel genio si realizza in pieno la grande analogia che fin dall'antichità è stata proiettata sull'abile artefice di immagini: quella col Sommo Creatore, con la sua capacità di far esistere dal nulla qualcosa che prima non esisteva. L'analogia ha assunto varie forme, anche contraddittorie: dalla “divina mania” di Platone alla possessione diabolica di Paganini. 

Col passaggio al Novecento e la nascita della psicoanalisi, l'idea di un'ispirazione soprannaturale ha finito per identificarsi con l'inconscio. La forza trascendente dell'artista-genio, pur rimanendo “altra”, estranea alla coscienza dell'artista, non viene più da fuori, ma è tutta dentro di lui. Quando Pollock dice “Io sono natura”, riecheggia sia la definizione kantiana di genio, sia l'idea junghiana di quella “natura più profonda” dentro di noi, in cui dominano gli archetipi.

Duchamp aveva cercato di sbarazzarsi di questo nucleo mitico; ma i suoi readymade erano troppo lontani dal senso comune. In ogni caso, le avanguardie non avevano mai smesso di creare immagini originali e innovative che si contrapponevano al mondo degli oggetti e delle immagini quotidiane. La loro diversità era una ribellione alle regole delle “belle arti” e rivendicava il suo antagonismo al mondo dell'utile, della decorazione, dell'intrattenimento, del commercio e del filisteismo borghese (il Kitsch di Greenberg).

Ora, invece, ecco un artista che rinuncia alla creazione e spaccia per arte i sottoprodotti visivi della società dei consumi.

 

Per una coincidenza significativa proprio nel momento in cui Lichtenstein sferra il suo pugno in faccia al mondo dell'arte contribuendo all'esplosione della Pop Art, in America comincia ad affermarsi, a partire dal campo della psicologia, un concetto che sembra un aggiornamento “scientifico” della vecchia idea di creazione artistica: la creatività. Nel 1950 Joy Paul Guilford, presidente della American Psychologists Association, inaugura il congresso annuale con una relazione intitolata proprio Creativity, sostenendo che quel tema, fino allora trascurato dagli psicologi, era importante per educare e promuovere lo sviluppo di personalità creative. E due anni dopo Brewster Ghiselin, poeta e accademico, pubblica una fortunata antologia intitolara The Creative Process. A Symposium. Da allora la “creatività” è dilagata nella cultura americana, trovando terreno fertile nell'età d'oro della pubblicità, e poi in tutto il mondo, diventando la parola feticcio che conosciamo oggi (Stefano Bartezzaghi, Il falò delle novità, Utet, 2012).

Il concetto è troppo vago e ambivalente per non generare una matassa ingarbugliata di definizioni. Tutte comunque concordano su un'idea di fondo: in quanto disposizione, potenzialità che precede il risultato effettivo, la creatività è una dotazione psicologica comune a tutti gli individui; e può essere sviluppata favorendo certi fattori ambientali ed educativi. (Un'esauriente introduzione al tema della creatività è La trama lucente di Annamaria Testa, Rizzoli, 2010.)

 

All'inizio degli anni sessanta questa idea trova una perfetta sintonia col manifesto estetico-politico di un gruppo eterogeneo di artisti che si riconoscono nel movimento Fluxus: “Tutto è arte e chiunque la può fare”. I loro nomi non hanno mai raggiunto neanche lontanamente la fama degli artisti pop (tranne il tedesco Joseph Beuys, che è una figura a sé). Quasi tutti però hanno subito, più o meno direttamente, l'influenza di un mentore celeberrimo che è uno dei grandi punti di catastrofe del Novecento: John Cage, il quale a sua volta ha tra i suoi mentori Marcel Duchamp (su Duchamp, Cage e gli altri “punti di catastrofe” mi permetto di rimandare al mio Catastrofi d'arte, Johan&Levi, 2019). 

Nel 1956 Cage inizia a insegnare alla New School of Social Research a New York. Il corso si chiama “composizione sperimentale”, ma per Cage la musica è solo uno dei modi di declinare il fare artistico: il suo intento esplicito è quello di stimolare a cambiare il modo di fare le cose, di giocare col cambiamento. Chiede ad esempio di disegnare qualcosa che possa servire come partitura musicale e poi invita qualcun altro (come succede a George Segal, il futuro scultore pop dei calchi bianchi) a cantare improvvisando su quel disegno. Oggi si direbbe un corso di creatività. Tra i suoi allievi c'è Allan Kaprow, l'inventore degli happening, che insegna alla Rutgers University, vicino a New York, dove bazzicano altri allievi di Cage e futuri esponenti di Fluxus.

 

 

E proprio alla Rutgers University, nella primavera del 1960, arriva come assistente il trentaseienne Roy Lichtenstein. Il suo percorso fino ad allora era stato tutt'altro che rivoluzionario: dopo aver studiato arte alla Ohio State University, aveva cominciato seguendo le orme dei maestri del modernismo (Klee, Picasso e i cubisti soprattutto) con lavori che traducevano i loro stilemi in rivisitazioni di temi della cultura popolare americana. Era poi passato all'astrazione pura sulla scia degli espressionisti astratti. Alla Rutgers si trova improvvisamente in contatto col gruppo di “creativi” che, stimolati da Cage, stanno rompendo tutti i limiti. Partecipa anche ai primi happening di Kaprow, apprendendo da lui l'idea che «l'arte non deve sembrare arte». Ed è lì che raggiunge il suo personale punto di catastrofe: il suo primo dipinto pop, Look Mickey, nasce nel giugno del 1961. Nell'autunno Kaprow gli organizza l'incontro da Castelli, che fiuta la novità esplosiva e lo lancia.

 

Ovviamente l'opera di Lichtenstein non ha niente a che vedere con quelle degli artisti di Fluxus, in cui domina il concettualismo duchampiano, l'utopia cageana della vita come arte e uno spirito violentemente anti-commerciale. Ma è indubbio che il contatto con quel punto di catastrofe abbia contribuito alla nascita dell'immagine-cliché. E mette in evidenza come l'invenzione di Lichtenstein sia dovuta anche – e forse soprattutto – a quella ristrutturazione concettuale che per i teorici della Gestalt rappresenta il culmine del processo creativo.

 

Se questo è vero, allora la blasfema rinuncia alla profondità della “creazione” artistica può essere invece vista come una sua sostituzione con una diversa idea di “creatività”. 

Purtroppo, il successo e l'abuso di questa parola nella cultura di massa ha alimentato una reazione di rigetto, soprattutto nel mondo degli artisti. Ai loro occhi è colpevole di una duplice connivenza col “nemico”: con la comunicazione pubblicitaria, settore in cui il termine ha ricevuto una specie di imprinting tecnico, e col mondo imprenditoriale in generale, che l'ha adottato con entusiasmo apologetico. Con quest'ombra negativa, la creatività che prende il potere in nome dell'arte per tutti e di tutti finisce per risultare generica, superficiale e brillante come una trovata pubblicitaria. 

 

In un libro dedicato a Picasso (Il demone di Picasso, Quodlibet, 2017), Gabriele Guercio parla proprio di «creatività generica» definendola come l'«indistinzione, potenziale e programmatica, tra arte e non arte», una «libertà illimitata di scelta» che «acutizza l'ansia di produrre (e) rende incapaci di decidere di fronte all'illimitatezza delle opzioni». A suo parere costituisce un vero e proprio nuovo «paradigma» nella storia dell'arte occidentale, la cui apparizione risalirebbe a un bizzarro esperimento che Picasso realizza nel suo studio nel 1913. Ma la definizione calza a pennello al fermento generato intorno al 1960 dai batteri seminati da Cage e Duchamp. 

Come antidoto a questa creatività generica, che si sarebbe impossessata di tanta arte contemporanea, egli propone una «creazione ex nihilo», smarcata però dalle tradizionali implicazioni teologiche o mitologiche e definita variamente come «qualcosa di originale e originario, senza condizioni, genealogie o radici accertabili», «stupefacente manifestarsi di qualcosa che prima non c'era», «surplus d'essere» che ha «il senso di un'origine ignota». 

Ed è ancora Picasso, secondo Guercio, a offrire questo antidoto: quando dice che la sua arte è il risultato di un “trovare” e non di un “cercare”, ed esprime «quello che la natura nonè», intuisce che «l'ex nihilo arriva quando ci si arrende alla contingenza e alla pura casualità. Cercare implica supposizioni e calcoli. Il trovare occorre senza causa o ragioni accertabili. Attiene a tutto quanto nonè natura, non segue una supposta regolarità di cause ed effetti» 

 

Questo cercare contrapposto al trovare richiama sia lo sperimentalismo continuo sollecitato da Cage e messo in pratica dagli artisti di Fluxus, sia quell'idea di creatività che gli psicologi americani individuano in tutti i campi dell'innovazione scientifica e artistica. È dunque questa sperimentazione creativa basata su una progettualità, uno scopo, un problema da risolvere partendo da elementi esistenti, ciò a cui si dovrebbe opporre la creazione come irruzione improvvisa del nuovo.

A ben vedere, però, la contrapposizione è artificiosa e inconsistente. Anche il trovare presuppone infatti uno sfondo di aspettative, come dimostra il fenomeno della serendipity. Perché l’incontro casuale diventi fortunato, cioè “serendipico”, non basta il caso: ci vuole anche un occhio attento che lo noti, un occhio che, attingendo intuitivamente a un vasto serbatoio mnemonico di esperienze, riconfiguri in modo nuovo un vecchio schema e riconosca la tessera mancante del puzzle. Il trovare non dipende da una lacuna nell'ordine naturale delle cose, ma dall’intuizione improvvisa di una mente preparata e attenta che stava cercando qualcosa (anche se altro). 

Per un artista quel serbatoio è riempito di vita e di storia dell'arte. Entrambe sono uno sfondo fatto di elementi esistenti e anche di schemi e regole, da seguire, rompere o reinventare. Per questo lo slogan “Tutto è arte e chiunque la può fare” rimane un'utopia e proietta un'immagine del tutto fuorviante – un altro cliché – sull'arte contemporanea e sulla sua creatività tutt'altro che facile e generica. (Se intesa con attenzione e discernimento, l'arte di Fluxus, come pure molta Pop art, non è affatto popolare).

 

 

A questo punto possiamo riprendere la domanda dell'inizio: come si fa ad essere artisti in un mondo in cui tutte le immagini sono continuamente ri-prodotte e sembra non esserci alcuna possibilità di distinguere tra un grafico “creativo” e un artista “creatore”?

La risposta di Lichtenstein è stata una semplice, rigorosa e paradossale riconfigurazione del problema: anziché uscire dal mondo dei cliché, lo ha dipinto in tutta la sua piattezza asettica, impersonale e anaffettiva, rendendolo assoluto, formalmente impeccabile e spettacolare. 

 

Lo si vede bene nelle parole con cui Roy racconta a David Sylvester com'è nato il suo primo “fumetto” pop (Interviste con artisti americani, Castelvecchi, 2012; traduzione modificata in alcuni punti). In quel periodo stava facendo una specie di Espressionismo astratto usando anche i fumetti, e improvvisamente gli viene l'idea di dipingere un fumetto senza alcuna apparente alterazione:

 «Ne ho parlato, c'ho pensato su un po' e poi ne ho fatto uno con intenzioni quasi serie per vedere come veniva. Mentre lo dipingevo ha cominciato a interessarmi l'idea di organizzarlo pittoricamente, di portarlo a una specie di dichiarazione d'intenti estetica, a cui non avevo pensato all'inizio. Poi sono tornato al mio modo precedente di dipingere, che era più astratto. […] Ma avevo lì nello studio questo dipinto del fumetto, ed era incredibile. Non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso». 

Quello che lo attrae è...

 «l'impressionante qualità dello stereotipo visivo e il senso del cliché, il fatto che un occhio si debba disegnare in un certo modo […] Erano idee del tutto antitetiche a quelle che erano la base dell'arte all'epoca. E la cosa ha cominciato a emozionarmi».

Poi spiega come il suo lavoro punta a enfatizzare l'aspetto di cliché attraverso cambiamenti minimi ma essenziali, e allo stesso tempo cerca di dare un ordine e un senso estetico agli elementi formali (dimensione, posizione, colore) che mancano alle immagini originali:

«Io sono interessato a quelli che normalmente verrebbero considerati gli aspetti peggiori dell'arte commerciale, alla tensione fra ciò che sembra così rigido e stereotipato e il fatto che l'arte non può essere così. […] È la qualità altamente restrittiva dell'arte che mi interessa. E il cliché – il fatto che un naso sia disegnato in un certo modo – fa parte dello stesso tipo di restrizioni che aggiungono tensione al dipinto.»

«Non è un problema puramente formale […] lo faccio per stabilire un archetipo nel modo più rigoroso possibile. C'è una specie di epifania, quando questo si realizza. […] il fumetto ingrandito di per sé non farebbe nulla; sarebbe una specie di presa in giro. Ma quando centri sia la forma che questo modo di disegnare per cliché, allora hai in mano qualcosa. 

Penso davvero che in questo c'entri Picasso. Anche se sapeva fare qualsiasi variazione su qualsiasi tipo di occhio o orecchio o testa, ce ne sono alcune potentissime e fortissime per il simbolismo che utilizzava. [...] È quello che sto cercando di fare».

«È molto diverso dal tipo di lavoro che facevo prima, (che) era l'opposto del cliché; per cui è stato una specie di processo di apprendimento per me. Credo che l'idea non sia tanto di sconcertare gli altri quanto di pormi un problema interessante da risolvere. Forse è interessante perché è così diverso da quello che mi hanno insegnato a fare».

 

È molto significativo lo stretto rapporto che Lichtenstein sente con Picasso, l'artista che per Guercio ha saputo meglio contrastare la «creatività generica» con la sua «creazione ex nihilo». Guardandolo al lavoro nel 1956, in quello straordinario pezzo di cinema che è Il mistero Picasso di Henri-Georges Clouzot, si vede bene come anche lui lavorasse attorno ai suoi stessi cliché. La maestria e la straodinaria capacità eidetica è sempre dissimulata dall'immediatezza e ingenuità della figurazione, che sembra conservare la magia del tratto infantile. Ma è una magia “ricostruita” grazie alla sintesi efficace del disegnatore esperto, che utilizza elementi stilistici del suo repertorio (i propri cliché) e li varia e li adatta lasciandosi guidare anche dagli “errori”, come un'improvvisatore jazz.

 

Quando Roy “lichtesteinizza” Picasso (nelle serie di omaggi ai suoi artisti di riferimento, ben presente anche nelle stampe esposte al Mudec) rende evidente che non soltanto i fumetti, ma anche l'Arte con la maiuscola si basa in fondo su cliché. E così facendo degrada l'arte e allo stesso tempo, paradossalmente, la trasforma creativamente in un’arte al quadrato. «È un modo per dire che in realtà Picasso è un fumettista», dice Lichtenstein. «Penso sia un modo per rendere i cliché presenti in Picasso ancora più stereotipati, un modo per riaffermarli ma anche di non farne dei cliché».

 

 

Tra la creatività di Lichtenstein e quella di Picasso ovviamente c'è una differenza importante, che il film di Clouzot ci mostra. A un certo punto Picasso dice che i dipinti fatti fino a quel punto erano «un po' superficiali» e che vuole andare «più in profondità», prendendosi più rischi. Per «mostrare i quadri che ci sono sotto i quadri» deve dipingere veramente, coi colori a olio su tela e con tutto il tempo necessario, mentre fino a quel momento aveva lavorato col pennarello e i colori a inchiostro. La metafora spaziale della profondità appare allora in tutta la sua evidenza: quasi ogni fase è un'opera che viene sostituita in parte o in tutto da una nuova opera, ma la forma precedente rimane sul fondo e lascia la sua impronta, a volte quasi soltanto il suo fantasma, che si sente pulsare sotto strati e strati. È una continua metamorfosi, come se l'opera fosse un organismo vivente che si evolve nel tempo; tempo dell'opera e tempo di vita dell'artista, legati in un lungo amplesso.  

 

Questa lotta erotica con l'immagine è una creatività tipica dell'arte nel paradigma moderno. La riconfigurazione concettuale del cliché è una creatività tipica dell'arte nel paradigma contemporaneo. In un certo senso anche Lichtenstein ha lottato con l’idea della sua prima immagine pop. Il suo limite, forse, è che, diversamente da Picasso, ha lottato veramente solo una volta. Come sembra dire il suo ironico Selfportrait del 1978, con uno specchio da fumetto al posto della testa e una maglietta da fumetto al posto del corpo, ha inventato l'arte dell'immagine cliché e ne è rimasto felicemente vittima per tutta la vita, giocando sulle sue infinite variazioni.  

Oggi i suoi pesci nuotano nel grande acquario della mediasfera.

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Biennale: contraddizioni latinoamericane

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Opera illustre del genio modernista di Carlo Scarpa inaugurata nel 1956, il padiglione del Venezuela si presentava durante la vernice della 58esima Biennale di Venezia con l’ingresso sbarrato e ingombro di spazzatura, in apparente stato di abbandono. I visitatori, ignari della chiusura, si avvicinavano chiedendosi se quei rifiuti non fossero proprio l’opera in mostra, magari un tributo a una certa estetica poverista che sembra non passare mai di moda. Sono state invece le agitazioni politiche che tormentano il paese sudamericano e l’agonia del regime chavista capeggiato da Nicolás Maduro ad aver ritardato l’apertura del padiglione curato da Oscar Sotillo, poi inaugurato il 19 maggio con i lavori degli artisti Natalie Rocha Capiello, Ricardo Garcia, Gabriel López and Nelson Rangelosky. L’assenza temporanea del Venezuela è diventata così paradossalmente lo statement politico più forte tra i padiglioni latinoamericani, che in questa edizione della Biennale curata da Ralph Rugoff peccano per la mancanza di spessore sia dei temi trattati che degli allestimenti, in cui la molteplicità di rimandi intertestuali “affatica” le opere in mostra. L’inevitabile confusione linguistica che ne deriva maschera in effetti la perdita di un qualsiasi coinvolgimento politico autentico, sia pure spesso dichiarato in forme sin troppo esplicite. Un surplus di significanti che denuncia un vuoto di significati e di idee.

 

In questo panorama poco entusiasmante fa forse eccezione il solo padiglione del Brasile, che con Swinguerra propone un’analisi estetica e antropologica della regione a nord del grande paese sudamericano. Commissionato dal curatore Gabriel Pérez Barreiro – già direttore della collezione Patricia Phelps de Cisneros, una delle più importanti di tutta la regione, e curatore della 33esima Biennale di San Paolo (2018) –, Swinguerraè una doppia videoproiezione opera degli artisti Bárbara Wagner e Benjamin de Burca (1980; 1975). Wagner è di Brasilia ma ha studiato al Dutch Art Institut di Arnheim, in Olanda, mentre de Burca, nato a Monaco di Baviera, ha frequentato la Glasgow School of Art e l’università dell’Ulster; i due hanno iniziato a lavorare insieme nel 2015 con l’opera audiovisiva Faz que vai. Proprio in questa occasione Wagner e de Burca sono venuti in contatto con le comunità di swingueira di Recife, la città in cui è nata come genere di danza popolare in cui gruppi costituiti da dieci fino a cinquanta persone si sfidano in competizioni annuali. Come spiega Bárbara Wagner “La swingueira è una sorta di aggiornamento di una serie di tradizioni come la quadriglia, la scuola di samba e il trio elettrico, praticate in modo indipendente dai giovani che si incontrano regolarmente negli spazi sportivi alla periferia di Recife. È un fenomeno che nasce dall’esigenza di integrazione sociale, si snoda attraverso l’esperienza dell’identità e arriva sul palco e su Instagram come una forma di spettacolo alimentato dal mainstream, ma che sopravvive assolutamente al di fuori di esso”.  

 

Nei video, preceduti da una serie di fotografie dei partecipanti, tre gruppi – uno di swingueira, un altro di brega e uno di batidão de Maloka (due generi musicali imparentati con il reggae) – composti per lo più da adolescenti di colore, si sfidano su ritmi di musica hip-hop con testi che testimoniano invariabilmente l’imperante forma mentis machista e i suoi pregiudizi misogini, ma che nel complesso documentano un fenomeno, spiega ancora Wagner, che sembra marginale ma che occupa un ruolo centrale nella società brasiliana contemporanea. La danza costituisce un tratto distintivo della cultura brasiliana: i gruppi di swingueira raccolgono ciò che rimane di questa tradizione e del suo aspetto identitario contaminandolo con nuove forme culturali influenzate dalla predominante cultura mediatica globale. Non manca una riflessione sulle questioni di classe – i piedi scalzi e sporchi, l’aspetto esageratamente pop dei vestiti, la desolazione della periferia urbana – e di genere: i corpi sinuosi dei ballerini spesso sfuggono a questa definizione, aggiungendo a una molteplicità di forme culturali, un aspetto sessuale ibrido. Un tratto in comune con l’opera del brasiliano Hélio Oiticica, che già mostrava una fascinazione per la marginalità queer.

 

Bárbara Wagner & Benjamin de Burca, Swinguerra, 2019.


Proprio nel tentativo di rendere visibile la condizione emarginata delle bidonville di Rio, nel 1964 Oiticica crea i suoi primi Parangolés, vesti di materiali “poveri” di vario genere fatti indossare a ballerini di Samba provenienti dalla favela di Mangueira. I Parangolés rifiutano categorizzazioni di genere e di media, attuando una fusione tra corpo, pittura, architettura, danza, linguaggio e musica. Non sono oggetti statici ma aventi qualità performative; la danza che ne emerge ricorda i movimenti serpentini di Annabelle Moore, immortalati dai fratelli Lumiére all’inizio del secolo. In questo lavoro, Oiticica si propone di trasformare il ruolo dello spettatore in quello di “partecipante”; e coerentemente con l’idea di “morte dell’autore” reclamata da Roland Barthes negli anni Sessanta, propone la trasformazione dell’artista in “istigatore alla creazione”. Lo spettatore diventa così partecipe di una collettività unitaria, apparentemente realizzando l’utopia tardo-modernista del rifiuto di un’esperienza puramente estetica in favore di un coinvolgimento tout-court del pubblico. L’opera prospetta la nascita di una identità collettiva potenzialmente capace di superare differenze di etnie e di genere. Al pari dei Parangolés, Swinguerra vuole insistere sulla messa in scena di una pluralità di voci e sull’aspetto collaborativo con le comunità della periferia di Recife alla base del progetto. Ma la staticità degli scatti che immortalano le prove dei ballerini e la qualità stessa dell’opera – un po’ troppo ricalcata sullo stile dei video musicali della fine degli anni Novanta– rischiano di ridurre un progetto promettente all’istantanea letterale di un fenomeno che tradisce un approccio etnografico assai convenzionale. 

 

Nel testo Contro il vizio interpretativo che accompagna la mostra nel padiglione dell’Argentina la curatrice Florencia Battiti si interroga a sua volta sulla possibilità di fornire una risposta alla “povertà ideologica” che caratterizza la contemporaneità attraverso il progetto poetico di Mariana Telleria El nombre de un país, famosa per le installazioni e gli interventi volti a ri-concettualizzare la “cosa pubblica”, come nel caso di Les noches de los días (2014), in cui l’artista dipinge di nero la facciata del museo Juan B. Castagnino di Rosario, o Dios es un inmigrante (2017), nell’area dove sorgeva l’Albergo degli Immigranti a Buenos Aires, oggi Museo dell’Immigrazione e Centro di Arte Contemporanea dell’UNTREF. Nel primo caso, il tentativo di occultamento, di far sparire il museo dalla “trama” urbana della città, lo rende ancora più visibile, generando polemiche sia tra il pubblico che nella giunta comunale; nel secondo, alberi maestri di barche a vela vengono disposti fino a formare delle croci sovrapposte: un’installazione in situ, che raggiunge il significato desiderato solo nel luogo per cui è stata concepita, al di fuori dello spazio museale. Al contrario, nel padiglione della Biennale, Telleria (1979) rivendica l’assenza di significati predefiniti della sua installazione, e sembra praticare una esplicita dialettica di resistenza alla significazione,. Un approccio che richiama alla lontana la polemica anti-estetica rivendicata da tanti artisti tardo-modernisti, per cui un oggetto artistico è tale in quanto semplicemente è; l’essere acquista la doppia natura ambivalente di significante e significato. A Venezia, Telleria costruisce un’atmosfera cupa, in cui tronchi d’albero che sfidano lo spazio e sono fiancheggiati da colonne di specchi si vestono di ipertrofici materiali eterogenei: frammenti di macchine smantellate, tessuti, mobili, pneumatici, spine, medaglie, cornici di quadri a forma di croci, e così via. Un accumulo indiscriminato di materiali che sembra richiamare i colchones colorati (dal 1962 in poi) dell’argentina Marta Minujin – installazioni di materassi ready-made – ma che manca dell’intrinseco aspetto partecipativo e dei riferimenti all’erotismo, all’intimità e al corpo. 

 

I mostruosi assemblages di Telleria sono evidentemente costituiti da oggetti trasferiti dal loro contesto originario. E tuttavia questa deterritorializzazione, l’oggettualità volutamente ‘sporca’, caotica, la presunta assenza di significati non fanno altro che generare un grande pasticciaccio iconografico – accomunando il padiglione argentino a molti altri in questa Biennale – che finisce ironicamente per ribadire proprio quella mancanza di spessore politico cui si cercava di far fronte in primo luogo. Una processione di sculture monumentali in cui si affaccia, con rinnovata vitalità, una abusata estetica del trash, una forma di estetizzazione del rifiuto che non smette mai di mietere vittime anche tra artisti delle generazioni più giovani, per i quali fallisce in anticipo il gioco di matrice dada di creazione dell’inaspettato. 

 

Pastiche verbo-visuale è quello che sembra caratterizzare anche il padiglione del Perú curato da Gustavo Buntinx, in cui viene presentato Indios Antropófagos, un progetto di Christian Bendeyán (1973). L’opera si propone di richiamare l’attenzione sulla regione amazzonica di cui è l’artista è originario, sui suoi simboli, le sue tradizioni e mescolanze culturali; “un’esplorazione post-concettuale dell’impatto sensoriale della cultura amazzonica su determinati orizzonti neobarocchi dell’arte contemporanea peruviana”, come la definisce il curatore. Il titolo rinvia a una terminologia poco nota in Italia ma ormai abusata in ambito latino-americano, quella appunto di “antropofagia”. Le origini della fortuna di questo termine risalgono al 1928, quando il poeta Oswald de Andrade scrive il Manifesto Antropófago, testo cruciale in cui vengono delineate le caratteristiche peculiari del modernismo brasiliano. Pubblicato nelle pagine del Jornal do Brasil, il manifesto era accompagnato dalla riproduzione di un’opera di Tarsilia do Amaral, Abaporu (1928), che in tupi-guarani significa l’uomo cannibale. È proprio l’iconografia ideata da Tarsilia – una figura con gambe e braccia allungate che si staglia su un essenziale paesaggio tropicale – in cui temi indigeni si mischiano a stilemi desunti da Picasso e Leger, a ispirare il manifesto antropofago. De Andrade rivendica al modernismo brasiliano un atteggiamento cannibale: la vorace ingestione di tratti stilistici internazionali che vanno a mescolarsi con la cultura autoctona è l’unica strategia capace, secondo de Andrade, di creare un’arte moderna brasiliana che sia al pari delle avanguardie europee. 

 

E tuttavia, quello che vorrebbe essere un inno alla mestizaje (“meticciato”), resa attraverso la combinazione di stilemi e riferimenti eterogenei, nel padiglione peruviano si trasforma nell’apoteosi del kitsch: in una delle opere di Bendeyán, un quadro di grande formato dipinto a colori sgargianti, Indios Antropófagos, Río Amazonas (Perú), un gruppo, un “trenino” di donne di etnia india circondate da una vegetazione lussureggiante si staglia su una casa coloniale, un night club di Quito, come si legge sull’insegna. Le donne, con il corpo tatuato di simboli tribali, hanno in mano delle lance colorate; una di loro si fa un selfie, le altre assumono pose lascive e guardano ammiccanti verso lo spettatore. Similmente, l’opera Fila India (Recuerdos de Iquitos), adotta la stessa costruzione iconografica e lo stesso stile pop, ma utilizzando azulejos, piastrelle di ceramica importate dall’Europa - un dettaglio che enfatizza lo stratagemma ‘cannibale’, idea chiave di tutto il padiglione. In questo preludio orgiastico sembra che l’aspetto antropofagico sia andato ad intaccare il piano socio-culturale, lasciando quello stilistico ed estetico alla mercé del caso e del cattivo gusto. Ma non era kitsch indiscriminato da cartellone pubblicitario quello che de Andrade prescriveva come strategia di creazione di un’arte nativa ma moderna, e viene da chiedersi perché la contemporaneità dell’arte latinoamericana senta ancora il bisogno di rifugiarsi nelle idee moderniste degli anni trenta, che non mancarono di raccogliere nuova linfa vitale a partire dagli anni sessanta, ma che oggi patiscono una trasformazione manierista data dall’usura del tempo. 

 

I concetti, altrettanto abusati, di “egemonia”, “subalternità” ed “emancipazione” sono invece le idee chiave di Altered Views, l’opera di Voluspa Jarpa nel padiglione del Chile (curato da Augustín Pérez Rubio), che sembra non aggiungere stimoli interessanti se l’ulteriore insistenza su una presunta (auto)marginalizzazione dell’arte contemporanea latinoamericana. una retorica che poteva forse funzionare come strategia di differenziazione negli anni Novanta-inizi Duemila – si pensi al discorso critico sviluppato da Mari Carmen Ramírez in occasione della mostra Inverted Utopias, del 2004 – ma che ora non basta a stimolare una produzione davvero originale.

 

Da questo panorama peraltro solo parziale dei padiglioni sudamericani di questa edizione della Biennale, emergono dunque numerose contraddizioni. L’argentina Telleria rifugge un approccio troppo esplicitamente politico solo per ricadere nel vuoto di contenuto, che nonostante le pretese, non giustifica la presenza di significanti eterogenei, del caos materiale del suo lavoro. Bendeyán nasconde un’individualità artistica mascherandosi dietro un pastiche di retoriche ormai consumate. I soli Wagner e de Burca sembrano capaci di interpretare lo scenario contemporaneo enfatizzando il contesto storico e sociale dell’opera – che lo spettatore lo vorrebbe vedere in maniera più convincente, ma non se ne può negare la presenza – contaminato con la cultura mainstream e l’estetica kitsch contemporanea. Il duo artistico brasiliano sembra in effetti il solo in grado di conservare un equilibrio tra la necessità di interrogare i conflitti dell’attualità e quella di conservare alla ricerca artistica un proprio spazio di discorso e di azione.

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La vera storia della Sala delle Asse

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Milano celebra il quinto centenario della morte di Leonardo da Vinci (1452 - 1519) con una serie di eventi, dal titolo Milano Leonardo 500 (maggio 2019/gennaio 2020) che, oltre al Museo nazionale della scienza e della tecnologia a lui dedicato, investono i vari capolavori che l’artista ha lasciato alla città, alcuni dei quali amovibili, come, ad esempio, i disegni contenuti nel Codice Trivulziano e nel Codice Atlantico e il ritratto di musico dell’Ambrosiana, e altri inamovibili, quali le pitture murali del Cenacolo in Santa Maria delle Grazie e quelle della Sala delle Asse al Castello sforzesco.

A proposito di quest’ultima, sono molte le storie interessanti che la riguardano, a partire da quella circa il suo nome. Nei documenti del Carteggio Visconteo Sforzesco (1282 - sec. XVII), conservato presso l’Archivio di Stato di Milano, essa è definita Camera Grande, per via delle sue dimensioni. Era infatti la stanza più ampia del castello, per tale ragione Ludovico il Moro (riscattandola dalla destinazione di Sala della Falconeria, voluta dal precedente duca, suo fratello Galeazzo Maria, appassionato di caccia al falcone) l’aveva adibita a sala delle udienze, in cui venivano ricevuti gli ambasciatori degli altri stati e si tenevano riunioni a carattere politico oppure concernenti le questioni della città. Sebbene essa sia ubicata nella torre nord, faceva comunque parte dell’appartamento ducale, ad esso collegata in quanto luogo di rappresentanza. Proprio in virtù di questa sua destinazione, doveva quindi simboleggiare anche nelle decorazioni la magnificenza del signore di Milano: Ludovico Maria Sforza, uno dei più potenti del suo tempo, a capo di un territorio tra i più ricchi del mondo.

 

Non è dunque un caso se Leonardo da Vinci, quando, nel 1482, dovette abbandonare Firenze, fra i tanti stati e staterelli dell’Italia disunita, scelse proprio Milano. Nella lettera di autopresentazione che indirizzò al Moro declinò le sue molteplici attitudini e capacità, che lo Sforza, accogliendolo, impiegò tutte quante, nessuna esclusa, dall’urbanistica, all’architettura; dall’ingegneria idraulica, a quella meccanica, fino all'arte bellica; dalla scultura, alla musica; dall'organizzazione di feste, alla moda, alla cucina e, naturalmente, alla pittura. Finito il Cenacolo e la Vergine delle Rocce (dipinta per la perduta chiesa di San Francesco Grande e oggi purtroppo non più a Milano) lo incaricò quindi di dipingere il luogo diplomaticamente più importante del ducato: la sala delle udienze. 

 

Dalla Camera Grande alla Camera dei moroni

 

Sulla sua volta, su una superficie di 400 metri quadrati, il maestro toscano andò a dipingere degli strepitosi intrecci di piante di gelso, e non già (e non solo) per l’amore scientifico che egli aveva nei confronti dello studio della natura, quanto, piuttosto in omaggio a Ludovico Maria Sforza, altrimenti detto 'il Moro'.

Questo soprannome, era derivato al signore di Milano non tanto (e non solo) dal colore scuro della sua pelle (che cosa mai sarebbe importato a uno degli uomini più intelligenti e potenti dell’orbe terracqueo del farsi chiamare con un epiteto allusivo al proprio aspetto fisico? E che gliene caleva poi ai suoi sudditi, che da lui si aspettavano un buon governo che portasse ricchezza materiale, della cromia della pigmentazione della sua epidermide?), ma per il grande interesse “imprenditoriale” da lui mostrato nei confronti delle piante di gelso, in dialetto milanese murùn, o moròn, a seconda della località, termine direttamente derivato dal latino morus

 

Milano, Castello sforzesco, Sala delle Asse come si presenta oggi ai visitatori di Milano Leonardo 500.


Bisogna infatti ricordare che Ludovico il Moro aveva grandemente potenziato l’industria serica milanese (introdotta dai Visconti) che, sotto il suo illuminato dominio, raggiunse apici mai toccati in precedenza. I tessuti milanesi auro-serici erano molto ricercati da tutti i signori d’Europa per la brillantezza dei colori e per la preziosità dei decori e portavano alla città un ingente volume di affari con il conseguente benessere diffuso. Siccome i bachi da seta si nutrono di foglie di gelso, ecco allora che, per potenziare l'industria manifatturiera della seta, era necessario incentivare la coltivazione dei murun. Ludovico Sforza era talmente patito dei gelsi, da aver voluto addirittura inserire l’immagine della sua tipica foglia nel proprio stemma gentilizio. Ciò detto, non risulta difficile comprendere la scelta simbolica operata da Leonardo di dipingere intrecci di gelso sulla volta della Camera Granda, che “rappresentassero" in effigie il Moro.

L’interesse incondizionato di Ludovico Maria Sforza per la seta e per i murùn indusse inoltre l’artista fiorentino, per compiacerlo, a dare il proprio contributo nel raffinare la produzione dei tessuti milanesi, sia nella tecnica, che nel progetto. A tale proposito, nel Codice Atlantico, è contenuto il disegno di un telaio meccanico, insieme ad altri di strumenti per la filatura e la torcitura della seta e c’è addirittura il progetto di un motivo decorativo per un panno di seta, con annotazioni tecniche sulla sua tessitura.

Dopo l’intervento di Leonardo, il popolo di Milano cambiò nome alla sala delle udienze, che da CameraGranda fu detta Camera dei moroni. E tale definizione dovette essere grandemente in uso, se persino Luca Pacioli, a quel tempo ospite del Moro, in un passo del De Divina Proportione, fa riferimento a una riunione tenutasi lì nel 1498, per discutere del tiburio del duomo di Milano, con queste parole:

«…a certi propositi del domo de Milano, nel 1498, siando nella sua inexpugnabile arce nella camera detta «de’ moroni», ala presentia delo excellente Domino de quello Ludovico Maria Sforza, con lo Reverendissimo Cardinale Hipolyto da Este suo cognato, lo illustre Signore Galeazzo Sanseverino mio peculiar patrone e molti altri famosissimi, comme acade in cospecto de simili, fra gli altri lo eximio utriusque iuris doctore e conte e cavalie[r]i Meser Onofrio de Paganini da Brescia detto da Ceveli, il qual ibi coram egregiamente exponendola, tutti li astanti a grandissima affectione del nostro Vitruvio indusse, nelle cui opere parea che a cunabulis fosse instructo». (Luca Pacioli, De Divina Proportione, Venezia, Paganino Paganini, 1509)

 

Tra i rami di questa selva campeggiano anche molte gasse d’amante dorate, messe lì da Leonardo per celebrare il legame nuziale stretto nel 1491 tra il casato degli Sforza e quello dei d’Este con il matrimonio fra Ludovico Maria e Beatrice. Sulle pareti nord e ovest, poi, il maestro ha disegnato in monocromo radici e rocce così fedeli al vero visibile come mai se ne erano vedute prima.

 

Milano, Castello sforzesco, Sala delle Asse. A sinistra: i lavori di restauro ai monocromi leonardeschi delle pareti. A destra: dettaglio.


Poiché i lavori d’esecuzione si sono protratti più a lungo dei cinque mesi previsti all'inizio (dal momento che Leonardo aveva deciso di ritrarvi anche delle vedute di Milano e trascorreva di conseguenza molto tempo in giro per la città a prendere appunti sul suo taccuino), essi sono stati giocoforza frequentemente interrotti dalle urgenze di stato che di volta in volta richiedevano l’utilizzo della Camera. E, come risulta dai carteggi, anche in quelle occasioni, come già in altre, era toccato al camerario del duca, Gualtiero Bascapè, di sedare gli accessi d’ira dell’illustre pittore, facendo ricorso a quella diplomazia per cui andava giustamente famoso. È stato proprio lui a scrivere questa lettera al Moro:

 “A la saleta negra non si perde tempo. Lunedì si desarmarà la camera grande da le asse, cioè da la tore. Magistro Leonardo promete finirla per tuto Septembre, et che per questo si potrà etiam goldere: perché li ponti ch’el farà lasarano vacuo de soto per tuto”. 

Il che significa che Lonardo per dipingere la volta, dopo aver liberato le pareti che il precedente duca, Galeazzo Maria, aveva voluto “foderate de asse” (ASM, lettera di Bartolomeo Gadio a Gian Galeazzo Sforza, 2 aprile 1473) deve aver montato degli speciali ponteggi che non invadevano tutta l'area sottostante così da consentire a chi lo volesse di ammirare il suo lavoro e magari anche di tenervici delle riunioni. Ed ecco che, due giorni dopo, il 23 aprile 1498, il Bascapè inviava una missiva allo Sforza in cui lo avvisava che la Camera ‘disconza' (leggi a soqquadro), era stata riordinata.

Purtroppo, a causa delle brusche vicende che posero fine alla dinastia sforzesca, la camera picta non fu mai ultimata.

 

Il declino e l’abbandono 

 

Il 2 settembre 1499, quando le truppe francesi invasero Milano e la soldataglia guascone distrusse “il Cavallo" che Leonardo stava eseguendo per la statua equestre di Francesco Sforza, padre del Moro, a nulla valse all’artista il rapido cambio di dedicazione a favore del reggente di Milano a nome a per conto di Luigi XII, quel Gian Giacomo Trivulzio, acerrimo nemico dello Sforza. Il Cavallo venne fuso e il metallo trasformato in palle di cannone. Analoga, infausta sorte toccò anche alla ‘camera dei moroni’, che fu fatta oggetto della damnatio memoriae del Moro, a maggior ragione in quanto ne riproduceva in nuce il simbolo. Per sommo dispregio fu allora trasformata in stalla, il che equivale a dire che il luogo simbolo del potere del Moro nonché del Moro stesso fu metaforicamente annientato, come si usava fare in antico con le spoglie del nemico vinto.

Nei secoli successivi, la volta fu ricoperta da uno scialbo bianco e sull’opera di Leonardo cadde l'oblio.

 

La riscoperta, i pesanti restauri ottocenteschi e la nuova denominazione di Sala delle Asse

 

Dovettero passare quattrocento anni, prima che qualcuno riportasse alla luce la camera picta. Fu grazie ai meticolosi studi condotti fin dal 1893 sui documenti conservati negli archivi milanesi dallo storico tedesco Paul Müler-Walde se, nel 1901, Luca Beltrami, allora impegnato nel restauro del castello (dalla torre del Filarete, alle merlature, al completamento dei torrioni) riscoprì il lavoro di Leonardo. Purtroppo, la concezione che il Beltrami aveva del restauro era interpretativa e non conservativa e fu così che affidò il compito di por mano alle pitture leonardesche, grandemente deteriorare dal tempo e dallo scialbo, a Ernesto Rusca che intervenne con pesanti ridipinture. Mancò all'epoca anche un rilievo fotografico dello stato dell'opera precedente all’intervento di Rusca, il che costituisce una grave lacuna per chi è impegnato oggi nella sua ripulitura nel tentativo di riportare alla luce la ‘mano' di Leonardo.

Ci fu allora, per nostra fortuna, un felix error da parte del Beltrami che non riconobbe la paternità di Leonardo sui monocromi delle pareti, attribuendoli invece a interventi spagnoli successivi. Così li escluse dal restauro e li fece ricoprire con delle assi, battezzando quindi la sala con il nome di Sala delle Asse che conserva tutt'ora. Questi preziosissimi disegni a carboncino oggi sono gli unici, se pure incompiuti, a recare intatto il tratto della mano del maestro.

 

I restauri in corso

 

Dal 2013 la Sala delle Asse è oggetto di una meticolosa campagna di restauro mirante a liberare le pitture dagli interventi ottocenteschi e dai successivi, del 1955, opera di Ottemi Della Rotta che a propria volta aveva già tentato di ripulire gli ornamenti quattrocenteschi dalle pesanti ridipinture di Rusca. Interrotti una prima volta nel 2015, per mostrare la sala al pubblico internazionale giunto in città per l'Expo, la Sala delle Asse è stata eccezionalmente riaperta in onore del cinquecentesimo anniversario della morte del suo autore ed è visitabile da maggio di quest'anno fino a gennaio dell'anno prossimo.

Per la rassegna “Leonardo mai visto", di cui la Sala delle Asse è il cuore, in quelle attigue sono esposti alcuni disegni autografi del maestro e un ologramma mostra ai visitatori una ricostruzione della Milano rinascimentale. 

Ma è per ammirare il capolavoro di Leonardo che non conviene perdere questa occasione.

Quando ricapiterà?

 

Nota: accenni alla storia della Sala delle Asse sono nel racconto L’affresco di Bernardo Zenale alla Gualtiera, edito nei Quaderni di Italia Medievale (2017) e nel romanzo breve Un filo di seta, Bolis Edizioni (2018), alla cui lettura l’autrice rimanda.

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E se? (Arrivasse la fine del mondo.)

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La mostra fotografica Anthropoceneè una iniziativa organizzata dall’Art Gallery of Ontario (AGO) e dal Canadian Photography Institute (CPI) della National Gallery of Canada (NGC) in collaborazione con il MAST, manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia di Bologna. I co-curatori della mostra sono Sophie Kackett, Andrea Kunard e Urs Stahel. Film di Jennifer Baichwal, fotografie di Edward Burtynsky e di Nicholas de Pencier. Fondazione MAST [Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia] di Bologna, fino al 22 settembre. 

 

Edward Burtynsky, Coal Mine #1, North Rhine, Westphalia, Germany 2015, © Edward Burtynsky, courtesy Admira Photography, Milan / Nicholas Metivier Gallery, Toronto.

 

Il progetto fotografico Anthropocene nasce nel 2014 da una domanda della regista Jennifer Baichwal al fotografo Edward Burtynsky durante le riprese sul delta del fiume Colorado a Washington DC per la realizzazione del film Watermark. Baichwall era rimasta colpita dalle condizioni del delta del fiume le cui ramificazioni dei suoi affluenti affioravano dal suolo alla ricerca di un delta che non esisteva più a causa di un accordo che prevedeva la deviazione del fiume per irrigare i grandi raccolti distribuiti tra il Colorado e la California. La scena che si presentava agli occhi di Baichwal, Burtynsky e de Pencier era l’ennesimo esempio di impatto negativo del lavoro dell’uomo sull’ambiente. La domanda su cui gli autori innestarono la loro elaborazione metodologica e progettuale nel dare avvio al progetto Anthropocene che documentasse, nel mondo, gli impatti negativi, è stata: “ E se?”. Già: ese si fosse fatto diversamente, o se non fosse stato fatto per nulla? Sarebbe stato possibile fermare il progresso? O più semplicemente è possibile rinunciare a parte di esso? Ma quanto è costato il progresso in termini di sfruttamento delle risorse naturali ? E quanto ancora dobbiamo togliere alla natura per dare al genere umano? Gli autori si sono basati, rigorosamente, sulle ricerche scientifiche condotte da Anthropocene Working Group (AWG) nel 2009. Anthropocene nasce all'interno della comunità di Earth System Science (ESS), un gruppo di scienziati e geologi che studia la storia della terra attraverso la stratigrafia e i fossili e come questi, una volta sfruttati, vengono dispersi nell’atmosfera.

 

Edward Burtynsky, Phosphor Tailings Pond #4, Near Lakeland, Florida, USA 2012, © Edward Burtynsky, courtesy Admira Photography, Milan / Nicholas Metivier Gallery, Toronto.

 

Anthropocene è infatti un termine della geologia che ha rapporti con la stratigrafia. L’affascinante teoria è stata propugnata dal Premio Nobel per la chimica Paul J. Crutzen. Gli scienziati appartenenti all’Anthropocene Working Group hanno messo a punto un metodo di analisi che si basa, appunto, sulla stratigrafia come potenziale aggiunta formale alle scale temporali geologiche, esso, inoltre si basa sul confronto con altre metodologie scientifiche per lo studio della Terra. In pratica gli scienziati, attraverso le diverse e numerose stratigrafie della Terra che l’uomo modifica profondamente estraendo materie prime come litio, carbone, petrolio, gas naturali ecc. studiano l’accelerazione della fine di un’era, che questi fanno risalire dalla metà del XVIII secolo con l’inizio della Rivoluzione industriale. Rivoluzione che ha avuto una forte accelerazione a causa dei fabbisogni energetici dell’America del Nord e dell’Europa dall’immediato dopoguerra ad oggi. L’impatto è assolutamente negativo e influisce, ad esempio, sullo strato dell’ozono, sulla natura in generale, sul clima, sul futuro delle specie: sostanzialmente sulla vita dell’intero pianeta. La comunità internazionale degli scienziati, in particolare dei geologi, è stata piuttosto critica sull’impostazione di Anthropocene, con la motivazione che non vi sarebbero dati sufficientemente significativi per determinare il futuro della Terra. La teoria Anthropocene appare, ai loro occhi, più una dichiarazione che scientifica e nulla racconterebbe della storia della Terra e del suo futuro.

 

E see se gli scienziati di Anthropocene avessero ragione? E se… la grande accelerazione e dissennata estrazione dei minerali e dei fossili che ha modificato significativamente la morfologia della superficie della Terra decretasse effettivamente uno dei grandi declini del Pianeta, se non il declino definitivo? Stefano Mancuso (La nazione delle piante, 2019) illustra con chiarezza come la natura predatoria dell’uomo condizioni negativamente anche il destino delle altre specie animali e vegetali, senza curarsi del futuro, ma solo della propria sopravvivenza. Mancuso spiega inoltre che la storia della Terra ha subito cinque estinzioni di massa, comprese un numero non definito di estinzioni minori, al termine delle quali il sistema vivente ha determinato una nuova rinascita del pianeta morfologicamente assai differente da quella precedente; in alcune ere, ad esempio, non è stata assolutamente pensabile la vita dell’uomo per le caratteristiche assai nocive dell’atmosfera. L’immagazzinamento del carbonio presente nell’aria in alta quantità per opera delle piante ha prodotto due effetti: l’atmosfera così come la conosciamo oggi e la formazione di immensi giacimenti di petrolio.

 

Nicholas de Pencier and Jennifer Baichwal with drone pilot Mike Reid on location at a clearcut north of Port Renfrew, Vancouver Island, British Columbia, © Edward Burtynsky, courtesy Admira Photography, Milan / Nicholas Metivier Gallery, Toronto.

 

David George Haskell, biologo e naturalista (The forest unseen, 2012, The Songs of Trees, 2017) illustra come la differenza delle specie abbia avuto la capacità di sopravvivere alle numerosi catastrofi, anche quelle arrecate dall’uomo. Haskell ricorda che i grandi mutamenti causati dall’uomo sono avvenuti con la pratica dell’agricoltura che ha comportato grandi deforestazioni e regimentazione delle acque. Il rammarico di Emanuele Coccia (La Vie des plantes. Une métaphysique du mélange, 2016) invece, è la perdita, da parte dell’uomo, della capacità di capire e dialogare con la Natura, di apprezzarne la bellezza, così come faceva l’uomo primitivo e come fanno ancora oggi le poche tribù sopravvissute dell’Amazzonia. Questo dialogo con la Natura ci garantirebbe di vivere con equilibrio oltre che assicurarci il futuro sulla Terra. Anche questi studiosi denunciano con forza il cruento intervento dell’uomo per accaparrarsi risorse per il benessere e per il progresso definendolo “un evento di grande portata come l’inizio di una nuova era di trasformazione” e probabilmente di estinzione. La raccolta dei dati relativi al cambiamento atmosferico, del clima, della qualità dei mari e degli oceani, dell’impoverimento del suolo documentano un trend negativo, di cui non è per niente facile percepire le conseguenze a breve o a lungo termine, benché gli studi da decenni siano numerosi e quelli tacciati di catastrofismo si siano rivelati, in seguito, molto vicini al vero. 

 

Edward Burtynsky, Dandora Landfill #3, Plastics Recycling, Nairobi, Kenya 2016, © Edward Burtynsky, courtesy Admira Photography, Milan / Nicholas Metivier Gallery, Toronto.

 

La ricerca fotografica Anthropocene di Jennifer Baichwal, di Edward Burtynsky e di Nicholas de Pencier è un progetto che desidera censire le macro situazioni denunciate dagli scienziati. Dalle immagini, dai filmati presenti in mostra si possono trarre alcune conclusioni che sicuramente saranno più esplicite e suggestive nel convincere chi ha potere decisionale, rispetto alle statistiche e alle relazioni tecniche redatte dagli scienziati. Gli artisti utilizzano il linguaggio fotografico di documentazione, dando una efficace forma estetica alle forme geologiche naturali, soprattutto a quelle modificate dall’uomo. Edward Burtynsky a partire dal 1985 ha focalizzato la sua attenzione sui paesaggi antropici, in particolare sui siti industriali, fino a documentarne i sistemi di produzione e consumo. Baichwal e de Pensier lavorano invece a stretto contatto con luoghi e paesaggi deturpati e modificati, cercando di capire come queste menomazioni possano plasmare culture e persone. Il paesaggio, così come la Natura, ovviamente, non sono separati dalla vita delle specie. Attraverso fotografie, film, installazioni a realtà aumentata, gli autori svelano non solamente le dimensioni e le caratteristiche dei luoghi più colpiti dall’intervento dell’uomo, ma ne fanno percepire l’entità del problema, l’ineluttabile destino. L’utilizzo, inoltre di fotografie a forte ingrandimento, di installazioni filmiche, di immagini prese dall’altro come dal satellite o dai droni sono presentate come una opportunità di approfondimento non solamente della forma, ma anche dell’entità reale. La veduta dall’alto è stato uno dei principali metodi utilizzati per rappresentare i cambiamenti territoriali o semplicemente un mezzo per controllare il territorio: pensiamo all’utilizzo militare già dalla Prima Guerra Mondiale. Fotografie davvero inusuali per la percezione dell’epoca.

 

Edward Burtynsky, Carrara Marble Quarries, Cava di Canalgrande #2, Carrara, Italy 2016, © Edward Burtynsky, courtesy Admira Photography, Milan / Nicholas Metivier Gallery, Toronto.

 

Margaret Bourke-White scattò nel 1936 le immagini della gigantesca diga di Fort Peck in Montana, immagini che erano di semplice documentazione, ma grazie al loro fascino finirono sulla copertina di Life lo stesso anno e ora sono conservate nei musei d’arte americani. Lo stesso Lewis Mumford scrisse nel 1952 che le fotografie aeree hanno la capacità di contenere un numero inestimabile di informazioni sul rapporto uomo e natura e per questo offrono soluzioni per migliorare quello che l’uomo distrugge sul territorio. Inoltre per il loro impatto emotivo e comunicativo, sostiene ancora Mumford, esse posseggono una capacità di suscitare “abbastanza amore e sentimenti affini verso la Terra […] per riuscire a rendere ogni angolo di questo pianeta una casa permanente”. L’utilizzo della realtà virtuale e di quella aumentata, inoltre, hanno la capacità di trasmettere prossimità per provocare un coinvolgimento emotivo, far scaturire sensazioni da un’esperienza seppur visuale. E se… quello che ci offre Anthropocene, fino al 22 settembre, fosse davvero una storia senza speranza, cosa potrebbe fare l’uomo comune?

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Forma di donna: storia di un libro e di un corpo

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Alla Galleria dell’Incisione a Brescia si possono vedere circa venti delle fotografie che compongono “Forma di donna”, il libro che Carla Cerati pubblica nel 1978. Il tronco dai seni candidi e prosperosi, le cosce lunghe e rigonfie, la schiena arcuata, il busto rovesciato all’indietro con le braccia tese dietro la testa, la curva del ventre leggermente tondeggiante, un ciuffo di peli pubici sono le forme di un corpo a cui la Cerati decide di dedicare un libro. Dieci anni prima, la fotografa aveva realizzato con Gianni Berengo Gardin un libro destinato ad avere un enorme impatto tanto nella società, quanto nella storia della fotografia: “Morire di classe”, un’inchiesta sui manicomi in Italia e nel 1974, con “Mondo Cocktail”, smaschera il vuoto in cui sono immerse le élites milanesi, divise fra eventi mondani e stravaganze.

Eppure non è stato facile giungere alla composizione di “Forma di donna”. Se per i reportages commissionati dai giornali il mondo entra facilmente nel suo obiettivo, per questo libro il processo creativo è più sofferto. “Non amo spiegare, e forse non ne sono neppure capace, i motivi che mi spingono a un lavoro creativo, il suo nascere dentro di me come idea, il maturarsi e crescere fino a cessare di essere semplice progetto; i tentativi di trasformarlo in risultato tangibile, i successivi passaggi fino a quel qualcosa che mi fa dire “ecco, questo è ciò che più si avvicina alla percezione iniziale” ”, racconta la fotografa, fra le pagine del libro. 

 

 

La prima volta ci prova nel 1960: un’amica accetta di farsi fotografare, ma le immagini le paiono piatte, timide, prive di un’idea precisa. “Tutto ciò che avevo visto in quel corpo era svanito, sommerso dalla mia incapacità ad andare oltre, a cercare, a trasfigurare, a inventare”. Ci prova di nuovo. L’occasione si presenta nel 1972, quando un amico pittore, Anselmo Francesconi, le chiede di realizzare delle foto di nudo che avrebbe poi ritagliato e inserito in quadri-collage. Insieme cercano degli esempi a cui ispirarsi.

Come è possibile trovare la forma perfetta di un corpo? Cosa significa davvero coglierne la forma? La risposta giunge all’improvviso: i nudi di Bill Brandt, quei corpi dalle membra smisuratamente lunghe, le cui rotondità assumono una loro autonomia organica, così vicini alle sculture di Hans Arp e Henry Moore, sono un buon punto di partenza. Per pura coincidenza, scrive la Cerati fra le pagine del libro, “avevo capito da tempo che da lì volevo partire”. 

 

Anche questa volta chiede a un’amica. Il corpo dalla pelle chiarissima è perfetto. Le forme non lasciano dubbi: sembrano fatte per essere manipolate. La fotografa si sente pronta. Con sollievo capisce di essersi finalmente impadronita di un lavoro: ha imparato a usare le luci in studio, i diversi obiettivi, i flash, la scenografia. Farà interagire il corpo della modella con le poltrone componibili disegnate da Matta. Ma è davvero tutto qui? Cosa è successo nei dodici anni che la separano dal primo tentativo? 

Il mondo intorno a lei sta cambiando (la legge sul divorzio è del 1974, la riforma del diritto di famiglia del 1975, la legge sull’aborto del 1978), e l’arte ne riflette i cambiamenti. Dipinti, collages, fotografie, ricami, scritture, realizzati da moltissime artiste, finalmente raccontano di un intimo e stretto confronto con il proprio corpo e la sua forma, una scoperta nuovissima ed eccitante, che Lucia Marcucci, protagonista del Gruppo 70, riassume provocatoriamente in uno dei suoi poster: “fare tutti i tentativi possibili per ricondurre a normalità / fare i conti con la realtà / NON C’ È ALTRA SCELTA / non si può perdere tempo / IL DESTINO È NELLE VOSTRE MANI”. E le possibilità sono davvero infinite: le immagini del parto di Lisetta Carmi del 1968, quelle dell’“L’invenzione femminile” di Marcella Campagnano del 1974, le foto che Paola Agosti scatta alla Casa delle donne di Roma nel 1976, quelle di “Sara è incinta/77”, del 1977, di Paola Mattioli.

 

 

Il lavoro di Carla Cerati è immerso in questa fitta rete di corrispondenze. Nei primi anni Settanta anche lei riflette sul suo ruolo di donna, madre e fotografa. “Imboccare, agitare, frullare, solarizzare”, si legge sui pannelli di “Donna professione fotografa”, conservati presso il Centro Studi e Archivio della Comunicazione di Parma (CSAC), in cui la protagonista è un’altra fotografa, Paola Mattioli, ripresa da Carla mentre è intenta ad accudire la figlia e a sviluppare le sue foto. Lo stesso intento la spinge a elaborare il “Percorso. Racconto in dieci stazioni della vita di una donna”, realizzato nel 1977 e messo in mostra all’Expo Arte di Bari nel 1980. È, ancora, la stessa tensione che sta alla base di un altro lavoro in cui la Cerati intervista e fotografa diverse donne che danno il nome ai vari pannelli: “Cristina suonatrice di viola”, “Antonietta collaboratrice familiare”, “Pamela attrice”. Le domande che rivolge loro sono ricorrenti: “Pensi che la maternità sia il momento più importante nella realizzazione di una donna?”, “Come pensi al tuo futuro?”, “Sei femminista?”.

 

“Forma di donna” è il lavoro in cui si possono trovare le risposte. Dopo aver esplorato l’universo femminile attorno a sé, giunge il momento di parlare di sé. Le foto, al loro primo apparire nel 1974, vengono percepite da certi settori intellettuali come formalistiche e pertanto, come ricorda Massimo Mussini nel catalogo della mostra del 2007 tenutasi al CSAC, “spregiativamente definite artistismo”, o come “un presunto sfregio all’identità femminile, causato dalla raffigurazione di corpi privi di teste”, nel giudizio del femminismo militante. Sono considerazioni effimere, destinate a vacillare sotto il peso del lavoro che Carla Cerati ha dedicato alle donne.

 

 

Ciò che si può osservare fra le pagine del suo libro non è solo la perfezione di un corpo, ma il movimento di uno sguardo su un corpo e attraverso di esso. Questo effetto scaturisce dal susseguirsi delle immagini in istanti successivi. Osservando le foto esposte a Brescia, si comprende che il corpo si appropria dello spazio: il fotogramma viene attraversato in diagonale, verticale, orizzontale, Viene colto sia nella sua quasi totalità, sia attraverso i dettagli: i seni, i fianchi, il pube, le natiche, come se l’idea di un tuttotondo tridimensionale proprio della scultura venisse direttamente riversata sulla superficie delle fotografie. La luce si sostituisce alla mano dell’artista, ma ha la medesima funzione: dare forma. Non si deve dimenticare che Carla Cerati avrebbe voluto fare la scultrice e che aveva superato l’esame di ammissione presso l’Accademia di Brera. 

Per questo la perfetta fusione tra forma e contenuto, dove il contenuto è la forma stessa di ciò che appare nell’immagine, cela un moto più profondo. “Vorrei andare oltre ciò che quel corpo esprime, ignorando la sua carica erotica che pure percepisco e amo”. La fotografia mostra il processo di generazione sotteso a quello sguardo: il corpo è nudo, esposto, scoperto, poiché creare un corpo significa generarlo. Il libro contiene anche alcune immagini della figlia Elena. La ragazza ha un corpo magro, scuro, ricoperto di gocce d’acqua, come se fosse appena venuto al mondo. Per la Cerati non è stato facile fotografarlo: “avrei voluto lavorare a modo mio, con calma: ancora una volta muovere un corpo seguendo un’idea, cercando il centro di interesse dentro quella luce dura e tagliente. (…) Dovetti accontentarmi di poche immagini quasi rubate dove l’idea è in embrione”. 

 

 

In questo slittamento, dall’amica che nasce dal suo sguardo, alla figlia che nasce dal suo corpo, slitta anche il senso legato al gesto del creare. Carla Cerati non pone l’accento sull’idea di produzione, ma su quella della generazione, additando il conflitto che attanaglia tutte: essere donna o madre? Ambire alla perfezione di un corpo ideale o sottostare, generando, alla naturale imperfezione di un corpo reale? Non è un caso che il libro sia dedicato a Elena. Forse generare significa anche creare una genealogia di donne. In questo modo l’artista esorcizza quello che sosteneva Susan Sontag, ovvero che fotografare significa appropriarsi della cosa che si fotografa e stabilire con esse una relazione di potere, poiché queste immagini si generano non tanto o non solo dall’osservazione, ma dalla relazione. Tuttavia se la maternità è anche matrice dell’apparire, nel senso di nascere e divenire visibile agli altri e a se stessi, cosa evocano questi corpi? “Miravo alla perfezione come punto massimo di non-corporeità, di astrazione dal corpo-soggetto per trasformarlo in corpo-oggetto soltanto per me; per impedire che diventasse oggetto di consumo per gli altri. Analizzarlo, frammentarlo, eliminare il più possibile ogni relazione con la vita (…) privarlo del senso che fino a quel momento aveva avuto il nudo femminile”, scrive Carla Cerati alla fine del libro. 

 

 

Privare questo corpo della dimensione legata al puro consumo, significa restituire libertà al suo essere semplicemente un corpo. Il passo successivo è la libertà del movimento. I provini a contatto inseriti tra le pagine del libro esprimono esattamente non la consistenza della materia, ma la libertà con cui il corpo si muove, ricerca ed esperienza di attori sovversivi che in quegli anni animavano il Living Theatre o la Comuna Baires, oggetto di coeve e successive ricerche.

“Forme movimento colore” è uno di questi esiti. La protagonista delle immagini esposte nel 1989 è Valeria Magli, che Carla ritrae più volte negli anni Ottanta. Il corpo nudo e scattante è fotografato mentre salta, volteggia, compie passi di danza, tenendo in mano diversi lembi di stoffe, anch’essi in movimento (tre di queste immagini si possono vedere in mostra). “L’idea di queste fotografie mi è nata vedendo Valeria Magli, danzatrice e coreografa, ospite per una sera, entrare nella cabina doccia della mia casa al mare. Il corpo morbido e forte, chiaro, si stagliava sul nitore delle maioliche. Mi colpì il movimento, l’introdursi leggero, bianco su bianco”, racconta Carla Cerati. 

 

 

Lo stesso accade per le immagini della mostra “Momenti di essere”, del 2015, in cui si vede una figura femminile che cammina, corre, sosta, dinnanzi a un edificio in città. Il movimento e la forma sono insiti nella natura del soggetto, sono la sua materia, la libertà di “essere”. Forse è utopico. Essere liberi da chi ti genera come dalla tradizione è impossibile? La madre-donna-fotografa che genera e lascia libero di esistere ciò che rappresenta, consente un distacco dal proprio archetipo? 

Difficile rispondere. Tuttavia essere liberi non è solo un’esigenza che riguarda strettamente la vicenda biografica di Carla, divisa fra i ruoli di madre, donna e fotografa, ma è un bisogno anteriore alla sua volontà (e anche alla nostra), è il diritto di cui essa si fa portatrice, addirittura prima di ogni sua decisione di esserlo. Questo ci insegnano le sue immagini. Il corpo è solo uno dei mezzi per mostrarlo. 

 

Mostra: Carla Cerati. Forma di donna. Galleria dell’Incisione di Brescia fino al 21 luglio 2019. Immagini: credits Carla Cerati; courtesy Elena Ceratti.

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Definire gli infiniti

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La siepe

 

Che cosa significa definire se non, letteralmente, tracciare un/una fine, un confine, delimitare, «come quando si recinta un terreno, in modo da non confonderlo con le terre confinanti appartenenti ad altri? Grazie alla definizione si rintracciano caratteristiche comuni all'insieme di cose che stanno dentro il confine, le quali permettono di non confondere la cosa definita con altre» (Giuseppe Cambiano, Sette ragioni per amare la filosofia, Bologna, il Mulino, 2019, p. 43). Benissimo. Ma come definire l'infinito, che non ha estremità – come già preconizzava Epicuro e prima di lui facevano tutta la cosmologia e la fisica presocratiche – e che sfugge a ogni limite, gioiosamente superandoli tutti nella sua smisurata immensità? Forse riusciremo a definirlo, ci perdonino fisici e matematici, grazie a... una siepe!?

Ecco apparirci davanti agli occhi la siepe del secondo verso dell'Infinito di Leopardi, presentata subito dopo l'ermo colle, entrambi al poeta cari. Quella siepe che ritorna nel quinto verso con un richiamo indiretto, di là di quella, per definire nuovamente l'interminato spazio che si stende quieto e silenzioso, ampio e materno come la chora platonica, oltre quel termine, oltre quel limite. In entrambi i casi la siepe si pone come paradossale confine dell'infinito, che costringe lo sguardo a cambiare direzione. Il limite e il confine che tracciano, nel percorso della mostra, i muretti del Paesaggio con muri bianchi di Damaso Bianchi (n. 15). Qui quei muretti, che nel colore richiamano il cognome del pittore, toccati ma non attraversati dalle ombre degli alberi, ci impediscono di percepire il paesaggio dietro di essi ma insieme stimolano e aguzzano la vista esterna e la contemplazione e l'introspezione dell'io, del pittore e nostre. 

I muretti, la siepe, limitano, chiudono. Chiudono davanti, come spiega la parola presepe, dal latino prae-saepit, che chiude con una siepe (saepes). Un recinto è dunque la siepe del presepe, dove si trova il cibo per il bestiame che ne sta all'interno, e che crea protezione e sicurezza anche per il Bambin Gesù, lì posto insieme ai tradizionali animali dell'iconografia cristiana. La siepe cinge, limita e protegge mentre esclude dallo sguardo: lo fanno la siepe di Leopardi e la siepe del Tramonto in Liguria di Gaetano Previati (n. 9), posta dietro i rigogliosi alberi carichi di agrumi, dietro la quale il mare in parte si intravede in parte si immagina. 

 

Gaetano Previati, Nel prato.


Verticale e orizzontale

 

Protetto dalla siepe che gli è cara siede il giovane Giacomo, da poco divenuto ventenne, sull'ermo colle che come quella gli è caro (aggettivo che tra poco reinterpreteremo in un senso tutto particolare). Dall'alto il poeta contempla il paesaggio fingendo – col plasmare l'argilla del pensiero, immaginando dunque – spazi senza termine distesi sotto di lui. Costruisce così una sorta di violenta verticalità che ha al vertice il colle e alla base il mare, ultima parola dell'ultima riga, che fino all'ultimo non ci è dato vedere. Dall'altezza del pensiero che finge immagini e idee, alla profondità del mare che cela pericolose passioni nelle quali il naufragio è dolce. L'altezza è qui sublime quanto la profondità, sublime questa come «una durata interminata», notava Kant nelle sue Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime [1764], che si accompagnano «a sensazioni di spavento come di meraviglia». Una suggestiva verticalità che precipita dal colle al mare e con la quale si incrocia, letteralmente e figurativamente, formando i bracci di una croce, l'orizzontalità del tempo descritta nei versi da 11 a 13: l'eterno/le morte stagioni/la presente e viva. Eternità (tempo infinito), passato, presente. 

Una verticalità che nei dipinti della mostra si manifesta grazie all'ascensionalità degli alberi in Tramonto di Previati ma anche nello slancio della figura femminile e del cespuglio di Il prato dello stesso Previati, o nella siepe di alberi di Sole e brina di Plinio Nomellini. A cui si contrappone l'orizzontalità delle visioni fluviali, con Sull'Ofanto e Lungo l'Ofanto di Giuseppe De Nittis e La fleuve, di Émile René Ménard. L'incrocio in potenza delle due dimensioni, dove l'orizzontale sfuma nel verticale lo si nota poi ne Il sole di Pelizza da Volpedo, dove il disco luminoso che brilla all'orizzonte è pronto a spiccare la sua trionfale ascesa. E infine in Mare in burrasca di De Nittis dove la mente si finge l'abisso della profondità marina. Là dove Giacomo Leopardi esperisce il suo dolce naufragare.

 

De Nittis, Mare in burrasca.


L'ossimoro del dolce naufragio

 

È quello evocato da Leopardi un naufragare fittizio nel pelago dei pensieri sull'essere e sull'infinità del tempo e dello spazio? O un naufragio reale, benché soltanto immaginato, un frangersi della nave prima di affondare nei flutti? È entrambe le cose, certo, ed è insieme un tema che ripropone una nuova configurazione a croce, orizzontale-verticale: essa comprende infatti in Leopardi sia il comandamento stoico-epicureo della contemplazione e del distacco atarassico dai turbamenti, che potremmo associare alla dimensione orizzontale nella sua calma e piatta estensione; sia la verticalità della sfida illuminista del mettere in gioco il contributo fondamentale delle passioni, il valore dell'entusiasmo e del rischio, la vivacità della lotta degli elementi, l'uno e l'altro apprezzati, riprenderemo questo punto, da Leopardi. Nell'ossimoro del dolce naufragio convive il piacere (orizzontale) della calma con la disperazione (verticale) ma anche la creatività del moto; convive l'innegabile gioia estetica della natura, con la sofferenza cui soggiace la stessa natura e che con e nella natura si impone.

 

Il dolce naufragio e Lucrezio

 

Ci dedicheremo ora al naufragio dolce di Leopardi, lasciandoci alle spalle i dolci paesaggi della mostra per immergerci negli infiniti leopardiani. Questa volta ci ispireremo a un altro dipinto, quasi contemporaneo alla composizione dell'idillio: Il viandante sul mare di nebbia (Der Wanderer über dem Nebelmeer) di Caspar David Friedrich, del 1817, conservato nella Kunsthalle di Amburgo. Lì l'osservatore impassibile-pensieroso contempla sopra l'ondeggiante mare di nebbie i naufragi altrui:

 

Bello, quando sul mare si scontrano i venti

e la cupa vastità delle acque si turba,

guardare da terra il naufragio lontano: 

non ti rallegra lo spettacolo dell'altrui rovina

ma la distanza da una simile sorte.

(Lucrezio, De rerum natura, II, 1-4, trad. it.vdi E. Cetrangolo, Firenze 1969, p. 73).

 

Émile René Ménard, Le fleuve, Galleria d'arte moderna Ricci Oddi, Piacenza 2017.


Lucrezio! Sì, Lucrezio.

L'ispirazione, il riferimento classico, il sostegno letterario e filosofico dell'Infinito di Leopardi è Lucrezio. Anzi, sono i versi di apertura del secondo libro del De rerum natura; di quell'opera che la chiesa aveva cercato disperatamente di cancellare dalla memoria storica, e c'era riuscita per più di un millennio, fino all’avventurosa scoperta e divulgazione del poema grazie all'infaticabile ricerca condotta da Poggio Bracciolini.

Lucrezio! Sì, Lucrezio che imposta la configurazione tra il braccio verticale dello strepito della storia, e quello orizzontale del silenzio, della pacatezza e assenza di turbamento. Lucrezio. Tito Lucrezio Caro. In latino, Titus Lucretius Carus. Carus. Caro. Semper Carus. Sempre Caro. Sempre caro. SEMPRE CARO. Sempre Lucrezio. Sempre il pensiero del poeta filosofo romano mi accompagnerà, sembra dichiarare solennemente il giovane ventenne, enunciando in maniera ancora criptica il suo ateismo e la sua idea che la natura sia un «cieco e inconscio meccanismo di produzione-distruzione» (Sebastiano Timpanaro, Epicuro, Lucrezio e Leopardi, in «Critica storica», luglio-settembre 1988, 3, pp. 359-401, qui p. 397).

Non potendo, volendo, riuscendo a esclamare liberamente la propria convinzione, il giovane Leopardi lo fa – è la mia ipotesi e la mia proposta, frutto di intuizione più che di dimostrazione, ammetto – con un espediente quasi scherzoso, nascondendo la sua ammirazione e la sua fedeltà a Lucrezio proprio nelle prime due parole dell'idillio: sempre caro. E riprendendo nell'ultimo verso l'aggettivo dolce. Dolce, suave (neutro sing. di suavis), la prima parola del primo verso di quell'incipit lucreziano: Suave, mari magno turbantis aequora ventis..., aggettivo che più volte ritorna nei versi successivi.

Del resto il poeta di Recanati era stato un bambino e adolescente allegro e giocoso, addirittura scatenato e prepotente coi fratelli. Come non immaginarlo mentre con un sorriso sornione scrive quelle parole allusive, ancora pregno dell'entusiasmo infantile e adolescenziale?

La critica letteraria ha speso infinite pagine per mostrare e dimostrare se Leopardi conobbe Lucrezio, e se sì che cosa, e quali sono i riferimenti testuali e quali quelli contenutistici; se tematiche lucreziane siano presenti in Leopardi direttamente o provengano indirettamente dall'influenza di altri autori da lui conosciuti, Montaigne, Pascal, Goethe; se esistano e come si configurino affinità e differenze tra le concezioni pessimistiche di Leopardi e Lucrezio, quali siano le fonti latine alla radice dell'opera leopardiana e così via. Cito per tutti soltanto l'ampio studio di Sergio Sconocchia, Ancora su Leopardi e Lucrezio (in Leopardi e noi. La vertigine cosmica, a cura di A. Frattini, G. Galeazzi e S. Sconocchia, Roma, Edizioni Studium, 1990).

 

Bruno Osimo, Infinito.


Nell'indagare i rapporti tra i due poeti-filosofi la critica talvolta sottolinea, talvolta minimizza l'influenza delle idee di Lucrezio sul pensiero di Leopardi, insistendo soprattutto sull'adesione all'epicureismo del primo, non confacentesi al secondo. Certo, guardare il naufragio e il turbamento altrui senza farsene coinvolgere è l'atteggiamento del saggio epicureo, capace di osservare imperturbabile il turbinio del mondo circostante. Eppure a quell'atteggiamento pure Lucrezio aderisce quasi pro forma per poi discostarsene, mostrando posizioni simili a quelle che saranno di Leopardi. Entrambi sono animi appassionati, e se per un momento si adagiano sul braccio orizzontale dell'imperturbabilità epicurea e dell'apatia stoica, non negano di certo, entrambi, quello verticale antitetico della curiosità, dell'irrequietezza, dell'angoscia. Anzi, commentava più di cent'anni fa un critico acutissimo, riferendosi proprio al libro II del De rerum natura e al paragone ivi istituito tra gli atomi travolti nello spazio infinito e le rovine del naufragio che il mare getta alla rinfusa sulla spiaggia, «come siamo lontani dalla meccanica ridda atomica e da Epicuro! Essi non han servito, si può dire, che a dare lo spunto alla fantasia di Lucrezio, la quale, spaziandosi e internandosi nel suo soggetto, determina a sua volta un movimento affettivo che prende un'espressione per nulla dissimile dalle leopardiane» notava Spartaco Borra (Spiriti e forme affini in Lucrezio e Leopardi, Bologna, Zanichelli, 1934, Ia ed. 1911, p. 61) e passim nella sua splendida interpretazione.

Entrambi i filosofi-poeti hanno interrogato il silenzio infinito del cielo, lo stupore e il terrore che esso suscita; entrambi hanno provato sia il godimento estetico sia l'angoscia esistenziale. Entrambi sentono e rendono il senso dell'infinito, ricevendo, dalla contemplazione del cielo e del mare, impressioni profonde, rasserenanti, dolorose.

Nel giovanile Infinito sprofondare in questa contemplazione, lasciare che la nave della mente si infranga contro i flutti e vi si immerga, è per Leopadi suave, dolce. In compagnia del caro Lucrezio Caro e come lui giocando con le parole e ripetendo quelle assonanze e allitterazioni e allusioni, nonché ripetizioni, raddoppi, e creazione di parole nuove (verba nova) che esercitavano un'attrazione irresistibile sul poeta latino. Il naufragio descritto da Lucrezio e osservato da riva, su cui medita il viandante di Friedrich, sarà sempre anche quello di Giacomo Leopardi: semper Carus, sempre caro.

  

Questo testo è estratto dal catalogo, edito da Silvana Editoriale, che ringraziamo, della mostra La fuggevole bellezza. Da Giuseppe De Nittis a Pellizza da Volpedo, a cura di Emanuela Angiuli , e della mostra sul contemporaneo a cura di Marcello Smarrelli con Metrocubo d’infinito di  Michelangelo Pistoletto e Invisibile di Giovanni Anselmo, a Recanati, Villa Colloredo Mels, dal 30 giugno al 3 novembre 2019,

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Utrecht, Caravaggio und Europa

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La genesi del Barocco

La mostra “Utrecht, Caravaggio und Europa” – presso l'Alte Pinakothek di Monaco di Baviera, dal 17 Aprile al 21 luglio 2019, precedentemente presso il Centraal Museum di Utrecht – prosegue nel solco coscientemente formalista inaugurato dal precedente panorama sul Rinascimento fiorentino. Qui il centro è occupato dall'opera di Michelangelo Merisi da Caravaggio – presente con il San Girolamo (1605/06) di Monserrat, la MedusaMurtola (1597) in proprietà privata, le romane Buona Ventura (1595/96) e Deposizione di Cristo (1602/03), quest'ultima in mostra fino al 27 maggio –, e i diversi gradi di interpretazione e trasformazione che gli artisti dell'epoca hanno costruito sulla ricezione del “caravaggismo”. Se in mostra sono presenti artisti italiani come Orazio Gentileschi (ma non Artemisia) o Bartolomeo Manfredi, francesi e italo-francesi come Simon Vouet e Valentin de Boulogne e spagnoli come Jusepe de Ribera, il nucleo della tesi allestitiva verte su quegli artisti da Utrecht, che a Roma assimilano, digeriscono e trasformano il linguaggio di Caravaggio – non solo, ma a modo loro e secondo il proprio bagaglio culturale – introducendolo poi nella propria città, al ritorno dal soggiorno capitolino. 

 

L'allestimento si apre programmaticamente con una copia precoce della Crocifissione di Pietro di Caravaggio (1602/05, dal Museo del Patriarca, Real Colegio Seminario de Corpus Christi, Valencia, l'originale è di pochissimo precedente) e con un disegno dal modello di Gerrit van Honthorst (1616, dal Natjonalmuseet for kunst, Oslo), osservato e studiato nell'originale collocazione della Chiesa Nuova a Roma. Qui riprodotto, invece, il capolavoro giovanile di Dirck van Baburen, una Deposizione di Cristo (1617/19, dal Centraal Museum Utrecht), che invece evidenzia la deviazione dal modello caravaggesco già menzionato. 

 

Dirck van Baburen (ca. 1592/93 – 1624), Deposizione di Cristo, 1617/19; © Centraal Museum Utrecht / Ernst Moritz.


Si tratta di immagini “in secondo grado”, che intenzionalmente testimoniano la profondissima meditazione sul linguaggio visivo, dalla copia alla trasformazione vera e propria, di cui il Barocco si farà araldo. È forse proprio attraverso le opere seminali di Caravaggio e Annibale Carracci che il linguaggio visivo diviene battaglia di -ismi, dunque aprendo il discorso sulle arti in senso marcatamente logocentrico. Verso la fine del 17° secolo, questo processo si cristallizzerà in Francia, quando Charles Perrault ispirerà la Querelles des Anciens et des Modernes. È nel Barocco, secondo Rudolf Wittkower in Arte e architettura in Italia. 1600-1750 (1958), che il “concetto” entra nel discorso artistico come componente fondamentale e come sintesi della comunione di interessi pittorici, scultorei, letterari e, io aggiungerei, teatrali, polarizzandosi tra un supposto “significato essenziale del soggetto” e il “ricamo ingegnosamente inventato”. 

 

Il curatore della mostra, nonché della collezione olandese e tedesca (16°-18° secolo) della Alte Pinakothek, Dr. Bernd Ebert, crea diverse stazioni, ognuna incentrata su una tematica precisa: Santi, La derisione di Cristo, Cristo tra i dottori, Allegra compagnia, Davide e Golia, Giuditta e Oloferne, e così via. Questo approccio formalistico rivela meno le ripetizioni e più le differenze tra i dipinti e i concetti di immagine che essi suggeriscono. Dunque il soggetto delle rappresentazioni scompare come veicolo storico-culturale di un'epoca, se non manifestandosi come occasione, e “le” pitture diventano per il visitatore le assolute protagoniste del discorso visivo.

 

La teatralità contemporanea entra prepotentemente nella costruzione dei dipinti, sconfessando la retorica classicista: la stazione de La Cacciata dei mercanti dal tempio ci offre alcune riflessioni. Se nei dipinti di Cecco del Caravaggio e Theodore Rombouts questa retorica è ancora manifesta e “manierata”, l'esempio spigolosamente moderno è la versione monumentale di Dirck van Baburen (1621, dalla Collezione Schorr, Londra), una delle prime opere dipinte dopo il suo ritorno a Utrecht nel 1620. Come sottolineato nel saggio in catalogo da Helen Langdon, le maschere della commedia dell'arte entrano nei teatri dei palazzi romani, ma anche nelle strade e nelle piazze, spesso rappresentando scene notturne, solleticate dalle luci di candela. Queste piazze e strade divengono a loro volta un modello teatrale e i personaggi che le popolano, come le zingare e i giocatori d'azzardo, vengono trasportati all'interno del gioco delle maschere. Il teatro e la pittura ingaggiano un curioso dialogo tra loro.

 

Hendrickter Brugghen (1588 – 1629), Giocatori, 1623; © Minneapolis Institute of Art, The William Hood Dunwoody Fund 60.17

 

La Cacciata dei mercanti dal tempio di van Baburen è dominata dalla figura centrale, un mercante d'ovini mezzo svestito, dalle vesti lacerate, che scappa da un Gesù furioso e vendicatore armato di frusta improvvisata. Gli altri personaggi, interrotti nel loro mercanteggiare, reagiscono scompostamente, mettendo mano a un'arma o cercando di nascondere le monete. Se non che, qualcuna di esse cade dal tavolaccio. Protagonista è il triviale, non il solenne: la scena dal Vangelo di Giovanni viene letteralmente “travestita”.

 

Il travestitismo in letteratura non è una novità dell'epoca, almeno in Italia, da Pietro Aretino e Giulio Cesare Scaligero in poi, ma non è neppure popolarissimo: dall'impulso di Francesco Bracciolini (Lo scherno degli dei, 1618), Alessandro Tassoni (La secchia rapita, 1622) e Giovan Battista Lalli (L'Eneide travestita, 1633), tale specifica pratica di letteratura in secondo grado diviene alla moda in tutt'Europa solo con Paul Scarron e il suo Virgile travesti (pubblicato tra il 1648 e il 1652). Vi è però un rispecchiamento tra la pittura e la letteratura del tempo, sempre che la radice comune si trovi nell'anti-solennità dei teatri di strada, nel picaresco e nella commedia dell'arte. Qui gli artisti trovano nuova linfa per le proprie composizioni: l'esercizio dell'ironia e del witz– suggerito dall'allentamento dei dettami controriformistici – e il mix di linguaggi alto e basso, contribuiscono a sancire la “modernità” del nascente Barocco. Alcuni dettagli estremamente cinematografici, o snapshot, contribuiscono alla vitalità e alla freschezza del dipinto di van Baburen: il mercante, nella sua foga, urta uno sgabello con due piccioni, e uno dei cambia-valute fa inavvertitamente cadere due monete, che rimangono in bilico nel momento, sulla sua veste e in aria. 

 

Se van Baburen è artista conosciuto, studiato e celebrato, un certo stupore avviene di fronte alla selezione di opere dello svizzero Giovanni Serodine – almeno per me. Artista considerato già all'epoca geniale, morto a soli trent'anni, forse per avvelenamento da parte di un collega invidioso, Serodine pratica una pittura sorprendentemente autotelica. Prendiamo il San Pietro in prigione (1628-1630, dalla Pinacoteca Cantonale Giovanni Züst di Rancate, Mendrisio). [Wikicommons] È un Pietro un po' Girolamo, intento alla lettura, ma con evidente difficoltà: Pietro uno di noi, insomma. Alcuni espedienti prospettici sono compositamente ambiziosi: non il cassetto semi-aperto in basso a sinistra, bensì il teschio re-animato – che osserva il soffitto – e che diviene occasione di pittura in sé, attraverso la concrezione dei diversi bruni, a creare una superficie informale; non certo un'occasione di meraviglia virtuosistica e anatomica. Guardiamo anche lo sfondo indefinito, che è pittura e non iconologia. Come non pensare al Marat di David o alle Pinturas negras di Goya? Allora non mi pare assurdo interpretare la pittura di Serodine come eccentrica e singolare anticipazione di quella ottocentesca – come più tardi quella di Alessandro Magnasco –, e come essa non sia più un “caravaggismo”, bensì un superamento proto-modernista dello stesso. Anche il naturalismo se ne va Aramengo – vedi il candelabro, torto, deformato e impressionista.

 

Se la mostra ha come punto di partenza Caravaggio e il caravaggismo, non è di influenza che si deve parlare. Nell'opera caravaggesca ogni artista trova ciò che cerca, dimostrandosi autonomo e peculiare: lo stesso Gerrit van Honthorst è considerato maestro di luce artificiale – non a caso è chiamato Gherardo delle Notti in Italia –, ma come coniugare in una vulgata la sua opera, se l'artista ci offre allo sguardo un coloratissimo Concerto (1623, dalla National Gallery of Art di Washington, D.C.) – così differente? 

 

Proprio in questo la mostra svela il proprio trucco: attraverso la ripetizione dei soggetti, le differenze si danno più manifeste, complicando la visione e affinando la percezione, e gli artisti “caravaggisti” possono con sollievo uscire dalla pesante cappa della storiografia.

 

Poiché una mostra non è soltanto una mostra, tre diverse istituzioni e i suoi studenti sono stati coinvolti, al fine di confrontarsi con la pittura del primo '600 europeo e trasportarla dentro la contemporaneità: l'Opernstudio del Bayrischer Staatsoper, la Hochschule für Theater und Musik e l'Akademie der Bildenden Künste, tutte a Monaco di Baviera. Come reagiscono e reagiranno gli studenti? Per quello che ci riguarda in accademia, lo vedremo alla mostra di fine anno.

 

Il museo ha inoltre messo a disposizione un sito dedicato.

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Kounellis e la materia

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Biennale di Venezia

Tonfo

 

Si racconta che il 16 febbraio 2017 un sacco di iuta pieno di carbone, installato nella sezione contemporanea del museo di Capodimonte a Napoli, si sia staccato dal gancio che lo teneva appeso a una placca di ferro arrugginito. È un’opera, facile indovinarlo, di Jannis Kounellis. Il 16 febbraio 2017, giorno del banale incidente, l’artista ci lasciava, concludendo una carriera infaticabile estesa su quasi sei decenni. A Napoli la materia della sua scultura si anima per un istante, si carica di energia solo per cadere con un tonfo a terra e ribadendo la sua gravità.

Non ricordo più chi mi ha raccontato questo aneddoto in cui verità e mito si confondono (del resto stiamo parlando di Kounellis) – e se non è vero è ben trovato. Napoli era una città cara all’artista di origine greca, in cui ritrovava il tema del viaggio e dell’esilio: dall’affiche della mostra alla Modern Art Agency nel dicembre 1969, dove Kounellis, ritto sulla poppa di una nave sul golfo di Napoli, va alla conquista della città, fino all’installazione permanente alla stazione della metropolitana a Piazza Dante (2002), con le putrelle che – come binari del treno spezzati – schiacciano scarpe e vestiti. A Capodimonte, assieme ai sacchi troviamo anche anfore d’argilla di diverse dimensioni, alcune sbeccate, la maggior parte recanti tracce di un precedente utilizzo.

Sacchi e anfore: due tra gli oggetti più antichi realizzati dall’uomo per il commercio marittimo e il trasporto di cibo, acqua, vino, olio, aceto e pece. Chi entra in questa sala – anticamera del Cretto nero di Burri – può pensare di trovarsi in un museo archeologico, tra i resti di una civiltà scomparsa, davanti a un bottino di guerra o tra la mercanzia sul molo di un porto pronta a essere imbarcata. Ferro e carbone: materiali ancestrali utilizzati nel corso della storia per riscaldarsi, cucinare pietanze crude, carburare le macchine. Per non evocare il lavoro del vasaio, archetipo dello scultore e della fabbricazione di oggetti artistici. 

 

 

Difficile parlare di Kounellis senza ricordarci che era originario del Pireo, antico porto di Atene, col rischio di sciogliere la sua opera in un’infanzia mitica, come se Kounellis – sorta di Joseph Beuys mediterraneo – volesse riportarci alla lingua e alla tradizione greche in cui si è forgiata la filosofia, la tragedia, la democrazia e la civiltà europea. Perché resta il fatto che queste evocazioni si manifestano in uno dei corpus più estremi dell’arte italiana. Tuttavia, anziché prendere di petto la questione della scultura, interrogare quel poco o tanto che ne sappiamo, ci affrettiamo ad assegnarle un significato. Là dove fallisce la storia dell’arte plastica riesce la storia della cultura – a rischio di fare di Kounellis il messaggero del Mediterraneo, il turiferario di una civiltà antica.

Una lettura rappacificante che, nell’attribuire senso alla materia, nel risolvere a favore della prima la diade tradizione-rivoluzione elude, in finale, quello che Kounellis fa con la materia. Che si tratti di cavalli o di volatili, di cactus o di fuoco, del suono di un violino o delle fiamme a gas.

Davanti ai suoi scritti e alle sue opere, in cui non trapela alcuna esitazione, mi sono posto spesso la stessa domanda: cos’è che fa scultura in Kounellis? Che non è lo stesso che chiedersi cos’è per lui la scultura. Interrogarsi su quello che in Kounellis fa scultura è tanto più paradossale quanto più si è ostinato a definirsi pittore. Una pittura sinonimo non di pittorico ma di composizione, di una tradizione che include Burri e Pollock, di un modo di costruire immagini che risultano dalla tensione tra struttura e sensibilità – che lo stesso valga anche per la scultura?

 

 

1969-2013-2019

 

Alla Fondazione Prada di Venezia (fino al 24 novembre) si tiene la prima retrospettiva postuma dedicata all’opera di Kounellis organizzata (e non poteva essere altrimenti) da Germano Celant. Una mostra che – spaziando dal 1959 al 2015, dalla ricostruzione delle prime personali romane alle grandi installazioni nelle sale centrali dei due piani nobili – evita la trappola del tributo. Si visita come se fosse allestita dall’artista, con un dialogo tra le materie, tra le opere, tra queste e lo spazio di Ca’ Corner della Regina (sede della Fondazione Prada). “Non mi interessa il tipo di istituzione entro cui espongo le mie opere, galleria o museo che siano: utilizzo lo spazio come una cavità teatrale, e qui, se ho qualcosa da dire, lo dico” (1989). Il dialogo s’instaura persino con le opere non in mostra illustrate nel catalogo, che rende conto, per la prima volta, della comparsa di oltre mille lavori tra il 1960 e il 2016.

A Venezia resto colpito da una delle opere più defilate che, collocata su un ballatoio vicino alle scale, rischia di passare inosservata a una visita distratta. Sette sacchi di iuta addossati al muro, con le estremità arrotolate e il contenuto visibile: ceci, chicchi di caffè, lenticchie verdi, piselli, fagioli, fagioli bianchi, granturco, patate e riso (Senza titolo, 1969). Provo un senso di déjà vu attivato anche dall’odore dei chicchi di caffè, come se avessi già visitato la mostra – peccato che è il giorno dell’inaugurazione…

Molto più tardi mi rendo conto che l’opera è stata in effetti già esposta qui in occasione del reenactment di Live in Your Head: When Attitudes Becomes Form, organizzata da Harald Szeemann alla Kunsthalle di Berna nel 1969. Il loop temporale 1969-2013-2019 si precisa: esattamente cinquant’anni fa (22 marzo-27 aprile 1969 a Berna, a maggio alla Haus Lange di Krefeld, a settembre a Londra) Senza titolo era esposta da Szeemann prima di essere riproposta a Venezia a due riprese. Tre installazioni della stessa scultura? o piuttosto tre opere simili che ogni volta si manifestano in modo diverso? Quando le attitudini diventano forma: che questo faccia scultura in Kounellis? 

 

 

Artisti dell’attitudine

 

Della mostra di Szeemann conosciamo tutto: le opere, il catalogo con gli artisti in ordine alfabetico (Kounellis viene dopo Kosuth), la documentazione fotografica delle fasi dell’allestimento, le sue criticità, come l’invadenza dello sponsor, la Philip Morris, che nel catalogo firma uno statement stridente sulla vicinanza tra arte e impresa, su cui Hans Haacke non ebbe all’epoca niente da ridire. Conosciamo inoltre i retroscena riportati nel diario tenuto da Szeemann durante i preparativi. Lo rileggo. 

Dopo un viaggio serratissimo da una costa all’altra degli Stati Uniti, il 9 gennaio 1969 Szeemann parte per Milano. Alle 18 ha appuntamento dall’editore Mazzotta che prepara un libro sull’arte povera, o meglio il libro sull’arte povera di Celant. Non hanno ancora un titolo per questa antologia e, secondo i ricordi del critico svizzero, pensano persino di riprendere quello della sua mostra: “Quando attitudini diventano forma (opere, concetti, processi, situationi [sic], informazione”. Il reenactment del 2013 è già tutto qui.

Il 10 gennaio Szeemann è a Torino dove incontra Zorio, Merz, Gilardi e Enzo Sperone; l’11 è la volta di Anselmo, Sperone, Boetti, Pistoletto, ancora Gilardi e Merz, quello che più lo impressiona; la sera a Genova vede Paolo Icaro ed Emilio Prini. In viaggio verso la capitale, si ferma a Bologna per Calzolari. 

Il 13 gennaio è consacrato agli artisti romani: “Come sempre a Roma, non si possono incontrare le persone prima della sera. Sargentini e Kounellis mi fanno vedere la nuova Galleria l’Attico, un garage. Prima mostra: 12 cavalli da circo. I servizi resi da Sargentini agli artisti dell’attitudine sono straordinari. Senza la sua dedizione per Pascali, purtroppo scomparso troppo presto, e per Kounellis, Roma avrebbe appena valso il viaggio, se non fosse per la Roma dei turisti”. Nel catalogo Tommaso Trini scriveva che “la società di potere tipica di Roma ha favorito negli artisti predisposti la regressione al primario, l’uscita verso l’immaginario soggettivo” (Nuovo alfabeto per corpo e materia). Kounellis “artista dell’attitudine”? 

 

 

Il 14 gennaio Szeemann è già a Londra. Manca poco all’inaugurazione del 22 marzo, quando Daniel Buren sarà fermato dalla polizia per affichage illegale. Il 15 marzo Michael Heizer con famiglia arriva alla Kunsthalle di Berna; il 20 è la volta di Kounellis con Sargentini, Boetti e, ultimo a far capolino, Joseph Beuys. Nelle numerose fotografie pubblicate nel catalogo della mostra veneziana, Kounellis installa la sua opera assieme a Eliseo Mattiacci e circola nella sala di Anselmo, Zorio e Boetti.

Leggendo il diario di Szeemann, lo confesso, mi sono emozionato nonostante la scrittura sia stringata e si limiti a inanellare luoghi e persone. Ma si tratta di luoghi e persone che, quasi senza eccezione, hanno fatto la storia dell’arte contemporanea. Un atto di nascita di un modo d’intendere la figura dell’artista e l’opera d’arte, un groviglio internazionale e transatlantico di quegli “artisti dell’attitudine” in cui arte povera, minimal art, land art, installation art, arte concettuale si tengono miracolosamente insieme. Un’attitudine che si fa forma attraverso “materiali mai prima usati in arte (terra, amianto, piombo, grafite, ghiaccio, uccelli, cera, catrame, reti, sostanze chimiche, ecc.)”, per farne “un bricolage mentale e comportamentistico” (Trini) – per farne scultura.

 

Cumulo

 

Cosa espone Kounellis in quell’occasione? Carbone (1968) e Senza titolo (1969) in lana di pecora, legno e corda, entrambe nella collezione della Galleria L’Attico di Roma. Perlomeno così si legge nel catalogo, ma le cose andarono diversamente.

Una volta a Berna, Kounellis si rende conto che le sue opere non sarebbero mai arrivate in tempo per l’apertura, trattenute e ispezionate alla dogana svizzera. E le dogane svolgono un ruolo fondamentale nella storia della scultura, termometro delle sue rivoluzioni nel corso del XX secolo. Penso a Uccello nello spazio di Brancusi, bloccato alla dogana americana nel 1926: quel manufatto era una scultura o un oggetto commerciale in bronzo lucido su una base di metallo? Solo il verdetto del tribunale permise di sciogliere ogni dubbio sancendo che di opera d’arte si trattava.

 

 

Kounellis non si perde d’animo e acquista sul posto fagioli, farina, piselli, carbone, caffè e riso come se dovesse preparare un piatto prelibato per gli amici. Chiude gli insiemi in vecchi sacchi di iuta, generando così “un archeologico deposito contadino” (Trini su “Domus”, 478, settembre 1969). Che la versione originale contenga patate e riso poco importa: resta l’essenziale, la presenza delle materie o quello che chiamerei potere di accumulo. Nel campo della fisiologia vegetale designa la “facoltà che hanno le cellule delle piante di accumulare grandi quantità di un elemento o di un composto chimico, che perciò si trova nella cellula in misura molto superiore a quella compatibile con la concentrazione che esso ha nell’ambiente”. Che sia l’accumulo a fare scultura?

Kounellis accumula enormi quantità di materie, lontani dall’organico e dall’antropomorfo. Le sculture che ne risultano sono gravide se non tumide, seguendo l’etimologia di cumulo. Così sono i sacchi di Berna e Venezia: qualcosa si rigonfia all’esterno, cresce e, allo stesso tempo, crea sul lato opposto una cavità, un incavarsi. Cavità e sporgenze risultano dalla stessa operazione, della stessa azione che piega la materia. E nell’accumulo risuona il colmare un recipiente di un liquido (come un’anfora) fino all’orlo o finché trabocca.

 


L’accumulo è infine proprio alla città di Roma, come nella scultura del Bernini davanti la basilica di Santa Maria sopra Minerva, un elefante con un obelisco sul groppo e le terga volte alla facciata della chiesa domenicana. Per Kounellis questo era l’antidoto alla scultura minimalista americana, legata a superfici industriali e levigate e priva di stratificazione storica. Una forma di amnesia estetica: “Hanno scelto un altro tipo di logica”, e qui credo che il tono si facesse più severo: “Il quadrato elimina ogni possibilità di accumulazione”, come precisa in un’intervista del marzo 1979 destinata a un pubblico anglofono.

 

Brodo di pietre

 

Quando la mostra di Berna del 1969 chiude i battenti, non sappiamo cosa ne è dei sacchi. Come aveva già intuito Trini: “Se il linguaggio vive come le cellule, l’opera d’arte che lo materializza ha l’arco di vita che gli assegna l’artista, e infatti molte di esse durano una mostra, il tempo di un’alchimia. La materia evapora e diventa un’operazione, un rapporto: due idee espresse da due cose successive” (Nuovo alfabeto per corpo e materia).

La preoccupazione per l’originalità verrà meno anche quando l’opera sarà installata alla Tate Modern di Londra nel 2009, che necessita la sostituzione di materiali deperibili come i legumi e i fagioli. Lo stesso accadrà a Venezia. In atri termini, la scultura abbandona la sua unità e unicità intoccabili. Kounellis riutilizza gli stessi elementi per altre mostre o per la stessa opera in un nuovo contesto, producendo di fatto un’altra versione dell’opera, un nuovo stato della materia. Solo la riproduzione fotografica, rigorosamente in bianco e nero, la fissa, come mi fa osservare Chiara Costa. Che in questi scatti, di cui il catalogo veneziano offre un campionario eccezionale, che nel controllo dei giochi di luce e ombra e nel taglio dell’immagine, Kounellis si faccia pittore? 

 

 

Cosa fa scultura: la domanda resta aperta. Nel 1969 i visitatori di When Attitudes Becomes Form erano liberi di prendere una manciata di cereali dai sacchi, di gettarli a terra ma anche di metterli in bocca e masticarli, portando con sé, dentro di sé, l’opera di Kounellis. Una scultura da ingerire.

“Si prendono da un posto fino al quale non giunga la bassa marea due o tre pietre, né troppo grandi né troppo piccole, inscurite dalla lunga giacenza sul fondo del mare; si cuociono a lungo nell’acqua piovana, fino a che non esca tutto ciò che si trova nei loro pori; si aggiungono alcune foglie di alloro e di timo e, infine, un cucchiaio d’olio d’oliva e di aceto di vino. Se sono state scelte pietre adeguate, non c’è neppure bisogno di salare”. È questa la curiosa ricetta del brodo di pietre data da Predrag Matvejević nel Breviario mediterraneo. Un brodo di pietra, aggiunge l’autore, che “è antico come la miseria sul Mediterraneo”. Per l’appunto.

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Vincent a Londra

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‘Più di dieci anni fa, quand’ero a Londra, ogni settimana passavo davanti alla vetrina dello stampatore del Graphic e del London News per vedere le pubblicazioni settimanali. Le impressioni che ne ricevetti lì sul posto sono state così forti che quei disegni mi sono rimasti in mente in modo chiaro e preciso, nonostante tutto quello che è passato nella mia testa da allora…’, scriveva Van Gogh all’amico pittore Van Rappard nel febbraio 1883, ai tempi dell’Aia. 

 

È questo uno degli aspetti da scoprire alla mostra Van Gogh and Britain, aperta a Londra alla Tate Britain (fino all’11 agosto 2019). Curata da Carol Jacobi, Chris Stephens, Martin Bailey e Hattie Spires, la mostra accende per la prima volta i riflettori in due direzioni, da un lato su come Vincent fu ispirato dall’arte e dalla letteratura britannica, e dall’altro su quanto a sua volta ispirò una generazione di artisti inglesi, da Walter Sickert e i pittori della Camden Town, a Francis Bacon. Le oltre 50 opere in mostra, provenienti dai grandi musei oltre che da collezioni private, percorrono tutta la vita di Vincent, con un occhio attento alle sue letture in lingua inglese, alle tante opere grafiche o ai dipinti che lo hanno ispirato, tra i quali figurano Constable e Millais. Tre autoritratti scandiscono l’evoluzione pittorica di Vincent da Parigi alla Provenza, tra tanti capolavori come La notte stellata sul Rodano dal Musée d’Orsay di Parigi, o La prigione di Newgate dal Museo Pushkin di Mosca. Libri e documenti completano il percorso. 

Uno degli obiettivi della mostra, in linea con i recenti progetti del Museo Van Gogh di Amsterdam, è quello di guardare a Vincent da un’altra prospettiva, quella dell’uomo estremamente attento all’evoluzione dell’arte e della letteratura del suo tempo – lontano dal mito imperante dell’artista impulsivo e tormentato, isolato dal mondo e dai suoi contemporanei. 

 

Vincent van Gogh, L’Arlésienne, 1890, olio su tela, collezione MASP (São Paulo Museum of Art). Photo credit: João Musa.


‘L’Arlesiana’

 

La mostra ci accoglie con l’opera manifesto, Madame Ginoux, ‘L’Arlesiana’, che Vincent dipinse nei primi mesi del 1890, nell’ospedale psichiatrico di Saint-Rémy-de-Provence. Sul tavolo due tra i suoi libri più amati spiccano in primo piano nelle pennellate veloci in verde chiaro – i titoli ben leggibili, inscritti in francese. Sono Il canto di Natale di Charles Dickens e La capanna dello zio Tom di Harriet Beecher Stowe. Nel lungo anno che passò nell’istituto di Saint-Paul-de-Mausole, oltre a rileggere tutto Balzac e riprendere in mano le opere di Shakespeare, Vincent rilesse ‘con attenzione estrema (sottolineato nella lettera) due vecchie conoscenze, ben sapendo di poter scoprire sempre qualcosa di nuovo tra le righe dei suoi vecchi libri. L’opera in mostra, proveniente dal Museo d’Arte di San Paolo (MASP), è una delle quattro ripetizioni di L’Arlesiana giunte a noi – una quinta è andata perduta. La modella è Marie Ginoux, proprietaria con il marito del Café de la Gare di Arles, che aveva acconsentito a posare per lui e per Gauguin alla Casa Gialla. Va ricordato che quest’opera è molto particolare anche per un altro motivo: annoiato e senza modelli, a Saint-Rémy Vincent trovò un modo originale per distrarsi e, partendo da uno schizzo su carta che Paul Gauguin aveva lasciato ad Arles quando Marie Ginoux aveva posato per entrambi, ne riprese il contorno su tela, lavorando a una nuova composizione. La teca in mostra che accompagna questo ritratto provenzale presenta i due libri nella versione in francese, come dai titoli dipinti dall’artista. 

Unica protagonista della prima sala, quest’opera ci dice quanto Vincent amasse i libri, e Dickens in particolare, che lesse e rilesse nel corso degli anni, sia in inglese che in francese. Sulla parete opposta, una semplice e simpatica installazione: un ripiano ricavato nel muro mima una piccola biblioteca vangoghiana in lingua inglese. Con una cinquantina di volumi, provenienti dalle collezioni della Tate e dal Museo Dickens, passiamo in rassegna alcuni tra i titoli che Vincent cita nelle sue lettere; tra gli autori più amati c’è George Eliot, Charles Dickens, William Shakespeare, che iniziò a leggere sin da ragazzo.

 

Nella grande metropoli

 

Giuseppe de Nittis, The Victoria Embankment, London, 1875, olio su tavola, collezione privata.

 

Quando Vincent arriva a Londra nel maggio 1873 all’età di vent’anni, ha alle spalle già quattro anni di lavoro nella galleria d’arte della Goupil & Co dell’Aia, dove aveva iniziato come apprendista nel 1869. La notizia del trasferimento alla sede londinese giunge benvenuta: ‘sarà fantastico per il mio inglese che capisco bene, anche se non lo parlo ancora come vorrei… Sono curioso di vedere i pittori inglesi, se ne vedono così pochi, le loro opere rimangono per lo più in Inghilterra’, scrive al fratello Theo, che ha da poco iniziato a lavorare alla Goupil di Bruxelles. Vincent rimane alla galleria per due anni, visita mostre e musei, dalla National Gallery alla Royal Academy, immergendosi nella vita e nella cultura britannica. Lavora a Covent Garden, la sede londinese della Goupil, pioniere nella produzione e diffusione di opere grafiche e di riproduzione. Vive dapprima a Brixton, un quartiere a sud di Londra, e tutti i giorni cammina verso il posto di lavoro attraversando il ponte di Westminster, come ricorda più tardi da Parigi, alla vista del dipinto di Giuseppe de Nittis ‘quando l’ho visto ho pensato a quanto amo Londra’. Conosce anche il suo primo amore non corrisposto – in casa dei Loyers, dove alloggia – che però rimane avvolto dal mistero. Si trattò di Ursula (57 anni, vedova) o della figlia Eugenie, sua coetanea? Forse nuovi documenti aiuteranno presto a sciogliere l’annoso nodo. Una cosa però è certa, questo primo sfortunato amore lo portò a leggere e amare i poeti romantici.

 

A quel tempo Londra era la metropoli più grande al mondo, e con oltre tre milioni di abitanti dovette sembragli immensa, per nulla simile alla vita vivace dell’Aia, culla della cultura olandese a cui era abituato. Se industrializzazione, capitalismo e ricchezza rendevano Londra la città più moderna dell’epoca, povertà, squallore e degrado dilagavano, come documentano le impressionanti opere di Gustave Doré. Frutto di quattro anni di collaborazione dell’artista francese con il giornalista inglese William Blanchard Jerrold, London: A Pilgrimage è un testo-immagine eccezionale della Londra vittoriana. Pubblicato nel 1872, con le sue 180 incisioni che tracciano tra luce e ombre il doppio volto della metropoli, la sua uscita aveva provocato un certo scalpore, come fa notare Martin Bailey nel suo contributo al catalogo. Il libro rimase a lungo nel cuore di Vincent, che non poté mai permettersi questo acquisto, ma dieci anni dopo – da artista – raccolse molte di queste illustrazioni, qui esposte.

 

Cresciuto nella tranquilla cittadina olandese di Zundert, Vincent fu indubbiamente scioccato dai quartieri poveri di Londra che vide a vent’anni nelle sue lunghe camminate nelle periferie. Queste visioni contribuirono ad avviare in lui una profonda riflessione sul senso che voleva dare alla sua vita. Londra stava cambiando, le riforme sociali avanzavano, e Vincent era attento a tutto. In Inghilterra scopre il realismo sociale di George Eliot, la ribellione di Charles Dickens verso le ingiustizie della società inglese ottocentesca; queste pagine lasceranno in lui una profonda impressione. Quando decide di diventare artista il suo scopo è quello di fare arte ‘dalla gente per la gente’. Letteratura e vita si erano intrecciate in lui, sin da ragazzo.

 

Parete sullo sfondo, Gustave Doré, Illustrazioni per London: A Pilgrimage 1872, B. Jerrold e G. Doré, © Tate photo (Joe Humphrys).


Vincent e il Graphic, dieci anni dopo 

 

Vincent ritorna all’Aia alla fine del 1881, questa volta da artista. Il primo gennaio 1882 affitta una stanza con studio, prende le sue prime lezioni di pittura da Anthon Mauve, affermato pittore della Scuola dell’Aia. Grazie al suo primo maestro frequenta il Pulchri Studio, dove può disegnare da modelli, due sere la settimana. Conosce così giovani artisti, tra cui George Breitner con il quale stringe amicizia; con lui farà frequenti escursioni notturne nei quartieri poveri della città alla ricerca di nuovi soggetti. Legge moltissimo, colleziona stampe e  illustrazioni delle maggiori riviste europee, in vendita nelle librerie d’occasione. Favorito dal loro basso costo adatto alle sue tasche, la sua collezione cresce enormemente e nel giro di pochi mesi può contare ‘almeno mille’ stampe, come scrive a Theo nel giugno 1882. Tra le sue preferite figurano molti fogli dai primi anni del Graphic, con le illustrazioni che gli erano rimaste in mente ‘in modo chiaro e preciso’, da quando – dieci anni prima – passava puntualmente a vedere le vetrine degli stampatori a pochi minuti dalla Goupil, sullo Strand. 

Inaugurato nel Dicembre 1869, il Graphic era una pubblicazione settimanale nata come rivale del più tradizionale TheIllustrated London News. Il suo fondatore, William Luson Thomas, si avvaleva di una nuova generazione di artisti ai quali dava piena fiducia, come Luke Fildes, Hubert Herkomer e Frank Holl, per citare almeno alcuni tra i più rinomati illustratori impegnati nel realismo sociale; sempre a caccia di scene dalla vita reale nelle strade di Londra, con un occhio attento ai poveri, diseredati, sofferenti, essi proponevano uno sguardo nuovo, aderente alla realtà e lontano dal melodramma o dalla caricatura. Vincent, che all’Aia viveva con una prostituta e disegnava gli anziani dell’ospizio, ne apprezzava l’approccio diretto, la sincerità, il sapore. Il primo numero, con l’illustrazione di Fildes Houseless and Hungry, ‘povera gente in attesa di un rifugio per la notte’ (già su queste pagine), fu un successo, tanto che lo stesso Dickens affidò a Fildes le illustrazioni per il suo Il mistero di Edwin Drood (pubblicato postumo). Vincent trasse ispirazione da queste immagini in bianco e nero, che iniziò a catalogare e a ritagliare incollandole su carta grigia ruvida, accarezzando l’idea di guadagnarsi da vivere come illustratore. Condivise la sua passione con Van Rappard e con gli amici del Pulchri Studio che a quanto pare gli chiesero persino ‘di fare una conferenza una sera’. Gli anni di Londra erano rimasti molto vivi nella sua memoria visiva. 

 

Da sinistra: Hubert von Herkomer, ‘Sunday at Chelsea Hospital’, Graphic, 18 February 1871; Edward Gurden Dalziel, ‘Sunday Afternoon 1.00pm, Waiting for the Public House to Open’, Graphic, 10 Gennaio 1874, Amsterdam, Van Gogh Museum, Vincent van Gogh Foundation.


Londra 1947, ‘il miracolo di Millbank’

 

La prima grande retrospettiva inglese del dopoguerra dedicata a Van Gogh si tenne alla Tate Gallery (su Millbank), dal 10 dicembre 1947 al 14 gennaio 1948. Fu una delle prime mostre organizzate dal rinnovato Arts Council britannico, con un fitto programma itinerante, prima Londra poi Birmingham e infine Glasgow, città devastate dai bombardamenti. L’importante iniziativa era stata sollecitata dall’Arts Council con la speranza di ‘portare un po’ di vita e di gioia in questa nostra scialba città!’. 

Sostenuta dal governo olandese come iniziativa diplomatica e culturale, l’evento metteva insieme ben 178 opere di Van Gogh, provenienti dal Kröller Müller Museum (aperto nel 1938) e dall’immensa collezione del nipote dell’artista, Vincent Willem van Gogh, figlio di Theo e Jo. Fu una delle mostre internazionali su Van Gogh che si susseguirono in modo quasi continuativo nel secondo dopoguerra, una sorta di ‘veicolo post-bellico per guarire un Continente a pezzi’, come scrive Hattie Spires nel suo contributo al catalogo. Quasi cinquemila visitatori al giorno affollarono le sale londinesi, un successo enorme, tanto che a mostra conclusa il direttore della Tate chiese all’Arts Council un rimborso per i pavimenti consumati. In sole cinque settimane si era verificata un’usura paragonabile a tre anni di normale attività. La stampa lo descrisse come ‘il miracolo di Millbank’. I giornalisti iniziarono a chiedersi le ragioni di tante code – il Daily Graphic si diede una risposta, la più semplice, in fondo: ‘la gente ha sete di colore’. 

 

Poster della mostra, Tate Gallery 1947, © Tate, 2018; Coda fuori dalla Tate Gallery per la mostra Vincent van Gogh 1853–1890: Paintings and Drawings, 10 Dicembre 1947 – 14 Gennaio 1948.


Girasoli a Londra

 

Nella seconda parte della mostra, siamo accolti in una sala che presenta i Girasoli di Vincent accanto a vari dipinti di fiori, otto in tutto – girasoli e non – eseguiti dagli artisti britannici nei decenni successivi. Colpisce il divario incolmabile tra il direttore d’orchestra (Vincent) e i suoi coristi che al confronto appaiono stonati e sbiaditi, nonostante tutto. Tra gli omaggi al maestro figurano i Girasoli di Frank Brangwyn (primo Novecento), quelli di Jacob Epstein (1933), e i Crisantemi gialli in un vaso di Christopher Wood (1925), questi ultimi due eseguiti sulla scia della mostra britannica dedicata a Van Gogh del 1923, tenutasi alle Leicester Galleries. 

 

Da sinistra: Frank Brangwyn, Sunflowers, © The Estate of Frank Brangwyn/Bridgeman Images; Jacob Epstein, Sunflowers, 1933, © The estate of Sir Jacob Epstein; Christopher Wood, Yellow Chrysanthemus, 1925, Mr. Benny Higgins & Mrs Sharon Higgins.


La tela dei Girasoli di Vincent ora esposta è la stessa di allora, e cioè la versione giallo-su-giallo dipinta nell’agosto 1888, eccezionalmente prestata dalla National Gallery che raramente se ne separa. Vincent aveva ottenuto il suo scopo: ‘l’alta nota gialla’, l’irraggiungibile. Una sinfonia di gialli pervade la tela, una tela inondata di luce. Una musica. Non va dimenticato qui che lo stesso giugno Vincent aveva scritto a Theo: ‘sto leggendo un libro su Wagner che poi ti manderò – che artista – uno così in pittura, ecco cosa sarebbe bello. – Verrà’. ‘Ça viendra’. Sappiamo anche da una lettera di Theo alla sorella, che prima di partire per la Provenza i due fratelli erano andati a sentire due concerti di musica di Wagner…

 

Di fronte alla parete dei ‘suoi’ Girasoli, in una teca, un documento commovente: è una lettera di Jo (moglie di Theo) del 24 Gennaio 1924 al direttore della National Gallery, nella quale decide di cedere alle sue pressioni. Figura chiave, dopo la morte del marito (1891), passò la sua vita a promuovere l’arte di Vincent in tutta Europa. Quando si convinse che era giunto il momento di separarsi dal quadro che da oltre trent’anni ‘guardava ogni giorno’, e a vendere i Girasoli alla National Gallery che insisteva da un anno, concluse la sua lettera al direttore con queste parole: 

‘A lui, “il Pittore dei Girasoli”, sarebbe piaciuto essere lì… È un sacrificio per la gloria di Vincent’.

 

The EY Exhibition. Van Gogh and Britain

Tate Britain, Millbank, Londra SW1P 4RG

27 marzo – 11 agosto 2019

 

Il catalogo della mostra, The EY Exhibition. Van Gogh and Britain, è a cura di Carol Jacobi, con contributi di Martin Bailey, Anna Gruetzner Robins, Ben Okri, Hattie Spires e Chris Stephens (Londra 2019). 

Per saperne di più sulle influenze degli illustratori e degli scrittori inglesi sull’opera di Vincent van Gogh si segnala lo studio di Ronald Pickvance, uno dei primi dedicati all’argomento, English Influences on Vincent van Gogh (1974). Sugli anni londinesi di Van Gogh, si veda anche il catalogo della mostra tenutasi nel 1992 alla Barbican Art Gallery di Londra, e curata da Martin Bailey: Van Gogh in England.Portrait of the Artist as a Young Man (1992). Un testo centrato sul ruolo del Graphic, degli illustratori e dei pittori del Realismo Sociale in Inghilterra è lo studio di Andrea Korda, Printing and Painting the News in Victorian London. The Graphic and Social Realism, 1869-1891 (2015). In arrivo per il prossimo autunno  

Everything for Vincent, di Hans Luijten, ricerca centrata sulla vita di Jo van Gogh-Bonger e sul suo ruolo cruciale nella diffusione dell’opera e delle lettere di Van Gogh. 

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Conversazione con Carolyn Christov-Bakargiev

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Parlare di Carolyn Christov-Bakargiev, significa parlare dell’eccellenza nell’ambito della curatela d’arte contemporanea. 

Nata nel 1957 a Ridgewood, in New Jersey, da padre bulgaro e madre italiana – nello specifico, piemontese –, si è trasferita per la prima volta in Italia per concludere i suoi studi in lettere e filosofia alle Università di Genova e Pisa. In seguito, ha iniziato a scrivere per importanti testate quali Flash Art e Il Sole 24 Ore, per poi intraprendere l’attività curatoriale a Villa Medici con l’incarico di organizzare le mostre estive (1998-2000). Dopo essere stata, dal 1999 al 2001, Senior curator al P.S.1 Contemporary Art Center a New York, è tornata in Italia per assumere, dal 2002 al 2008, il ruolo di capo curatore del Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea di cui ha ricoperto la direzione nell’anno 2009. Ha curato le più prestigiose manifestazioni internazionali d’arte contemporanea: la Biennale di Sydney nel 2008, dOCUMENTA(13) nel 2012 e la Biennale di Istanbul nel 2015. Dal 2016 è tornata a Torino per assumere la direzione congiunta della GAM Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea e del Castello di Rivoli. Lasciata la GAM nel 2018, attualmente è la direttrice del Castello di Rivoli e della Fondazione Francesco Federico Cerruti.

Francesco Bonami nel suo libro il Bonami dell’arte la definisce a buon diritto “una delle migliori curatrici del mondo”, “una fondamentalista della curatela”, creatrice di “mostre che in certi momenti diventano pura magia”. A lei dobbiamo inoltre la scoperta di artisti, divenuti poi importantissimi, come William Kentridge, Pierre Huyghe e Doris Salcedo, e mostre che hanno avuto il merito di portare in Italia celebri artisti internazionali, tra cui, recentemente, Ed Atkins (2016), Wael Shawky (2016), Anna Boghiguian (2017), Nalini Malani (2018), Hito Steyerl (2018-2019) e Anri Sala (2019).

Come direttrice del Castello di Rivoli, oltre a confermare le sue ormai note qualità curatoriali, sta dimostrando una particolare abilità nell’intrecciare rapporti di collaborazione con enti pubblici e privati piemontesi, italiani e internazionali, tra cui la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, le OGR, la Fondazione Merz, la Whitechapel Art Gallery e la Tate di Londra e anche il Getty Research Institute di Los Angeles. Le mostre finora proposte dal Castello di Rivoli sotto la sua direzione, non solo hanno rivolto l’attenzione verso gli artisti con cui Carolyn Christov-Bakargiev ha sempre mantenuto un rapporto, dimostrando così la continuità del suo operare, ma nell’approccio, nell’allestimento e nel catalogo che sempre le accompagna, hanno impressa chiaramente la sua eccellente “firma”: mai scontate, sono sempre aperte a molteplici livelli di lettura, sottendono temi di importanza globale, sono caratterizzate da una forte attenzione sia allo spazio espositivo che diventa parte integrante dell’esposizione, sia alle nuove produzioni realizzate appositamente dagli artisti. L’oscillare tra il taglio analitico e quello più allargato nell’affrontare tematiche relative al nostro essere nel mondo, costituisce infine un’altra loro importante qualità.   

 

Carolyn Christov-Bakargiev in occasione del conferimento dell'Audrey Irmas Awards, 2019, ph Lisa Quinones.


Seppur adesso nelle vesti di direttrice, Carolyn Christov-Bakargiev è e rimane nel suo profondo prima di tutto curatrice: sceglie gli artisti, idea con loro le mostre, ne segue la realizzazione, incide sovente nella realizzazione stessa delle opere, al fine di creare esposizioni che fungano da dispositivi per elevarsi dal particolare al globale, dal presente al futuro. Grazie a questo suo onnicompresivo lavoro, il Castello di Rivoli è ancora oggi uno dei più importanti musei di arte contemporanea al mondo e, nello specifico, nel 2019 ha raggiunto ulteriori traguardi.

Innanzitutto, il 17 aprile 2019, a New York, Carolyn Christov-Bakargiev ha ricevuto l’Audrey Irmas Award for Curatorial Excellence 2019, il più importante premio alla carriera curatoriale a livello mondiale, conferitole dal prestigioso Center for Curatorial Studies, Bard College (CCS Bard). Negli ultimi venti anni, il Premio Audrey Irmas ha premiato curatori di fama internazionale il cui lavoro ha contribuito a trasformare la percezione della creazione artistica e la sua valorizzazione nell’esposizione al pubblico. Tom Eccles, Executive Director del CCS Bard, ha affermato che “Carolyn Christov-Bakargiev è una forza singolare nel campo dell'organizzazione mostre. Le sue idee di vasta portata e il suo audace impegno per gli artisti che realizzano opere nuove e ambiziose vanno di pari passo con la sua esplorazione delle storie artistiche e il loro riproporsi. La sua eccezionale dOCUMENTA(13) è stata indubbiamente una delle grandi mostre del nostro tempo”.

Questo premio ha dato ulteriore prestigio e visibilità anche al museo che Carolyn Christov-Bakargiev dirige e che, il 4 maggio 2019, ha aperto al pubblico il suo nuovo polo costituito dalla villa e dalla collezione privata di Francesco Federico Cerruti (Genova, 1922 – Torino, 2015), imprenditore e collezionista scomparso nel 2015. La collezione include quasi trecento opere scultoree e pittoriche che spaziano dal medioevo al contemporaneo, con libri antichi, legature, fondi oro, e più di trecento mobili e arredi tra i quali tappeti e scrittoi di celebri ebanisti. Lo scopo di questo nuovo polo del Castello di Rivoli è creare un modello nuovo di museo d’arte in cui l’arte del passato è osservata da prospettive contemporanee innescando un dialogo unico tra collezioni, tra artisti attuali e capolavori del passato. 

Infine, il 7 maggio si è inaugurato a Venezia, presso Combo – una nuova sede espositiva in campo dei Gesuiti -, The Piedmont Pavilion; ovvero una mostra che, nata da un concetto di Carolyn Christov-Bakargiev e Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, ma curata da Marianna Vecellio, presenta opere d’arte provenienti dalle Collezioni del Castello di Rivoli e della Collezione Sandretto Re Rebaudengo oltre a prodotti dell’industria e del territorio piemontese come la Fiat 500 del 1957 e la sonda orbitante TGO (Trace Gas Orbiter) della missione europea ExoMars. 

In attesa dei nuovi traguardi ai quali Carolyn Christov-Bakargiev condurrà il Castello di Rivoli, nella seguente conversazione con lei abbiamo approfondito i tre succitati eventi che recentemente l’hanno vista protagonista. 

 

 

Quest’anno hai ricevuto l’Audrey Irmas Award for Curatorial Excellence, a conferma della tua eccellenza in ambito curatoriale. Guardandoti indietro, quali sono, a tuo avviso, le principali caratteristiche del tuo modo di curare le mostre?

 

Mi hanno conferito l’Audrey Irmas Award for Curatorial Excellence 2019 per le mostre collettive tematiche che ho curato, dalla Biennale di Sydney Revolutions – Forms ThatTurn a dOCUMENTA(13), dalla Biennale di Istanbul SaltwaterA Theory of Thought Forms a quelle, in precedenza, curate al Castello di Rivoli tra cui Volti nella folla (2004-2005) e La sindrome di Pantagruel (2005). 

Ciò che ha caratterizzato il mio lavoro è stato l’oscillare tra mostre personali dedicate ad artisti – che a volte si sono dimostrati grandi dopo che ho realizzato le loro prime personali – e importanti mostre tematiche collettive. 

La mostre tematiche collettive sono sempre state connotate da una complessità dal punto di vista dell’argomento trattato, capace però di non mettere in ombra le opere realizzate dagli artisti per quelle occasioni. Per complessità intendo il tentativo di toccare le più rilevanti problematiche dell’epoca in cui viviamo, tra cui, ad esempio, la negoziazione tra rivoluzione digitale e crisi ambientale, lo statuto della soggettività umana all’interno di un mondo in cui occorre trovare una collaborazione tra tutte le specie e le entità viventi sul pianeta. Spesso sono riuscita non solo a mettere a fuoco, ma anche a introdurre molto fortemente questi grandi temi. Ad esempio, dOCUMENTA(13) parlava della relazione tra umano e non umano dal punto di vista dell’equilibrio del pianeta, ma era anche focalizzata sulla distruzione della cultura materiale, delle opere d’arte, poiché la nostra epoca è caratterizzata da grandi guerre, conflitti, diaspore, migrazioni e di conseguenza da una notevole quantità di distruzioni. L’interconnessione così da me messa a fuoco, per cui la catastrofe ecologica e il collasso della biodiversità vanno di pari passo con il collasso della diversità della cultura materiale e immateriale, non era ancora stata affrontata da nessuno e farlo a dOCUMENTA(13) ha permesso di conferire una maggiore profondità a una manifestazione volta, già di per sé, a porre domande, più che a dare soluzioni. 

 

Carolyn Christov-Bakargiev in occasione del conferimento dell'Audrey Irmas Awards, 2019, ph Lisa Quinones.


Altra importante caratteristica del tuo modo di operare è il rapporto con gli artisti, soprattutto in merito alle nuove produzioni…

 

Sì, in queste manifestazioni solitamente ho incluso anche numerose opere realizzate per l’occasione.  Quello che faccio è parlare con gli artisti, non solo di arte, ma soprattutto del mondo. Da queste conversazioni sul mondo gli artisti trovano l’ispirazione per realizzare opere di grande qualità. Sono infatti nota per aver creato le premesse e le condizioni per l’emergere di capolavori. Spesso le persone pensano che le opere nascano solo dalla mente dell’artista, ma invece sono frutto di un contesto e di una rete di relazioni che le portano ad avere un impatto sulle coscienze. Le opere d’arte partecipano infatti nel dialogo e nel destino del mondo, mettendo a fuoco problemi e indicando possibili soluzioni.

 

Quando dici che le tue mostre tematiche affrontano le più rilevanti problematiche dell’epoca in cui viviamo, ti riferisci ai temi di più cogente attualità?

 

No, non mi riferisco all’attualità, in quanto sono d’accordo con l’idea di profonda inattualità espressa da Nietzsche. Il mio obiettivo è invece vedere le cose prima che siano attuali, in modo da agire, da parteciparvi. A dOCUMENTA(13) le opere ruotavano attorno a problematiche ambientali di crisi ecologica (ricordo il notebook che ho pubblicato in quell’occasione sull’antropocene), ma non si era ancora sviluppato un dibattito in merito all’antropocene che è seguito. Non si tratta quindi di riflettere sull’attualità, ma di capire l’emergere di certe condizioni in modo da far sì che il mondo vada in una direzione piuttosto che in un’altra, che avvengano fatti positivi e siano evitate le catastrofi. Si tratta di partecipare al modo in cui una data questione diventa attuale, ma prima che lo diventi. 

 

Passiamo adesso a un secondo traguardo raggiunto in questo anno che riguarda invece il Castello di Rivoli da te diretto: l’apertura al pubblico del nuovo polo del museo costituito dalla Collezione Cerruti. Potresti raccontare quando è iniziata questa vicenda e come si è sviluppata?

  

Villa Cerutti esterni.


L’apertura della Collezione Cerruti è il terzo grande momento nella storia del Castello di Rivoli. Il primo fu nel 1984 con l’apertura del Castello, sotto la direzione architettonica di Andrea Bruno e artistica di Rudi Fuchs. Il secondo fu il 1999 con l’apertura della Manica Lunga, ancora una volta sotto la direzione architettonica di Andrea Bruno quando al museo era direttore Ida Gianelli. Il terzo momento è il 2019 con l’apertura della villa Cerruti che si trova a soli 400 metri dal Castello.

Sono ormai tre anni che lavoro alla costituzione di questo nuovo polo del museo. L’accordo con la Fondazione Cerruti è stato firmato nella primavera del 2017 e nel luglio dello stesso anno abbiamo fatto l’annuncio accompagnandolo con una mostra al Castello dedicata ai capolavori di de Chirico presenti nella collezione Cerruti. Nella primavera 2018 al museo, inoltre, si è tenuto un convegno su celebri case museo. 

Il ragioniere Francesco Federico Cerruti, deceduto nel luglio 2015, era un collezionista riservato ma ben noto nel mondo dell’arte: ad esempio, prestò la sua opera di Bacon per la mostra Volti nella folla al Castello nel 2005, e acquistò un’opera di Franz Kline dopo aver visto al Castello la mia mostra dedicata proprio a quell’artista. Era anche stato iscritto al gruppo degli Amici del Castello di Rivoli nel 1995. Io non l’ho mai conosciuto personalmente, ma sapevo dell’esistenza della sua bellissima collezione tramite Ida Gianelli. 

 

Villa Cerutti interni.


Pochi mesi dopo la sua morte, nel 2016, quando ero appena diventata direttrice del Castello di Rivoli, il dottor Gianluca Ferrero, suo esecutore testamentario, mi ha riferito che la villa e le opere erano confluite nella Fondazione Cerruti, con il lascito di trasformare la villa in spazio aperto al pubblico affidandola in gestione al vicino Castello e con il vincolo di non spostare la collezione in un altro luogo. Per questa ragione la villa e le opere sono state date in comodato al Castello di Rivoli per la relativa gestione e valorizzazione. 

Per quanto invece concerne la ristrutturazione dell’immobile, è partita nel 2017 e si è svolta dopo aver portato in depositi tutte le opere, i mobili, i tappeti, i libri che sono stati poi studiati dal punto di vista conservativo e storico-artistico: Luisa Mensi ha studiato e fatto le necessarie manutenzioni e interventi di restauro ai dipinti e sculture, Gherardo Franchina i mobili, Mirco Cattai i tappeti, il centro per il restauro di Venaria i libri. Sono stati realizzati tre impianti d’avanguardia: un impianto di sicurezza ai massimi livelli mondiali per evitare di aggiungere vetrine di protezione (ogni oggetto è infatti stato taggato digitalmente e la sua collocazione è identificata esattamente nella centrale di sicurezza); un sistema di climatizzazione che controlla la temperatura e il livello di umidità; un impianto antincendio capace di garantire il non danneggiamento delle opere in caso di attivazione. 

Dopo questo lungo processo di ristrutturazione e studio, il 4 maggio 2019 la villa Cerruti è stata aperta al pubblico: vi possono entrare gruppi di sole dodici persone accompagnate da guide per motivi di sicurezza legati agli ambienti che sono molto piccoli. 

 

In quale modo la collezione del Castello di Rivoli si relazionerà con quella della villa Cerruti?

 

Veduta di The Piedmont Pavilion, Venezia 2019, ph Formentini Zanatta.


La visione delle opere della collezione Cerruti è molto importante: per questa ragione, alcune di esse sono state e saranno esposte al Castello secondo percorsi tematici. 

Dopo l’esposizione delle opere di de Chirico, il Castello ha accolto alcune delle opere di Andy Warhol provenienti dalla villa e a metà luglio 2019 ospiterà altri lavori, tra cui una Madonna col Bambino dell’allievo di Leonardo Marco d’Oggiono e un omaggio alla Gioconda di Gino De Dominicis, in una mostra legata ai cinquecento anni dalla morte di Leonardo. 

Fondamentale è capire che la villa Cerruti fa parte della vita di un museo d’arte contemporanea. Dopo l’era del critico d’arte con Clement Greenberg e dopo l’era del curatore con Harald Szeemann, adesso siamo nell’era del collezionista. Viviamo in un’epoca di archiviazione, dove le modalità secondo cui vengono aggregati dati e informazioni assumono sempre più rilevanza: per questa ragione il metodo intuitivo e associativo del collezionista diventa quanto mai importante da studiare come fenomeno, anche da un punto di vista di sociologia dell’arte. Il Castello di Rivoli, essendo un museo d’arte contemporanea, non poteva pertanto non “collezionare il collezionista”. Esistono alcuni musei d’arte enciclopedici come il Metropolitan e il Louvre che si sono dedicati anche all’arte contemporanea, ma non era mai successo che un museo d’arte contemporanea inglobasse l’antico.

 

Infine, una domanda sul Padiglione del Piemonte inaugurato a Venezia pochi giorni fa. Come è nata l’idea di dedicare una mostra al Piemonte?

 

La mostra è curata da Marianna Vecellio. Siamo in un’epoca in cui si assiste a un forte ritorno dei nazionalismi, o almeno a una costruzione mediatica di nazionalismi. Allora ho pensato che ci fosse un vuoto in merito ai regionalismi che invece erano stati molto importanti negli anni Sessanta e Settanta quando si studiava il folklore, le canzoni popolari, si valorizzavano le culture, il cibo e l’ambiente locali. Negli anni Ottanta e Novanta ci sono stati i separatisti regionalisti, anche con la nascita della Lega Nord in Italia, ed erano legati a fattori economici in quanto miravano a rendere autonome le aree economicamente più fiorenti dalle altre con più difficoltà. 

Essendo quella attuale un’epoca caratterizzata da grandi nazionalismi, chiamati oggi “sovranisti”, che si contrappongono alla globalizzazione internazionale, ho pensato di creare invece un padiglione per parlare di un territorio che risulta ormai vuoto di riflessione, cioè del territorio attorno al nostro rapporto con la terra locale e nello specifico con la terra della regione Piemonte, con il suo vino, i suoi tartufi, un territorio legato simbolicamente a temi come l’eternità, la metafisica, lo slow-food e l’understatement…. Mi sembrava che la conoscenza legata a una terra specifica fosse un territorio che potesse essere valorizzato in una mostra. 

Uno dei momenti propulsivi più importanti dell’arte contemporanea, per esempio, è stato il Congresso di Alba del 1956 voluto dall’artista-chimico-enologo Pinot Gallizio.

 

Villa Cerutti interni.


In quale relazione il Padiglione si pone nei confronti della Biennale di Venezia 2019 e quali tematiche affronta nello specifico?

 

Non si tratta esattamente di un padiglione. Non è un padiglione ufficiale della Biennale perché non esiste uno stato del Piemonte, ma è una mostra che si intitola Che tu possa vivere tempi interessanti ai piedi dei monti.… Come evidenzia il titolo, prende spunto dal tema della Biennale di Venezia di questo anno, il cui titolo May You Live In Interesting Timesè un’espressione della lingua inglese a lungo attribuita a un’antica maledizione cinese, della cui esistenza non si ha però effettiva prova e che evoca periodi di incertezza, crisi, guerre, catastrofi; “tempi interessanti” intesi come caratterizzati da eventi negativi. 

La mostra nasce da questa riflessione: se da un lato non esiste un paese che si chiama Piemonte, dall’altro esiste una realtà che noi tendiamo a non voler indagare; la specificità di certi territori. 

A mio avviso, il Piemonte ha alcune specificità tra cui la volontà di scavalcare le Alpi per connettersi con luoghi molto lontani. Non a caso è stata la Lavazza a ideare la macchina ISSpresso per la Space Station dove, a causa dell’assenza di pressione nello spazio, non era possibile fare il caffè. A Venezia, accanto ad opere d’arte, abbiamo perciò esposto oggetti e invenzioni piemontesi come la ISSpresso, ma anche come la sonda Odyssey, realizzata a Collegno da Thales-Alenia Space, grazie alla quale abbiamo ricevuto e riceveremo le fotografie di Marte. 

Altra specificità del Piemonte è il senso di essere orfani: orfani dei Savoia, orfani degli Agnelli e anche dell’Arte povera dei cui artisti in questa regione si vive nell’ombra ma anche fieri di averli avuti. Per la mostra a Venezia, il giovane artista Renato Leotta ha creato un’opera proprio da questa premessa: anziché invadere lo spazio con qualcosa di “suo”, ha deciso di illuminare la mostra con fari di automobile FIAT che ovviamente non illuminano le opere e gli oggetti esposti come farebbero i faretti del museo, ma emettono una luce “cacofonica”.

Caratteristica della mostra è quindi un’ironia e una leggerezza che vanno di pari passo, spero, alla complessità.

 

Forse l’unione di ironia, leggerezza e profonda complessità è anche caratteristica e qualità della stessa Carolyn Christov-Bakargiev che ringrazio vivamente per avermi concesso questa conversazione. 

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Letizia Battaglia. Fotografia come scelta di vita

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In questi giorni, a Venezia, presso la Casa dei Tre Oci,  si può vedere “Fotogafia come scelta di vita”, una mostra dedicata a Letizia Battaglia. Trecento immagini raccontano una città, Palermo, per una volta non sovrastata dal marchio “mafia”. Piazze, mercati, parchi, quartieri, talvolta affollati, talvolta deserti, si susseguono di immagine in immagine, mostrando le contraddizioni di una città che la fotografa ha scelto come luogo in cui vivere e lavorare. “Consiglio di fotografare tutto da molto vicino, a distanza di un cazzotto o di una carezza”, afferma convinta. 

 

Il suo sguardo non ammette esitazioni. Fotografare per il quotidiano l’Ora, dal 1974 al 1992, ha significato correre sul luogo del delitto, essere tempestiva, non avere il tempo per prepararsi allo scatto. I corpi senza vita che stavano sull’asfalto o che venivano estratti dalle auto crivellate di colpi, dovevano essere fotografati immediatamente. È davvero questo l’istante perfetto di Letizia Battaglia? 

Per capirlo bisognerebbe guardare un’immagine, che il compagno e fotografo Franco Zecchin le scatta nel 1976, sul luogo di un omicidio. È vestita di nero, accucciata di fronte a un cadavere. Tutti gli altri sono in piedi, c’è persino un uomo che sembra stia sbadigliando. Il suo sguardo è l’unico rivolto a quel cadavere. È il punctum della foto.  Solo la Battaglia pare dedicargli attenzione, perché per lei fotografare non è solo immortalare un istante, bensì fronteggiare la morte, forte della consapevolezza, che ogni cadavere ha innanzitutto avuto una vita. 

 

Letizia Battaglia, La ricamatrice, 1987, Montemaggiore Belsito.


C’è un’altra immagine che lo spiega. Un bambino che giace in una enorme pozza di sangue. La sua colpa è aver visto i killer. Letizia Battaglia non riesce ad esporla. Cosa può voler dire questa autocensura? Forse è il nucleo di un conflitto irrisolto tra pudore e amore, tra il dovere di mostrare la morte e il desiderio di rappresentare la vita. In questo caso non è possibile schierarsi, giustizia e giustezza non collimano. Il pudore è forte come l’amore. Forse l’immagine del bambino è il vuoto entro cui la fotografia come scelta di vita mostra il suo limite, nonostante la Battaglia trovi il coraggio di raccontarlo. 

Tutto il resto emerge con una forza sbalorditiva. Da una parte le fotografie che mostrano un interminabile numero di  cadaveri: persone comuni, giudici, poliziotti, politici, dall’altra le immagini di una città che sopravvive. “Io sono una che ha fatto reportage rimanendo nella città dove vive. Per me significa andare al cuore delle cose, di un luogo, di una città, di un gruppo di persone”, afferma la Battaglia. 

Le fotografie esposte a Venezia mostrano le persone che festeggiano il giorno di Pasquetta al parco della Favorita, i mercati affollati, i comizi politici, le lotte sociali. E soprattutto si possono vedere  moltissime donne: madri, figlie, sorelle. Una lunga linea che scorre parallela alle morti e narra la storia di una città completamente diversa. “La Sicilia è la mia terra. E Palermo qualcosa in più di una casa. Di Palermo sono stata figlia, un tempo. Di Palermo, oggi, mi sento un po’ madre. Come figlia le ho disobbedito a volte, sempre rimandovi legata. Come madre, oggi, provo a prendermene cura sapendo che non è affatto facile”, racconta la fotografa. 

 

Letizia Battaglia, Lunedì di pasquetta a Piano, 1974.


Le figure della madre e della figlia danno forma al suo sguardo. Sono il passato della città e il suo futuro. Le madri che ha fotografato sembrano rispondere all’immagine mai esposta di quel bambino ucciso. Sono il volto che protegge, che perdura, che purifica. Il dolore della madre sopravvive al conflitto. Il suo pianto trascende tutte le differenze, ingloba l’ingiustizia. Una madre tiene fra le sue mani la foto del figlio scomparso a Mazzarino (1984), Felicia Bartolotta Impastato siede sul divano di casa, con le mani intrecciate e la foto del figlio Giuseppe dietro di lei (2001) e ancora un’altra madre siede mesta, con il capo coperto da un velo, nell’aula di un tribunale. E poi si vede l’immagine della Madonna, che sembra includerle tutte. In queste rappresentazioni si comprende che più del Cristo stesso è la figura dell’Addolorata a commuovere. La madre è viva. Il suo dramma è terreno e carnale. La Madonna a Marsala (1984), le donne velate per i misteri pasquali a Gangi (1985),  la statua di Maria con Gesù fra le sue braccia nel duomo di Cefalù (1981), le donne che vegliano il Cristo morto a Marsala (1988) o il padre morto nell’androne di casa a Palermo (1986), sono solo alcuni esempi che provengono dal suo sterminato archivio. 

 

Letizia Battaglia, Vicino la chiesa di casa Professa, 1991, Palermo.


Si tratta di immagini in cui il tema della femminilità si rapporta alla negatività violenta e omicida di un mondo maschile e patriarcale, che scioglie il proprio dramma nel momento liberatorio in cui la presenza materna si eleva e diviene antidoto contro la morte. Cos’è la fotografia se non  “presenza”, ovvero un esserci nella storia, un modo per dare fisionomia al patire, per oggettivarlo e trasformarlo in luogo della memoria e degli affetti? 

Le fotografie di Letizia Battaglia rievocano per certi aspetti i lamenti funebri, esorcizzano tanto la crisi della presenza quanto quella del cordoglio, poiché valgono come testimonianza e memoria di una interiorizzazione del morto e come ristabilimento del diritto dei vivi a volgere il proprio sguardo verso il futuro. Forse è per questo che le immagini legate alla vita sono inseparabili da quelle che ostentano la morte. Poiché se le prime mostrano un orizzonte che contempla la possibilità di un futuro migliore, le altre, con i cadaveri riversi per le strade, si trasformano nel  simbolo di una permanenza o di un ritorno, da cui scaturisce il desiderio di un rinnovamento. 

 

Letizia Battaglia, Domenica di Pasqua, festeggiamenti per incitare l'uscita della statua di San Michele, patrono di Caltabellotta, 1984.


Le immagini  infrangono impotenza, omertà e silenzio. Le bambine che lei fotografa incarnano questo passaggio: dal tempo della permanenza a quello della trasformazione. Sono la speranza nel futuro, la volontà di divenire soggetti liberi, autonomi e responsabili. Si collocano davvero nello spazio prossimo all’obiettivo e ci guardano in maniera diretta. “Le bambine sono io a cercarle, con molta emozione: quando incontro la ragazzina imbronciata, sulla soglia dell’adolescenza, magra con le occhiaie, i capelli lisci, sono io. E quando la fotografo è come se facessi un incontro di bambina con bambina”. 

Letizia Battaglia guarda Palermo nello stesso modo. Per questo non esita dinnanzi al dilemma che affligge molti fotoreporter, e che consiste nel dover scegliere fra testimonianza fotografica e azione diretta. O meglio lo interpreta a modo suo. Diventa dapprima consigliere comunale e poi deputato. Le sue immagini nascono nell’istante della consapevolezza e della mancanza di rimpianti. Può fotografare i morti, riservare loro uno sguardo pietoso, perché è conscia che ha fatto tutto ciò che poteva per impedirlo. Si è occupata anche della loro vita. Per questo riesce a fotografare senza alcuna mediazione. La realtà si appiccica al suo obiettivo come una seconda pelle, poiché lei stessa incarna la complessità del luogo in cui vive. Le sue immagini non producono nessuna assuefazione al dolore e non corrono il rischio di essere giudicate grondanti di estetismo compiaciuto, per una ragione innegabile: non sono semplici immagini, ma immagini delle sue scelte di vita. 

 

Letizia Battaglia, Il tempio di Segesta, 1986.


Esattamente come accade con gli aspetti strettamente connessi alla tecnica. “Io non uso il teleobiettivo. Con il teleobiettivo non creo l’impatto e l’emozione tra me e l’altra persona. Mi allontano da ciò che racconto” afferma la Battaglia. E ancora: “Mi è capitato di fare fotografie a colori. (…) Non c’entra niente con me. Perché forse io sono un poco drammatica. (…) Il bianco e nero ti permette di vedere cose che il colore non rivela”.

La fotocamera non è altro che un’estensione di sé. Per questo fotografare le vie di Palermo significa desiderarle perennemente libere dai cadaveri, mentre puntare lo sguardo verso i morti equivale a dare loro un ultimo attimo di pace. Fotografare la città ha significato non abbandonare Palermo. “Non era la felicità il traguardo. (…) Ma qualcosa che aveva a che fare con la felicità” ricorda. “Quale fu la tesi iniziale? Ci furono tesi, programmi o fu tutto un vivere, un sentire forte e complicato dall’inizio fino ad oggi?”. Un vivere, si potrebbe dire. Questa è stata la vera scelta.  

 

Mostra: Letizia Battaglia. Fotografia come scelta di vita, a cura di Francesca Alfano Miglietti, Venezia, Tre Oci,  dal 20/03 al 18/8/201

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Il corpo-modello in Martin Kippenberger e Maria Lassnig

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BODY CHECK. Martin Kippenberger – Maria Lassnig, a cura di Veit Loers presso il Kunstbau del Lenbachhaus di Monaco di Baviera, fino al 15 settembre, è una mostra a due, che il visitatore italiano, curioso di cose tedesche e austriache, ha già forse avuto modo di sezionare al Museion di Bolzano.

 

Le premesse di BODY CHECK si possono adagiare su una domanda relativamente semplice: che rapporto esiste tra la disciplina della storia dell'arte e quella della curatela? La quale genera di conseguenza: è la storia dell'arte che informa la curatela o è la curatela, in fondo, che è o deve essere autonoma? Sempre ci sia consenso – orrenda parola – su cosa si intenda per entrambe. Se la storia dell'arte è interpretata come presentazione lineare, aderente all'identità di un'epoca, di un percorso artistico, allora la curatela e la scelta eccentrica hanno il piacere di giocare il ruolo del trickster. Martin Kippenberger (1953-1997) e Maria Lassnig (1919-2014) presentano proprio questo, un lavorìo e un corpus di difficile collocazione.

Innanzitutto il nesso puramente storico della mostra a due non c'è e viene ammesso: per un breve periodo, alla fine degli anni Settanta del Novecento, Kippenberger e Lassnig vivono contemporaneamente a Berlino, ma non ci sono testimonianze dirette e inconfutabili – le cosette che piacciono a noi storici – che supportino una conoscenza diretta, più o meno amichevole, dei due. Il dialogo delle opere in mostra avviene dunque sulle relative specificità delle stesse, su analogie e differenze del rispettivo processo artistico, scegliendo la pittura come metodo generale e principale di approccio alla visione. 

Di che cosa si occupa qui la pittura? Il titolo della mostra è altrettanto chiaro: del corpo, non solo inteso come figura, dispositivo mimetico, ma anche come oggetto metaforico. Il corpo è modello, ma come questo modello – in fondo un topos fondamentale del fare artistico – viene interpretato ci si rivela in variopinte frammentazioni.

 

Elfie Semotan Maria Lassnig, 2000 © Elfie Semotan, courtesy Galerie Gisela Capitain, Colonia.


La tematica del corpo come modello è naturalmente uno dei tratti centrali di Lassnig, fatto che la critica ha sempre fatto fatica a inserire in una categoria facilmente assimilabile. Alla domanda “Se fondassi una scuola di pittura, come la chiameresti?”, Lassnig rispose: “Se esistesse: la Scuola della Pittura Drastica [drastische Malerei].” Una pittura drastica che ha bisogno del modello dal vero per mettere in moto la trasformazione pittorica, un imperativo che Lassnig ha rispettato – quasi – sempre nel suo lungo percorso. Ma, come in ogni cosa della vita, esistono anche le eccezioni, ed eccole: in mostra due dipinti dalla serie dei Kellerbilder (Die Braut badet den Bräutigam, 2005, dal Lenbachhaus, e Macht des Schicksals, 2006, dalla ISelf Collection, Londra), in cui i modelli sono da lei fotografati e poi riconsegnati alla pittura. Ed è evidente come il suo scetticismo nei confronti del medium fotografico si risolva in questi dipinti come un saggio visivo di ciò che suggerisce la pittura da quel modello: estremo artificio e figure umane ridotte a bambole e pupazzi. Vallo a dire a Gerhard Richter.

Ma il vero corpo-modello per Lassnig rimane lei stessa. Attraverso ciò che lei chiama “Körpergefühl” (sensazione corporea), l'artista utilizza il proprio sé esteriore come veicolo di indagine pittorica e scettica del proprio “Körperbewusstsein” (coscienza corporea), anticipando quindi le riflessioni di Judith Butler sul corpo e sull'identità di genere in quanto costrutti performativi e culturali. Sia che Lassnig si ponga direttamente davanti allo specchio, sia che chiuda gli occhi di fronte alla tela, sia sdraiandosi e dipingendo l'impressione che ha di sé in quella posizione, Lassnig intrattiene un rapporto col corpo che non fa del concettualismo identitario, quanto un discorso visivo deragliato sul “tradizionale” dialogo tra pittura e modello.

 

Martin Kippenberger Ohne Titel (dalla serie Das Floß der Medusa), 1996, olio su tela, 150 cm x 180 cm © Estate of Martin Kippenberger, Galerie Gisela Capitain, Colonia.


Il corpo-modello di Kippenberger è centrale in una delle sue ultime serie di lavori (1996), incentrate sulla Zattera della Medusa (1818-1819) di Théodore Gericault. Cercando, questa volta, di tralasciare l'ironia cinica di lavori precedenti, l'artista qui si “identifica” nei personaggi della zattera gericaultiana. Se forme parodiche sono presenti in questa mostra, come quelle sulla scultura di Henry Moore in Familie Hunger (1985, dalla Collezione Grässlin, St. Georgen), la loro carica eversiva è spuntata dalla banalità della scelta del soggetto – a chi interessa un commento visivo cinico su opere di artisti morti e consegnati alla storia? Eppure nella serie sulla Medusa, dunque riferendosi a un'opera ancora più indietro nel tempo, oltre il modernismo novecentesco, Kippenberger attua una trasformazione audace e potentissima, in cui invece la funzione parodica apre a diverse considerazioni. L'artista ricostruisce in studio le pose dei naufraghi e si fa riprendere dalla fotografa e moglie Elfie Samotan. Attraverso un processo di trasformazione meta-pittoriale – dall'opera storica, alla fotografia, infine alla pittura e al disegno –, Kippenberger si chiede sostanzialmente cosa rappresenti la storia per un artista e quale concezione di “contemporaneità” possa sussistere, nel momento in cui le vicende della vita e dell'occhio lo portano al Louvre e a meditare sulla forma e sulle storie realmente accadute, che inevitabilmente quel capolavoro si porta dietro. Fino alla cronaca stretta di quegli eventi, fatti di cannibalismi e disumanità varie dei superstiti di allora, per restare vivi. Attraverso la disumanità, universalizzata dall'arte, Kippenberger trasforma quindi il suo processo creatore in personale tragedia.

 

L'identificazione con il martirio, quindi insistendo su una concezione romantica del sé-artista, si trova anche in Lassnig, nella satirica Die Lebensqualität (2001, dalla Maria Lassnig Stiftung, Vienna): l'artista si rappresenta come figura cristologica, al limite della morte per acqua, mentre regge un bicchiere di vino e viene azzannata da un piranha. Sul fondo, i relitti di tecnologia e cultura. L'evidente metafora satirica sui rituali dell'arte – spesso teatrali e artificiosi – si innesta su una simbologia che Kippenberger condivide. Il binomio artista-Cristo più l'alter ego Fred la ranaè un motivo ricorrente della sua pratica a partire dal 1990: tra le opere in mostra, è presente il senza titolo Dankeschön bitteschön (1990, da una collezione privata svizzera), dove l'artista-rana, evidentemente appesantito da una vita al massimo, si adagia sull'immagine di un crocifisso romanico dipinto a reticolo.

 

Questi lavori non testimoniano solo la riflessione sulla pittura in sé e sul rapporto col modello, ma anche un lavoro critico sul sistema culturale in cui l'opera viene prodotta, già accennato in Die Lebensqualität. Per esempio l'acquarello su carta, sempre di Lassnig, Ich bin der Nachahmer meiner Epigonen (c. 1998, dalla Maria Lassnig Stiftung, Vienna), già nel titolo si fa beffe di nozioni quali imitazione (Nachahmung) ed epigonismo, criticando meta-artisticamente la base di consenso della storia dell'arte, la maledetta influenza – quell'ansia teorizzata da Harold Bloom, la quale, però, proprio non si riscontrerebbe nell'arte “al femminile”. Scrive Bloom su Virginia Woolf, che “solo [Laurence Sterne] sembra aver suscitato una certa ansia nella Woolf”, quando invece l'ansia da influenza colpisce certamente gli scrittori “maschi”. Lo scetticismo di Lassnig è più che ragionevole: l'influenza è ciò che vuole vedere lo studioso, quando l'artista non sa che farsene: forse che l'influenza sia un mito anche per l'arte “al maschile”? Forse che l'artista intrattiene sempre una funzione parodica di scelta, quando vede? E il “femminismo” di Lassnig è forse lo stesso di Woolf, un femminismo estetico ed epicureo, “un rinnovamento del potere creativo, che solo al sesso opposto è dato in dono”, scrive Woolf, senza essere specchio del narcisismo maschile.

Che Kippenberger e Lassnig si conoscessero o no, non è dunque a oggi dato saperlo. Non su una contingenza storica si basa la mostra, ma su una ben più alta ambizione: che una mostra ripensi la storia dell'arte – e le sue ansie da metodologia – e non il contrario.

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Storie di Pietròfori e Rasomanti

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È un hortus conclusus quello che accoglie il visitatore presso Villa Pignatelli – Casa della Fotografia, un giardino che ospita ricercatezze botaniche ed elementi architettonici di gusto eclettista. Al centro del parco la villa, con il suo candore neoclassicheggiante, che dopo essere appartenuta agli Acton e poi ai Rotthschild è diventata di proprietà statale nel 1952 ed è oggi una delle poche case-museo e uno dei luoghi più significativi di Napoli. È questa sontuosa architettura a ospitare la seconda tappa del progetto itinerante di Elisa Sighicelli, Storie di Pietròfori e Rasomanti.

 

Untitled (9074), 2018 100 x 80 x 4 cm Fotografia stampata su marmo Su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali - Museo Archeologico Nazionale di Napoli.


Con una scelta coerente, Elisa Sighicelli opta per proseguire il discorso inaugurato con la mostra a Palazzo Madama di Torino, sede nobiliare di fattura squisita, dimora di specchi e di fantasmi dello sguardo, e torna a indagare il tema della materialità della fotografia, muovendosi nella zona liminale che separa images e pictures, l’elemento immateriale dalla sua incarnazione fisica. Il tentativo di far corrispondere il soggetto delle fotografie al loro supporto – nucleo della sua pratica – ci interroga sulla natura delle immagini e aggiunge qui un tassello importante alla sua personale ricerca, grazie a una mostra generosa in termini di pezzi (tutti realizzati ex novo), di suggestioni offerte allo spettatore e di soggetti proposti.

Dopo Doppio Sogno, un altro titolo dal carattere immaginativo: Storie di Pietròfori e Rasomanti. Prendendo spunto dal racconto di Julio Cortazár, Storie di cronopios e di famas, l’artista inventa due lemmi inesistenti ma così evocativi da risultare istantaneamente familiari all’orecchio degli spettatori. Non è dato di sapere, prima di avventurarsi per i corridoi della villa, chi o cosa siano i Pietròfori e i Rasomanti, ma sembra subito plausibile l’esistenza di queste creature fantastiche, il cui nome nasce da una misteriosa funzione a cui sono votate, forse giganti mitologici che si caricano sulle spalle marmi sacri da destinare agli dèi, o negromanti capaci di vaticinare il futuro nei riflessi delle sete. 

L’opera di Sighicelli è rigorosa e allo stesso tempo giocosa, di una giocosità sottile e radicale, e mette in atto un détournement visivo e linguistico partendo da situazioni ordinarie, prelevando attraverso lo scatto fotografico elementi decorativi, opere d’arte e dettagli architettonici da isolare e restituire allo spettatore attraverso un’operazione poetica. Una poesia delle cose che scaturisce da un problema di rappresentazione, che inquieta, sposta, perturba.

 

Untitled (6885), 2019 80 x 100 x 4 cm stampa UV su marmo.


Per la prima volta nel lavoro di Sighicelli questa tensione si rivela in maniera così chiara – forse anche perché inaspettata – e non priva di una sottile forma di violenza. Così sottile da sembrare una semplice suggestione nelle prime due opere, dove viene ripreso un trapezoforo appartenente alla collezione del Museo Archeologico di Napoli, che raffigura un uomo stretto nelle spire di un mostro marino. Le opere mostrano due lati del trapezoforo creando un effetto straniante, il quadro percettivo si confonde e viene suggellato l’ingresso in quel regime di alter-realtà a cui l’artista conduce lo spettatore attraverso le sue “sculture fotografiche”. Solo procedendo nel percorso l’intuizione iniziale si rivela fondata: il rifacimento – o reload, se vogliamo – di un dipinto su carta di sapore pompeiano, montato su vetro e danneggiato, già appartenente alla collezione del Museo, crea un primo punctum nel percorso espositivo. Sighicelli ha fotografato l’opera e l’ha riprodotta su vetro, ricostruendo in maniera mimetica le spaccature dell’originale. Dice che “la violenza è alla base della tradizione figurativa occidentale” ed è proprio lì, nel ratto (come si vede nelle opere della penultima sala), nel sacrificio rituale, nelle immagini delle battaglie che l’iconografia ha trovato il substrato per germogliare e costituire l’albero della tradizione figurativa occidentale. L’erotismo intrinseco all’atto della visione affonda le radici nell’humus della rappresentazione della violenza, ma nei secoli l’arte ha mondato la brutalità, sublimandola. È sempre una questione di linguaggio: di quelle lontane visioni di sangue, oggi rimane solo una labile traccia di cui quasi non abbiamo più cognizione, e della violenza in effige rimane solo un guscio vuoto. Siamo preda di una stanchezza del vedere quando l’arte, ormai priva di qualunque residuo di sacro, diventa cronachistica, quando ricerca l’oltraggio, ma anche quando abdica alla rappresentazione e si rarefà fino a negarsi. Una stanchezza che è vuoto di senso e, in prima istanza, vuoto di forma. Qualcosa invece si risveglia qui di fronte allo zoccolo levato di un cavallo, nelle mammelle come frutti maturi di una divinità femminile, nella tensione muscolare di un soldato. Figure che hanno subìto una rilocazione ma che ci appartengono collettivamente e Sighicelli, come un admonitor, ci indica dove guardare. L’immagine riprodotta può compiersi senza tautologia e rapire il nostro sguardo, trattenerlo, come una possessione. Si sta lì, in attesa che il mistero si sveli, presi dalle immagini che tornano dagli altrove, ed è un viaggio nella memoria visiva collettiva, dove tutto ci è familiare eppure sconosciuto, un vero superimposed, perché non esiste una vera cesura tra le opere, che si legano l’una all’altra e portano avanti un discorso ininterrotto, come un flusso di fotogrammi o come una sola, grande installazione.

 

Untitled (9355), 2018 44 x 42 x 2 cm Fotografia stampata su vetro.


Sighicelli sembra invitarci a cogliere la spina e lasciare la rosa, facendoci avvolgere da un’ambiguità irrisolvibile che pure ci ammalia. Cosa stiamo guardando? Il trapezoforo è un fotografia stampata su marmo, un oggetto dove supporto e immagine si fondono, le venature della pietra traggono in inganno o forse rivelano qualcosa che era invisibile agli occhi, addomesticati dalla consuetudine. Il processo di hypermediacy aggiunge un livello di sofisticazione alle opere, evidenziando la compresenza di media diversi (pittura, scultura, fotografia, stampa etc.) intrecciati, di cui si perdono i confini specifici.

Si percorre la mostra come in un crescendo, non perché le opere siano più efficaci via via che si procede nelle sue otto sale, bensì perché lo sguardo si fa progressivamente più attento. Le opere agiscono come dispositivi spazio-temporali, sussurrano di presenze che tornano a mostrarsi in una sala da ballo dimenticata (il riflesso delle grandi specchiere ossidate della Sala da Ballo della Villa) e a palpitare nei corpi dei guerrieri e delle dee di marmo. Vedere una fotografia è sempre un rivedere, è una traccia di qualcosa che è stato o ancora è, ma sempre necessariamente altrove. Il processo di “ritornanza” presuppone un indugio, una verifica da parte di chi osserva: “la fotografia è un luogo di immagini incerte”, dice Hans Belting, e Sighicelli lavora sulla fertilità propria di quell’incertezza, su quell’indecisione temporale che crea una corrugazione nelle pelle del tempo, un’increspatura che manda alla malora il nostro essere sempre schiacciati sul presente. Forse siamo ancora dentro Doppio Sogno, e Storie di Pietròfori e Rasomanti ne è la naturale prosecuzione, di cui attendiamo il capitolo conclusivo dedicato a Villa Cerruti, altra casa-museo nata dalla passione collezionistica nutrita in assoluto segreto dall’industriale della legatoria Francesco Cerruti. 

C’è un fitto dialogo tra la collezione, l’architettura del luogo e le opere, dalle quali si irraggia una rete di assonanze e rimandi a un mondo di classicità greco-romane e alle loro storie museali, nei catasti e negli archivi dimenticati (figure provenienti principalmente dal Museo Archeologico e dalla Centrale Montemartini di Roma), colte da un’artista che ha una cultura filologica che le permette di scegliere sempre il pezzo giusto e una sensibilità medianica nello scovare il tassello che compone il mosaico della mostra perfetta. Sighicelli ha una capacità di tenere insieme tutto, facendosi curatrice e artista con un rigore che può nascere solo dall’amore. Ed è proprio Eros che aleggia nelle sale bianche del museo, un desiderio cogente di dare corpo a una mèsse di elementi visivi, segni, figure che trovano un posto in un teatro immaginario. 

 

Untitled (7056), 2018 136 x 184 x 4 cm stampa UV su travertino.


Sighicelli racconta di una possessione erotica che è tutta nella pulsione scopica. Gianluigi Ricuperati, nella sua lettera destinata a un giovane artista, la indica come esempio di artista a cui fare riferimento, che nella sua opera “esiste spazio per la gioia del vedere”. Di quali opere ci azzardiamo a evidenziare la bellezza e quanti artisti contemporanei mostrano senza pudore il loro senso per la bellezza? Pochissimi, mi sento di affermare senza rischi di smentita, laddove il bello è stato spinto ai margini del discorso dell’arte, a causa di un malinteso che lo vede antagonista al contenuto (perché le opere devono essere “interessanti” e se lo sono non sia mai che abbiano qualità estetiche...).

Ecco allora il bisogno di dare corpo, o più corpi, a ciò che è immateriale per definizione: “La differenza tra l’immagine e la realtà, dove risiede l’enigma di un’assenza resa visibile, ritorna nella fotografia attraverso la distanza temporale che ricade post factum davanti ai nostri occhi” (H. Belting, Antropologia delle immagini, pag. 161, Carocci Editore). L’enigma di un’assenza resa visibile e tangibile, i riflessi dei vetri della collezione di Villa Floridiana stampati su raso, mossi da impercettibili correnti e dal passaggio dei visitatori, animati, le lastre di marmo e travertino che diventano sculture fotografiche di guerrieri, adoni, ninfe e grazie, fino ad astrarsi e abbandonare anche l’immagine del corpo per la pura linea, il bugnato della facciata della chiesa del Gesù Nuovo che diventa una veduta di piramidi egizie, incise con i segni dei tagliapietre, o la “crema” dei sarcofagi romani, dettaglio di un particolare motivo decorativo curvilineo, immagini che trasmigrano in un gioco eterno di mascheramenti e disvelamenti. Sighicelli dimostra come il doppio non sia incatenato alla tautologia, come l’infrasottile sia in realtà uno spazio vastissimo e come l’esercizio dello sguardo sia prima di tutto forma del desiderio. In un regime di immagini di cui non sappiamo più stabilire la veridicità, indica una strada per riappropriarsi di uno sguardo analitico, curioso, libero, dove risiede quella volontà che plasma il reale un battito di ciglia alla volta. 

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Elisa Sighicelli
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La preistoria, un enigma moderno

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Préhistoire, un énigme moderneè il titolo della mostra curata da Cécile Debray, Rémi Labrusse e Maria Stavrinaki al Centre Georges Pompidou di Parigi fino al 16 settembre. Non si tratta dell’ennesima mostra sulla preistoria ma di una traversata originale e appassionante, piena di colpi di scena, incentrata sul fascino esercitato dalla preistoria sugli artisti lungo il XX secolo. Un fascino che ha avuto conseguenze sulle loro idee artistiche e antropologiche così come sulla loro percezione del mondo e dell’umanità. Con la consapevolezza che ogni quête dell’origine rende allo stesso tempo pensabile il futuro.

Tante sono le questioni sollevate da Préhistoire, un énigme moderne attraverso la selezione parallela di opere d’arte contemporanea e di manufatti preistorici visibili, questi ultimi, nelle migliori condizioni immaginabili.

Ad aiutarci a pensare i legami, spesso sotterranei, tra preistoria e modernità ci pensa un catalogo di oltre 300 pp. che ripercorre le otto sezioni della mostra – Lo spessore del tempo; La terra senza gli uomini; La nascita dell’idea di preistoria; Uomini e bestie; Gesti e strumenti; La caverna; Neolitici; Presenti preistorici –, arricchito dai testi dei tre curatori e da approfondimenti brevi e puntuali.

Diverse le pubblicazioni uscite in occasione della mostra, tra cui ricordo: la monografia del co-curatore della mostra Rémi Labrusse, Préhistoire. L’envers du temps (Hazan 2019) che ricostruisce il modo in cui l’idea di preistoria si è costituita nella mente e nelle opere degli artisti moderni; il numero monografico della rivista “Les Cahiers du Musée national d’art moderne” (147, primavera 2019), composto da un’antologia e da una serie d’interviste con artisti contemporanei. La stessa rivista ha tra l’altro già consacrato alla preistoria un numero precedente (Préhistoire/Modernité, 126, inverno 2013-2014) su iniziativa di due dei tre curatori di Préhistoire, un énigme moderne: M. Stavrinaki e R. Labrusse.

È con Maria Stavrinaki che mi sono intrattenuto in una lunga conversazione ricca di spunti, ripercorrendo il percorso della mostra parigina, che le ha permesso di rivenire su alcuni snodi cruciali. 

Professoressa in storia dell’arte contemporanea alla Sorbona nel dipartimento di Arts plastiques, Maria Stavrinaki lavora da anni sul fascino tutto moderno per la preistoria; al riguardo ha recentemente pubblicato Saisis par la préhistoire. Enquête sur l’art et le temps des modernes (Presses du réel 2019): una storia della modernità che, risalendo al XIX secolo – quando la preistoria viene inventata –, tiene conto del tempo profondo proprio all’età della Terra, all’età dell’uomo e all’età dell’arte, scardinando così ogni idea corriva di progresso.

 

Enigma

 

“Preistoria. Un enigma moderno”: vorrei cominciare la nostra discussione dal sottotitolo della mostra e dalla nozione di enigma che m’intriga molto. Ho notato che si ritrova spesso nelle pubblicazioni consacrate alla preistoria; mi viene in mente quella di Daniel Fabre, Bataille à Lascaux. Comment l’art préhistorique apparut aux enfants (L’échoppe, Parigi 2014). 

Oggi è difficile associare le arti visive – l’arte contemporanea in particolare – all’enigma, a un’immagine che va decifrata, a un senso nascosto che sfugge al primo sguardo e apre a temporalità estese.

È vero che la doxa della modernità disincantata si combina male con la nozione di enigma. Tuttavia, la preistoria è uno dei tanti enigmi che la modernità ha dovuto inventarsi al fine di garantire la sua stessa inventività, la sua capacità di rappresentazione, persino la sua storicità – una storicità finalmente affrancata da un passato scritto, conosciuto, obsoleto. Un aspetto ancora più importante è il fatto che l’enigma della preistoria rimanga senza risposta, diventando in questo modo inesauribile. 

Fin dalle prime invenzioni che l’hanno costituita come oggetto della coscienza occidentale, la preistoria è stata vissuta come un “enigma”, nel senso di un’invenzione sorprendente che contrastava con le verità stabilite e non riusciva a trovare uno spazio naturale o coerente nel sistema delle rappresentazioni degli anni 1830-1900, quando si sono formate l’età e la disciplina che denominiamo “preistoria”. 

La preistoria è l’opposto dell’enigma della Sfinge posto a Edipo, in quanto il pensiero antropologico che ha attivato si basa su discorsi destinati a restare transitori e che corrono il rischio di diventare tutti potenzialmente obsoleti. Si ha l’impressione di guadagnare del tempo scavando nel passato, mentre in realtà deploriamo – oggi più che mai – l’assenza di futuro.

 

Vista della mostra Préhistoire. Une énigme moderne, Centre Pompidou, Philippe Migeat, 2019.


L’enigma è anche, alla lettera, un “parlare oscuro” che si lega, mi sembra, all’oscurità della prima sala della mostra parigina.

Non c’è, o non c’è più, alcun enigma oggi. Forse perché, all’era digitale, le immagini sono troppo presenti o lisce perché si formi una piega sulla loro superficie. È cosi che Préhistoire. Un énigme moderne ci offre, sin dal titolo e dalla prima stanza, un universo visivo e concettuale inedito, dove la dimensione enigmatica – o, se preferisci, allegorica – gioca un ruolo centrale nella comprensione di quest’attrazione moderna per un tempo che precede l’invenzione della storia.

Hai ragione a osservare che l’ingresso alla mostra spazializza il sottotitolo: è uno spazio immerso nel buio, ma anche uno spazio vuoto, punteggiato e illuminato da due soli oggetti. Prima il cranio dell’uomo di Cro-Magnon (forma dimenticata di noi stessi ritrovata nel 1868 nel sottosuolo di Eyzies), poi il piccolo quadro di Paul Klee, intitolato Die Zeit, realizzato nel 1933. È una convergenza di scale temporali, ma anche di discipline, in particolare di antropologia e storia. Questa convergenza non viene esplicitata, non c’è alcun testo che ne spiega la logica, fatta eccezione per due versi di Borges che evocano il fondamento della soggettività su un passato infinito che sfugge. Lo spettatore è incoraggiato a formulare e tessere le proprie ipotesi, a farsi carico dell’enigma della preistoria, pur restando naturalmente “condizionato” dalla scenografia, assai teatrale, di questo spazio. 

Libertà e costrizione sono i due concetti opposti qui operanti. Ma credo che questa iniziazione sensibile e assieme concettuale non sia così estranea all’arte contemporanea: l’invenzione stessa della preistoria è dovuta a un eccesso di storicismo – volendo storicizzare la totalità del conosciuto, ci siamo scontrati con l’ignoto, ed è la stessa mole di conoscenze, immagini, archivi d’ogni genere che ci rende oggi così sensibili all’enigma della preistoria. Attraverso la lunga modernità, c’impadroniamo di tutto con lo scopo segreto, a volte, di disfarcene.

 

Corrispondenza

 

Prima di addentrarci nei paradossi della temporalità che hai appena evocato – propri alla costituzione della preistoria nella seconda metà dell’Ottocento ma anche alla crescente difficoltà di immaginare il futuro di fronte alla sesta estinzione innescata dall’era dell’Antropocene – riveniamo sul percorso di Préhistoire. Un énigme moderne.

Il cranio dell’Homo sapiens da un lato, Die Zeit di Paul Klee (realizzato nel 1933: la data non è un dettaglio....) dall’altro: che il loro rapporto non sia esplicitato è ben restituito dalla stessa installazione: tra di loro c’è uno spazio, una spaziatura o addirittura una vertigine temporale incommensurabile che resta a noi spettatori riempire o, perlomeno, prendere in carico. È necessario spostarsi fisicamente dall’uno all’altro in uno spazio immerso nell’oscurità e senza punti di riferimento, unico modo di tenerli insieme e misurarne la distanza siderale dal punto di vista temporale, formale e così via.

 

Una delle difficoltà nella concezione della mostra è stata quella di realizzare una narrazione storica che fosse al tempo stesso articolata e aperta alle interpretazioni altrui. Bisognava prendere in considerazione la natura ripetitiva degli usi moderni della preistoria – temi, strutture e paradigmi che ricorrono con costanza, indipendentemente dalla singolarità specifica degli individui e dei contesti storici. Ma bisognava anche riconoscere pienamente la differenza storica, vale a dire le specificità dovute alla scoperta dei singoli oggetti (ad esempio Lascaux, Chauvet o la Venere di Lespugue), alle dinamiche politiche e sociali, agli approcci individuali, così come all’emergere del nuovo in modo più generale. 

Eventi come la Prima Guerra Mondiale, la cui natura tecnica e impersonale ha favorito l’interesse per i fossili piuttosto che per le forme simboliche della preistoria, o come la Bomba atomica, che ha suscitato un entusiasmo senza precedenti per lo spazio della caverna e per un discorso sistematico sulla post-histoire, hanno determinato l’uso della preistoria da parte di artisti, scrittori, filosofi in determinati momenti.

 

Cézanne, La Montagne Sainte-Victoire vue des carrières de Bibémus, 1898-1900, olio su tela, 65x81 cm, The Baltimore Museum of Art.


Un uso della preistoria che prende forme molto diverse nel percorso della mostra…

All’approccio speculativo dell’ingresso segue l’inizio di storicizzazione nella prima sala della mostra, intitolata “Lo spessore del tempo”, che vuole dimostrare come la preistoria strettamente umana sia stata fondata sull’abisso del tempo. In altre parole, è impossibile separare la preistoria simbolica dalla geologia e dalla paleontologia, nelle quali l’uomo stesso è invischiato.

Sono Cézanne e Redon che c’introducono in questa “rivoluzione geologica”, nei confronti della, e in seguito alla, rivoluzione copernicana. Si tratta di due artisti per molti versi non comparabili, ossessionati dall’idea del tempo dilatato che si materializza negli strati geologici. Ma questa storicizzazione, supportata da documenti come i Carnets di Cézanne, non è in grado di esaurire le opere esposte. 

Il nostro incontro fenomenologico con Dans les Carrières de Bibémus di Cézanne ripete, per l’ennesima volta, lo stesso “dramma” formulato in quest’opera: una figura minuscola intrappolata tra due pieghe geologiche, un uomo risucchiato nella vagina triangolare della terra. Resta aperta la domanda se Cézanne mettesse l’accento sullo scarto tra vita individuale e geologia o sull’esistenza necessaria di un soggetto affinché la geologia sia testata e conosciuta in quanto tale; in finale, è la tensione tra queste due interpretazioni che dà senso all’approccio immanentista di Cézanne. 

 

Vista della mostra Préhistoire. Une énigme moderne, Centre Pompidou, Philippe Migeat, 2019.


Proseguendo la visita c’imbattiamo, più o meno a metà percorso, in una sala con diverse vetrine che molti spettatori, me incluso, associano istintivamente ai musei di storia naturale, ovvero al modo in cui gli oggetti preistorici sono resi visibili e “culturalizzati” dal nostro sguardo.

Pietre intagliate, figure femminili e animali, blocchi incisi, disegni a inchiostro, calchi in gesso, acquerelli.... Ora, è solo leggendo le didascalie che notiamo, non senza sorpresa (l’enigma non è lontano) che sono di Picasso, Mirò, Matisse, Masson, Henri Michaux, Jean Arp, Giacometti, Louise Bourgeois, Joseph Beuys. Insomma, non siamo più in una preistoria scissa dalle nostre preoccupazioni ma nel cuore palpitante della modernità.

Se le due temporalità restano in finale incommensurabili, qui il confronto è ravvicinato: c’è una corrispondenza tra le diverse morfologie che rasenta il mimetismo. Che questa sala mostri il fascino della modernità per la preistoria è ovvio. Forse suggerisce qualcosa di più sull’enigma della preistoria in quanto, per riprendere le tue parole, “oggetto della coscienza occidentale”.

In effetti l’ambivalenza creativa è senza dubbio massimizzata nella stanza a cui ti riferisci, dove coesistono sculture moderne e sculture preistoriche – le cosiddette Veneri e gli animali scolpiti su ossa o pietra. Abbiamo voluto evitare il rischio di fare della preistoria una delle tante fonti cui gli artisti avrebbero attinto (che in fondo non spiegherebbe nulla), evitando i confronti letterali e la giustapposizione all’interno della stessa vetrina di opere appartenenti alle due epoche.

Da un lato abbiamo esposto documenti, in particolare disegni di opere paleolitiche della mano di Moore, Giacometti, Bonnard e così via che attestano l’oggettività di questo incontro; dall’altro, abbiamo creato uno spazio di risonanza in cui le sculture possono sottrarsi alle rigide periodizzazioni al cui interno la nostra disciplina tende a confinarle.

Quello che accade in questo spazio è l’incontro dei moderni con la preistoria nel tempo presente. Perché se c’è una differenza radicale tra la preistoria e altre epoche o culture che possono aver interessato gli artisti moderni desiderosi di liberarsi dalla norma del classico, è proprio il potere di presentificazione insito nelle opere della preistoria. Questi manufatti, d’origine universale, non essendo legati a culture locali e indigene (mi riferisco qui al Paleolitico), quanti gli conferisce un supplemento antropologico, si sono conservati per migliaia di anni nei sedimenti della terra prima di emergere improvvisamente nel presente, pur conservando intatta la loro forza di un’origine antichissima, sebbene sempre incompleta, lacunare, enigmatica. 

 

Presentificare

 

Non insisteremo mai a sufficienza sul potere e la presenza delle opere preistoriche, soprattutto quando legati alla loro capacità di de-familiarizzare lo sguardo. Un doppio carattere che chiarisce forse l’enigma che ci preoccupa. Questa presentificazione – o questo “effetto di presenza” come direbbe Hans Ulrich Gumbrecht – costituisce, come suggerisci, la specificità della preistoria rispetto al primitivismo in quanto forza creativa per gli artisti.

Mi piace pensare che le forme simboliche della preistoria abbiano mantenuto, nonostante il processo di secolarizzazione e storicizzazione che è all’origine stessa della loro scoperta, quel carattere di “fulmine” – improvviso, istantaneo e sempre inspiegabile – che si attribuiva alle “pietre da fulmine”, come venivano chiamate le selci prima dell’invenzione della preistoria. In un certo senso, chiunque entri in questa sala rievoca l’incontro degli artisti moderni con la preistoria. 

È il motivo per cui questa sala funziona in un primo momento nel suo complesso, e solo in seguito sollecita l’attenzione dello spettatore su questa o quella forma individuale. Ci chiniamo quindi per adattare il nostro corpo alla scala della preistoria, spesso minuscola, cosa che accade più raramente con le opere dei moderni, con l’eccezione significativa di Giacometti.

Il cambio di scala opera con la moltitudine di forme e tecniche: la Venere readymade di Mirò e di Picasso, l’intreccio dei tempi dello stesso Picasso, le traduzioni più fedeli di Brassai e Louise Bourgeois. Multipla, lacunare ed enigmatica, la preistoria ha avuto una forza di de-familiarizzazione dello sguardo che non è paragonabile a quella del primitivismo, perché passava principalmente attraverso la coscienza soggettiva del tempo. Da qui la grande eterogeneità delle forme moderne a cui ha dato origine, spingendosi spesso ben oltre la somiglianza letterale e ritornando nel corso della lunga modernità con una regolarità inesauribile. 

 

Pablo Picasso, Buste de femme, Boisgeloup, 1931, gesso, 62,5 x 28 x 41,5cm, Musée national Picasso-Paris.


Immagino che avete riflettuto molto sul modo migliore di rendere visibili i manufatti preistorici che cadenzano Préhistoire. Un énigme moderne e vorrei saperne di più.

Secondo una museografia che ha fatto il suo tempo ma è ancora molto diffusa, questi manufatti sono generalmente classificati per tipologia e accatastati in grandi vetrine. C’è poca attenzione per la loro singolarità e per la loro esposizione. Al contrario, quando si utilizzano nuove tecnologie, la massa d’informazioni e la proliferazione di schermi rischia di smaterializzare il manufatto in questione. Come se la sua sovra-esposizione coincidesse in qualche modo con la sua scomparsa.

Ora, quello che mi ha colpito in Préhistoire. Un énigme moderneè l’attenzione verso questi manufatti: il cranio di Cro-Magnon già citato, le pietre antropomorfe, i legni di forma e fattura diverse, le statue e le lastre, le figure femminili tra cui la straordinaria Venere di Lespugue (che ritroviamo alla fine della mostra in un video di Allora e Calzadilla)... 

 

Bloc gravé figurant un cheval, verso -15000 anni, pietra calcarea incisa, 28 x 23,4 x 5,4 cm, Musée d’archéologie nationale – Domaine national de Saint Germain-en-Laye.


Senza sovra-esporli, questi manufatti mantengono intatto il loro carattere enigmatico, tanto più sorprendente in quanto, come hai appena ricordato, si esercita su oggetti di piccole dimensioni. Certo, il rischio di trasformarle in opere d’arte è sempre presente – ed è difficile, credo, evitarlo completamente quando si passa dall’antropologia alla storia dell’arte – ma il dispositivo che avete scelto ha il vantaggio di lasciar spazio agli effetti di presenza. Che sia esattamente questo lo sguardo adottato da alcuni artisti moderni nei confronti dei manufatti preistorici?

Se è legittimo parlare di incontro tra preistoria e modernità è proprio perché c’è una de-familiarizzazione e uno sfasamento reciproci. Non mi riferisco qui al celebre “orizzonte d’attesa” che determina inevitabilmente ogni creazione. Penso piuttosto alla reciprocità intrinseca all’“invenzione moderna della preistoria” stessa. Mentre la nostra modernità era alle perse con l’accelerazione industriale, mentre cercavamo di fuggire da noi stessi esplorando terre lontane, fino alla terra australe, abbiamo scoperto il tempo profondo che ci ha costituito, letteralmente e metaforicamente, nei sotterranei europei. 

Questa invenzione ci offriva sia l’estraneità di cui avevamo bisogno, sia l’affinità che ci ha permesso di identificarci più facilmente con i nuovi oggetti e le soggettività che implicavano. 

Per parlare più precisamente dell’installazione, l’esposizione di manufatti preistorici in un museo d’arte moderna accentua naturalmente la loro forza di presentificazione e, come ho detto, ripete la serie d’incontri del moderno con la preistoria. Prendiamo la Venere di Lespugue, rotta accidentalmente dall’operaio che l’ha trovata nel 1922. Questa rottura ha rivelato la bianchezza originale dell’avorio, visto e lavorato dallo sconosciuto che ha inciso la figura femminile. Questa bianchezza contrasta fortemente con la superficie della scultura molto annerita a causa del sotterramento protrattosi per 25.000 anni nei sedimenti della terra. 

 

Venere di Lespugue, verso - 23 000 ans, avorio di mammouth, 14,7 × 6 × 3,6 cm, Musée de l’homme, Paris.


È così che la lunga durata – inestricabilmente geologica e archeologica – dell’avorio annerito e in qualche modo restituito alla mineralità si articola nel presente del bianco iniziale. Ma attenzione: questo presente è in modo indissolubile quello dell’artista e degli spettatori contemporanei. Il tempo è abolito, si piega fino a che le sue due estremità si toccano. 

È significativo, al riguardo, un commento ricorrente quando parlo coi visitatori della mostra, il loro desiderio di tornarci. Al di là delle ragioni che evocano, che non spetta a me menzionare, sono convinta che la ragione principale, consapevole o meno, sia in fondo che vorrebbero approfittare di questa eccezionale “uscita” della preistoria, di questa mise-en-abîme generata dall’incontro tra due epoche che si trovano alle estremità opposte del tempo. 

Cosa importa se tutte queste opere sono ben visibili al Museo di Saint-Germain en Laye o al Musée de l’Homme? Il loro spostamento temporaneo in uno spazio dedicato alla modernità evidenzia e attiva la scena originaria – nelle sue innumerevoli ripetizioni – dell’invenzione della preistoria.

 

L’arte parietale e la grotta

 

Ho l’impressione che una modernità altra s’impone anche nella sala sull’arte parietale delle grotte del Paleolitico, dove gli enormi acquerelli su carta incollata dell’etnologo tedesco Leo Frobenius sono seguiti da Dubuffet e dalla Caverna dell’anti-materia di Pinot Gallizio. 

Il caso di Frobenius è interessante: le sue immagini sono pubblicate in riviste d’avanguardia quali Cahiers d’art e Documents, pur prendendo le distanze dalle preoccupazioni dell’arte contemporanea, mosso solo da un intento scientifico.

In ogni caso, il fascino per l’arte parietale e i suoi graffiti attraversa tutto il Novecento: quest’arte offre un modello artistico che va oltre la tradizione del quadro da cavalletto; più radicalmente, riattiva la quête dell’origine, dell’attività artistica e dello stesso essere umano, e induce a negoziare il rapporto tra il minerale e il vivente. Luogo d’elezione degli speleologi, la grotta influenza l’immaginario degli artisti. Diventa una time capsule che ha forse lo stesso ruolo della Domus aurea per gli artisti del Rinascimento italiano, con le sue grottesche...

 

Vista della mostra Préhistoire. Une énigme moderne, Centre Pompidou, Philippe Migeat, 2019.


C’è in effetti qualcosa di sorprendente nella scoperta accidentale della Domus Aurea al Rinascimento, e la metafora della “capsula del tempo” che evochi è al proposito pertinente. Sto leggendo le interessanti riflessioni di Michel Julien nel suo ultimo saggio intitolato Les Combarelles sulle grotte come “capsule del tempo”, che avvicina al “Golden Record” inviato dalla NASA nel 1977 nello spazio a bordo del Voyager 1 e 2, su cui erano state incise parole in diverse lingue, versi di Omero o musica di Bach, indirizzati a esseri sconosciuti.

 

Vista della mostra Préhistoire. Une énigme moderne, Centre Pompidou, Philippe Migeat, 2019.


Tuttavia, c’è una grande differenza tra le “capsule del tempo” della preistoria e quelle dell’antichità greco-romana, ovverosia l’assenza di qualsiasi scrittura in senso stretto che è specifica alla preistoria. Non solo l’antichità greco-romana aveva un valore normativo, ma le scoperte archeologiche successive iniziate nel Rinascimento si sono sempre dovute misurare a un testo preesistente. Sebbene ogni rivelazione eminente abbia qualcosa di sorprendente, perché abolisce il tempo che separa noi, i viventi, dagli oggetti realizzati molto tempo fa dai nostri simili, le grotte della preistoria hanno rivelato – e continuano a farlo – quello che non eravamo pronti ad aspettarci. 

La modernità ha rinvenuto nella preistoria una fonte di sorpresa, di de-familiarizzazione permanente, una terra sconosciuta, che non è dell’ordine della res extensa cartesiana e non può essere colta o interamente dominata, ma che è interna e in gran parte immaginaria. 

 

Politica del Neolitico

 

L’interesse per i fossili durante la prima guerra mondiale; l’enigma coltivato dai surrealisti negli anni 30; l’acquerello di Klee del 1933; il rapporto Hiroshima-Lascaux; l’interesse per le grotte in piena minaccia nucleare; la riabilitazione della geologia all’epoca dell’Antropocene: la preistoria non è tagliata fuori, come si potrebbe pensare, da questioni politiche. Per dirlo con una battuta di Robert Smithson: “M’interesso alla politica del periodo Triassico”!

L’uso politico della preistoria è particolarmente evidente nel Neolitico, dove entrano in gioco questioni identitarie; la quête dell’origine diventa uno strumento per legittimare se non per rivendicare un’eccezione culturale nazionale…

In effetti anche se il Paleolitico è stato ed è ancora politicizzato, in particolare come modello anarchico originario (dall’anarchia pacifista e naturalista di fine Ottocento al pensiero anti-statale di antropologi quali Claustres, Sahlins e Scott di oggi), il Neolitico ha permesso una politicizzazione più marcata attraverso due proprietà, talvolta antitetiche, che gli sono state attribuite. Queste due proprietà sono la nozione di “rivoluzione” e quella di “radicamento”. La “rivoluzione neolitica”, enunciata molto presto dai paleontologi, implicava una differenza radicale di quest’epoca rispetto al Paleolitico, uno “iato” come si diceva allora. Una differenza che è tecnica, economica, politica e culturale. In un certo senso, le forme chiare e levigate del Neolitico esprimono di per sé l’allontanamento della specie umana dal suo rapporto inestricabile con l’ambiente naturale e con l’animalità. La “rivoluzione” diventava una metafora appropriata perché si consumava una rottura col passato, ma anche perché, a partire dall’addomesticamento del mondo da parte dell’uomo, il progresso si metteva in moto. Un’ideologia adatta agli evoluzionisti di destra come di sinistra. 

Contemporanea alla metafora della rivoluzione è quella del radicamento. Paleontologi e storici credevano che dal momento in cui le società umane mettevano radici in un luogo, cominciava la storia nazionale. E se consideriamo che la maggior parte delle strutture megalitiche si trovano nel Nord Europa, cogliamo facilmente la divisione tra un Sud Paleolitico, naturalistico e sensuale, e un Nord Neolitico, astratto e metafisico, operato da paleontologi e da storici dell’arte.

Le due metafore si sono congiunte e hanno trovato una perspicacia nefasta durante gli anni del fascismo. Infatti la “terza via” si proiettava perfettamente in questo Neolitico, considerato sia come un salto tecnico che come un popolo radicato nella natura. I modernisti britannici degli anni Trenta hanno trovato nelle forme astratte e radicate dei monumenti megalitici le forme originarie delle proprie creazioni, sforzandosi di riconciliare astrazione tecnica e autoctonia, universalismo e particolarismo.

 

La preistoria all’epoca dell’Antropocene

 

Visitare una mostra come degli speleologi, far esperienza della mise-en-abîme propria all’enigma della preistoria: oggi viviamo sulla nostra pelle un turbamento temporale, divisi come siamo tra il tempo profondo, l’accelerazione del presente e le diverse versioni d’avvenire a nostra disposizione, dal futuro minacciato dall’azione umana al futuro d’evasione offerto dalla science-fiction e dalla realtà aumentata.

Fai bene ad associare il lungo periodo della preistoria all’accelerazione del presente – la sensazione, analizzata per la prima volta da Reinhart Koselleck, di una transizione eterna, tagliata fuori dall’esperienza del passato e priva di fiducia nel futuro. Ma è proprio questa rottura a stimolare la concezione e la realizzazione di un passato così lontano da essere stato dimenticato e che, proprio per questo motivo, si carica del potenziale del “nuovo” che si attribuiva esclusivamente al futuro ignoto. Il tempo lungo del passato, inoltre, associato soprattutto all’immaginario geologico e paleontologico, si proietta anche nel futuro, altrettanto distante, altrettanto stupefacente e in fondo così vicino alla preistoria.

Prendiamo il famoso esempio della Time Machine di H.G. Wells: la proiezione in un futuro immensamente remoto rivela una realtà simile a quella del passato preistorico, ma in cui il rapporto tra esseri umani e animali è invertito. In questa narrazione fondatrice sono gli esseri umani, rappresentati come quegli “esseri soddisfatti” che l’hegeliano Kojève situava alla fine della storia, a diventare oggetto di sacrificio di esseri mostruosi che vivono nel mondo sotterraneo. Questa stessa rappresentazione di un tempo reversibile si ritrova più tardi in molti autori di fantascienza (Ballard, Aldiss, ecc.) così come in Georges Bataille che speculava su Lascaux sotto l’impatto di Hiroshima. 

Inoltre, se il “sentimento della preistoria” (l’espressione è di Giorgio de Chirico) è oggi così potente, è perché la nostra storicità si proietta facilmente in questo periodo, dotato più d’ogni altro di una forza temporale ambivalente – assieme apocalittica e creativa – in virtù della sua estensione e del suo carattere enigmatico. Così ci sforziamo di rappresentare noi stessi come degli agenti geologici, per assumere la responsabilità storica e politica che ci appartiene in quanto abitanti e utilizzatori del pianeta Terra. Ma, allo stesso tempo, cerchiamo nella preistoria della nostra specie un potenziale utopico. Da qui un maggiore interesse per il Paleolitico a scapito del Neolitico che viene spesso interpretato come l’età della costrizione, o come l’inizio della fine (il libro di James C. Scott Homo domesticus. Une histoire profonde des premiers Etatsè sintomatico al riguardo). 

 

Insomma questa scena dell’invenzione moderna della preistoria, questa “uscita dal tempo” si è verificata più volte nel corso del XX secolo. Lo stesso vale per l’esposizione della preistoria in un museo d’arte moderna, un evento raro ma non unico.

Penso in particolare alla celebre mostra Prehistoric Rock Pictures in Europe and Africa voluta nel 1937 da Alfred Barr nel tempio del modernismo, il Museum of Modern Art di New York, o a Neo Preistoria. 100 Verbi di Andrea Branzi e Kenya Hara alla XXI Triennale di Milano nel 2016.

Che queste e altre esposizioni coincidano con un momento specifico nella fabbrica moderna della preistoria, per così dire? Che ognuna risponda a una specifica agenda artistica, culturale e politica? Che ci raccontino il modo in cui è evoluta la nostra attrazione per la preistoria, le nostre idee sul tempo e il ruolo dell’uomo nella storia e sul pianeta? Se l’ipotesi è ragionevole, in quale contesto s’inscrive il nuovo volet costituito da Préhistoire. Un énigme moderne? o, per dirlo altrimenti, come esporre la preistoria all’epoca dell’Antropocene?

Préhistoire. Un énigme moderne non è la prima mostra ad unire le due pagine evocate dal titolo. Herbert Read, che ha concepito con Roland Penrose 40000 Years of Modern Art (ICA, Londra) ha scritto, sotto l’influenza di Wilhelm Worringer, che l’ansia del rapporto dei moderni con la modernità tecnica li ha resi psichicamente simili agli uomini preistorici. Ciò che distingue la nostra mostra, tuttavia, è il suo sguardo profondo e storicizzante, che considera Read, Benjamin o Bataille in quanto oggetti storici alla stessa stregua degli artisti o dei paleontologi. Anche Walter Benjamin ricorreva all’analogia tra la prima natura della preistoria e la seconda natura della modernità, che esigeva tecniche diverse per l’addomesticamento del pericolo. 

Più recentemente, Andrea Branzi ha definito il nostro tempo come una “neo-preistoria”, evocando il nostro procedere a tentoni nel buio, quell’incertezza che condividiamo con la preistoria. Salutare è il fatto che non c’è nulla di apocalittico in questa incertezza. Per Branzi, ogni volta che l’uomo ha varcato le soglie della sua lunga storia, ripeteva in sostanza la preistoria. Dopo la certezza del “progetto” modernista, ritroviamo così il rapporto con il dubbio. 

Da parte mia, ho l’impressione che da una ventina d’anni almeno tendiamo a sottolineare eccessivamente il lato trionfale del modernismo, a scapito di un rapporto più sfumato che lo stesso modernismo intratteneva col progresso. Non abbiamo il dono delle sfumature, della contraddizione e del dubbio. Lavorando a questo progetto, mi sono infine interessata ai tentativi concettuali e formali di pensare una modernità più agitata e contraddittoria, una modernità che, proprio nel momento in cui instaura un rapporto di dominio sulla natura, si scava, letteralmente e metaforicamente, la terra sotto i piedi.

 

Trouble temporale

 

Tocchiamo qui il cuore della nostra conversazione sulla preistoria come enigma moderno. Visitando la mostra e leggendo il catalogo, mi sono reso conto che gli artisti non hanno reagito in modo univoco. Secondo Mirò, l’arte è in declino sin dai tempi della preistoria; per Picasso, gli artisti non hanno fatto niente di meglio sin da allora; Giacometti perde ogni fiducia nell’idea di progresso, ecc.

Per semplificare, distinguo: a) chi pensa che l’arte sia in decadenza fin dalla preistoria, che l’apice della produzione artistica sia raggiunto fin dal suo inizio; b) “il futuro non è più quello di una volta” (secondo lo scrittore di science-fiction A.C. Clarke): la preistoria e il tempo profondo modificano non solo le nostre idee sul passato e il nostro rapporto col presente ma anche la nostra capacità di immaginare il futuro.

Tuttavia a) è una posizione che, pur tenendo conto della profondità del tempo, rimane classica: la storia è un progressivo allontanamento da una Tradizione perfettamente compiuta e non più raggiungibile dai Moderni. Una posizione che si limita, in finale, a invertire la freccia ascendente del progresso, mantenendo intatta la linearità della storia.

b) mi sembra molto più promettente, legata al passo di Bataille che hai citato (qui come in altri articoli che ho letto, in particolare su Pierre Huyghe), dove Lascaux e Hiroshima si attraggono, si assomigliano, si invertono, entrano in una corrispondenza anacronistica, formano un nodo o un cronotopo concettuale esplosivo. Che questa strada ci permetta di rendere più complessa la modernità stessa?

Tra l’altro, mi chiedo come ripensare Bataille – e l’enigma – oggi che si visita una riproduzione in scala 1:1 della grotta di Lascaux mentre l’originale è ormai inaccessibile.

Ci sono ovviamente diverse concezioni della storia che coesistono all’interno della modernità. I conflitti non sono solo tra questa o quella tendenza, ma spesso operano anche all’interno dello stesso pensiero. Da parte mia, ho sempre trovato nei pensieri contraddittori (Bataille, Carl Einstein, Benjamin e molti altri) quelle scintille che illuminano in modo inaspettato gli oggetti che mi sforzo di comprendere.

Non sono sicura di capire cosa vuol dire “anacronismo” – a infastidirmi è  il fatto che presuppone, come antitesi, o un pensiero essenzialista e lineare o una storia chiusa e omogenea. Ma, da una parte, queste forme di storicità hanno raramente quel carattere esclusivo e puro che gli viene attribuito e, dall’altra parte, non sono realmente maggioritarie nel pensiero storico della modernità. 

Possiamo anche ribaltare la domanda: è vero che Mirò aveva detto che la pittura era in declino fin dall’età delle caverne, ma questa non è l’altra faccia della medaglia del progresso? Al contrario Mondrian, che non ha mai cessato di evocare il progresso e la fine dell’arte e che viene spesso considerato come un modernista hegeliano, ha fatto di tutto per evitare che questa fine accadesse, sapendo fin troppo bene che lo spazio proprio dell’arte era quello della tensione del tragico. 

Le cose sono quindi più complicate di quanto la doxa modernista e postmodernista ci ha insegnato. È indubbiamente utile sbarazzarsi di modelli diventati troppo familiari per pensare la modernità. Il lavoro di de-familiarizzazione è infinito! Del resto, da parte mia, non ho problemi con la denominazione dei “moderni”, a patto che con questo termine non s’intenda solo una mentalità e un atteggiamento conquistatore, eudemonico e, in ultima analisi, ingenuo. Ernst, Klee, De Chirico, Picasso, Mirò, Oldenburg, Morris o Smithson sarebbero stati anti-moderni se non avessero adottato una credenza plateale nel progresso? Perché ricorrere a un dualismo così marcato per comprendere le dinamiche della lunga modernità? 

Lentezza e accelerazione, tempo lungo e proiezione nel futuro, malinconia e mania, sentimento precario e proiezione nella durata: i diversi modi di tensione possono rivelarci in effetti una modernità diversa da quella che oggi, come penitenti, prendiamo gusto a condannare. Ed è questa modernità che può aiutarci a capire cosa ci sta accadendo oggi. 

 

Scala geologica

 

Un’altra modernità o una modernità altra mi riporta a Robert Smithson, un artista radicato nella cultura americana ma con una sensibilità profondamente europea. Invece di adottare una posizione semplicistica che rifiuta il modernismo o, secondo una famosa affermazione di Donald Judd, l’arte europea in blocco, opera una mossa inaspettata: estende la cronologia artistica su scala geologica. Lo vediamo bene nella selezione delle sue opere in Préhistoire. Un énigme moderne: il film Spiral Jetty, il collage pop Venus with Reptiles (1963), la finzione geologica Strata, un racconto che alterna fotografia e scrittura. 

Se oggi in Francia Smithson è al centro del dibattito critico, questo è forse dovuto anche a un disagio nei confronti di quelle narrazioni schematiche ereditate dal modernismo da cui tu prendi chiaramente le distanze.

L’esempio di Smithson è molto interessante per la sua spaventosa coerenza! Da una parte, ha condotto una critica molto rigorosa del modernismo essenzialista che si era affermato negli Stati Uniti sin dal secondo dopoguerra e, dall’altra, ha elaborato un suo sistema di rappresentazione attingendo agli universi più eterogenei che spaziano dalla cultura popolare alla letteratura e alla filosofia colta, passando per le scienze esatte e le scienze umane, in particolare nella loro declinazione strutturalista. C’è un certo pathos nel suo pensiero, nei suoi earthworks e nella sua scrittura; il suo universo era fondamentalmente pessimista, ossessionato da figure quali Pascal, Beckett, Borges o T.S. Eliot. 

Ma in questi scrittori aveva trovato anche la dimensione “immaginaria” che allontanava il suo pessimismo e legittimava la vita. La scala geologica, che Smithson ha concepito e meticolosamente attivato nelle sue fotografie, opere e testi, ha funzionato come sostituto della storia e delle sue contraddizioni. È probabilmente questo aspetto del suo pensiero che mi dà più fastidio. Ma Smithson aveva stabilito la sua genealogia “moderna”: avendo compreso o letto in Meyer Schapiro il tropismo geologico di Cézanne, per la stessa ragione s’inscriveva egli stesso in questa tendenza. Il personaggio minuscolo stretto tra le due pieghe in Carrières de Bibémus di Cézanne diventa una macchia bianca alla fine della Spirale ripresa dall’alto: Smithson che corre sul pontile diventa una pietra tra le altre. 

 

Da un abisso all’altro

 

Smithson era attratto dalla preistoria come dalla science-fiction, e forse vedeva queste due dimensioni compenetrarsi una nell’altra parte di un tempo senza l’uomo ai tempi della minaccia nucleare. Catene di pensieri che mi fanno pensare che Préhistoire. Un énigme moderne si apre mentre si festeggia il cinquantesimo anniversario dello sbarco sulla luna. È forse inevitabile, nel concludere la nostra conversazione sull’enigma moderno della preistoria, evocare lo spazio siderale. Passiamo così da un abisso all’altro...

Sì, uno dei momenti parossistici dell’invenzione moderna della preistoria risale all’ingresso nell’era atomica, epoca dotata di due facce opposte, quella distruttiva di Hiroshima e quella, considerata positiva, della conquista dello spazio. Abbiamo già accennato alla simmetria tra Lascaux e Hiroshima che è, credo, alla base del pensiero di Bataille sulla preistoria. Questo pensatore, che aveva elaborato una storia informe e contingente durante gli anni Venti, ha cominciato a concepire una storia molto più chiara, molto più univoca in seguito al disincanto delle “comunità acefale” come risposta al fascismo e allo scoppio della guerra. La sua concezione diventò hegeliana attraverso Kojève, spingendosi fino a immaginare una storia universale, ossessionata dall’idea della fine. Questa fine era stata indicata da Hiroshisma, un evento inaugurale di cui gli uomini non avevano le chiavi interpretative e che subivano passivamente come se fossero tornati allo stato animale. 

Tra gli artisti, Lucio Fontana ha subito legato la preistoria, che assillava la sua immaginazione almeno sin dalla fine degli anni Trenta, ai viaggi interplanetari e al mondo inospitale della Luna. Il suo ambiente nero, nel 1949, fu interpretato come uno spazio preistorico; il suo scopo era quello di condurre lo spettatore a sperimentare l’estraneità, l’inadeguatezza degli uomini verso la nuova era che si profilava. Questo spazio intermedio, con sculture dai caratteri antidiluviani, non appartenenti a specie note né a regni naturali determinati e ben compartimentati, riattivava per l’ennesima volta l’età della preistoria.

Il primo uomo sulla Luna era dopotutto un primo uomo che provava un’ansia metafisica nello spazio minerale che stava calpestando. Altri artisti, come Frederick Kiesler e Pinot Gallizio, hanno creato degli ambienti rivisitando l’immaginazione della grotta. La grotta funzionava non solo come riparo dall’era atomica, ma anche come un luogo simbolico. Per Kiesler, la Endless House era un luogo di unità, di equilibrio tra materia e spirito e di uscita dal tempo a beneficio di un eterno presente e mitico, mentre per Gallizio la Caverna dell’antimateria rispondeva all’ideologia situazionista dell’attività gratuita, non utilitaristica, sciolta dal lavoro e dal valore di scambio. Anche lui esprimeva il desiderio di vivere un’esperienza piena del presente – senza la capitalizzazione del passato o la fuga nel futuro. Questo presentismo mitico costituisce un altro tratto, l’ennesimo, della preistoria inventato dopo la seconda guerra mondiale e la bomba atomica.

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Intervista con Maria Stavrinaki
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Esistere, resistere, fotografare

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Libuše Jarcovjáková  vive a Praga. Studia all’Accademia del cinema (FAMU), ma le sue immagini sono troppo eccentriche. Non riesce a trovare luoghi dove esporle. Le comunità di lavoratori marginalizzati, i bar degli omosessuali, gli amici e gli amori, che fotografa dal 1970, non si possono mostrare. Questo vale anche per sé, quando si ritrae nuda o si masturba. La Primavera di Praga è stata poco più di un’illusione, e la caduta del muro di Berlino, è molto distante. Praga è una prigione e la fotocamera è il solo mezzo per evadere. L’insostenibile leggerezza dell’essere, e l’incontenibile vitalità del corpo, invade anche le immagini della fotografa. Il pube dell’amica Eva sdraiata su un letto che afferra un bicchiere posato poco sopra gli slip abbassati, dalla serie Killing Summer (1984), è una sorta di manifesto programmatico. La fotografa entra con il proprio corpo dentro l’inquadratura. È sua la mano che abbassa gli slip all’amica. Corpo e sguardo coincidono. Lo sguardo tocca, afferra, interviene. Sesso e alcool  sono tra i pochi mezzi consentiti con cui opporsi a un potere repressivo che ha ridotto l’essere umano a un essere mutilato. L’ebbrezza e l’abbandono ne costituiscono la trama visiva. Se ne riempie lo sguardo della fotografa che è  allucinato come la luce del flash che  spara sui soggetti, e ne viene stravolto, come un corpo che si abbandona, allo stesso modo dei contorni sfocati e sgranati di molte delle sue immagini. “Ho potuto esprimermi con la fotografia come volevo, perché non avevo nulla da perdere in questo contesto di repressione”, racconta la Jarcovjáková. E le centinaia di foto nella sua mostra, persino troppe, lo testimoniano con una forza espressiva che avvolge tra le sue forme notturne e ambigue anche lo sguardo dello spettatore.  

 

Libuše Jarcovjáková, David, Prague, 1984. Courtesy of the artist.


Libuše Jarcovjáková, From the T-club series, Prague, 1980s. Courtesy of the artist.


La mostra Evokativ di Libuše Jarcovjáková è una delle tre che raccontano meglio questa edizione dei Rencontres, nella quale vengono celebrati i cinquant’anni dalla sua fondazione. Le altre, che fanno parte della sezione  Mon corps est une arme. Exister, résister, photographier  sono  Les libertés intérieures. Photographie Est-Allemande 1980-1989 e La Movida. Chronique d’une agitation1978-1988.

L’incertezza, la mobilità, l’inquietante provvisorietà della sua storia sembra giungere anche a un’altra città: Berlino. Non ci sono dubbi. La Germania divisa diviene il segno visibile di una lacerazione che taglia la storia e l’Europa, e che rimane inciso sui corpi. Una città divisa è sinonimo di un’identità divisa. I sedici fotografi che vivono a Berlino Est incarnano questa frattura. Come è possibile esprimere la propria individualità in una società dove il singolare viene sacrificato al collettivo? Con la libertà interiore. Se il muro è impenetrabile, il corpo riesce comunque a insinuarvisi.  Le fotografie diventano la forma di un’arte struggente che assomiglia all’adolescenza per la sua mescolanza di artificio e ingenuità, sentimenti e intellettualismo intransigente, violenta contestazione e disarmante abbandono. Ognuno di loro cerca di sopravvivere a una città, la cui storia pare innaturalmente bloccata. Una delle reazioni, a questo senso di tempo immobile e immutabile si percepisce appieno nelle immagini di Tina Bara. In particolare nel film Lange Weile del 2016, composto da 400 immagini che testimoniano la sua vita e quella del gruppo di amici, dal 1983 al 1989. Lange Weile significa noia, letteralmente “lungo mentre”. Resistervi è una strategia. Significa resistere alla lentezza che il potere impone al tempo. Mostrare il corpo significa spezzare l’uniformità di un tempo monocorde e omologato. La noia, quindi, non è solo una presa di distanza da qualcosa a cui non si sente di appartenere, ma anche ciò che induce Tina Bara e gli altri fotografi a rientrare in sé, ad ascoltarsi, vedersi e trovare una possibile via di fuga. È un confine labile tra esterno e interno. Nelle sue immagini, l’immobilismo muta il suo segno. Sembra,  infatti, che in quella interminabile sequenza visiva  si possa vivere in anticipo il futuro. Le fotografie prefigurano dunque una vita che si spinge oltre il lungo istante di noia che hanno messo in scena. A Berlino Est si può vedere, udire e sentire la possibilità di un cambiamento.  

 

Gundula Schulze Eldowy, Berlin, 1987, from the Berlin on a dog's night series. Courtesy of the artist.


Gabriele Stötzer, Mirror reflexion, 1984. Courtesy of the artist.


I quattro fotografi della movida spagnola lo gridano. La Madrid degli anni Ottanta è un’esplosione di eccitazione e vitalismo. Franco muore nel 1975, ma la dittatura sembra porsi a una distanza siderale. La reazione è potentissima. “Là  dove tre persone dividono la voglia di fare qualcosa insieme, c’è una movida”, afferma il fotografo Pablo Pérez-Minguez. I  corpi  fotografati sono compiaciuti, gaudenti, androgini, autosufficienti, esuberanti. Le fotografie esprimono una presenza e una disponibilità assolute. Sono insieme eccesso e perfezione. Il corpo si affida completamente all’immagine. 

 

Alberto García-Alix, Eduardo y Lirio, 1980. Avec l’aimable autorisation de l’artiste et VEGAP. (Exposition La Movida).


Miguel Trillo, El Calderón, Concert des Rolling Stones. Madrid, 1982. Avec l’aimable autorisation de l’artiste et de VEGAP (Exposition La Movida). 

 

La fotografia  è un accumulo di tensioni, idee, esperienze. In esse si ribalta completamente l’idea per cui niente sembra interessante quando ti appartiene. Qui è tutto interessante, perché è tutto posseduto. Vita, musica, corpi esibiti, travestimenti: tutto è mobile. Il volto di Pedro Almodóvar, truccato da donna, con il petto villoso, simboleggia una libertà riconquistata e vissuta pienamente. Ma l’essenza della movida sta tutta nelle immagini di Ouka Leele, pseudonimo di Barbara Allende Gil de Biedma. Le sue fotografie sono coloratissime, vivaci, ironiche. Sono parodie. L’immagine di una donna che tiene fra le labbra una cannuccia, in capo un’immensa aureola di limoni, è l’icona dei Rencontres. Tutto è assimilabile al sogno. Mystique Domestisqueè il titolo della sua mostra. La libertà interiore è straripata oltre l’immagine. Ed il corpo l’ha rivendicata, come un desiderio che per lungo tempo ha dovuto celarsi. 

 

Mostre:  

1 giugno – 22 settembre 2019 (https://www.rencontres-arles.com/) direttore Sam Stourdzé

Evokativ di Libuše Jarcovjáková, a cura di Lucie Černá

Les libertés intérieures. Photographie Est-Allemande 1980-1989 a cura di Sonia Voss

La Movida. Chronique d’une agitation1978-1988 a cura di Antoine de Beaupré, Pepe Font de Mora, Irene de Mendoza.

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I Rencontres di Arles
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Modernismo e post

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Prima grande stanza, che ci si trova spalancata davanti appena si apre la porta: grandi immagini fotografiche sono proiettate sulle pareti, si vede subito che ritraggono importanti personaggi della cultura italiana otto-novecentesca perché si riconoscono i più famosi: di fronte c’è Segantini nel suo atelier, a destra Giovanni Papini nel suo studio e i fratelli Russolo con i loro intonarumori, a sinistra Bruno de Finetti al tavolo di una conferenza, Italo Svevo al Caffè Austro-ungarico di Trieste e l’anarchica Louise Michel nella sua camera da letto. Ogni immagine ha davanti dei mobili che ricostruiscono gli ambienti, ognuno con uno o più libri del o sul personaggio rappresentato. Al centro di tutto un salottino con divano, poltrone, tavolino con altri libri e oggetti. Da ogni ambiente emana una voce che legge brani scelti, tutti a voce alta, mescolandosi con un effetto teatrale riuscitissimo: è lo schiamazzo della Storia – prendo il termine da Dario Bellini, che lo intende proprio come grumo di voci e di idee che costituisce già di per sé l’argomento. L’installazione ha come titolo Modernismo italiano.

Seconda stanza al secondo piano: silenziosissimi ritratti a figura intera, singoli o di coppia o di famiglia – Clegg & Guttmann ce ne hanno proposti su questa linea regolarmente da decenni – su fondo nero da cui spiccano opere d’arte, di diverso tipo e stile, ma mi pare tutte di artisti dopo il Modernismo, per rifarsi al tema dichiarato della prima stanza; tra essi infatti riconosciamo almeno De Dominicis e Lavier. Dunque le persone ritratte sono dei collezionisti. Il contrasto è fortissimo, a tutti i livelli.

 

La terza stanza, al terzo piano, è doppia: entrando ci si trova in una sorta di anticamera dove sono appese delle “nature morte” – c’è dunque un lavoro anche sui generi – di oggetti fotografati all’interno di una scatola dalle pareti di carta argentata (che fa pensare alla Factory di Warhol, ma forse l’associazione è arbitraria): ci sono dei fiori in un vaso, delle mele in una ciotola, due bottiglie di Campari accostate in modo che le etichette formano la parola Campapari. I rimandi, molto meno diretti, possono essere ai girasoli di Van Gogh, alle mele di Cézanne, al Campari di Depero, altri artisti modernisti dunque, non italiani. Da qui si accede a una stanza dove sono proiettati quattro video uno accanto all’altro sulla stessa parete, in cui vediamo quattro persone che leggono, di nuovo tutti a voce alta assommandosi in un chiasso indistinguibile: su di loro sono proiettati fotografie degli autori dei testi che stanno leggendo in modo che i volti di questi ultimi si sovrappongano ai loro volti; sono Otto Weininger, Gustav Theodor Fechner, Gertrude Stein e Franz Kafka, e allarghiamo di nuovo il Modernismo ad altri contesti.

 

Il Modernismo dunque è il centro dell’esposizione, in tutte le sue componenti – arte, letteratura, filosofia, scienza, politica – e contesti – italiano, francese, mitteleuropeo – con al centro il collezionismo ritratto in maniera iconograficamente ottocentesca, ma con oggetti temporalmente e culturalmente “sfasati”, post-modernisti. Forse da questo si possono dedurre due domande almeno. La prima: il Modernismo ci appare inesorabilmente dall’oggi, cioè dal post? Forse addirittura come ci appare il post, cioè più vario e sfaccettato, meno omogeneo di quanto ci si figura quando si cerca una sintesi storica e di pensiero. Lo schiamazzo, come dicevo, la sovrapposizione e l’intreccio delle voci ne sono qui, più che il risultato, la cifra stessa. La seconda: il ruolo del collezionismo, che direi di snodo, proprio come lo è espositivamente, con il suo silenzio e il rovesciamento tra modernismo e post che ho descritto.

In effetti la mia idea è che di questo si tratta qui, di un gioco significativo di rovesciamenti, di rotazioni sul perno della nozione di collezione. Quello più centrale mi pare quello tra figura e fondo, diciamo così: nella prima sala lo sfondo storico è l’argomento e le figure proiettate fanno da sfondo ai mobili che dovrebbero fare da loro sfondo, emergendo invece concreti in primo piano – così la foto proiettata fa come da quadro alla parete; lo stesso vale per le parole, i discorsi, tra libri e voci, visto che queste si assommano al punto da diventare come uno sfondo, ma sono talmente alte da emergere come presenza principale della stanza.

 

Non è formalismo questo mio: l’idea, credo, è quella che nella nostra visione della storia, e del Modernismo qui in particolare, siamo sempre di fronte a questi rovesciamenti, che la visione, la conoscenza sono sempre retrospettive, proiettive.

Dichiarano Clegg & Guttmann, come riporta il comunicato stampa: «Cento anni dopo l’inizio del Modernismo ci ritroviamo in un profondo stato d’incertezza su quali risposte dare alle questioni più basilari di etica, estetica e politica». Cioè oggi che ci sentiamo così, vediamo anche il Modernismo così, ne siamo figli ma anche padri.

Gli stessi rovesciamenti proseguono in altre modalità nelle stanze seguenti. Nei ritratti dei collezionisti, gli oggetti sono sullo sfondo ma emergono in primo piano illuminati, anzi luminosi, illuminanti, come il cigno tenuto dalla donna o lo specchio dietro la famiglia o l’oro del quadro di De Dominicis dietro l’uomo. Nelle nature morte gli oggetti sono di nuovo in primo piano, ma la scatola argentata confonde, moltiplica ma sfocando e disfando le forme – davvero io continuo a pensare all’argento della Factory, spazio che ho sempre trovato allucinante, visivamente insostenibile. D’altro canto Warhol è per tanti versi lo snodo storico tra Modernismo e post.

 

Whether Line, Fitch & Trectain.


Infine nella terza sala la sovrapposizione è totale e la distinzione tra sfondo e figura è annullato, indecidibile: la proiezione è la sua forma, la fusione di figura e fondo è letterale, la confusione delle voci torna a trionfare.

Per me l’idea è questa: ciò che ci abbandoniamo per pigrizia o altro a sentire come confusione va invece letta come fusione, come voce dell’insieme e come sovrapposizione delle voci del passato e del presente. Certamente quello che chiamiamo Modernismo era un insieme simultaneo di voci diverse, forse senza sintesi ma compresenti nello stesso orizzonte di possibilità, come lo chiama qualcuno; d’altro canto il presente sarà anche segnato dall’incertezza, ma la certezza che cosa è? In arte, intendo. Non è la forma? Non sta in essa la risposta a come affrontare le questioni, i problemi, gli argomenti? Collezionare è la forma, quella del rapporto tra le parti, come stanno insieme, come si connettono: in esso la dialettica tra persona e oggetto, tra sfondo e figura, tra luce e ombra, tra passato e presente, si mette in gioco operativamente, come un esercizio ermeneutico, interpretativo e insieme costruttivo di senso presente, illuminato e illuminante. In fondo anche la prima stanza e l’ultima sono delle “collezioni”, delle figure e dei rimandi scelti e messi in scena da Clegg & Guttmann.

 

Azzardo un’idea: in fondo questo è il pensiero delle “avanguardie”, non quelle moderniste, se per esse si intende quelle costruttive, utopiste, idealiste o produttiviste, bensì quelle, come il Dadaismo, che hanno compreso che i criteri del passato non potevano più funzionare nello stesso modo, che la contraddizione, il caso, l’inconscio, l’indeterminazione, la sovradeterminazione – la confusione, la provocazione, l’incertezza – sono parte integrante del linguaggio e del pensiero e hanno tentato forme e invenzioni che ne facessero i conti. Tra il Modernismo e il post ci stanno loro. Forse non è un caso che Clegg & Guttmann abbiano scelto quel panorama di Modernismo e in fondo l’hanno trattato e presentato avanguardisticamente più che postmodernamente. Esiste dunque un’avanguardia nel e del postmoderno?

Prendiamo un’altra esposizione milanese. Alla Fondazione Prada un’altra coppia di artisti, Lizzie Fitch & Ryan Trecartin, ha realizzato una mostra davvero particolare. Si intitola Whether Line, titolo dai mille possibili significati, io qui inventerei quello di “Linea del se”, inteso proprio come congiunzione: se fosse così, se…

 

L’atmosfera è completamente diversa da quella della mostra di Clegg & Guttmann, quasi opposta, fin dall’inizio, ma solo in apparenza. Si entra nella prima grande stanza del corpo centrale della Fondazione, dove è costruito un percorso obbligato da pareti di rete metallica. Al suo esterno sono disposti diversi altoparlanti da cui escono voci non ad alto volume ma che descrivono un chiacchiericcio quasi indecifrabile di cui si riescono a cogliere solo dei frammenti. Da qui si accede, attraversando il cortile sempre tra le barriere, all’altro grande spazio, all’interno del quale è ricostruita una casa, di forma essenziale, quasi un hangar, dalla struttura di legno e le pareti di metallo. All’interno si arriva a una stanza dove è proiettato un film, quindi a una parte centrale dove delle scale portano a un terrazzo, da cui non si gode la vista sperata, dato che siamo al chiuso, e poi a un’altra stanza, dove sono proiettati altri video a quattro canali.

La casa è la ricostruzione semplificata di quella che i due artisti si sono costruiti in un terreno in Ohio dove hanno voluto tentare un esperimento di vita in comune e farne il set del loro lavoro artistico: vita e film si sovrappongono, il luogo non è una location ma un “mondo”, un mondo altro. Questa è l’atmosfera che si vive anche nel primo video. Intitolato Plot Front, è un film di quelli girati in apparenza in modo dilettantesco e manuale, con scene slegate, recitazione inappropriata, insomma antinarrativo e grottesco, che si rifà ai reality o a film di serie B, C, D o da social. I personaggi discutono sconclusionatamente dei grandi temi: l’identità, il territorio, l’idea di proprietà, di stato, di nazione, di territorio, di comunità, di famiglia. In particolare il personaggio interpretato da Trecartin, detto Neighbour Girl e che incarna la figura del vicino di casa che finge bonarietà ma è al tempo stesso inquietante e minaccioso, è di quelli che dicono la loro su tutto. L’altra installazione video è quasi l’opposto: intitolata Property Bath, mostra il paesaggio naturale in diverse stagioni, silenzioso e quasi idilliaco, se non fosse per l’apparizione ogni tanto della Neighbour Girl che lo attraversa.

 

Quando si esce dalla stanza, fuori nel cortile, a mostra finita, si è frastornati e insieme sollevati di esserne usciti, lo dico in senso assolutamente positivo, cioè usciti non tanto da qualcosa di ansiogeno, che getta “incertezza”, per riprendere le parole di Clegg & Guttmann, ma da qualcosa di non certo, nel senso di dato, preciso, apodittico, ma anche di non piacevole, non accomodante, non consolatorio, e invece provocante, denunciante, linguisticamente e stilisticamente misto e con-fuso, ma al tempo stesso aperto, in tutti i sensi della parola, come lo era-è l’avanguardia.

Certo, sono avanguardie blasonate da ricche gallerie e fondazioni, diranno i maliziosi scafati, ma noi preferiamo pensare che siano i front-artist, le punte emergenti di situazioni sparse e vive attorno a loro, e comunque che i loro linguaggi e le loro opere siano le forme e i modi su cui riflettere.

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Clegg & Guttmann e Fitch & Trectain
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Vico e Leopardi. Immaginazione e linguaggio

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Chi può, vada alla mostra Il corpo dell'idea. Immaginazione e linguaggio in Vico e Leopardi, allestita a Napoli nella Sala Dorica di Palazzo Reale. Il fascino avvolgente della scenografia multimediale che accoglie il visitatore, immergendolo tra gli autografi di due pensatori sommi come Vico e Leopardi, vale una visita ad hoc. Tra gli autografi, la Scienza Nuova, lo Zibaldone di pensieri, le Operette Morali, alcuni Canti come Alla Primavera e soprattutto il primo autografo dell'Infinito (1819), tutti provenienti dalla Biblioteca Nazionale di Napoli, che possiede il lascito più consistente di entrambi i pensatori.

 

L’esposizione, ideata e curata da Fabiana Cacciapuoti, nota studiosa dell'opera leopardiana e curatrice di altre significative mostre recanatesi, è inserita tra le celebrazioni del Bicentenario de L'Infinito di Giacomo Leopardi ed è incentrata sul dialogo tra i due grandi esponenti del pensiero moderno europeo, ricostruito soprattutto attraverso l’incontro di due scritti che segnano la modernità: la terza edizione della Scienza Nuova (1735-43), pubblicata postuma pochi mesi dopo la morte di Vico dal figlio Gennaro nel 1744, e le 4526 pagine dello Zibaldone (1817-1832), pubblicato per la prima volta in sette volumi, nel 1898-1900, a cura di una commissione di studiosi presieduta da Giosuè Carducci con il titolo Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura. L’itinerario sul mito è arricchito dall’esposizione di statue provenienti dal Museo di Palazzo Reale e dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Si aggiungono alcuni volumi rari, cinquecentine e libri del Seicento e Settecento, riconosciuti come fonti comuni ai due autori, dai Dialoghi di Luciano in un'edizione veneziana del 1551 alle Quaestiones naturales di Seneca in un'edizione veneziana del 1643, a un'Iliade padovana del 1732.

 

Se non potete andare a Napoli, godetevi l'omonimo catalogo, anch'esso curato da Cacciapuoti e pubblicato da Donzelli. Nella mostra, e poi soprattutto nei diciotto saggi del catalogo, introdotto da una sapiente riflessione della curatrice dal titolo Il corpo dell'idea. Il senso del mito e la forza dell'illusione, si intrecciano riflessioni sul rapporto tra mito e poesia, indagini sul nesso tra lingua, geografia e storia, e tre saggi sull'Infinito, rispettivamente di Jürgen Trabant, Bruno Pinchard e Gilberto Lonardi. I temi sono prevalentemente poetici e antropologici: le origini dell’uomo e del mondo; il rapporto tra mito, immaginazione e parola poetica; la visione della decadenza e della corruzione dell'umanità nello spazio della modernità. Un itinerario antropologico che tocca il mito biblico delle origini, i poemi omerici, il farsi del linguaggio e la costruzione delle civiltà, che porta con sé un eccesso di razionalità e di scienza, foriero della decadenza in una nuova barbarie.

 

 

Immaginazione e linguaggio sono le parole chiave che consentono di avvicinare questi due giganti italiani del pensiero, espressione somma di quella «via italiana alla filosofia» che Roberto Esposito in Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana (2010) ha individuato in un «pensiero del fuori», del «non-filosofico», che arriva fino al Novecento, con pensatori anche politicamente distanti, come Croce, Gentile e Gramsci, ma tutti volti «a calarsi nel mondo della vita, fin quasi a coincidere con esso, costituendo una sorta di pensiero vivente». Questa filosofia che condivide gli interessi posti dalla storia, dalla politica, dalla letteratura ed «emergenti dal magma in movimento della vita», viene definita da Esposito, con una categoria attuale, «biopolitica». La filosofia italiana, anche a partire da Vico e Leopardi, esporta nel mondo da un lato l’interesse per la storia, la politica e la vita, dall’altro una costellazione semantica che permette di affrontare i grandi temi odierni della globalizzazione e della biopolitica dal punto di vista della «differenza italiana».

 

Sul rilievo della riflessione antropologica in Leopardi c'è ormai un'ampia convergenza tra gli studiosi, almento a partire dal XII Convegno internazionale di studi leopardiani tenutosi a Recanati il 23- 26 settembre 2008 (La prospettiva antropologica nel pensiero e nella poesia di Giacomo Leopardi, a cura di Chiara Gaiardoni. Prefazione di Fabio Corvatta, 2010).

L'antropologia è, in Leopardi, punto di connessione tra la filosofia della natura e la filosofia della natura umana. Lungo un itinerario di riflessione che conduce ad affrontare la grande e grave questione della condizione umana, che dall’utopia, esemplificata nel mito dei Californi, conduce al disincanto, rilevabile in alcune Operette e tra tutte nella Scommessa di Prometeo. Si può parlare al proposito di antropologia, e più propriamente di «antropologia negativa». Il termine «antropologia» in Leopardi va inteso in senso filosofico: uno spazio di riflessione sulla natura umana, a partire dalle diffuse documentazioni su popoli e culture antiche, primitive o selvagge che costituirono la ricca base materiale delle sue osservazioni. Un’antropologia «negativa», in quanto la visione leopardiana della natura umana, nel suo svolgimento, conduce a rilevare la costitutiva infelicità umana, connessa non soltanto allo sviluppo della civilizzazione, ma intrinsecamente alla natura propria dell’uomo. La genesi della concezione antropologica negativa avviene in Leopardi attraverso un processo di letture e di pensiero che muove da una visione utopica di un’umanità primitiva felice e di una cultura greco-latina eroicamente naturale, per pervenire a riconoscere la negatività della condizione umana in ogni tempo e in ogni luogo rispondendo negativamente alla domanda retorica posta nelle ultime parole del Dialogo della Natura e di un Islandese: «a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell'universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?».

 

Su questi temi torna ora a riflettere Beatrice Cristalli con un libro che tocca specificamente la dimensione «religiosa» del pensiero leopardiano, o meglio la sua riflessione «biblica» – L'«invenzione» della colpa. L'antropologia negativa leopardiana tra «Zibaldone» e «Operette morali». Come scrive Cristalli, «La versione “naturalizzata” leopardiana del dogma cristiano, il cui senso viene ribaltato nella lunga teorizzazione dello Zibaldone, si configura allora come il punto di partenza di una personale ricerca antropologica, volta a recuperare il senso – ammesso che ci sia – di quella estraneità costitutiva dell'uomo, l'essere gettato nel mondo e, allo stesso tempo, non essere del mondo».

 

Alla pagina 49 dello Zibaldone Leopardi richiama «La favola del pavone vergognoso delle sue zampe», ritenendola inverosimile «giacchè non ci può esser parte naturale e comune in verun genere d'animale, che a quello stesso genere non paia conveniente, e quando sia nel suo genere ben conformata non paia bella». E conclude: «Quello che ho detto nel principio di questo pensiero me ne porge un altro, cioè che infatti quella fav. non pecca d'inverisimile non essendo scritta per li pavoni ma per noi, i quali naturalmente siamo portati a credere che quelle zampe bruttissime agli occhi nostri sieno tali anche agli occhi dei pavoni. E quantunque il filosofo facilm. conosca il contrario, tuttavia scrive il poeta pel volgo, al quale non è inverisimile il dir p. e. che le stelle cadano, anzi lo dice Virgilio e si dice da' villani e da' poeti tuttogiorno, benchè a qualunque non ignorante sia cosa impossibile.». Immaginazione e linguaggio, verità della ragione e mito si intrecciano in questa riflessione, che conserva tutta la sua radicale attualità.

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Eliseo Mattiacci. Dalla terra al cielo

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Sin dai suoi esordi negli anni Sessanta la scultura è per Eliseo Mattiacci un processo di energie in trasformazione. Il cielo e l’iconografia cosmica; le forze, i pesi e le tensioni dei materiali sono problematiche centrali della sua scultura che ricerca l’instabilità, il divenire, “l’esserci fisicamente nelle cose”. Un percorso dalla terra al cielo che l’artista ha ricollegato a una premonitrice immagine d’infanzia, quando nel contesto contadino della sua famiglia, arando i campi, ammirava “le zolle girate dall’aratro” che “riflettevano le stelle”. 

Due mostre in anni recenti hanno riportato all’attenzione la centralità del suo lavoro nell’ambito del rinnovamento della scultura del XX Secolo – le antologiche curate da Gianfranco Maraniello al Mart di Rovereto nel 2016, e da Sergio Risaliti, al Forte di Belvedere e al Museo del Novecento di Firenze nel 2018. Attraversando i decenni e i diversi momenti della sua ricerca, questi eventi espositivi hanno evidenziato la potenza di una processualità plastica che ha scardinato i confini per disegnare nuove spazialità e modalità della scultura.  

 

Le vie del cielo, 1995, nella mostra Gong. Eliseo Mattiacci, Firenze, Forte di Belvedere, 2018 Foto Ste. Mi.


Nel 1967 Mattiacci ha partecipato alla prima mostra dell’Arte Povera, alla Galleria La Bertesca di Genova. Ha tuttavia considerato da sempre vincolante circoscrivere la propria poetica all’interno di un’etichetta, di una compagine definita. Di “situazioni” più che di “gruppi” Mattiacci è infatti andato alla ricerca sin dai suoi primi passi, quando nel 1964 dalle Marche approda a Roma, dove soggiorna per più di vent’anni, sino al 1986, anno in cui dopo la nascita della figlia Cornelia farà ritorno con la compagna Silvia Mancini nelle Marche, stabilendosi a Pesaro. 

Roma è stata per Mattiacci il luogo della sua rivoluzione linguistica, territorio di convergenza e collisione di memorie e tensioni, in un fitto intreccio con le vicende di una generazione di artisti che ha contribuito alla riconfigurazione degli orizzonti fisici e concettuali del fare. Sergio Lombardo, Maurizio Mochetti, Mario Schifano, Mario Ceroli, Jannis Kounellis e Pino Pascali sono gli artisti che Mattiacci frequenta sin dai suoi primi anni del soggiorno nella capitale. Con Pascali in primis, prematuramente scomparso nel 1968, sono anni di intensa amicizia e condivisione sul piano artistico. 

Roma, “la città più monumentale, la città più sfatta, la città più bella, la città che non finisci mai di scoprire, la città che per un artista è ancora vitale, ma per il lavoro in sé è dura e cinica più di quello che può sembrare” – così la descrive Mattiacci in un appunto inedito conservato presso il suo Archivio; Roma, appunto, diventa il palcoscenico di mostre e azioni, fissate negli scatti fotografici di Claudio Abate, oggi tra le testimonianze visive più iconiche dell’arte italiana degli anni Sessanta e Settanta. 

Il momento cruciale di passaggio dall’oggetto scultoreo all’azione è segnato dal Tubo presentato per la prima volta alla Galleria La Tartaruga di Plinio De Martiis nel marzo 1967. In occasione della mostra parte del lungo serpentone di metallo snodabile verniciato di giallo Agip viene trasportato dallo studio dell’artista in galleria con un’azione collettiva che coinvolge lo spazio urbano e che di fatto si rivela come un punto di riferimento per una nuova modalità partecipativa al fatto plastico. Dalla strada, il corpo fluido del Tubo entra infine in galleria, dove il pubblico è invitato a interagire con la forma e di conseguenza a modificare lo spazio che diventa parte integrante del lavoro, vaporizzando i confini: tra interno ed esterno, tra pratica e contemplazione, tra forma e anti-forma. Mediante l’esplorazione di quella che Mario Diacono definisce “l’estasi mistica di un operare nell’infinitezza”, il Tubo contribuisce a quell’“incessante aggiornamento sul linguaggio internazionale e particolarmente americano attuato a Roma”, tra environment e happening, ma con una propensione che tuttavia contamina sin da subito radici avanguardiste diverse, scompaginando assetti, statuti consolidati, letture unidirezionate. 

 

Azione del Tubo organizzata in occasione della mostra personale alla Galleria La Tartaruga, Roma 1967 Courtesy Archivio Eliseo Mattiacci, Pesaro.

 

Eliseo Mattiacci nello studio di via Laurina, Roma, 1966-1967 Courtesy Archivio Eliseo Mattiacci, Pesaro.


Vengono subito dopo i Cilindri praticabili (1968),  attivabili dal fruitore, che è sollecitato a sostare all’interno dondolandosi o a camminare dentro la forma plastica. Sono grandi cerchi di lamiera ondulata realizzati in relazione al modulo corporeo (misura orientativa dell’ampiezza delle braccia aperte di un corpo adulto). Prima di essere esposti all’Attico – la Galleria di Fabio Sargentini, spazio di punta dell’avanguardia artistica romana – sono allestiti nel Parco Nomentano, vicino allo studio dell’artista. Attestando una militanza che prescinde dall’ideologia, i Cilindri praticabili conferiscono una specifica “politicità dell’esistente” al gesto artistico nel clima incandescente del ’68. La fruizione spontanea, non mediata, dei bambini traghetta la scultura verso una condizione ibrida e laterale di oggetto-giocattolo in piena sintonia con l’utopia marcusiana della liberazione che nutre quei giorni.

In relazione al Tubo e ai Cilindri praticabili, Vittorio Rubiu parla del “secondo tubismo” di Mattiacci: non riferendosi al “tubismo” pittorico di Léger ma alla visionarietà modernista che emerge nelle riflessioni teoriche dell’artista francese, dove industria, immaginazione e reale si incontrano, senza soluzione di continuità. Per Mattiacci il reale diventa la strada, il proprio corpo, il lavorare con le forze e le tensioni dei materiali. La dimensione industriale-tecnologica troverà invece, nella sua ricerca, un’intrinseca e naturale polarità dialettica in una dimensione arcaico-primaria mediante la quale l’artista porta l’attenzione alla terra come materiale evocativo di antiche ritualità contadine e come luogo di intervento, oltreché alla Terra intesa nei suoi moti primari di rivoluzione e rotazione. Questa traiettoria è segnata da due azioni epocali: Lavori in corso (1968), al Circo Massimo, e Il Percorso (1969), all’Attico.

 

I Cilindri praticabili allestiti nel Parco Nomentano, Roma, 1968 Foto Claudio Abate.


Il 1° marzo 1969, a distanza di due mesi dall’azione dei Dodici cavalli vivi di Kounellis, Mattiacci entra nel garage di via Beccaria, il nuovo spazio di Sargentini, su un compressore arancione e blu e spiana della terra pozzolana per creare un percorso-sentiero vibrante e accidentato che si estende dall’ingresso all’interno. Leggendo oggi questo intervento in relazione con il coevo scenario earthworks americano, sembra che Mattiacci abbia fornito la propria risposta e critica alle grandi operazioni sul paesaggio compiute dagli artisti d’oltreoceano. Se alla base delle azioni di accumulazione, scavo, scaricamento, incisione, demarcazione condotte sul paesaggio dagli artisti americani vi è l’utilizzo di mezzi meccanici, Mattiacci nella sua azione trasforma il rullo compressore in una sorta di grande ready-made, ancora una volta un oggetto-giocattolo che depotenzia la tecnologia e conferisce “qualità misteriose” all’azione.

 

Percorso, azione realizzata alla Galleria L’Attico, Roma, 1969 Foto Claudio Abate.


In una mediterranea traiettoria antiform che si propaga dal Tubo a Lavori in corso, dal Percorso ad Assistere intensamente al processo di crescita, intervento ideato per Processi di pensiero visualizzati (la mostra sulla giovane avanguardia italiana poverista curata da Jean-Christophe Ammann al Kunstmuseum di Lucerna nel 1970), Mattiacci è dunque attratto dalla temporalizzazione della forma messa in tensione dai gesti dell’artista e della gente, dagli agenti atmosferici, dalle forze cosmiche. 

“Amo l’esserci fisicamente nelle cose – scrive nel 1969, fornendo un primo resoconto dell’intesa stagione di rinnovamento della sua scultura – poggiarci le mani, analizzarle e comprimerle, attraversarle: perché esistono. Per questo i materiali che uso sono vari: mi interessa vedere come reagiscono, come si piegano. Mi piace vedere una materia compressa da un peso, osservata in trasparenza, assistere a come si muove e varia nell’aria, nel sole, nella pioggia. Le dune di sabbia formate dal vento, oppure trattenute da membrane trasparenti; quel che galleggia, si arrotola, si srotola. E le azioni improvvise e instabili, l’incontro fortuito”. 

A ragione Fabrizio D’Amico, che a Mattiacci ha dedicato pagine tra le sue più intense, ha letto queste riflessioni come rivelatrici di tanta scultura a venire, quando a partire dagli anni Ottanta nuovi interessi cosmico-astronomici rivitalizzano il suo rapporto con la materia, con l’immagine plastica, con l’idea di scultura. 

 

Alta tensione astronomica, 1984 Courtesy Archivio Eliseo Mattiacci, Pesaro.


In mezzo tra queste due stagioni si situano le pratiche comportamentali degli anni Settanta che pongono al centro del discorso il corpo dell’artista. Dall’estroversione delle azioni della fine degli anni Sessanta, l’indagine degli anni Settanta capovolge lo sguardo ai comportamenti che mettono in evidenza limiti ed energie nascoste del corpo e del pensiero. È un processo di conoscenza che porta l’artista ad ascoltarsi nel profondo, a toccare i limiti dell’agire, a esperire attraverso pratiche fisico-antropologiche il confronto continuo tra visibile e invisibile. “Dal 1971 l’erranza cosmica si trasforma in immersione nella voragine del corpo, che viene assunto quale galassia composta di carne e di spirito”, scrive Germano Celant nella monografia pubblicata da Skira nel 2013, un ponderoso volume realizzato con la collaborazione scientifica di Francesca Cattoi che ha raccolto testimonianze dell’artista, oggi fonte preziosissima per inoltrarsi nel suo lavoro.  

Il percorso è annunciato dalle 12 radiografie del proprio corpo esposte alla Galleria Toselli di Milano nel 1971, e approfondito in azioni come Esperienza fisiologica, realizzata all’Attico il 4 dicembre 1971, e Pensare il pensiero - Rifarsi, messe in atto in occasione della mostra alla Galleria Alexandre Jolas nel maggio 1973. 

 

Rifarsi, azione realizzata alla Galleria Jolas, Milano, 1973 Foto Claudio Abate.


Attraverso la tensione che si istituisce tra gesto e pensiero, tra visibile e invisibile, anche lo spettatore è sollecitato a compiere la propria esperienza fisiologica nello spazio della mostra, come avviene ad esempio con Essere e Respirare, azione-scultura del 1978 esposta proprio in questi mesi nella mostra Entrare nell’opera. Prozesse und Aktionen in der Arte Povera al Kunstmuseum di Vaduz (itinerante al MAMC+ / Musée d’art moderne et contemporain di Saint-Étienne, a partire dal 30 novembre). Una lastra di piombo dell’altezza di una porta è collocata a parete, accanto a un martello, su cui è incisa la parola Essere, messo a disposizione del visitatore che può usarlo percuotendo la superficie per lasciare la propria traccia mediante un gesto che afferma la propria presenza nel qui e ora. Il coinvolgimento ambientale e sensoriale si completa con Respirare, consistente in una mezza sfera nera, collocata a parete al cui interno è posizionato un microfono che trasmette il suono del respiro dell’artista, il suo soffio vitale. Al culmine di uno dei momenti più tesi della storia socio-politica italiana degli anni Settanta, con Essere e Respirare, presentata per la prima volta alla Galleria La Salita di Roma il 14 marzo 1978 (due giorni prima del sequestro di Aldo Moro), Mattiacci rivendica il vitalismo prorompente dell’azione artistica, oltre lo spazio e il tempo, alla ricerca di una dimensione cosmica infinita. 

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13 novembre 1940 – 25 agosto 2019
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Gabriella Giandelli: il disegno della scrittura

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C’era un’atmosfera festosa all’inaugurazione di Gabriella Giandelli/ Il disegno della scrittura/ works 1984-2019 (28 settembre-13 ottobre 2019, Fondazione Benetton, Treviso, nell'ambito di Treviso Comic Book Festival) e non solo perché l’artista milanese spargeva il suo evidente buon umore tra seguaci, il petit monde del fumetto e dell’illustrazione, amici e curiosi, ma perché la mostra, a cura di Giovanna Durì, è proprio bellissima e rende conto di un percorso coerente ma sempre aperto a nuove suggestioni.

 

 

Chi la visita non trova solo illustrazioni, storie inedite, albi, disegni, ma anche le collaborazioni col mondo del cinema, gli arazzi, che dimostrano la disponibilità della Giandelli a sperimentare, a mettere a confronto la sua disciplina quasi maniacale con altri mondi. Non turbava l’atmosfera festosa il fatto che il mondo dell’illustrazione e del fumetto italiano, ora consacrato internazionalmente, fatichi sempre più a trovare spazio nei nostri media, così come c’è il rimpianto che Milano non abbia ancora ospitato una grande mostra di un’artista così urbana, così legata all’eredità culturale (la moda, il design, il cinema “alla milanese”) della sua città. Ho rivolto qualche domanda a Gabriella Giandelli in questa occasione.

 

 

Guardando le prime tavole, quelle degli anni Ottanta, mi sembra ci sia un’urgenza, oltre che espressiva, terapeutica. Se è vero, lo è in che senso?

Da ragazza ero molto sola, non riuscivo per timidezza ad avere amici. Passavo tutto il mio tempo in casa, avevo solo qualche frequentazione con poche compagne di scuola. Cercavo qualcosa che mi aiutasse e così mi sono inventata il disegno. Con il disegno ho cercato di fare quello che non riuscivo a fare fuori, esprimere le mie emozioni, mostrarmi, parlare. Non ho facilità a disegnare, mi costa fatica, però, anche se a volte è frustrante non ottenere subito il risultato che cerco, poi attraverso il tempo e insistendo ci arrivo. Adesso che sono passati così tanti anni provo ancora la stessa sensazione di consolazione e appagamento nello stare al tavolo dalla mattina al pomeriggio mentre le ore passano e arriva sera e la giornata si conclude. E mi esalta e mi dà un grande buonumore quando riesco a rendere visivo qualche mio pensiero.

 

Hommage a Magritte

 

Il tuo esordio è negli anni Ottanta, un momento importante, di passaggio, nella storia del fumetto italiano. Chi ti affascinava allora e come sei arrivata a pubblicare sulle riviste di riferimento (Frigidaire, Alter Alter)?

Amavo gli autori di Valvoline e per un colpo di fortuna e una strana coincidenza ho conosciuto Lorenzo Mattotti. Mostravo a lui i miei lavori, mi apprezzava e incoraggiava. Mi capitava poi d'incontrare anche altri autori del gruppo e mi affascinava la loro energia e la loro dedizione al raccontare attraverso il fumetto. La loro forza era contagiosa. Perciò ho continuato a disegnare e poi siccome a un certo punto ero diventata brava ho pubblicato.

 

 

C’è nel tuo lavoro un riferimento alle culture antagoniste, penso in particolare al punk. Mi pare, nel tuo caso, una forma di romanticismo contemporaneo, un modo per esprimere sentimenti delicati. Sei d’accordo? E nel caso, è qualcosa che hai conservato nel tempo?

Io non sono stata punk ma dark. Era molto diverso, si frequentavano anche gli stessi posti ma si era diversissimi. Noi dark eravamo romantici e amavamo molte cose del passato, mentre i punk tendevano a voler sovvertire le regole senza guardarsi indietro. Al contrario, quando poi sono riuscita ad uscire un po' dal mio buco e a frequentare persone che mi somigliavano, ci piacevano Baudelaire e Rimbaud, i vampiri, l'estetica gotica. Indossavamo vestiti vecchi, palandrane inizio secolo, camicie di seta sgualcite, le scarpe a puntissima. La musica che ascoltavo era un grande riferimento creativo, ascolto ancora gli stessi album. Magari per un po' smetto e poi li rimetto su e provo ancora quelle emozioni: Cure, Joy Division, Bauhaus, Nick Cave, Siouxsie and the Banshees, Einsturzende Neubauten, Nico. Sì, ho mantenuto questa cosa, sento che tutto quello che vedo e quello che realizzo passa attraverso questo sguardo che è insieme malinconico e amorevole, disperato e compassionevole, raffreddato fuori ed emozionato dentro. Non saprei spiegarlo meglio.

 

 

 

Negli anni successivi, i Novanta, hai cominciato a pubblicare storie. Eppure ogni tuo lavoro, anche una singola illustrazione, è narrativa. Cosa significa per te raccontare una storia?

Sto ogni volta raccontando una storia, anche quando realizzo una singola illustrazione penso a quell'immagine come a un frame di una pellicola. Ce n'è sempre uno che lo precede e uno che lo segue anche se non sono stati disegnati. Questo succede anche disegnando delle figure umane, dei personaggi: mentre lo faccio penso al perché hanno una faccia così e allora cerco d'immaginare come sono diventati quello che sono, di chi sono figli, quale luogo abitano, se sono felici o tristi. Perché non sono interessata alla sottrazione o alla stilizzazione, mi piace invece aggiungere dettagli che raccontino il più possibile senza dire tutto ma lasciando a chi guarda la possibilità di porsi una domanda. C'è sempre storia, non può essere altrimenti, io credo.

 

Guardando il tuo lavoro torna in mente una celebre frase di Paris, Texas: “Gli americani ci hanno colonizzato l’inconscio”. Anche se mi sembra che ti nutri di molto del paesaggio cinematografico e letterario del presente, ma anche del passato (ho notato in mostra un riferimento a Aubrey Beardsley), quali sono i nomi di registi e scrittori che senti più affini alla tua sensibilità?

All'inizio ho amato tantissimo gli scrittori russi, in particolare Dostoevskij e Cechov. Poi ho cominciato a leggere gli americani, mi sono innamorata follemente di Flannery O'Connor. Da lì poi sono arrivata a Carver e a tanti altri: Bellow, Updike, Faulkner, Philip Roth, Elizabeth Strout. Sono legata più che a dei registi ad alcuni film, spesso la filmografia completa di un autore non trova tutto il mio interesse. I miei 3 film cult sono: La zona morta di David Cronenberg, Elephant man di David Lynch e Tempesta di ghiaccio di Ang Lee

 

Yehoshua

 

Questa bellissima mostra antologizza 35 anni del tuo lavoro. Riesci a vederti da fuori attraverso il lavoro di scelta, quindi critico, di Giovanna Durì? E in caso affermativo ti dà lo spunto per provare a fare qualcosa di nuovo?
Io e Giovanna abbiamo parlato e deciso insieme quali lavori mettere in mostra. Poi lei ha studiato come esporli e in quale sequenza. Sono davvero tanto grata a Giovanna Durì e al fantastico lavoro che ha fatto. Quando rivedo i miei disegni fuori dal loro naturale contesto, cioè la cassettiera del mio studio, è strano ma quasi non mi sembrano più miei e allora torno ad osservarli con più attenzione. È molto stimolante perché improvvisamente ritrovi in evidenza cose a cui magari non stavi più pensando e che invece ti accorgi che hai voglia di riprendere in mano. E anche questa volta la mostra mi ha suggerito nuovi lavori che voglio fare.

 

In contemporanea con la mostra è uscito il libro Gabriella Giandelli,Centottantasei disegni per Repubblica, con un testo di Marco Belpoliti, Nuages

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