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Hermitage. Lenin e Le avventure di Cipollino

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Dopo l’autopsia, nel corpo del compagno Lenin (Vladimir Il'ič Ul'janov) furono iniettati attraverso l’aorta sei litri di formolo, alcool e glicerina, ma gran parte dei liquidi fuoriuscirono e sui tessuti apparvero evidenti segni di necrosi. Si tentò inutilmente il congelamento finché, a due mesi di distanza dalla morte dello statista, il suo corpo venne immerso in una soluzione a base di glicerina e acetato di potassio, che dette gli esiti sperati. Le tecniche messe a punto dagli anatomopatologi sovietici sono ancora oggi utilizzate nel laboratorio allestito per la conservazione della salma di Lenin, al quale la società Ritual Service Moscow commissiona dei servizi. Creata dopo la caduta dell’URSS dall’ex sindaco di Mosca Jurij Michajlovič Lužkov per sopperire al taglio drastico dei finanziamenti riservati alla cura del corpo di Lenin, la società si occupa anche di preparare le salme dei “nuovi ricchi”, inclusi i mafiosi russi morti ammazzati nei conflitti fra cosche criminali: “dai 1500 dollari nel caso di una testa che non sia stata colpita da pallottole ai 10mila per ricomporre le parti di un corpo dilaniato da una bomba”, racconta Il’ja Zbarskij, figlio del medico e biochimico Boris Il’ič Zbarskij che, insieme al docente di anatomia Kharkov Vladimir Vorobiov, completò l’imbalsamazione del corpo dello statista (Il’ja Zbarskij, All’ombra del mausoleo, Bompiani, 1999). 

Su ordine di Stalin (Iosif Vissarionovič Džugašvili) la salma di Lenin divenne oggetto di culto di una nuova fede, quella nel socialismo reale. Ancora oggi l’apparizione del suo viso e delle sue mani illuminate nella penombra del mausoleo è impressionante. Una visione preparata dall’assoluto divieto di fotografare e dall’altrettanto assoluto divieto di parlare e sostare: il brevissimo tempo di un mezzo giro intorno al sarcofago e la visione si trasforma in un’esperienza simile a quella dei pellegrini al cospetto delle immagini sante visibili in un solo luogo e in un solo tempo. John Berger analizza questo tipo di esperienza nel primo episodio della serie Ways of Seeing trasmesso dalla BBC nel 1972, riferendola al potere che le immagini avevano prima della loro riproducibilità attraverso i media. La visione del corpo imbalsamato di Lenin che può avere luogo solo lì e non può essere replicata, se non attendendo di nuovo in coda per un’altra ora o anche due, s’imprime nella memoria come immagine dotata di un “corpo”. La visita al mausoleo educa a uno sguardo diverso da quello prodotto dalla perversa relazione che l’immagine intrattiene con il suo referente nell’età dei new media. Il rituale di visita, con lo smartphone spento, svolge una funzione pedagogica: educa a uno sguardo critico che coglie l’inattualità o l’intempestività di un’immagine, sollevando “una memoria nell’attualità”, come spiega Georges Didi-Huberman nella conversazione con Frédéric Lambert e François Niney pubblicata in La forza delle immagini (Franco Angeli, Milano 2015), riferendosi al lavoro dello storico delle immagini.

 

Cambio della guardia al Mausoleo di Lenin.


Questa singolare pedagogia del visuale la dobbiamo a Stalin, che ordinò la conservazione e l’esposizione del corpo di Lenin, e ai mafiosi russi che indirettamente ne finanziarono la cura. 

A Stalin si deve anche lo sviluppo di un marxismo-leninismo che non giungerà agli esiti sperati da Lenin. Il miglioramento delle condizioni sociali e culturali dei lavoratori avrebbe dovuto rendere inutili le forme di costrizione statale, pur necessarie nella fase iniziale del bolscevismo, ma nel periodo stalinista la dittatura del proletariato urbano e rurale si cristallizzò, diventando uno strumento oppressivo che oscurò l’utopia di una società libera da costrizioni, teorizzata da Karl Marx e da Friedrich Engels nel Manifesto del Partito Comunista: “Quando nel corso dell’evoluzione le differenze di classe saranno sparite e tutta la produzione sarà concentrata nelle mani degli individui associati, il potere pubblico perderà il suo carattere politico [e] subentrerà un’associazione nella quale il libero sviluppo di ciascuno [sarà] la condizione per il libero sviluppo di tutti”. L’utopia del “libero sviluppo” brilla negli occhi di alcuni operai ferroviari impegnati nella costruzione di un binario di scambio, alla vista di ciò che è in là, ancora da venire e che mai verrà, perché l’utopia in quanto tale non è suscettibile di realizzazione. L’utopia è "l'ottimo luogo [che non è] in alcun luogo", scrive Thomas More nel suo libro.

 

Fotografia dell’incontro storico degli operai ferroviari avvenuto il 29 settembre 1984 nel tratto Cuanda-Ciara, luogo in cui verrà costruito il binario di scambio Balbukhta al 1602esimo chilometro della ferrovia principale di Bajkal-Amur.


Il corpo di Lenin riposa ancora nel suo mausoleo, nonostante il fallito tentativo di Boris Yeltsin di sfrattarlo dopo la dissoluzione del Soviet Supremo della Russia nella Federazione Russa. Vi fu tuttavia un periodo in cui dovette cambiare residenza. Il Politburo del Comitato centrale del PCUS decise di trasferirlo a Tjumen in Siberia, a est della catena degli Urali, quando il 22 giugno 1941 le truppe tedesche oltrepassarono il confine sovietico.

In Siberia furono spediti anche i tesori dell’Hermitage (Ėrmitaž) prima che Leningrado (la vecchia San Pietroburgo di Pietro il Grande, rinominata Pietrogrado nel 1914 e poi Leningrado nel 1924) venisse assediata. Una parte importante della collezione fu trasferita a Sverdlovsk lasciando le cornici vuote nelle sale per facilitare la ricollocazione delle opere, nel caso di un loro ritorno. Durante l’assedio, i lavoratori del museo organizzarono delle visite guidate nelle stanze vuote descrivendo le opere che mancavano. Così, imprevedibilmente, rifiorì l’arte dell’ekphrasis nella città sotto assedio. Sparse qua e là nelle sale dell’Hermitage si trovano oggi alcune opere dell’artista contemporaneo Yasumasa Morimura tratte dalla serie The Hermitage. 1941-2014. L’artista interpreta la vicenda sovrapponendo in post-produzione fotografica le sale del presente visitate dai turisti a quelle del passato con le cornici vuote. Con un approccio anacronistico alle immagini d’archivio, che porta “un’attualità nella storia”, l’opera di Morimura richiama l’attenzione sulla dispersione dei beni artistici e culturali, di cui anche l’Hermitage si è reso colpevole.

 

Yasumasa Morimura, The Hermitage. 1941 -2014, 2014, stampa digitale su carta.


La collezione dell’Hermitage comprende un importante gruppo di opere provenienti dalla raccolta Campana, alla quale il museo di San Pietroburgo dedica la mostra A Dream of Italy. The Marquis Campana Collection (fino al 20 ottobre 2019), organizzata in collaborazione con il Louvre, partner del progetto. Il marchese Giovanni Pietro Campana raccolse e catalogò numerose opere tentando un’enciclopedia dell’arte italiana dai tempi antichi al Neoclassicismo. Nel 1858 pubblicò i cataloghi, otto di arte antica e quattro di pittura e scultura dal Rinascimento al Neoclassicismo, divisi per classi. Ogni classe era suddivisa in sezioni tematiche e cronologiche.

 

A Dream of Italy. The Marquis Campana Collection, vedute della mostra.


Uno degli scopi del marchese era mostrare la ricchezza del patrimonio culturale italiano, caratterizzato dall’antico che risorge in età rinascimentale e neoclassica. Al risorgere neoclassico dell’arte antica italiana, non disgiunto da un sentire romantico, come si può desumere dalla descrizione dell’Apollo del Belvedere di Johann Joachim Winckelmann in cui la bellezza è frutto di armonia e proporzione tra “unità e semplicità” dalle quali “procede il sublime” (Storia dell’arte nell’antichità pubblicato a Dresda nel 1764), corrisponde un risorgere politico, che trova nella coscienza del patrimonio artistico e culturale una solida base d’appoggio. Il termine Risorgimento infatti compare nell’opera del gesuita Saverio Bettinelli Del Risorgimento d’Italia negli studi, nelle Arti e ne’ costumi dopo il Mille, pubblicato nel 1775, riferito a un risorgere culturale che non ha ancora una connotazione politica, come avverrà in seguito. Il Museo Campana costituiva quindi un’importante parte del nostro patrimonio artistico e culturale, ma in seguito ad alcune peripezie, fra le quali l’arresto del marchese, accusato di essersi illegalmente appropriato dei fondi del Monte di Pietà dello Stato Pontificio di cui era direttore, nel 1861 la collezione fu messa in vendita. L’Hermitage e il Louvre acquistarono il grosso, il resto andò al Victoria and Albert Museum e ad alcuni collezionisti (a Roma rimasero solo le monete), suscitando l’indignazione di coloro che tentavano di difendere il patrimonio artistico e culturale italiano. 

 

A Dream of Italy. The Marquis Campana Collection, frammento dell’Ara Pacis, I secolo a.C. acquistata dal Louvre.


Con queste acquisizioni gli stati nazionali intendevano rafforzare la loro autorità, non solo utilizzando l’arte come strumento di propaganda per la costruzione di una coscienza coloniale nazionale, ma anche appropriandosi dei simboli dell’altrui potere politico con scorribande cronologiche oltre che geografiche. La statua di Giove Celimontano della collezione Campana acquistata dall’Hermitage, già intesa in epoca romana come simbolo del potere statale, svolge in questo senso un ruolo significativo.

 

Edicola di Giove Celimontano (fine del I secolo d.C.) a Villa Campana in una foto del 1851, ora al Museo Statale Ermitage di San Pietroburgo.


D’altra parte anche l’Esposizione delle realizzazioni dell’economia nazionale (VDNKh), inaugurata a Mosca nel 1939 (esempio notevole di architettura sovietica stalinista), testimonia la preferenza del potere politico autoritario per la citazione dell’antico, nel caso della VDNKh rivisitato in senso trionfalistico ed eclettico, a dispetto delle rivoluzionarie sperimentazioni suprematiste e costruttiviste dell’Avanguardia Russa, che avrebbero dovuto fornire i caratteri estetici della trasformazione sociale e politica in atto. 

 

Edifici sovietici dell’Esposizione delle realizzazioni dell’economia nazionale (VDNKh), inaugurata a Mosca nel 1939 e successivamente ampliata.


Che seguito hanno avuto, nell’arte e nell’architettura sovietica le espressioni dirette di un’utopia sociale: l’ambiente per il dopolavoro operaio progettato da Aleksandr Michajlovič Rodčenko per l’esposizione universale di Parigi del 1925, la mostra della Società dei Giovani Artisti (OBMOKhV) organizzata nel 1921 a Mosca (pietra miliare del Costruttivismo) e la casa-studio moscovita, progettata da Konstantin Stepanovič Mel'nikov?

 

Aleksandr Michajlovič Rodčenko, ambiente per il dopolavoro operaio progettato per l’esposizione universale di Parigi del 1925. Dettaglio della ricostruzione esposta alla Nuova Tret’jakov, Mosca.

 

Mostra della Società dei Giovani Artisti (OBMOKhU) organizzata nel 1921 a Mosca. Ricostruzione esposta alla Nuova Tret’jakov, Mosca.


Le utopie non si realizzano, i sogni talvolta sì. Caterina II aveva “un sogno dell’Italia” che realizzò convocando a corte architetti e urbanisti italiani per dare a Pietrogrado una forma neoclassica, integrata a tipologie russe e sovrapposta a quella Rococò di Pietro il Grande. Lenin aveva invece un’utopia che in quanto tale non poteva essere realizzata. 

L’utopia di Lenin e Il sogno “dell’Italia” di Caterina s’incontrano e si fondono negli occhi degli anziani così come dei giovani russi che si spalancano e brillano per l’emozione quando parlano di Cipollino, protagonista del romanzo per bambini Le avventure di Cipollino scritto dall’autore italiano Gianni Rodari. Il romanzo ebbe uno strepitoso successo nella Russia sovietica degli anni Cinquanta e ancora oggi continua ad averlo in quella federale. Cipollino è la speranza di una società senza soprusi, basata sulla solidarietà e l’amicizia. La piccola stanza dell’appartamento nell’isola Vasilyevsky a San Pietroburgo, dove viveva un’intera famiglia in epoca sovietica, comunica attraverso la scimmia di pezza rimasta lì dopo i bombardamenti tedeschi, il cuscino ricamato, i piatti, i libri e tutto il resto l’umanità che all’utopia serve per non trasformarsi in distopia. Questa umanità traspare attraverso gli occhi inumiditi della signora, che vive nell’appartamento, al ricordo emozionato di Cipollino. Traspare anche attraverso quelli del giovane commesso alla libreria Dom Knigi, quando esclama: “Oh! Cipollino, yes Cipollino… Cipollino is in our heart” e mi accompagna agli scaffali dove si trovano ben tre diversi edizioni illustrate del romanzo di Rodari tradotto in russo (oltre ad una versione semplificata in italiano per chi sta imparando la nostra lingua). Negli occhi della signora e del commesso splende una luce diversa, per temperatura del colore o tonalità, da quella che riluce negli occhi dei ferrovieri, una luce più calda. 

 

A Dream of Italy. The Marquis Campana Collectionè una mostra da non perdere per la bellezza delle opere esposte e per una lettura del passato – non solo archeologica – che porta l’attenzione sul rapporto fra colonialismo e dispersione del patrimonio artistico, ma anche sul peso che “un sogno dell’Italia” ha avuto e continua in parte ancora ad avere sulla cultura russa. In questo senso, la visita alle sale dell’Hermitage dove è allestita la mostra e alla neoclassica Pietrogrado di Caterina II è da mettere in rapporto con quella all’appartamento nell’isola Vasilyevsky e alla libreria Dom Knigi, allo scopo di sollevare, attraverso uno sguardo critico, “una memoria nell’attualità o un’attualità nella storia”. Con questo sguardo è possibile cogliere l’inattualità o l’intempestività di un’immagine, sia essa quella del Giove Celimontano o quella del corpo imbalsamato di Lenin.

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La collezione del marchese Campana in mostra
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Manifesto del Futurismo Rurale

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All’interno dei dibattiti politici ed ecologici contemporanei, la ruralità emerge come elemento in costante oscillazione fra “alterità” e “identità”: non un semplice spazio geografico, quindi, ma una sorta di “posizione” anche di tipo politico. In questo scenario di tensione interpretativa, è comunque possibile accostarsi al concetto di ruralità in senso critico, provando ad immaginare altri futuri per le comunità, i territori e i luoghi, al di là della stringente dicotomia “alterità/identità” e al di qua di una serie di discorsi che tendono a considerare la ruralità stessa come una componente marginale del mondo contemporaneo.

 

Manifesto for Rural Futurism 13, Ph Daniela Darielli.


Il Manifesto del Futurismo Rurale, documento elaborato recentemente dai curatori e ricercatori campani Leandro Pisano e Beatrice Ferrara, è un tentativo in questa direzione: una prospettiva in cui i molteplici punti di vista e di ascolto forniti dall’arte, ed in particolare dalle tecnoculture, mettono in discussione i termini manichei sui quali si costruiscono i discorsi attuali sulla ruralità: autenticità e utopia, anacronismo e provincialismo, tradizione e senso di stabilità, appartenenza ed estraniamento, sviluppo e arretratezza.

 

Manifesto for Rural Futurism 1, Ph Daniela Darielli.


Più che riferirsi al Futurismo italiano, con il quale condivide comunque un approccio irriverente e infine ironico, il testo si riconnette direttamente, sia in senso concettuale che pratico, ai futurismi “minori” di ambito post-coloniale, come l'Afrofuturismo, in cui le tecnologie diventano strumenti di presa di coscienza e di resistenza per affermare una serie di contro-narrative in relazione a posizioni di disuguaglianza e di differenza culturale, sociale ed economica (genere, razza, classe, ecc.).

 

Manifesto for Rural Futurism 4, Ph Daniela Darielli.


Nel caso del Futurismo Rurale sono in specifico le arti e le tecnologie sonore che, interrogando al contempo il paesaggio attuale, le comunità territoriali e gli archivi del passato, riposizionano il concetto di “rurale” all’interno delle narrazioni contemporanee, trasformando i territori in luoghi di sperimentazione, performatività, indagine e riconfigurazione, in cui è possibile creare scenari futuri a partire da nuovi e altri assemblaggi di elementi visibili e invisibili, umani e non umani: oggetti, materiali, discorsi, tecnologie e infrastrutture relazionali che costituiscono, e che vengono a loro volta costituiti, come specifiche forme di governance.

 

Redatto nella forma finale da Pisano e Ferrara, ma risultato di un processo collettivo di riflessione svolto sia con artisti, curatori, critici e studiosi internazionali che con comunità che vivono e operano su territori rurali, il Manifesto del Futurismo Rurale nasce come uno dei risultati finali dei primi cinque anni di attività di Liminaria, progetto di rigenerazione di alcuni territori del meridione d'Italia (Fortore beneventano, Cilento, Molise, Puglia, Sicilia), basato sia su azioni culturali ad ampio raggio, condivise con le comunità locali, sia sulle pratiche delle arti sonore che utilizzano l’ascolto come un dispositivo di indagine dei processi materiali del mondo contemporaneo.

 

Manifesto for Rural Futurism 8, Ph Daniela Darielli.


L'esperienza concreta e sul campo del progetto Liminaria ha portato così i due curatori a elaborare una serie di proposizioni, riassunte nel documento in dieci punti, che mirano a ripensare e a immaginare nuovamente le aree rurali come spazi complessi, immersi attivamente nel dinamismo degli incontri, dei flussi e delle geografie contemporanee e, allo stesso tempo, a mettere in discussione i discorsi del metropolitanismo e del capitalismo odierno in cui esse sono marginalizzate e condannate all’oblio.

 

Presentato durante la stagione estiva appena trascorsa in una serie di conferenze ed eventi pubblici tenutisi tra Nuova Zelanda e Australia (a Dunedin, Sydney, e Melbourne), Il Manifesto del Futurismo Rurale rappresenta inoltre il focus della mostra che prende il nome da esso e che ha aperto a Melbourne il 26 luglio scorso per concludersi l’11 ottobre presso la sede dell’Istituto Italiano di Cultura, nello storico edificio di Elm Tree House a South Yarra.

 

La mostra Manifesto for Rural Futurim si fonda su una serie di lavori audio realizzati in alcune aree rurali del centro e del meridione d’Italia tra il 2003 ed il 2018, nel corso dei due progetti di residenza artistica Liminaria e Pollinaria. Gli autori dei lavori provengono da diversi contesti internazionali, dall’Australia alla Nuova Zelanda, dall’America Latina agli Stati Uniti, fino alla presenza di sound artist italiani: Daniela D’Arielli, Enrico Ascoli, Angus Carlyle, Luca Buoninfante, Jo Burzynska, Enrico Coniglio, Alejandro Cornejo Montibeller, Nicola Di Croce, Fernando Godoy, Miguel Isaza, Raffaele Mariconte, Marco Messina, Mollin + Voegelin, Alyssa Moxley, Philip Samartzis, Vacuamoenia, David Vélez and Sarah Waring.

 

Manifesto for Rural Futurism 9, Ph Daniela Darielli.


Curata da un team composto, oltre che da Pisano e Ferrara, anche da due tra gli stessi artisti, Samartzis e D’Arielli, la mostra è realizzata dall’Istituto Italiano di Cultura di Melbourne, in collaborazione con Bogong Centre for Sound Culture, Liminaria/Interferenze new arts festival, Pollinaria, ed il gruppo di ricerca Contemporary Art and Social Transformation della RMIT School of Art di Melbourne.

 

Manifesto for Rural Futurism 12, Ph Daniela Darielli.


Ulteriori informazioni sulla mostra si possono trovare sul sito dell’Istituto Italiano di Cultura di Melbourne, mentre il testo completo del Manifesto è pubblicato, in lingua italiana e inglese, sul sito del progetto Liminaria

Molto più che vuote, le aree rurali, i luoghi abbandonati e le periferie urbane ci appaiono ora piene di suoni, che non aspettano altro che di essere ascoltati. 

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Santiago Sierra. Complici dello sfruttamento

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Nell’agosto 2011, Santiago Sierra fa comparire un grande NO visibile/invisibile sopra la figura di Benedetto XVI, mentre il papa parla sul palco in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù, a Madrid. Il grande NO viene proiettato per mezzo di una particolare tecnologia, sviluppata dall’artista tedesco Julius von Bismarck, chiamata Image Fulgurator: una normale reflex modificata proietta immagini impercettibili all’occhio umano, che sono invece captate dalle altre macchine fotografiche; un sensore luminoso sincronizza la proiezione con il flash degli altri dispositivi e permette di far apparire il NO nelle riprese e nelle fotografie delle persone presenti alla manifestazione, a loro insaputa. Attraverso questo espediente tecnologico, l’artista spagnolo attua una sottile protesta silenziosa contro colui che in quel momento rappresenta la Chiesa Cattolica, con tutte le sue proiezioni simboliche. 

Tra il 2009 e il 2011, Sierra mette in azione No, global tour, per sensibilizzare la gente sfruttata a trovare la forza di dire No a tutte le cose che non funzionano su questa terra, a negare ogni affermazione proveniente dai poteri forti.  Un NO monumentale, subordinato al rigore scultoreo minimalista, viaggia sul retro di un camion, da un capo all’altro del mondo. È una scultura (tre metri di altezza per quattro di larghezza) in movimento, un’opera in continua evoluzione, che assume significati diversi a seconda di ogni singolo luogo che attraversa o in cui sosta, includendo città, situazioni e persone differenti. È una sorta di pubblicità mobile, atta a insediarsi continuamente nelle coscienze, un’icona dell’opposizione, una presa di posizione politica. Percorre strade, luoghi, territori, lasciando traccia visuale in varie latitudini e longitudini. È un No inteso come negazione di ogni affermazione, rivolta a ogni cosa. 

 

Santiago Serra, Sottomissione in precedenza, Parola di fuoco, 2006/2007, Juarez, Mexico.


Sierra mostra le presenze ambigue della realtà sociale in rapporto con i disvalori del neoliberismo, la dimensione politica che caratterizza gli aspetti paradigmatici del trauma e della precarietà, delle metamorfosi nella produzione nell’era del capitalismo post-industriale. A seconda dei casi, le sue opere sono relazionali, immateriali, denunce dirette, sono traduzioni controverse dell’incontro tra arte e politica, dispositivi per innescare un vero cambiamento delle cose, rispecchiano i mutamenti nel mercato del lavoro, sono messe in scena dello sfruttamento delle persone. Sierra introduce nel mondo dell’arte qualcosa che solitamente non deve essere visto: azioni che rappresentano concretamente i meccanismi sociali ed economici che regolano il mondo, modelli formali per constatare la dinamica dell’interscambio economico alla quale ogni persona risulta sottomessa, interventi che denunciano la scomparsa dei limiti previsti dalla tradizionale concezione etica del lavoro. Tra il 1998 e il 2000 – a Città del Messico, a L’Avana e a Salamanca – coinvolge disoccupati e prostitute eroinomani, che accettano di farsi tatuare una linea orizzontale sulla parte alta della schiena in cambio di un compenso in denaro. Le azioni avvengono all’interno di gallerie d’arte contemporanea, e l’operazione assume una connotazione provocatoria, perché vengono scelte persone escluse dalla società, introdotte in spazi privati considerati d’élite. La performance con le persone che si fanno tatuare una linea priva di qualsiasi decorazione, una sorta di ferita permanente e segno indelebile sul corpo, è radicale e scioccante: testimonia la marginalità sociale di chi accetta qualsiasi cosa per sopravvivere, all’interno di un sistema dove i rapporti sono basati sulla violenza e sulla prevaricazione.

 

Santiago Serra, No proiettato sopra il Papa, 18 luglio 2009.


Sierra si interroga sulla questione della responsabilità, si confronta con la sfida di legittimare la pratica artistica dentro e contro la logica capitalista che la sostiene, coinvolge le istituzioni come parti attive nel controverso e ambiguo meccanismo. Mette in scena le iniquità socio-economiche direttamente dentro gli spazi deputati del museo e della galleria, rendendo responsabili in tempo reale anche gli spettatori. Nel 2001, a Zurigo, nel 2002, a New York, nel 2010 a Brisbane, e nel 2016 alla König Galerie di Berlino, con Forma di 600 x 57 x 52 cm costruita per essere sostenuta perpendicolarmente a una parete l’artista rievoca il tema della crocifissione, concentrandosi sul senso della materialità nella religione contemporanea, attraverso una performance, in cui un parallelepipedo viene sollevato e sostenuto orizzontalmente dalle spalle di due persone, retribuite con un salario minimo per la loro prestazione. In questa performance, Sierra intende i lavoratori come una sorta di incarnazione moderna di Cristo, dove il parallelepipedo rimanda a un braccio della croce e l’azione appare fredda e disincantata, per mostrare che nella situazione economica attuale il corpo è diventato una merce qualunque, disponibile e in vendita a basso costo.

 

Santiago Serra, Riga di 160 cm tatuata su quattro persone, 2000.


Anche nella serie dedicata ai veterani di guerra, inaugurata a Berlino nel 2011, i soldati sono considerati come anonime cifre diffuse dai media, vittime dei governi, che li sfruttano per raggiungere i propri obiettivi politici ed economici. Esemplare è anche Sepoltura di dieci operai (2010): a Livorno l’artista convoca dieci lavoratori senegalesi e in cambio di una somma di denaro li convince a essere sepolti sul lungomare del Calambrone, in modo che rimanga visibile solo la testa. Spesso nei lavori dell’artista spagnolo sono coinvolte persone appartenenti alle fasce più povere ed emarginate della società, che vendono il loro tempo e il loro corpo, all’interno di una messa in scena delle attività economiche regolate da un sistema contrattuale, dove gli individui vengono retribuiti per svolgere una determinata azione, perlopiù inutile o con scarso valore. Le sue opere sono al contempo accuse al sistema neoliberista e merci con un plusvalore ratificato da prestigiose istituzioni culturali e monetizzato da importanti e ricche gallerie internazionali. In occasione della conferenza Latest Works al MACRO ASILO di Roma (10 settembre 2019), abbiamo incontrato Santiago Sierra per porgli alcune domande.

 

Santiago Serra, No proiettato sopra il Papa, 18 luglio 2009.


Mauro Zanchi: Avendo realizzato che, nella nostra società, partecipazione significa vendere il proprio tempo a terzi, la tua pratica (intesa come “antitesi della partecipazione”) cosa intende denunciare o minare? Il tuo approccio con la realtà e con i fatti della storia deriva da una matrice marxista?

Santiago Sierra: Parlare di schiavitù significa parlare di libertà in sua assenza, così come parlare dei disastri della guerra implica un desiderio di pace. Cosa faranno i paria della terra e le legioni affamate quando saranno avanti, come vuole la canzone dell'Internazionale? Allora smetteranno di essere emarginati e smetteranno di essere affamati? Cesseranno di esistere. Cioè, l'obiettivo finale della classe operaia è quello di smettere di lavorare, proprio come l'obiettivo finale del soldato è quello di tornare vivo a casa dalla guerra. Non riesco a immaginare quell’ipotetico "giorno dopo", con gli ex lavoratori che fanno monumenti al lavoro come nell'ex URSS.

 

In una ricerca che indaga e problematizza le interazioni tra individui e rapporti di potere, che ruolo ha ciò che resta irrisolto o non detto?

Le cose sono molto più aspre di quanto sono riuscito a mostrare con il mio lavoro. Uso un linguaggio simbolico, da cui non si può intravedere la vastità del mondo della schiavitù contemporanea. Mi muovo nella ripetizione in proporzioni omeopatiche del male che cerco di ritrarre, per cui ciò che mi mancherebbe è raggiungere quella reale intensità dell'incubo capitalista. Ma questo è qualcosa che non posso e non voglio fare.

 

Santiago Serra, No global tour, 2009/2011.


I tuoi lavori sono dispositivi che amplificano la tensione?

L'arte in generale fa appello al sensibile piuttosto che al razionale. Questo non è un carattere esclusivo della mia produzione artistica, ma è comune alle arti, ed è per questo che Platone ci ha espulso dalla sua Repubblica. L'arte non ha cinquecento pagine per spiegarsi, è solo un’occhiata che trasmette quante più informazioni possibili. Naturalmente l'emotivo è la nostra essenza metodologica.

 

Il cuore della tua opera è costituito da azioni che avvengono “dal vero”, al di fuori delle istituzioni artistiche, e la sua militanza mette in discussione i valori culturali egemonici e il potere politico. Che cosa si innesca quando queste azioni vengono portate negli spazi museali delle istituzioni artistiche?

Se un museo mi contatta per chiedere un nuovo lavoro o per mostrarne uno già fatto è perché c'è una certa complicità. Il museo conserva ed espone ciò che la società apprezza di più, o almeno è così in teoria. Naturalmente questa è solo verbosità. Infine, sono musei privati o pubblici, dove le decisioni vengono prese a titolo personale e per scopi curricolari. Quindi, alla fine tutto dipende da persone specifiche con atteggiamenti diversi nei confronti della vita e dell'arte. Quindi ho avuto esperienze di ogni tipo. Ho avuto difficoltà a lavorare in alcuni musei e in altri tutto è andato molto meglio di quanto mi aspettassi. Non ho un'opinione fissa sui musei. Dipende da chi c'è dentro. Questo può essere estrapolato in centri sociali autogestiti. Puoi trovare persone che collaborano con te nell'esercizio della tua libertà di artista e puoi trovare il contrario, gli ortodossi deliranti dell'eterodossia. Nella mia esperienza di artista so con certezza come andranno le cose solo se lavoro con persone di cui mi fido completamente, e nemmeno al cento per cento. Ogni nuova esperienza è imprevedibile a priori.

 

Santiago Serra, 3000 buchi ciascuno di 180x50x50 cm, luglio 2002, Cadiz Spagna.


Come utilizzi lo strumento dell’ambiguità nella creazione dell'opera? In quale modo può suscitare un pensiero e un dialogo, che abbia la forza di generare un impatto, stimolare cambiamenti politici o riflessioni personali, generare una disobbedienza o chiamare all’azione? 

Forse non è l'ambiguità che uso. Non mi piace l'uso universale obbligatorio del lieto fine per chiudere concettualmente una proposta artistica. Si può dire qualsiasi cosa, ma non bisogna dimenticare che il lieto fine può invalidare qualsiasi proposta. Lavoro per un pubblico intelligente, a cui non voglio fare il lavaggio del cervello. Questo fa sì che il mio lavoro ponga problemi irrisolti, aperti al pensiero in libertà. Non la chiamerei ambiguità. Non so nemmeno se sono chiamate all'azione, ma ognuno è libero di agire o non agire. La mia impressione è che il pubblico porti già questa decisione da casa sua, prima di vedere il mio lavoro. Non voglio dire a nessuno cosa dovrebbe o non dovrebbe fare.

 

Santiago Serra, Sepoltura di dieci operai, 2010.


Ti servi di una gamma molto variegata di strumenti artistici per tradurre le tue azioni, le conversazioni con il mondo, per renderle comprensibili ai fruitori: dalla fotografia al suono e poi il video e la scultura, media che permettono al pubblico di creare una relazione tra l’azione e il concetto che essa rappresenta, così da generare un coinvolgimento emotivo. Quando qualcuno entra in una tua mostra viene introdotto in uno spazio espositivo o in una dimensione emotiva?

Il carattere emotivo intrinseco alle arti visive e sonore è discusso in precedenza. Per quanto riguarda la varietà dei supporti è perché io personalmente non so fare nulla con le mie mani. Questo mi dà un'enorme libertà di lavorare con qualsiasi supporto, formato o tecnica, per la quale devo solo cercare buoni professionisti. Quando un artista si innamora delle proprie abilità manuali, si rinchiude in un mausoleo con sé stesso e la sua arte. Non sapere è cercare chi lo sa, è lavorare con il mondo esterno. È, diciamo, lavorare all'aperto.

 

Santiago Serra, Forma di 600x57x52 cm costruita per essere sostenuta perpendicolarmente a una parete, 2001.


Violenza delle immagini, con una forte icasticità espressiva, rimandi a situazioni sgradevoli, segnali allarmanti del profondo disagio esistenziale nel quale si dibatte la nostra epoca, alienazione e una feroce critica sono gli elementi che caratterizzano la tua ricerca da anni. Ci puoi parlare del carattere intrinsecamente politico del tuo lavoro?

Non sono un buon teorico. Posso rispondere alle domande brevemente: perché prendo una particolare decisione concreta quando sto lavorando a un’opera specifica, ma se apro la questione verso un panorama più aperto, e mi chiedono il senso generale di quell’opera, io non so bene cosa dire. Quello che mi stai chiedendo è di elaborare brevemente una teoria politica credibile alla base della mia pratica artistica. La verità è che il mio approccio di base è sempre stato quello di essere un artista, di fare della buona arte, l'arte che mi piacerebbe vedere in una galleria o altrove. Essere artista è di per sé un potente approccio politico senza ricorrere a ulteriori argomentazioni. Lavoro senza un capo, faccio ciò che penso sia giusto; i miei limiti sono ciò che la realtà mi impone e non collaboro con qualcuno con cui non voglio collaborare. Con questo sono già soddisfatto.

 

La mostra al Pac di Milano era intitolata Mea culpa (2017). Ci interessa approfondire ulteriormente il tema della colpa nella tua ricerca, e la strategia di un sistema – sfruttatore e sfruttato, vittima e carnefice sono entrambi parte del sistema – che crea un colpevole, in un mondo dominato dal mercato e dalle guerre.

Nel rito cattolico, in un momento della messa, ai credenti viene chiesto di battere il petto mentre ripetono: “mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa”. È una delle innumerevoli tecniche utilizzate da quella religione per ottenere la distruzione dell'individuo e della sua autostima, per ottenere lo schiavo perfetto, quello capace di auto-schiavizzarsi. Anche se questi rituali sono ancora in uso, sono antiquati. Oggi, i mass media come la televisione, Hollywood o Internet, forniscono contenuti simili di carattere auto-punitivo. Convincere la vittima della sua colpa di fronte all'abuso è un manuale per tutti gli abusanti. Questi temi aleggiano nella mia produzione artistica da molto tempo, concentrando tale colpa nell’ambiente di lavoro, militare, sessuale, ecc. Per questo motivo, alla fine, abbiamo deciso di nominare così la nostra mostra a Milano.

 

Santiago Serra, Immagini tratte dalla performance all'Havana, Riga di 250 cm tatuata su sei persone retribuite, 1999.


Quanto tempo sopravvivrà ancora la Chiesa Cattolica e la sua influenza sui poteri forti occidentali? Come mai il veterano ucraino, nella sua opera, ha bisogno di stare in piedi con il viso contro il muro se non è altro che un piccolo ingranaggio nella grande macchina della guerra?

Nella tua domanda puoi percepire l'effetto empatico prodotto dal vedere una persona punita, e cioè che il veterano è un caso equidistante tra vittima e carnefice. Coloro che decidono le grandi offerte di guerra non porteranno nella loro memoria, per il resto dei loro giorni, immagini di orrori che non li lasceranno dormire. I veterani hanno fatto il lavoro sporco e nemmeno cinquant'anni dopo dimenticano le atrocità di cui facevano parte. Decidere la morte da un ufficio a migliaia di chilometri di distanza non è come uccidere la persona di fronte a noi, vedendola mentre viene dilaniata dalle armi. Il veterano, come il prigioniero, porta la colpa della società, e come il prigioniero è allo stesso tempo la grande vittima della società. Sotto i sedili dei veicoli militari sono immagazzinate le munizioni. Si tratta di munizioni sporche, che contengono uranio impoverito, quindi i veterani tornano con il cancro del colon, dell'utero, della prostata, ecc. Quando abbiamo girato "No Global Tour", intervistando i senzatetto a Washington ci siamo resi conto che erano tutti veterani di guerra, tutti con enormi problemi mentali e di tutti i tipi. Non punisco il veterano, lo visualizzo e lo presento come ciò che è.

La Chiesa cattolica e la sua influenza è dovuta alle sue tecniche magistrali e brillanti di dominazione sociale e di accumulazione capitalistica. Sono veri saggi del male. Nulla li supera in Occidente.

 

Santiago Serra, Veterani con il viso rivolto verso il muro, 2011/2015.


Ci vuoi parlare delle tue azioni o performance più recenti?

Di solito non commento il mio lavoro prima di presentarlo al pubblico. Questo limita la mia capacità di reagire se qualcosa va storto e neutralizza l'effetto di vedere qualcosa per la prima volta. È come mostrare King Kong nel trailer del film. Posso dirti solo che a novembre presenterò un nuovo lavoro in Messico. È un lavoro che ha richiesto un anno di produzione e sarà presentato alla Galleria Labor di Città del Messico.

 

Le risposte di Santiago Sierra sono state tradotte dallo spagnolo in italiano da Sara Benaglia, che ringraziamo.

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Robert Smithson: “Let Asphalt Flow!”

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Qui, nei paraggi di Roma, sembra estate sebbene il calendario segni 15 ottobre 1969. In cima a questa collina abbandonata fa caldo a causa delle macchine di cottura con le loro materie prime, i gas caldi e un fumo nero che incenerisce il cielo. La puzza di catrame è forte quanto il rumore prodotto dalla macinazione.

Non si vede un granché da questo pendio brullo – un vero e proprio nonsite. Lontana è la Roma che ho visitato nel 1961, la Roma storica, la Roma dei monumenti dove storia ed eternità si rincorrono in un gorgo senza fine.

L’idea di venire fin qui è stata del gallerista Fabio Sargentini, quando ha realizzato che dentro le mura cittadine non avremmo mai trovato uno spazio adatto alla mia idea, neanche nel suo garage, una galleria d’arte underground che ha chiamato L’Attico. 

Il mio intervento si è chiarito poco a poco: all’inizio c’era giusto un’immagine, una colata di lava, un fluido viscoso e nero che scivola verso il basso. Qualcosa che cade e la cui conformazione finale è data solo dalla forza di gravità, in assenza di qualsiasi intervento umano. Una scultura che si fa da sola o meglio che è fatta dal – e assieme al – paesaggio. Ridotto al minimo è il mio intervento; rispetto a Robert Morris e Richard Serra, a interessarmi è il processo di produzione più che la forma finale. Che il processo faccia il suo corso!, mi dico e così suggerisco ai quattro testimoni romani – di più non ne volevo. Per gli altri ci saranno il film Rundown e le fotografie.

 

Qui a Cava di Selce (come si chiama questa frazione nel nord-est di Roma vicino via Laurentina), mi limiterò ad alzare il cassone ribaltabile del camion con una leva che aprirà il portellone posteriore. Quindici quintali di catrame bollente si verseranno e spargeranno lentamente giù per la collina, seguendo la pendenza e le anfrattuosità del terreno. Una scia nera di cui non potremo far altro che seguire la metamorfosi qui dall’alto, allo stesso modo in cui si assiste a un naufragio coi piedi saldi sulla terraferma o, meglio, a un’eruzione vulcanica. In una terra come quella italiana piena di vulcani ancora in attività, creare un’eruzione artificiale mi sembra una buona idea. Per questo a L’Attico ho portato, assieme agli specchi, della cenere vulcanica.

Il blob bituminoso sarà preso in una metamorfosi incessante finché, seccandosi, non resterà che una impronta dell’erosione per così dire, un fossile dei tempi a venire. Mi diverte pensare a quegli archeologi del futuro che si romperanno la testa sull’inusuale quantità di asfalto trovata in questa zona, unica traccia superstite del mio intervento o forse di tutta la mia opera.

Asphalt Rundown, questo il nome, è il primo di una serie che continuerò appena tornerò negli Stati Uniti e che vorrei chiamare “pouring”.

 

Robert Smithson, Asphalt rundown, Archivio lattico, Fabrio Sargentini.


Da questa periferia urbana la Città eterna è invisibile, quasi scomparsa a causa di un’improvvisa calamità. Ricordo come fosse ieri che nel 1961, quasi dieci anni fa, ero venuto in visita a Roma per tre mesi. Era estate e c’era un’atmosfera torrida da città decadente, da fine impero – “Rome is still falling” scrivevo; ma anche: “I am a modern artist dying of Modernism”.

L’arte europea era per me l’antecedente del modernismo. Pensavo alla storia dell’arte in modo schematico ed eurocentrico. Di Roma avevo un’immagine archetipica, come se fosse la radice – o meglio l’ombelico – della civiltà europea, il mundus che si è spalancato nel terreno per metterci in contatto con un abisso sotterraneo e ctonio. 

Mi piacevano le catacombe, i dipinti di Botticelli, gli affreschi di Pietro Cavallini a Santa Cecilia, con quegli angeli che, grazie alle loro ali screziate, diventavano creature fantastiche provenienti da un altro pianeta. M’interessava il modo in cui la religione ha influenzato l’arte nella civilizzazione occidentale.

Così ho trascorso quell’estate a fare il periplo di chiese e monumenti – una vera e propria cura d’intossicazione! Al punto che, preso a fare i conti col passato, di arte contemporanea ne ho vista ben poca, anche se tutti mi dicevano che il centro di Roma pullulava di gallerie e giovani artisti. A La Salita c’era persino una collettiva del Gruppo Zero. In questi giorni mi parlano di un nuovo movimento, l’arte povera; alcuni protagonisti espongono con me alla collettiva di Harald Szeemann a Londra, Live in Your Head: When Attitudes Become Form.

 

Sempre a Roma ho tenuto la prima mostra personale della mia carriera, nella galleria di George Lester, un americano trapiantato a Roma: ventiquattro opere tra collage, tempere e olii su carta. “Mostri goyeschi” li ha chiamati un giornalista italiano – e forse ci ha visto giusto. Mi ha fatto capire che, in fondo, non era la religione a preoccuparmi. Non era attraverso il cristianesimo che potevo risolvere i miei problemi col modernismo. Mi sono messo a raffigurare santi accanto a distributori di benzina, Giovanni Battista accanto a King Kong. Finché nel 1965, appena ho colto la lezione, ho cominciato a fare arte di testa mia.

E da allora – e Asphalt Rundown ne sarà una prova – la geologia ha cominciato a interessarmi più della teologia. 

 

Robert Smithso a Roma.,


Difficile dire da dove mi sia venuta l’idea del “pouring”; non saprei neanche dire se si tratta di scultura, opera site-specific, land art, earthwork. Tutti nomi, tutti fallaci. Di sicuro non sarà una performance. 

Qui in Italia, c’è da giurarci, non ci sarà mai una Land art: il paesaggio è troppo antropizzato, privo di quelle distese a vista d’occhio del paesaggio americano. Eppure in questa cava abbandonata potrei essere nel New Jersey, a due passi da Passaic dove sono nato. Due luoghi agli antipodi ma tangenti, entrambi paesaggi entropici, entrambi paesaggi di rovine. Che Passaic sia la nuova Città eterna? 

Quelle di Passaic sono rovine all’inverso, lontane da quelle romantiche, in cui le costruzioni industriali vanno in rovina prima di essere terminate, si manifestano come rovine già in fase costruttiva. Diverse le vestigia romane, uniche nel loro genere: si presentano come tagli geologici e stratigrafici di epoche diverse, tutte leggibili in verticale. 

A proposito, il prossimo anno vorrei scrivere una storia in cui fotografie di pietre e fossili si alternano a un testo sulle ere geologiche. Sarà disposto in verticale, come se ogni paragrafo costituisse una discesa negli strati della Terra.

Nelle rovine di Roma, dicevo, niente è andato distrutto, tutto si è preservato sotto lo strato successivo. Qui il tempo si mostra e si lascia leggere nella sua complessità, nella sua vertigine. Quando ero a Roma nel 1961, oltre a leggere Il Pasto nudo di William Burroughs, T.S. Eliot o Ezra Pound nel fresco delle chiese barocche, ero affascinato dalle riflessioni di Freud in Il disagio della civiltà. In quelle pagine Roma si faceva immagine della mente, l’archeologia dell’inconscio, la geologia – aggiungo io – dei processi psichici.

 

Sleeping venus, Giorgione, 1964.


Ricordo bene l’impressione che suscitò su di me la scultura di Michelangelo: quelle figure prese in un turbine di dissoluzione e corruzione, quella massa quasi informe che resiste all’elevazione verticale della salvezza. Ne ho parlato con Peter Hutchinson, uno dei pochi artisti americani ad aver colto nel manierismo un linguaggio contemporaneo, molto più contemporaneo di tante opere d’arte esposte oggi nelle gallerie.

Nelle sculture e nelle architetture di Michelangelo, io e Peter ritroviamo una sorta di manierismo astratto. L’astrazione è, prima di tutto, materia grigia, cosa mentale; la sua materialità è inorganica, lontana dall’antropomorfismo nascosto dei pittori dell’Espressionismo astratto, che si tratti di Pollock, de Kooning o Newman – “one paints with the brain, not with the hand”. Per questo con Asphalt Rundown non ho alcuna intenzione di fare un Pollock en plein air

Per me il manierismo ha a che vedere meno col barocco che con l’astrazione, anzi per me il manierismo non è neanche un movimento storico ma una soluzione ai problemi irrisolti del modernismo, uno dei tanti. Così pensavo quando scrivevo What Really Spoils Michelangelo’s Sculpture, il mio primo articolo dedicato a un artista non contemporaneo che volevo pubblicare su “Art Magazine”.

I Prigioni di Michelangelo hanno una massa tale che sembrano in bilico, in procinto di cadere dal piedistallo come macigni da una montagna in frana. Un’idea di caduta propria alla storia della scultura, sin dal corpo senza vita di Cristo che posa sulle ginocchia della madre nelle Deposizioni. A volte immagino che, della scultura, non resti altro che il cadere, altro che il collasso, altro che un gesto di de-creazione. Asphalt Rundown sarà anche questo.

Inforco gli occhiali da sole e mi affaccio dal bordo della collina. Mi rendo conto che sono attratto da tutto ciò che va verso il basso, che va nel senso contrario dell’elevazione della scultura classica – o di Manhattan, ma questa è un’altra storia. Un’adesione incondizionata alla gravitas portata a un punto di non-ritorno, a un punto irreversibile, quello dell’entropia.

Asphalt Rundown sarà una scultura che cade; l’ultimo capitolo di una storia della scultura cominciata con le Deposizioni; il mio omaggio estremo all’arte di Michelangelo.

 

Christ series in limbo, 1961,


Ora, queste idee datano al 1966. Alcuni giorni fa, giunto a Roma, riflettevo non tanto al primo viaggio italiano quanto a quello recente in Inghilterra. A settembre infatti ero a Londra per installare Chalk-Mirror Displacement in Live in Your Head: When Attitudes Become Form. Solo Szeemann poteva tenere miracolosamente insieme arte povera, minimal art, land art, installation art, arte concettuale; per lui siamo tutti “artisti dell’attitudine”. Qui a Roma ho portato opere simili, fatte di terra vulcanica e specchi, legate al viaggio nello Yucatan.

Prima di Londra con mia moglie Nancy Holt abbiamo viaggiato nel sud dell’Inghilterra visitando, oltre a cave e miniere, siti preistorici, Stonehenge incluso, che si è per così dire sedimentato nella mia mente. Altro che reperti archeologici! La storia della scultura e il rapporto dell’uomo col paesaggio ne escono stravolti. Ne devo parlare assolutamente con Carl Andre. Ricordo che già qualcuno aveva paragonato la scultura minimalista esposta al Jewish Museum coi megaliti arcaici – sempre di Primary Structures si tratta in fondo.

Che il minimalismo abbia a che vedere più con la preistoria che col modernismo americano? Con un tempo profondo, incommensurabile, stratigrafico, lontano dalla contemporaneità cui la critica mainstream vuole assoggettarci? Asphalt Rundown preistorica?

“Time as ideology has produced many uncertain ‘art histories’ with the help of the mass-media. Art histories may be measured in time by books (years), by magazines (months), by newspapers (weeks and days), by radio and TV (days and hours). And at the gallery proper – instants!” (Smithson, Quasi-Infinities and the Waning of Space, 1966).

 

Robert Smithson, A pentre-ifan.


In quell’annus mirabilis che è stato il 1966, mentre lavoravo su Michelangelo, m’interessavo anche di geologia. Mi chiedevo come tenere assieme la massa scolpita dallo scultore e la materia terrestre studiata dai geologi. Rispetto al viaggio romano del 1961, sentivo il tempo profondo divaricarsi sotto ai miei piedi e il modernismo trasformarsi in un battito di ciglia, in uno sbadiglio della Terra, in una sgualcitura del tempo. Prima o poi anche le architetture più colossali franeranno sotto il peso del tempo – basta fare un giro al centro di Roma per rendersene conto.

Che le parole resistano meglio all’usura del tempo? Che la parole siano dure come pietre? Che, in altri termini, vi sia un’analogia tra geologia e linguaggio, tra scultura e scrittura? Sempre più la scrittura mi appare come un affare di stratificazione, lontana dalla pagina su cui s’imprime l’inchiostro, piatta come la “flatness” decantata dalla pittura modernista. E se le parole hanno uno spessore, la pagina è come uno di quei mappamondi in rilievo, uno spazio da esplorare e cartografare.

Colui che scrive procede come un collezionista di minerali e di rocce. Mette le parole una accanto all’altra, provando combinazioni diverse con fare empirico. Scrivere un testo è come fare una scultura. In finale, la scrittura si avvicina alla scultura piuttosto che al disegno. No, la scrittura non era un ideogramma che (almeno nelle nostre lingue occidentali) ha perso la sua figuratività per cristallizzarsi nella forma fissa, fissata dalla lettera. La scrittura, al contrario, è un assemblage di parole-mattoncini con un loro peso specifico.

 

Così le parole, che fuoriescono come una valanga dalla nostra bocca, franano, vengono eruttate dalla cavità orale come dal cratere di un vulcano. Quando sono catapultate possono ferire come lapilli nel corso di un’eruzione. Chi lo ha detto che il linguaggio viene dal canto degli uccelli? Per me viene da sottoterra, una voce degli abissi che soffia e genera terremoti, smottamenti che hanno ripercussioni sul piano fisico quanto psicologico, di questo ne sono convinto.

Asphalt Rundown sarà una parola che frana, che si sfracella giù per la collina: una parola fatta di asfalto emessa dalla bocca del camion. Sarà un grido inarticolato, il vagito originario di una lingua che non sappiamo ancora interpretare, perché ne abbiamo perso le tracce o perché non è stata ancora inventata.

 

Robert Smithson, A heap of language, 1966.


“One cannot avoid muddy thinking when it comes to earth projects, or what I will call ‘abstract geology’. One’s mind and the earth are in a constant state of erosion, mental rivers wear away abstract banks, brain waves undermine cliffs of thought, ideas decompose into stones of unknowing, and conceptual crystallizations break apart into deposits of gritty reason. Vast moving faculties occur in this geological miasma, and they move in the most physical way. This movement seems motionless, yet it crushes the landscape of logic under glacial reveries. This slow flowage makes one conscious of the turbidity of thinking. Slump, debris slides, avalanches all take place within the cracking limits of the brain. The entire body is pulled into the cerebral sediment where particles and fragments make themselves known as solid consciousness. A bleached and fractured world surrounds the artist” (Smithson, A Sedimentation of the Mind: Earth Projects, 1968).

“Matter” e “mind”: ne discuto coi miei amici romani. Pare che, in Italia, “mind” non sia facile da tradurre: spirito, mente, coscienza, pensiero. Comunque, per dirlo in una parola, sono alla ricerca di una forma di geologia astratta, di un inconscio geologico, di una corrispondenza tra geologia e processi psichici.

 

Ai piedi della collina il fotografo Claudio Abate è pronto a documentare Asphalt Rundown. Realizzerà un’affiche della mostra, un’immagine in cui la frontalità e la verticalità del magma oscuro che scende predomineranno, anche a costo di scontornarla un po’. Sarà soffusa di un’aria misteriosa se non minacciosa, come in un film noir: il protagonista aziona la leva del rimorchio del camion e poi scappa, lasciando la portiera aperta, trasformando questo squallido paesaggio nella scena di un delitto senza corpo, in un luogo disertato più che deserto.

 

Robert Smithson, Asphalt rundown, 1969, courtesy Archivio lattico, Fabio Sargentini.


L’affiche, così mi ha promesso Sargentini, sarà pronta prima che parta. La metterò sulla parete del mio appartamento newyorkese e la farò vedere di sicuro a Richard Serra e Walter de Maria.

Sarà simile all’affiche di un film di science-fiction, uno di quelli girati in Italia che mi hanno colpito, come La Decima vittima (1965) di Elio Petri. Un film pop di quelli che se ne vedono pochi in giro; difficile pensare che sia stato realizzato a Roma, dove la fantascienza è tenuta in così scarsa considerazione. Pare che in Italia sia stato molto criticato, bah! Io e Dan Graham ne siamo rimasti entusiasti e ne ho pure scritto in Entropy and the New Monuments (1966) riguardo alle sculture di Sol LeWitt.

Senza dimenticare Mario Bava: il design interno e l’arredamento delle navicelle spaziali in Terrore nello spazio (1965) ricorda tante mostre minimaliste cui ho partecipato. Per non citare quei film di serie B a piccolo budget in cui più palese è l’artificialità dell’ambientazione. Qui, come dicevo a Lawrence Alloway, “le convenzioni crollano mentre si guarda l’attore titubante nel suo costume extraterrestre sul minuscolo plateau coperto di nebbia”.

Dicevo che a Roma ho frequentato poco la scena artistica contemporanea; ma col cinema science-fiction ho sentito subito un’affinità. La SF funziona bene in una città dove il passato ha lasciato una quantità così impressionante di rovine. Anziché relegarla a quel momento passato – come un cristallo di tempo –, le rovine la proiettano all’altra sponda del tempo, nella dimensione altrettanto incommensurabile del futuro.

Roma invasa dagli ultracorpi, da una presenza aliena quale Asphalt Rundown.

 

Mario Bava, Terrore nello spazio, 1965.

 

Mario Bava, Terrore nello spazio, 1965.


Ecco, ci siamo quasi, il cassone del camion è pieno d’asfalto bollente che, una volta tirata la leva del camion, scivolerà attraverso il portellone riversandosi giù per la collina. A quel punto non si potrà più tornare indietro. La leva del camion è il mio bottone rosso. È l’immagine dell’entropia che si può redimere solo filmandola e proiettandola al contrario.

Ora, se devo essere sincero, la mia idea originaria era un’altra. Avete presente Viaggio in Italia di Roberto Rossellini? Quella scena in cui il film diventa astratto, quando Ingrid Bergman visita la Solfatara e, d’un colpo, viene inghiottita dal fumo. Lo schermo si fa bianco come la calce. Il film diventa astratto per pochi minuti. Solo le voci che provengono da questa coltre indicano che là dentro c’è ancora l’attrice e la guida locale.

Asphalt Rundown me l’ero immaginato lì, alla Solfatara, in mezzo al fervido fango, in mezzo ai miasmi, non lontano dalla città morta di Pompei. Quando ad aprile scorso Sargentini è venuto a New York, gli avevo accennato di Ercolano, l’antica città romana ai piedi del vulcano, e di Ansedonia vicino le fonti d’acqua termale e solforosa. “Qui a Roma avevo in mente un luogo particolare da cercare. Avevo un’idea generale di ciò che cercavo, qualcosa di equivalente alla mia immagine mentale. Ma il risultato poi dipendeva dal luogo concreto” (Smithson, Tempo concreto, dicembre 1969).

Ad ogni modo i paraggi di Roma vanno bene. Anche ai margini della Città eterna c’è porosità e c’è entropia, una messa in scacco del tempo cronologico, della teologia della Storia che si esercita a distinguere passato-presente-futuro.

 

Chissà cosa ne penseranno i miei amici di Asphalt Rundown. Per Nancy è un modo di rendere visibile l’entropia, per Carl Andre un “angolo dell’inferno”. Quando mi chiedono il senso di quest’intervento io taglio corto: “You see, it’s ultimately what’s done after the truck pulls away”. E quando il camion si allontana quello che resta non è altro che il collasso, un’immagine in negativo.

Asphalt Rundown sarà un’immagine della sedimentazione della mente o un mindscape. Sarà un tentativo di mimare i processi geologici. Ma anche d’ibridare un tempo precedente la presenza dell’uomo sulla Terra e un futuro post-umano, geologia e science-fiction – un’attrazione reciproca tanto più forte quanto più la loro unione è, in finale, impossibile.

A proposito, non è paradossale pensare a un tempo della pre-istoria, cioè a un tempo prima del tempo? Non è la spia della nostra difficoltà a relazionarci col tempo profondo? Cosa ne è del tempo se non c’è storia, o cosa ne è del tempo se non c’è l’uomo? (ma le due chiedono la stessa cosa?).

Asphalt Rundown mi permetterà di veder meglio, forse di esorcizzare, la preoccupazione per la temporalità che mi ossessiona. Il momento è giunto, comincio a tirare la leva del camion – “Let Asphalt Flow!”

 

Nota

Il titolo – “Let Asphalt Flow” – riprende un appunto di mano di Robert Smithson datato 5 ottobre 1969 su Asphalt Rundown. Il testo s’ispira liberamente, oltre che agli scritti dell’artista, a diversi studiosi di Smithson: Larisa Dryansky, Sébastien Marot, Valérie Mavridorakis, Alexander Nagel, Jennifer L. Roberts, Maria Stavrinaki, Gilles Tiberghien, Philip Ursprung.

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Roma, 15 ottobre 1969
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Naviganti. Un viaggio dentro i cantieri San Lorenzo

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La prua della nave come il muso di un pescecane a bocca spalancata, la carena simile a un oggetto spaziale da issare sulla rampa di lancio, una finestrella verticale che ricorda un quadro di Fontana, un elemento triangolare sospeso nel vuoto simile a una scultura dell’arte povera, l’elica come un vortice futurista al fermo immagine. Si potrebbe continuare descrivendo altre immagini che le fotografie rigorosamente in bianco e nero di Silvano Pupella evocano nello spettatore della mostra ai Tre Oci di Venezia, Naviganti. Un viaggio dentro i cantieri San Lorenzo (Sale De Maria, sino al 2 novembre). Questo lavoro rigoroso e ricco d’evocazioni richiama analoghe opere che hanno documentato il lavoro umano negli anni Cinquanta e Sessanta, quando la modernità italiana stava affermandosi e la descrizione del connubio uomo-macchina era un tema consueto. 

 

San Lorenzo, Metal Superyachts production.

 

San Lorenzo, Metal Superyachts production.

 

San Lorenzo, Metal Superyachts production.

 

San Lorenzo, Metal Superyachts production.


Pupella ha dietro le sue spalle molti anni di attività come manager. Ha l’esperienza di chi sa guardare il lavoro umano nelle sue diverse forme. Lasciata quella attività ha ripreso in mano la sua macchina fotografia, antica passione, e ha cominciato a ritrarre i luoghi dell’attività industriale. I cantieri navali San Lorenzo sono da oltre sessanta anni uno di questi spazi in cui l’artigianalità incontra la tecnologia, il design si connette con il piacere delle forme e dei materiali. 

  

Scegliendo di fotografare in bianco e nera Pupella ha inteso mostrare la forma essenziale del lavoro che lì si svolge. La bicromia e la sequenza dei grigi imprimono in chi guarda un senso di durezza, compattezza e solidità davvero inconsuete. Sono superfici saldate a mano, carpenteria metallica che qui celebra il proprio assoluto trionfo. Non la fabbrica con i suoi macchinari della produzione a catena, piuttosto monoliti di metallo su cui agiscono come scultori armati di fiamma ossidrica innumerevoli operai-artisti. 

  

San Lorenzo, Metal Superyachts production.

 

San Lorenzo, Metal Superyachts production.

 

San Lorenzo, Metal Superyachts production.

 

San Lorenzo, Metal Superyachts production.


Ciascuno ha il proprio punto d’attacco. Uno sale sulla carena utilizzando un ponteggio, un altro entra nel ventre del pesce ferroso e ne aggiunge un pezzo; un altro s’inginocchia alla stregua di un rito religioso vestito con maschera e armato della fiamma ossidrica per congiungere due superfici; altri ancora tengono nelle mani la lunga fune mentre la gru assembla i pezzi della futura barca. Pupella ama il contrasto cromatico. Tra bianco e nero s’installa una lotta, un conflitto, lo stesso che oppone gli operai-artisti alla materia che stanno plasmando, saldando, unendo. 

 

San Lorenzo, Metal Superyachts production.

 

San Lorenzo, Metal Superyachts production.


San Lorenzo, Metal Superyachts production.


San Lorenzo, Metal Superyachts production.


C’è qualcosa di drammatico in questa scelta di toni, non di spaventoso, piuttosto di drammaticamente titanico. Gli uomini si misurano con la materia in una lotta che è volta a dominarla, a piegarla, a dirigerla. Sono azioni compiute per ottenere dal metallo qualcosa di predefinito, per far combaciare le singole parti secondo la volontà del progetto. Lo sguardo del fotografo si fa teatrale, evidenzia gli spazi e la disposizione, i gesti e le posture. Si sofferma sui dettagli come nello scatto che ritrae guanti, attrezzi, carpenteria. 

    

San Lorenzo, Metal Superyachts production.

 

San Lorenzo, Metal Superyachts production.

 

San Lorenzo, Metal Superyachts production.

 

San Lorenzo, Metal Superyachts production.


Siamo nel teatro del lavoro, perché c’è qualcosa di ciclopico nella costruzione dell’imbarcazione, che poi solcherà i mari con le sue forme pure e perfette. Siamo anche nella caverna di Vulcano, nell’antro e nella spelonca del dio del fumo e del fuoco. La fiamma è quella azzurra, qui tradotta in bianco e grigio, che esce del cannello. Il fotografo parla nel suo testo di presentazione alla mostra di caos quale origine di tutte le cose. Questo egli vede e fotografa, perché la forma non ha ancora preso il sopravvento, e l’insieme è composto di parti da montare e assemblare. 

 

Il luogo del lavoro è per Pupella il luogo del caos, del movimento incessante, dello scontro e del contrasto. Egli parla di casualità e imprevedibilità, evocando in questo sia il lavoro umano in corso sia il suo, quello di fotografo. Cogliere il momento giusto, fissare l’attimo in cui l’ordine subentra al disordine, questo sembra la missione. 

 

San Lorenzo, Metal Superyachts production.

 

San Lorenzo, Metal Superyachts production.

 

San Lorenzo, Metal Superyachts production.

 

San Lorenzo, Metal Superyachts production.


La drammaticità implicita nel suo sguardo si coglie perfettamente nel momento in cui lo scafo, non ancora leggibile come tale, viene issato mediante una gru subito dopo lo scatenarsi di un temporale. Le nuvole accentuano la forza caotica del momento. La loro forma imprendibile e cangiante si oppone alla forma definita e tozza dell’oggetto. Ma è il minuscolo uomo che dà il senso delle proporzioni dell’azione: alza la mano, come per indicare la direzione in cui spostare il grande sospeso. Appare piccolissimo sul piazzale del cantiere. Sopra di lui, immenso, si svolge il conflitto di aria e nuvole; sul piazzale la pioggia ha lasciato la propria traccia nelle pozze sparse. Il braccio della gru partisce così lo spazio dell’immagine come se il segno verticale fosse un asse del mondo, che si protende verso il cielo senza tuttavia raggiungerlo. Lavoro di formiche che manovrano oggetti immensi, li issano e li modificano con le proprie mani. Tutto è a misura d’uomo e tutto, per necessità, lo trascende.   

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Rosa Foschi, o dello straniamento

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All’inizio del Novecento, con il termine russo “otstranenie” – scritto con il refuso di una sola n anziché due –, lo scrittore e critico letterario Viktor Šklovskij definì quello che, a suo avviso, avrebbe dovuto essere il compito di ogni scrittore: liberare il lettore dall’automatismo della percezione, rendendo insolito l’oggetto, di volta in volta percepito, attraverso la presentazione di lati inediti di esso. Šklovskij giunse così a teorizzare il “dispositivo dello straniamento” (in Una teoria della prosa. L’arte come artificio. La costruzione del racconto e del romanzo [1917], trad. it. De Donato, Bari 1966). 

 

 

Lo straniamento è dunque il processo attraverso cui ogni forma artistica (non solo letteraria, ma anche teatrale o relativa all’arte visiva) “stranea” ciò che per noi è usuale, presentandolo da un differente punto di vista. Per ottenerlo, è necessario inserire nella rappresentazione un “imprevisto”; ovvero un elemento e/o un’azione inaspettata e apparentemente incongrua, grazie alla quale la percezione usuale della realtà può essere alterata e i lati inediti del mondo attorno a noi possono essere portati in luce. 

Secondo il parere di chi scrive, il lavoro della film-maker, fotografa e pittrice Rosa Foschi non può essere compreso senza far riferimento a tale concetto di straniamento.

 

Rosa Foschi, 10x10 cm, Luca Patella, dis-enameled 1, 1989.


I suoi tre film professionali a 35 mm inclusi nella mostra alla Galleria Il Ponte, Amour du cinéma (1969), Ma femme (1970) e Amore e Psiche (1971), nonché le polaroid realizzate tra le fine degli anni Ottanta e i Novanta, spiazzano lo spettatore poiché si costituiscono dall’accostamento di elementi tra loro disomogenei, discordanti, cacofonici che, in quanto tali, producono in chi li guarda un senso di sorpresa, di disagio per l’impossibilità di comprenderne il senso. 

 

Rosa Foschi, Wit 5, 1996, polaroid 10x10 cm,


Oltre a far riferimento al non-sense e al calembour dadaista-duchampiano, nonché al concetto metafisico di arte come strumento per andare oltre la realtà fisica, Rosa Foschi innesca l’effetto di straniamento facendo appello soprattutto al caso: gli elementi d’immagini usati nel suo lavoro sono infatti da lei trovati per caso durante la sua quotidianità. È il caso, infatti, a generare l’imprevisto.

Lo dimostrano soprattutto i film professionali a 35 mm in disegno animato realizzati tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta per la Corona Cinematografica, e oggi depositati presso la cineteca di Bologna.

 

Rosa Foschi, 10x10 cm, Dialogue!, 1996.


L’aspetto avanguardistico di questi cortometraggi risiede nel loro essere basati sull’animazione di oggetti e di fotografie, nonché sulle tecniche del découpage e del collage animato, con pochissimo disegno, piuttosto che essere vere e proprie animazioni. Inoltre, rispetto alle sperimentazioni in 8 mm realizzate nei medesimi anni da alcuni artisti in Italia e all’estero, i cortometraggi di Rosa Foschi sono veri e propri film, essendo in 35 mm, e rivelano la sua grande conoscenza del medium cinematografico, delle tecniche di ripresa e delle attrezzature professionali messe a sua disposizione dalla Corona.

 

Rosa Foschi, 10x10 cm, Le défi, 1995.


Il primo, Un bosco magico (1967), fu da lei firmato come regista in collaborazione col marito Luca Maria Patella: si tratta di un adattamento in animazione di pupazzi su scenografie fotografiche su una libera interpretazione del Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare, realizzato con ritagli di stoffa, cartone, disegni animati, fotografie e oggetti di varia natura. Amour du cinéma (1969) è invece un corto sperimentale sulla storia del cinema, che permette di compiere un viaggio tra le dive del passato e della contemporaneità per delineare una genealogia di un cinema al femminile (si vedono infatti Marlene Dietrich, Mary Pickford, Greta Garbo, Charlot, Monica Vitti, Ileana Ghione, attrice di teatro e moglie del produttore Ezio Gagliardo). Per Ma femme (1970), appassionata dichiarazione d’amore di un uomo per la sua donna, l’ispirazione è la Nouvelle Vague, soprattutto i film di Godard come La donna è donna, citando Jean-Paul Belmondo e Anna Karina. L’amore di don Perlimplino con Belisa nel giardino (1971) è invece un adattamento fantastico-onirico dell’omonimo testo di Federico Garcia Lorca, mentre Amore e Psiche (1978) è ispirato alla fiaba L’asino d’oro di Apuleio, riletta in chiave femminista e “contaminata” dalle quartine del poeta persiano Omar Khayyam.

 

 

In questi cortometraggi, così come nelle polaroid esposte alla Galleria Il Ponte, nessuna immagine è mai fine a se stessa, ma, unita alle altre, dà luogo a un fantasmagorico continuum visivo, non ascrivibile ad alcuna tecnica né stile tradizionale, ma liberamente interpretabile così da scuotere la nostra percezione, sollecitandola a “straniarsi” dal mondo per vederlo da un diverso e più originale punto di vista.

 

 

Il testo qui pubblicato è un estratto del saggio di Ilaria Bernardi pubblicato nel catalogo della mostra da lei curata Rosa Foschi. Polaroid ROSA & film FOSCHI, presso la Galleria Il Ponte di Firenze (27 settembre – 31 ottobre 2019), edito da Gli Ori, Pistoia 2019.

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I diari inediti di Jo van Gogh-Bonger

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‘Oggi inizio il mio diario. Ridevo di quelli che ne tengono uno, è sciocco, sentimentale, così pensavo […]. Ma nella routine di tutti i giorni c’è così poco tempo per riflettere, e a volte i giorni passano senza che io li abbia vissuti veramente, giorni in cui la vita mi succede, questa cosa è terribile. Sarebbe tremendo dire alla fine della mia vita: “Ho vissuto invano, non ho raggiunto niente di grande o di nobile”’. È il 26 Marzo 1880, siamo ad Amsterdam, Jo Bonger ha diciassette anni e mezzo. Questa è la prima pagina del suo diario ‘Mijn Dagboek’, al quale affiderà i suoi pensieri, con varie interruzioni, fino al 1897. Per il frontespizio del primo quaderno sceglie e trascrive in inglese le parole del poeta americano Henry Wadsworth Longfellow, ‘agire e che ogni domani / ci trovi più oltre l’odierna giornata’.  Sarà il motto della sua vita.

 

Da sinistra: Jo Bonger, Diario n. 1 (1880-1881, 20,5 x 16,6 cm) © Van Gogh Museum, Vincent van Gogh Foundation, Amsterdam; Jo Bonger, ca. 1880-1882, Friedrich Carel Hisgen, fotografia, in Diario n.1, © Van Gogh Museum, Vincent van Gogh Foundation, Amsterdam.


Poco conosciuta, ma molto influente: Johanna van Gogh-Bonger (1862-1925), moglie di Theo, cognata di Vincent van Gogh. Oltre 500 pagine nei quattro inediti diari, che dal 18 settembre si possono leggere nella versione inglese dell’edizione digitale curata da Hans Luijten, ricercatore senior al Van Gogh Museum (bongerdiaries.org) Ricchissimi di annotazioni, rimandi, informazioni preziose, sono un tuffo nel mondo dei pensieri, dei dubbi, delle aspirazioni, dei perché di una ragazza alla svolta del secolo. 

Una ragazza determinata a capire, anche scrivendoli, i nodi dei suoi umori, delle sue melanconie, delle sue gioie. A questo serve un diario?  Nata ad Amsterdam, diventa presto insegnante di Inglese, ama la musica, la lettura, il teatro. Legge George Eliot, che considera una ‘donna superiore’; divora Anna Karenina in francese, ama i poeti, si commuove a Londra di fronte al Poet’s Corner, l’angolo dei poeti nell’abbazia di Westminster e alla semplicità della tomba di Dickens (diario 2, p. 23). Il secondo diario è scritto quasi tutto in inglese, nei mesi che Jo passa a Londra a perfezionare la lingua (luglio-settembre 1883). Legge pile di libri, Byron, Carlyle, Dickens, va spesso a teatro, vede Sarah Bernard sulla scena in Fedora, ma non la convince: ‘è una donna bellissima, con splendidi abiti; è languissante, charmante, ma non piena di “alta arte” [high art], come mi piace definirla’ (diario 2, p. 9). Ha le idee molto chiare, l’attrice francese non avrebbe mai potuto essere il suo modello. 

Dopo un amore sbagliato, a 26 anni accetta la corte di Theo van Gogh, amico di suo fratello Andries – si innamora, e dopo le nozze si trasferisce a Parigi. Per tre anni non scrive il diario, ma abbiamo la corrispondenza con Theo (Brief Happiness) e, subito dopo, con Vincent. Il suo matrimonio la attraversa come un sogno, ‘il più bel sogno che si possa sognare’, scriverà più tardi (diario 3, p. 137). Un sogno attraversato anche da momenti tremendi, come quando, alla vigilia del Natale 1888, poco prima del suo fidanzamento ufficiale, Theo si precipita ad Arles: Vincent si è tagliato l’orecchio, è ricoverato. A fine luglio 1890 Vincent si spara due pallottole nel petto, sei mesi dopo morirà anche Theo (25 gennaio 1891). 

A 28 anni Jo si ritrova sola, nell’appartamento di Parigi, con un enorme fardello: centinaia di quadri, appesi alle pareti o stipati sotto i letti, centinaia di disegni di un artista quasi sconosciuto, pile di lettere – e un bimbo che compirà un anno di lì a una settimana, il 31 gennaio.

 

Nel novembre 1891, tornata in Olanda, è una giovane vedova, riprende a scrivere il diario interrotto per trovare momenti di ‘auto-analisi’… ‘devo usare tutte le mie forze per migliorare e per essere di aiuto al mio ragazzo’ (diario 3, p. 139). Vincent Willem è il suo ‘piccolo angelo’. Apre una pensione ‘perché possa dare da vivere a tutti e due’. È Villa Helma a Bussum, una cittadina culturalmente molto vivace non lontano da Amsterdam, dove inizierà a tessere filo dopo filo, le sue relazioni: critici, pittori, scrittori, tutti coloro che potevano aiutarla a far conoscere l’opera di Vincent in un paese che non aveva ancora espresso alcun apprezzamento per il genio di Van Gogh. Nel febbraio 1892 aspetta con ansia le reazioni dell’evento programmato da Arti et Amicitiae, un’influente società di artisti di Amsterdam. Il suo segretario, Jan Hillebrand Wijsmuller, le aveva chiesto di prestare alcuni disegni di Vincent per l’incontro-mostra a lui dedicato. Non sappiamo se Jo prese la parola in quella serata, nel diario non ne parla. Conserva il cartoncino d’invito; il giorno prima, sul suo diario, scrive ‘Domani sera c’è l’incontro all’ Arti.– Nutro grandi speranze – ho un senso di indescrivibile trionfo quando penso che ci siamo quasi – l’apprezzamento – l’approvazione – devo andare a sentire cosa dice la gente – capire il loro atteggiamento. Quelli che ridicolizzavano Vincent e lo chiamavano un folle’ (diario 4, p. 2). La fatica è tanta, e lo è ancor di più in un mondo ottocentesco tutto maschile – basti pensare a George Eliot (una delle sue autrici preferite), che tenne a lungo nascosta la sua identità per esser presa sul serio. In Olanda le cose non andavano troppo diversamente, Jo non era Jo, ma…  vedova-di. Sul cartoncino d’invito firmato da Wijsmuller leggiamo ‘Mevrouw de Wed: Th. Van Gogh Bonger’, e cioè, ‘Signora Vedova: Th. [Theo] Van Gogh Bonger’. Combattiva e attenta, non si arrende quando la sua determinazione e passione per l’opera rivoluzionaria di Vincent viene scambiata per petulanza, fanatismo o… incompetenza (diario 4, p. 21).                               

 

Invito di Jo van Gogh-Bonger, Arti et Amicitiae, 1892, © Van Gogh Museum, Vincent van Gogh Foundation, Amsterdam.


Tra il 1982 e il 1900 riesce a coordinare circa 20 mostre nelle città olandesi in modo molto strategico, affiancando i grandi capolavori di Vincent a sue opere minori, lavorando così a costruire in modo sistematico una riconoscibilità dell’opera. La strategia funziona, per ogni mostra arriva ad ottenere articoli sui giornali in un paese dove la gente ‘non è così generosa riguardo all’opera di Vincent’ (diario 4, p.2).  Questo la fa sentire appagata, serena. Quando capisce che è arrivato il momento giusto, organizza personalmente la più grande mostra di sempre: nel 1905 affitta le gallerie dello Stedelijk Museum di Amsterdam, dove espone 484 opere di Vincent – una mostra di queste dimensioni non avrà uguali negli anni a venire. Prosegue la sua strategia all’estero, specialmente in Germania con galleristi di primo piano come Paul Cassirer. Nel 1914, nelle collezioni pubbliche e private tedesche si contano circa 150 opere di Vincent, che contribuiranno fortemente alla nascita del modernismo in Germania (al centro di una imminente mostra allo Städel Museum di Francoforte). Attenta a non sovraccaricare il mercato, in 34 anni Jo dissemina, dona o vende circa 192 dipinti e 55 disegni, tramandando tutto il resto a suo figlio. 

 

Il suo quarto diario, che si chiude l’ 8 maggio 1897, è testimone di una giovane donna progressista e combattuta, da un lato il suo dovere di madre e il compito monumentale che l’attende di ‘tenere tutti i tesori che Vincent e Theo hanno messo insieme, intatti per il bambino’,  dall’altro il suo grande spirito di indipendenza, la sua voglia di essere donna, libera di vivere, libera di amare… Cinque anni dopo la morte di Theo ha una relazione più o meno platonica con il pittore Isaac Israëls, che a un certo punto decide di troncare, ‘non voglio giocare col fuoco’, ma, nelle ultime pagine del suo diario confessa anche,  ‘oh – se fossi libera e indipendente – come mi concederei a lui – il mio bel corpo giovane, come gli piacerebbe – come sarei lì in piedi, davanti a lui – senza egoismi …’ (diario 4, p. 98). Isaac dipinge un ritratto del suo bambino, il piccolo Vincent, Jo ne è felice.  

 

Da sinistra: Isaac Israëls, ca. 1888 (fotografia attribuita a Joseph Jessurun de Mesquita), © Rijksmuseum, Amsterdam; Isaac Israëls, Ritratto di Vincent Willem van Gogh, 1894, olio su tela, © Van Gogh Museum, Vincent van Gogh Foundation, Amsterdam.


Una vita piena di interessi, uno spirito indipendente, Jo è tra i primi sostenitori del partito socialista dei lavoratori (SDAP), fondato tra gli altri dal marxista Frank van der Goes. Il partito aveva anche una sezione a Bussum, di cui lei è subito parte attiva. Convinta sostenitrice della causa femminista, nel 1915 sarà a Berna alla Conferenza internazionale socialista per la pace delle donne; nel 1917 in America sentirà una conferenza di Trotskij. 

La ricchezza non le interessa. Ha una sola missione, quella di diffondere, far conoscere ed apprezzare l’opera di Vincent, missione che il marito aveva appena iniziato e che porta a termine in modo intelligente e strategico: prima le opere e poi le lettere a Theo, che dopo anni di trascrizioni, pubblica solo nel 1914, in olandese e in tedesco. ‘Ha fatto tutto seguendo questo preciso ordine’, sottolinea Luijten. Ha avuto ragione: le lettere ti pigliano la pancia, prima i quadri. 

Muore nel 1925, a 63 anni. È passato poco più di un anno da quando ha venduto i Girasoli (nella versione dell’estate 1888) a una delle collezioni pubbliche più prestigiose, la National Gallery di Londra, assicurando a Vincent una vetrina mondiale. Due anni prima di morire fa un bilancio della sua vita in una lettera al critico francese Gustave Coquiot, che ci riporta alle righe che inaugurano il suo primo diario chiudendo, così, un cerchio: ‘È bello alla fine della mia vita, dopo tanti anni di indifferenza, e persino di ostilità da parte del pubblico nei confronti di Vincent e del suo lavoro, sentire che la battaglia è stata vinta’. 

 

Nota

 

Il Van Gogh Museum di Amsterdam ha presentato la versione digitale dei diari di Jo Bonger (bongerdiaries.org) il 18 settembre (nell’originale olandese e nella traduzione in inglese), in contemporanea con la pubblicazione della prima biografia di Jo, Everything for Vincent. The Life of Jo van Gogh-Bonger, scritta da Hans Luijten e frutto di dieci anni di ricerca (Prometheus, 624 pp., in preparazione la versione in inglese). Al primo piano del Museo è stata allestita una parete dedicata alla vita di Jo e al suo ruolo cruciale nella diffusione dell’opera di Vincent.

Tra i volumi in italiano si segnala: Johanna Van Gogh Bonger. Vincent Van Gogh (Abscondita 2007), nella traduzione di Guido Coppi, con una postfazione di Elio Grazioli. Il libro raccoglie il lungo scritto di Jo sulla biografia di Van Gogh (apparso nel 1914 come introduzione alle lettere), e lo scritto che Vincent Willem, figlio di Jo e Theo, dedicò alla madre nel 1953, in cui sono citati anche alcuni passi dai suoi diari (apparso nell’edizione delle lettere in tre volumi, Silvana Editoriale d’Arte 1959). Si veda anche lo Studio documentale: ‘L’erede. Johanna Bonger’ in appendice al volume Vincent van Gogh. Sotto il cielo d’Auvers, di Wouter van der Veen e Peter Knapp (Contrasto 2010). 

Si segnala inoltre l’imminente mostra Making Van Gogh. A German Love Story , allo Städel Museum di Francoforte, centrata sulla ricezione e l’influenza dell’opera di Vincent in Germania (23 ottobre 2019 – 16 febbraio 2020). Prosegue al Noordbrabantsmusuen di s’Hertogenbosch la mostra Van Gogh’s Inner Circle. Friends, Family, Models, che indaga la cerchia degli ‘intimi’ di Vincent (21 settembre 2019 – 12 gennaio 2020).

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Joker e il Centauro morente

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De Chirico a Palazzo Reale. L’ombra divorzia dalla prospettiva 

 

Mia nonna materna viveva in una casetta costruita al margine di un fosso. In casa non c’era elettricità. All’imbrunire accendeva una lampada a petrolio che gettava ombre vive e tremolanti. Fuori si aggirava “el Salvaneo” e dei demonietti in forma di scintille fuggivano dal camino, spaventati dai colpi dell’attizzatoio. Era tutto ciò che restava di una mitologia antica e pagana andata in rovina: una mitologia minore e familiare che non superava il confine dei campi coltivati e alla sera ravvivava le fiamme domestiche proiettando un misterioso teatro d’ombre. 

 

 

Le ombre che Giorgio de Chirico dipinge nelle sue opere sono altrettanto misteriose. Alla mitologia personale che l’artista elabora rivisitando il mito in chiave autobiografica, Luca Massimo Barbero dedica il saggio La nascita di una mitologia familiare, pubblicato nel catalogo della mostra De Chirico, in corso a Palazzo Reale (fino al 19 gennaio 2020), di cui Barbero è anche il curatore. 

“Bisogna scoprire il dèmone in ogni cosa” scrive de Chirico in Zeusi l’esploratore, un testo in prosa pubblicato nel 1918. I suoi dèmoni meridiani alloggiano in una sconcertante geometria delle ombre. L’ombra e la prospettiva sono i due principali codici visivi usati per la rappresentazione grafica e pittorica dello spazio e del volume nella nostra cultura.

“Il raggio visivo è simile al raggio ombroso” scrive Leonardo da Vinci, intuendo che le ombre possono essere trattate come la prospettiva: basta mettere al posto dell’occhio una sorgente luminosa. I raggi luminosi che s’irradiano dalla pupilla verso gli oggetti della percezione formano la piramide visiva della prospettiva descritta da Leon Battista Alberti nel De pictura, una piramide che può essere rovesciata trasformando i raggi luminosi in “razzi ombrosi”. L’intuizione di Leonardo resta tale. Bisogna attendere il 1636, anno della pubblicazione del Metodo universale di mettere gli oggetti in prospettiva, scritto da Girard Desargues, per avere una teoria della relazione fra prospettiva e scienza della proiezione delle ombre. Riferendosi alla teoria di Desargues, Gottfried Wilhelm von Leibniz scrive che “la dottrina delle ombre non è che una prospettiva rovesciata e risulta immediatamente da questa se si mette la sorgente di luce al posto dell’occhio” (Roberto Casati, La scoperta dell’ombra. Laterza, Bari 2008, p. 231). Difficile dire quando l’ombra si sia insinuata per la prima volta in questo irradiare visivo e luminoso, le cui radici risalgono a un mito della visione per il quale la luce e lo sguardo corrono paralleli fra loro e perpendicolari alla superficie di rappresentazione. 

 

 

In Monologo sulle stelle (Bollati Boringhieri, Torino 1994), Ruggero Pierantoni richiama l’attenzione sull’ombra portata della ruota che si proietta sulla fiancata del carro nel mosaico la Battaglia di Isso tra Alessandro e Dario III, probabilmente ispirato a un celebre dipinto di Filosseno, dalla quale si potrebbe dedurre che la scena sia illuminata da una sorgente luminosa posta dalla parte del pittore (pp.150-151). Se non fosse così non potremmo vedere riflesso nello scudo il volto del soldato morente che ci dà le spalle, così come non potremmo vedere sul viso di Alessandro i raggi di luce riflettersi lungo la stessa traiettoria di quelli incidenti. La luce emessa dallo sguardo di Filosseno proietta l’ombra della ruota e al tempo stesso si riflette sulla guancia e la tempia di Alessandro tornando indietro, all’occhio che la emette illuminando la scena. Lo sguardo che illumina le cose proiettando la loro ombra è un formidabile modello della conoscenza, intimamente legato al mito dell’irradiare visivo e luminoso. In Le origini della geometria, Michel Serres sostiene che per Talete le linee di mira sono anche raggi di luce che proiettano l’ombra ai suoi piedi (Feltrinelli, Milano 1994, p. 163), grazie alla quale è possibile calcolare l’altezza della piramide attraverso una proporzione.

Nonostante i numerosi studi condotti sull’argomento, non possiamo dire con certezza quando, per la prima volta, il raggio visivo e luminoso sia divenuto anche “ombroso”, ma sicuramente possiamo dire che questo ha contribuito a formare uno sguardo, un modo di vedere e pensare riferito a un mito della visione andato in rovina: la sorgente di luce non corrisponde più alla posizione dell’occhio. Qualcosa si è rotto. 

 

 

Nell’opera La sorpresa, dipinta da de Chirico nel 1913, la prospettiva del monumento è diversa da quella dell’ambiente urbano nel quale si trova collocato, nonostante le sue ombre proprie, portate e autoportate siano coerenti con quelle del cannone, dei due uomini e del muro all’orizzonte. 

 

 

In Consolazione metafisica, un disegno a matita su carta del 1918, la geometria delle prospettive diverge da quella delle ombre e lo spazio vacilla paurosamente. Mi aggiro per le sale di Palazzo Reale dedicate alle opere del periodo metafisico, affascinato dalla sapienza di de Chirico, che attraverso la pratica delle arti visive ha colto la catastrofe di un modello visivo della conoscenza. L’artista scava nei miti tramandati dalle arti visive, non in quelli tramandati dalla letteratura, con la quale la sua pittura pur ha un rapporto.

 

 

Dalla metà degli anni Venti, i manichini dipinti da de Chirico diventano archeologi. Ciechi, come il poeta Omero, abbracciano le rovine del mondo antico trattenendole in grembo: porzioni di portici, frammenti di colonne, capitelli, costruzioni e templi. Sono gli anni in cui il pittore sembra sfidare i poeti e i letterati surrealisti nel loro stesso campo, osserva Andrea Cortellessa nell’introduzione a Gorgio de Chirico. La casa del poeta (La nave di Teseo, Milano 2019), una raccolta di testi poetici e letterari scritti dall’artista fra il 1911 e il 1942. La raccolta si prefigge di dimostrare che l’opera poetica e quella pittorica hanno in comune lo stesso “meccanismo di pensiero”. In questo è possibile scorgere delle analogie con l’opera grafica di Saul Steinberg, per il quale il disegno è un modo di ragionare su carta: “nel mio caso il disegno come esperienza e occupazione letteraria mi libera dal bisogno di parlare  e di scrivere” (dall’intervista RAI trasmessa nel 1967 nel corso del programma televisivo Incontro con Saul Steinberg). Nei disegni di Steinberg le ombre che si riflettono sono enigmatiche quanto quelle dipinte da de Chirico. 

 

 

L’opera visiva di de Chirico talvolta interseca quella letteraria con scambi fra disegno e scrittura. Su un quaderno del 1929 circa l’artista affastella una quantità di testi “accavallandone versioni alternative, false partenze e improvvisi bagliori” (p. 67) inframmezzati da disegni stenografici che hanno lo stesso andamento della scrittura corsiva. Scrive anche Hebdòmeros, un romanzo con una struttura narrativa caratterizzata da associazioni di tipo visivo e fonetico. Privo di logica, come dichiara lo stesso artista in un’intervista televisiva del 1971, il romanzo mette in scena il mistero, l’enigma, forse lo stesso che si cela nelle ombre dipinte nella “fatale costruzione geometrica” dello spazio del periodo metafisico. In questa fase della sua ricerca artistica la proiezione delle ombre divorzia dalla prospettiva, il raggio di luce dal raggio visivo. Indipendenti dalla direzione dello sguardo prospettico, le ombre diventano un mistero, un enigma irrisolvibile, non più un complemento del logos della proporzione, come lo erano quelle di Talete. I problemi pittorici della sua arte, per la soluzione dei quali chiede a Dio assistenza con la Preghiera mattutina del perfetto pittore, un componimento pubblicato nel 1942, sono anche problemi filosofici, ma il rigore dell’impostazione metafisica si stempera nelle opere del periodo successivo. 

 

 

La mostra allestita a Palazzo Reale valica il riferimento alla Metafisica per spingersi verso la “sontuosità” pittorica degli anni venti e trenta e l’“ironia neobarocca dei suoi autoritratti”, con le quali l’artista lascia alle spalle la rigorosa impostazione delle opere precedenti, che restano però un punto fermo. La “rivelazione” visiva che de Chirico ebbe un pomeriggio dell’ottobre 1909, seduto in piazza Santa Croce a Firenze, confermata al tempo della scoperta delle architetture torinesi e maturata negli anni 1915 -1919 a Ferrara “città solitaria di geometrica bellezza”, resta a mio parere insuperabile. A questa malinconica bellezza metafisica, con la quale de Chirico mette in scena il divorzio fra proiezione dell’ombra e prospettiva, tornerà alla fine degli anni Cinquanta con Le muse inquietanti (Neometafisica), che impressionarono Andy Warhol per la loro serialità. Una riproduzione dell’opera dipinta nel 1982 da Warhol (Le muse inquietanti - alla maniera di de Chirico, Muse Inquietanti) tappezza una parete dell’ultima sala espositiva. 

 


Terminata la visita imbocco l’uscita pensando che “la dottrina delle ombre non è [più] una prospettiva rovesciata”. Qualcosa si è rotto e non si può ricomporre. Se oggi Talete fosse qui – mi dico – aspetterebbe inutilmente che le linee di mira proiettino l’ombra ai suoi piedi, che il logos della proporzione riveli la sua ombra. Noi però possiamo visitare il Museo Archeologico di Napoli per illuminare con il nostro sguardo la Battaglia di Isso tra Alessandro e Dario III, per vedere come vedeva Filosseno e avere un termine di paragone, indispensabile a ogni occhio che voglia essere critico. 

Piego in quattro i fogli degli appunti per infilarli nella tasca della giacca, con la sensazione che tutte le annotazioni prese nel corso della visita e i pensieri conseguenti siano poca cosa rispetto all’emozione provata alla vista del Centauro morente, che mi ha accolto all’ingresso della mostra. Incorniciata dalle rocce, la luce terribile e disperata che splende nel Centauro mi ricorda la luce ritagliata dai fabbricati nell’inquadratura della scala lungo la quale Joker, nel film diretto da Todd Phillips, sale per tornare a casa dalla madre pazza.

Centauri morenti e scintille impazzite che fuggono dal camino, spaventate dai colpi dell’attizzatoio.

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Ettore Spalletti: dare voce al silenzio

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Con Ettore Spalletti se ne va un caro amico, uno degli ultimi grandi artisti della nostra generazione che ha visto da Piero Manzoni a Giulio Paolini, da Pascali a Lo Savio, da Merz a Fabro, da Castellani a Cattelan, un numero impressionante di giganti: sicuramente il XX Secolo è stato per l’Italia uno dei più fertili e importanti.

L’Italia non finisce mai di stupire. Sempre sul punto di affondare ma all’ultima curva, alla parabolica, spunta Lei, anzi lui, il nostro stivale, cui la forma attribuisce un carattere molto particolare.

Sembra che un gigante si sia divertito a plasmarne le coste per farne un pezzo di terra con la forma di uno Stivale.

 

Una volta Luciano Fabro ha scritto (cito a memoria): “Amo chi ama la forma dell’Italia”.

Mi chiedo: e se fosse stato Dio che, nei giorni della Creazione, stufo di tanto lavoro, si è divertito a fare l’Italia cosi? In fondo se ciò che si dice è vero, per lui era un gioco da ragazzi. Un po’ come Zeus, prendi un fulmine e zot! Fatto il Gargano. Altro fulmine e zac! Le Alpi spuntano a proteggerci dai venti gelidi. E così via.

Poi certamente, osservando la Terra, Dio o forse Jahvè decide di prender casa e dove va? Ma a Roma, che diamine! Mica poteva scegliere il Ciad.

Guardando indietro ormai vediamo chiaramente cosa abbiamo fatto, come e perché.

È la terza volta che l’Italia si colloca ai primi posti nelle classifiche mondiali:

ai tempi di Roma con le guerre e l’Impero conquistiamo il mondo;

ai tempi dei Medici con il Rinascimento conquistiamo il mondo;

ai tempi miei e vostri, miei trentasei lettori, con un secolo strepitoso che va da Adolfo Wildt a Spalletti appunto, da Medardo Rosso a Mario Merz, da Umberto Boccioni a Boetti conquistiamo il Mondo dell’arte.

 

Ma forse abbiamo fatto troppo: di tutto e il contrario di tutto; abbiamo prodotto immagini strabilianti e invasive, abbiamo portato avanti quel vizio dell’horror vacui che fa dello stivale il deposito di milioni di pezzi d’arte, in una sovrapposizione che è allo stesso tempo la gioia degli archeologi, l’adrenalina dei tombaroli, la complessità per gli storici che cercano di dipanare questa matassa imbrogliata che è l’Italia.

 

Ettore Spalletti, Cappella di Villa Serena, Obitorio di Villa Serena 2017. Ph. Ela Bialkowska and Ilan Zarantonello, OKNOstudio.


La figura di Ettore Spalletti si staglia invece per il motivo opposto: lui praticava l’immobilità e attendeva che il suo rarefatto lavoro sortisse i suoi effetti. Abbiamo avuto condizioni ottimali per produrre, inventare, cambiare le carte in tavola. Abbiamo avuto settant’anni senza guerre, accumulato ricchezze enormi, assistito a cambiamenti incredibili.

Ecco, Ettore Spalletti ha vissuto per 79 anni controtendenza, in un piccolo paese dell’Abruzzo, fuori dal mondo e ha invitato il Mondo a passare di lì, da Cappelle, da Spoltore, da dove si vede il Gran Sasso che qui chiamano la bella addormentata perché da un certo punto il profilo della montagna assume le forme di una ragazza distesa che dorme.


Accompagnato in questo da un altro grande: Giulio Paolini anche lui e da sempre sul sottilissimo confine dell’opera possibile ma improbabile. Anzi un’opera che, per i suoi esegeti, non avrà mai luogo perché il luogo è l’opera stessa o comunque il momento fondativo, l’attesa (e qui viene Lucio), le attese.

Sovente le opere di alcuni artisti di questa generazione sono parlate, non a caso la corrente fu denotata come ‘concettuale’ ponendo l’accento e l’attenzione sul processo di formazione del lavoro, sui suoi contenuti mentali. (Sia detto tra parentesi tutta la grande arte è concettuale. Quella che non lo è  non è arte, semplicemente.)

Ettore abitava dunque in Abruzzo, una terra delicata, come nelle fotografie di Mario Giacomelli, una regione appartata, ma era in contatto col mondo, con le grandi idee del suo tempo, non era un naif di paese, ma un fine intellettuale formatosi a Roma, in stretto contatto con il milieu generato da Ennio Flaiano.

 

Ettore andava a nozze con queste favole di paese, che lui sapeva trasformare in Mito. Alla fine ci metteva sempre un trattenuto sorriso di complicità con un "no?" che in realtà era un "sì!", un "no" che ti obbligava ad acconsentire. A cosa dovevamo consentire? Al Nulla, che poi è il Tutto, quello di Boetti, è Entrare nell’opera di Giovanni Anselmo, Giovane che guarda Lorenzo Lotto di Paolini, le Attese di Lucio Fontana, Contatto di Fabro, Soffio di Icaro, Otto e mezzo di Fellini, Candido di Sciascia, la scatoletta di legno di Joseph Beuys, con scritto "intuition", la sparizione di Ettore Majorana, Vieni via con me di Paolo Conte, L’infinito di Fausto Melotti, col ricciolino lassù, il codino di Ettore Sottsass, Le degré zèro de l’écriture di Roland Barthes.

 

Un lavoro di decostruzione, di azzeramento dei linguaggi, e Spalletti è riuscito nella difficile impresa di dire di più concedendo meno: il grado zero della scrittura pittorica.

Le sue superfici poeticamente polverose come armadi con i ricordi di famiglia hanno affascinato musei, critici, collezionisti per la delicatezza delle sensazioni che da loro promanano.

Ettore è riuscito nella difficile impresa di dare voce al silenzio, o se preferite di ridurre al silenzio le voci. Una vetta raggiunta con la ripetizione continua di un’idea poetica, semplice come un canto gregoriano giocato su minime impercettibili variazioni.

Spalletti è stato un grande artista della galleria e un caro amico di famiglia. Il primo se ne è andato verso altri lidi, altre gallerie, come sovente capita. Il secondo è rimasto vicino e ci sentivamo, regolarmente, anche se con una cadenza lenta come il suo parlare, profonda come i suoi sguardi ironici (dopo affermazioni apodittiche e senza scampo), per vedere l’effetto delle sue parole sullo stupito, paziente ascoltatore.

 

Massimo Minini è uno dei più importanti galleristi italiani. Attivo dal 1973, ha scoperto, sostenuto e  collaborato con molti degli artisti più importanti degli ultimi cinquant'anni, da Boetti a Paolini, Fabro, Garutti e Cattelan, tra gli italiani, e da Buren a Kappor, Feldmann, LeWitt e Lavier tra gli stranieri, per citarne solo alcuni. Nel 2013 la Triennale di Milano gli ha dedicato una mostra accompagnato dal volume Massimo Minini. Quarant'anni 1973-2013 (a+mbookstore edizioni, 3013, pp. 454)  e ora lui ricambia donando all'istituzione il suo archivio, mettendolo così a disposizione di studiosi e studenti.

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Berlino, 9/11/19, trent’anni dopo il Muro

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Entusiasmo o riflessione?

Sono già passati trent’anni dalla sera del 9 novembre 1989 quando alle 18,53 il corrispondente ANSA da Berlino Est, Riccardo Ehrman, chiese a Günter Schabowski, ministro della Propaganda della DDR, da quando le nuove Reiseregelungen (regole di viaggio) che avrebbero permesso ai cittadini orientali di varcare il confine con la Germania Federale sarebbero entrate in vigore. Schabowski, preso alla sprovvista e non avendo un’idea precisa, improvvisò: “Per accontentare i nostri alleati, è stata presa la decisione di aprire i posti di blocco. [...] Se sono stato informato correttamente quest’ordine diventa efficace immediatamente!” Il simbolo per antonomasia della guerra fredda, il Muro che per 28 anni aveva diviso in due Berlino, costringendo la Germania Ovest a spostare a Bonn la capitale e riempiendo d’orgoglio quella Est per essere rimasta l’unica a vantare Berlino come Haupstadt, lo sbarramento che aveva separato famiglie, amicizie, amori causando vittime tra coloro che avevano ripetutamente cercato di infrangerla, cadeva quasi per caso, come in conseguenza di una risposta azzardata. Il primo sentimento nei cittadini che seguivano in televisione la conferenza stampa, dopo svariate settimane di disordini e proteste, fu di incredulità e spaesamento. Non era realistico che un confine tanto feroce e blindato potesse perdere da un momento all’altro il suo potere e smettere di essere temibile e dannato. Ampiamente note sono le azioni che seguirono, i volti basiti delle impotenti e sconcertate guardie di confine (memorabile resta la scena del film comico Bornholmer Straβe, 2014, in cui le sentinelle di frontiera la fatidica sera del 9 novembre 1989 si trovano alle prese con un tentativo di sconfinamento da parte di un cagnolino), gli assalti, reali e metaforici, alle barriere di cemento armato, le lunghe code di Trabant che si formarono per lasciare la DDR, le entusiastiche accoglienze (con tanto di post-coloniali banane in omaggio) agli Ossis da parte dei Wessis, i “fratelli” occidentali. 

 

“La mia prima banana”. Copertina della rivista satirica “Titanic” dedicata al cliché della banana.


Era il simbolo per antonomasia delle carenze nella DDR: la banana. Teoricamente, avrebbe potuto riguardare qualsiasi frutto tropicale, perché anche l’ananas e la pesca erano estremamente scarsi. Tuttavia, proprio la banana, tra tutte le cose, sarebbe diventata uno dei simboli della caduta del muro. Euforia, empatia, solidarietà, eccitazione. Pareva che soltanto di buoni sentimenti fosse colma la Germania in quei giorni. Il violoncellista Mstislav Rostropovič, esiliato dall’URSS nel 1974, improvvisò un concerto al Check Point Charlie, suonando Bach per onorare le vittime cadute durante i tentativi di fuga. 

 

Rostropovič suona per il crollo del muro.


Trent’anni dopo la situazione è assai cambiata. Non è questa la sede per affrontare bilanci politici o sociali. Segnalo doverosamente il fenomeno (ampiamente e debitamente oggetto di approfonditi studi) dell’Ostalgie, nostalgia per l’universo dell’Est, non necessariamente sinonimo di rimpianto per un regime dittatoriale ma piuttosto per un sistema di vita basato su principi e consuetudini socialisti troppo in fretta sradicati e gettati al macero. Simboli e riferimenti culturali che avevano costituito la base di molte esistenze vennero cancellati nel giro di poche ore. La situazione socio-economica del Paese prese una piega inusitata: moltissimi posti di lavoro scomparvero assieme alle aziende rottamate (l’86% della popolazione lavorava in imprese statali), esodi massicci e frenetici svuotarono le città. I cittadini orientali, in seguito all’unificazione delle Germanie (1990) avrebbero progressivamente percepito l’operazione come un’annessione, indiscutibile portatrice di nuove libertà, ma al contempo umiliante e penalizzante per chi ancora oggi si considera tedesco di serie B.

Berlino in questi giorni è pavesata da decine di manifesti e striscioni che annunciano eventi memorabili, delle più diverse portate, per il trentesimo anniversario della caduta del Muro.

 

 

 

 

 

 

 

Iniziative per il 9/11/2019.


Tra i moltissimi, su uno mi soffermerò per verificare, assieme al suo ideatore e realizzatore, Dario Jacopo Laganà, lo stato delle cose in questo 9 novembre 2019, in cui, come scrive Eva Banchelli, la “massiccia appropriazione della storia tedesco-orientale da parte delle politiche ufficiali della memoria ha prodotto un diffuso sentimento di confisca dell’identità cui l’Est si è visto esposto

nella rappresentazione e nel linguaggio prodotti dopo l’unificazione, dominati in gran parte dalla prospettiva occidentale”.

Il 7 novembre si è inaugurata a Berlino nel quartiere di Friedrischshain una mostra fotografica, Laganà è un fotografo italiano che risiede a Berlino dal 2010, che porta un nome curioso: Deutschland Übergestern, come dire Germania “dopoieri”, giocando sulla scomposizione e ricombinazione di parole Übermorgen (dopodomani) e Vorgestern (altroieri), errore tipico dei bambini quando imparano a parlare (oltre che degli stranieri, come per stessa ammissione del fotografo), ma che diventa anche, se si separano le due parole, über Morgen, un più complesso “a proposito del domani”.

 

Il poster della mostra.


Il progetto fotografico (finanziato dalla Fondazione federale per lo studio della dittatura comunista nella Germania orientale) indaga le storie di quelle persone che, con la loro precedente biografia professionale, non si sono adattate al nuovo sistema dopo la caduta del muro e hanno dovuto drasticamente abbandonare lavoro e carriera precedenti. “Ho dovuto lasciarmi alle spalle la vita”, potrebbe essere il loro motto. Il fotografo segnala con questo progetto che la ricorrenza attuale richiede anche riflessioni serie e profonde, oltre che scontate ed entusiastiche celebrazioni. Nella mostra ricostruisce una serie di percorsi di vita personali in ritratti fotografici e interviste che avvicinano il lettore e lo spettatore a un’insolita, per noi stranieri, parte di storia tedesca e ai suoi protagonisti. Chiunque abbia lavorato o sia ancora al lavoro può facilmente identificarsi con questo tipo di narrazione. La connotazione universale del lavoro può essere compresa da chiunque senza la conoscenza specifica delle circostanze socio-politiche che hanno caratterizzato gli eventi dopo la caduta del muro. Oltre ai cambiamenti radicali che possono essere visti come modificazioni negative nella vita lavorativa, ci sono anche casi in cui la rottura con il passato e la riunificazione hanno portato a una svolta positiva e a nuove opportunità. “Non è intenzione del progetto fare appello all’Ostalgie, alla trasfigurazione del passato. Siamo convinti che una riunione e una completa riconciliazione di una società possano essere raggiunte solo attraverso il chiarimento del passato, guardandone luci e ombre senza tabù” si dichiara nel commento alla mostra. “Quando si concepiscono progetti che trattano questioni storiche, è necessario trovare il giusto equilibrio tra precisione storica e coinvolgimento emotivo per suscitare l’interesse dello spettatore”. Proprio questa è l’esigenza primaria necessaria, oggi più che mai, nell’affrontare un anniversario di questa portata: trovare l’equilibrio e la distanza necessari per potersi accostare ai moltissimi spunti, materiali, iniziative che vengono proposte mantenendo uno sguardo critico-analitico, non freddo e cinico, ma neppure inficiato da emozioni semplici svendute come souvenir di bassa portata.

Tra le varie storie che la mostra evidenzia, si trovano racconti di persone che hanno riparato gli ombrelli prima dell’inversione di tendenza e ora gestiscono una compagnia di trasporti, un ex membro dell’ esercito popolare nazionale, passato a gestire una stazione di servizio, una professoressa e decano di un’università della Germania occidentale a cui era stata negata l’autorizzazione a studiare nella DDR, la storia della continuità della ditta Carl Zeiss, che è riuscita a superare le fratture della riunificazione, o le storie dei lavori a contratto del Vietnam e del Mozambico, che hanno dovuto affrontare con molta dignità il doppio dramma della solitudine sociale e lavorativa in un paese per loro irriconoscibile e ingrato.

 

Ernesto Milice venne come migrante mozambicano quando aveva 17 anni per apprendere nuove competenze e lavorare nella DDR.


La mostra comprende 18 ritratti-interviste di grandi dimensioni e 38 fotografie in formato ridotto che costituiscono una specie di diario, sintetico e simbolico dei luoghi, delle istituzioni, dei personaggi che hanno segnato i trent’anni dal fatidico novembre 1989. Fabbriche abbandonate, scuole per le élite del partito, ex aree carbonifere, integrazioni-ibridazioni sviluppate troppo in fretta nell’ansia di sanare una situazione, rimarginare una ferita. Furia che ha scarsamente rispettato sensibilità e storia nella premura di cancellare un passato scomodo. Vengono a galla, grazie alla narrazione fotografica, il rimpianto per una pur mitologica solidarietà tra le persone, le strategie di resistenza al sistema di controllo imperante, i tentativi di assimilazione al modello occidentale di realtà industriali socialiste che peccavano di qualità scadente e mancanza di competitività. Sistemi a confronto che hanno preteso una rapida quanto impietosa soluzione. Il Muro è il grande, e consapevole, assente in questo progetto. Inflazionato, sezionato, spremuto, ridotto in frammenti e venduto come souvenir con tanto di approssimativa garanzia. Meglio lasciare spazio all’umanità delle persone e alle loro vicende. 

 

Dario Laganà ha risposto ad alcune mie domande relative allo spirito con cui accostarsi all’anniversario dei trent’anni.

 

Tra gli ex cittadini DDR prevale rassegnazione o desiderio di vendetta-riscatto?

Nelle persone che ho intervistato ho trovato pochissimo desiderio di vendetta o di riscatto, una gran parte di loro avrebbero voluto un sistema di riforme della DDR, non la sua cancellazione. Molti hanno preso l’opportunità per cambiare vita, per ripartire e sebbene con moltissime difficoltà, adesso guardano alla loro scelta come ad una nuova chance. La rassegnazione l’ho letta in chi da questa storia non è riuscito a riscattarsi; penso a chi come Claus Suppe, che era orfano e cresciuto in una casa famiglia dove lo avevano obbligato a lavorare sin da piccolo; avrà sempre grande amarezza e avversione per la DDR, ma allo stesso modo analoghi sentimenti per la nuova Germania, che l’ha lasciato senza lavoro per 30 anni.

 

Claus Suppe, orfano in una casa famiglia, ha dovuto lavorare sin da bambino, dopo la caduta del muro non ha avuto più opportunità di lavorare.


Al momento dell'unificazione già si poteva intuire che si sarebbe trattato di un’annessione? se sì, chi lo aveva intuito?

Le circostanze storiche erano tali da necessitare una Riunificazione veloce, che ha portato a scelte radicali, frettolose e con moltissimi errori. Non c’è stato un vero e proprio tavolo di trattative in cui i due sistemi venivano messi a confronto e si sceglieva il sistema migliore o si trovava il suo compromesso migliore. C’è un articolo di “Der Spiegel” dal titolo Un popolo nel panico, a mio avviso terrificante nella sua preveggenza, datato Maggio 1990, quindi ancora prima della Riunificazione vera e propria, dove viene fatto un elenco devastante di possibili scenari pessimistici, che si sono in larga parte verificati. 

 

È stato “salvato” qualcosa del patrimonio socio-culturale della DDR?

Non ho gli strumenti adatti per dare un giudizio complessivo, se c’è stata una volontà di abbandono programmatico o cancellazione della cultura della DDR, anche se ogni tanto mi è venuto il sospetto, come se ci fosse una sorta di superiorità culturale da ribadire che serpeggia ancora in alcune discussioni quando gli interlocutori sono di ambe le parti. C’è di fatto che moltissime realtà sono scomparse, sicuramente è prevalsa una disaffezione (anche abbagliati dal nuovo sistema dell’Ovest). Per fare un esempio basti pensare alle strutture architettoniche di Ulrich Müther, completamente abbandonate e alcune rimosse in maniera molto ambigua, nonostante lui fosse noto anche all’Ovest, tanto noto che l’Ovest, per averlo a dirigere i lavori oltreconfine, donò alla DDR 10.000 automobili. In questo conto è anche necessario considerare le ripercussioni economiche e sociali dei primi anni dopo l’89, dove le priorità erano altre. Questo fenomeno però è in inversione, man mano si sta cercando di preservare quello che resta, c’è stata una rivalutazione dell’apporto culturale della DDR, una catalogazione più rigorosa. 

 

4) Lo spaesamento post Wende ha riguardato anche i tedeschi occidentali e in che forma?

Onestamente non credo, non in maniera generalizzata. La ragione è che per i tedeschi dell’Ovest non c’è stato nessun sovvertimento radicale, nella loro vita non c’è stata nessuna novità rilevante in maniera di Alltag (la vita di tutti i giorni). Se pensiamo che un tedesco dell’Est prima non doveva occuparsi quasi di niente, il sistema socialista pensava a quasi tutto (in termini di pensione, assicurazione, lavoro, educazione dei figli, scuole ecc.) mentre loro si sono ritrovati a fare i conti con tutte queste innovazioni, compresa la burocrazia tedesca dell’Ovest, da affrontare tutte insieme. 

 

Si può dire che il 30° anniversario segnerà in Germania l’inizio di una nuova consapevolezza?

Credo che questa celebrazione sia molto diversa dalle altre (e sicuramente essermi occupato di questo tema ha cambiato la mia personale visione), dove a progetti molto festosi, inneggianti alla libertà o anche solo alla gioia di potersi riabbracciare, si sono affiancati o addirittura sostituiti molti progetti culturali di rilettura sociale, culturale e storica. Anche se personalmente sono pessimista sulla capacità di un pubblico straniero di turisti frettolosi, di arrivare ad una lettura di analisi critica sulla Riunificazione. Questo ovviamente non fa che giovare alla società tedesca, questa possibilità di poterne parlare di nuovo, questo confronto sicuramente non facile. Credo che a questo proposito la situazione della rinascita delle destre in Germania abbia anche fatto scattare la necessità di non sottovalutare i problemi e le conseguenze sociali della Riunificazione. Ma d’altra parte i tempi storici di analisi sono sempre lunghi, hanno sempre bisogno di una generazione e nel caso di questa storia, lo spaesamento è durato molto a lungo, come minimo tutti gli anni ‘90. Per noi la Riunificazione, come evento storico, ci appare sempre puntuale, in realtà è ancora in atto.

 

Per chi volesse visitare la mostra, considerando che Berlino d’inverno non è soltanto mercatini di Natale:

 

“DEUTSCHLAND ÜBERGESTERN” - Fotogalerie Friedrichshain

HELSINGFORSER PLATZ 1, BERLIN 10243

7 NOVEMBRE 2019, ore 19.00 - 3 GENNAIO 2020

https://norte.it/due

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Da Anthropocene a Tecnosfera

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Tecnosferaè il titolo dell’edizione 2019 della Biennale di Fotografia dell’Industria e del Lavoro a Bologna, organizzata dalla Fondazione MAST - Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia a cura di Francesco Zanot, che terminerà il 24 novembre. La Biennale, composta da 10 mostre dislocate in diversi luoghi non museali nel centro storico, prosegue idealmente il percorso tracciato dalla mostra Anthropocene a cura di Sophie Kackett, Andrea Kunard e Urs Stahel allestita al MAST, prorogata fino a gennaio 2020. 

Il concetto di Tecnosfera coniato nel 2014 da Peter Haff, specialista in geologia e ingegneria civile ambientale presso la Duke University, in Carolina del Nord, indica le strutture che l’uomo ha costruito nel tempo: centrali elettriche, linee di trasmissione, strade, edifici, reti dei mezzi di trasporto, aziende agricole, industrie manifatturiere che si avvalgono delle tecnologie più avanzate, entrano nel quotidiano attraverso devices ed elettrodomestici “pensanti” che modificano profondamente la nostra vita. Reti complesse e articolate che per sopravvivere ed evolversi hanno necessità di alimentarsi attraverso le numerose forme di energia che la Terra offre tramite l’estrazione di carbone, petrolio, minerali altre forme di energie alternative come il vapore, l’eolico, ecc. Secondo Haff la Tecnosfera ha origine con la prima rivoluzione industriale che ha avuto inizio a metà ‘700 e si caratterizza, come uno spazio in cui si generano vita e cultura e dove si manifestano le interrelazioni sociali che l’umanità crea quotidianamente attraverso la comunicazione in tutte le sue forme grazie alle nuove tecnologie. All’interno di questo spazio, di questo guscio che ormai avvolge tutta la superficie terrestre si genera una costante necessità di innovazione, in particolare quella tecnologica, ormai inarrestabile, che ha accelerato i consumi oltre che i bisogni, modificando la percezione e producendo nuovi bisogni.

 

Allo stesso tempo questa spinta scientifica e tecnologica è un grande propulsore per la creatività artistica. Per Haff, la Tecnosfera, costituisce un nuovo paradigma globale emergente che definisce la presenza di un nuovo strato del pianeta oltre che di una nuova era per il genere umano, dove il lavoro e la creatività giocano un ruolo del tutto speciale. L’approccio filosofico di Nelson Goodman (Ways of Worldmaking, 1978, tradotto in italiano nel 1988 con il titolo Vedere e costruire il mondo) ci aiuta a capire meglio come la Tecnosfera possa contribuire notevolmente alla conoscenza e quindi alla progettazione e costruzione di nuovi mondi. Anche la scienza, non diversamente da quanto accade per le arti, dalla pittura alla musica, contribuisce al processo creativo. Infatti, per il filosofo, “non esiste un unico mondo di mondi più di quanto non ci sia un unico mondo”. La ricerca scientifica, così come quella artistica, nello scomporre la realtà per ricomporla al fine del raggiungimento dell’obiettivo o del messaggio, è parte integrante nel fabbricare nuovi mondi. Essa assume quindi la stessa importanza del percorso creativo nell’arte e viceversa. Le classiche categorie filosofiche, sostiene Goodman, possono essere d’intralcio per la comprensione della realtà e per i nuovi sviluppi a venire.

 

Il progresso tumultuoso della tecnologia, però, che non sempre procede di pari passo con un progresso etico e consapevole, mostra come la scienza, e l’arte abbiano a volte confuso due categorie tradizionali: quelle di vero e falso. In questo percorso che a volte raggiunge una parabola con vertici mirabolanti, si inserisce il linguaggio della fotografia. Essa è il più denso dei media, a differenza dei testi scritti o audio visuali, che propongono narrazioni complesse, dettagliate e di una certa durata. Il linguaggio della fotografia si pone come una “attivazione dello sguardo” quindi utile alla comprensione del mondo, per citare Luigi Ghirri (Catalogo (1970-1979), 1979). La fotografia desidera che i racconti sgorghino dall’osservatore. Il saggio di Luigi Zoja, Vedere il vero e il falso (2018) è davvero utile per muoversi tra le diverse teorie della percezione e quelle della critica oltre che dal proliferare delle immagini attraverso i media e i social. L’eliminazione della distanza geografica tra la realtà e la sua raffigurazione in fotografia non cancella però la distanza tra vedere e sapere e questo può generare spostamenti di piani per la comprensione del messaggio. Lo stesso meccanismo si propone con le immagini generate da sofisticati software per l’elaborazione delle immagini e i relativi device. La fotografia, infatti, può essere profonda verità, ma anche tradimento della realtà stessa. La Biennale di Foto/Industria parte e si muove anche da questi presupposti teorici.

 

Essa propone dieci mostre che la curatela ha così suddiviso: Albert Renger-Patzsch, Paesaggi della Ruhr, che illustra alcune fasi dei processi di produzione e delle trasformazioni del paesaggio e della natura con l’avvento dell’industrializzazione della Ruhr; André Kertész, Tires/Viscose che realizza un raffinato reportage in pieno periodo bellico per documentare la produzione della fibra artificiale per nuovi e strategici tessuti; Luigi Ghirri, Prospettive industriali, un percorso tra le principali committenze industriali realizzate per Ferrari, Costa Crociere, Bulgari e Marazzi, dove vengono presentate insieme a materiali che raccontano l’intero processo di lavoro dell’autore, come gli album di provini originali e le pagine di un menabò che sarebbe dovuto sfociare in un libro, strumenti utili per approfondire il percorso creativo dell’autore anche nel campo della fotografia di committenza. Sono però assenti alcuni degli sguardi più intriganti di Ghirri come quella dell’operaio della Ferrari che appoggia la mano in un cerchione, dove è evidente il riferimento iconografico all’Autoritratto del Parmigianino (1524, Kunsthistorisches Museum).

 

Essa, se ce ne fosse necessità, è un’ulteriore riprova, anche nel campo della documentazione, dell’approccio di Ghirri al superamento dei generi e di come la sua ricerca personale fosse continua, anche nell’ambito della committenza. Le immagini mostrano come la sua memoria, la sua percezione costruisca, nel presente, una rete visiva di relazioni che rimandano a concetti e idee a lui cari. Ghirri, nel 1991, nella sua ultima e lunga intervista a Arturo Carlo Quintavalle in Viaggio dentro un antico labirinto, afferma che “la frequentazione visiva con tempi e riflessioni completamente diversi mi consente una riconsiderazione diversa dalle immagini già fatte e mi permette di relazionarle con future immagini possibili che sono sempre più fresche nella memoria. La memoria funziona proprio in termini associativi”. Le immagini delle Ceramiche Marazzi ne sono un esempio. In esse riprende la metodologia delle Polaroid di grande formato scattate nel 1981, create attraverso una serie di oggetti in relazione alla propria memoria personale, non per guardare in modo nostalgico il passato, ma per riflettere sui mutamenti del presente. Quelle immagini, apparentemente “nature morte” sono in realtà microcosmi. In Lezioni di fotografia (2010), riferendosi al lavoro di committenza industriale, l’autore afferma che non cerca la perfezione formale, come generalmente si procede nella maggior parte dei casi preparando set e controllando l’illuminazione artificialmente, perché lavorando in questa direzione gli oggetti diventerebbero, appunto, delle nature morte. All’autore interessa invece mostrare uno spazio che si appropria dell’esistenza, di un vissuto per coglierne il rapporto con chi lo vive. Diversamente sarebbe stato restituito uno spazio, quello del lavoro, decorativo, accessorio ad approcci utilitaristici. Sono ricerche e sperimentazioni che non hanno derogato al linguaggio della fotografia, all’opposto lo hanno arricchito aprendo nuovi e inediti modi di vedere.

 

LUIGI GHIRRI – Ceramiche Marazzi, Sassuolo, 1983, © Eredi di Luigi Ghirri Courtesy Marazzi Group.


Armin Linke, Prospecting Ocean e Délio Jasse, Arquivo urbano invece assumono una posizione di uno sguardo sociologico e politico, ove al centro vi è la condizione umana in relazione all’ambiente e alla natura. 

Armin Linke, lavora da molti anni sui temi della trasformazione del territorio e delle forze economiche e politiche che la promuovono. Prospecting Oceanè uno studio realizzato grazie alla collaborazione di scienziati, tecnici e legali, sullo sfruttamento delle risorse marine e l’amministrazione dei fondali di tutto il mondo. Realizzate con speciali veicoli sottomarini a controllo remoto e altri strumenti tecnologici all’avanguardia, le immagini mostrano ciò che risulta normalmente invisibile, svelando un denso intrico subacqueo di macchinari e tubazioni per estrarre e distribuire risorse preziose.

Délio Jasse con Arquivo Urbano, una serie dedicata alla capitale dell’Angola, Luanda, città il cui destino è quello delle megalopoli. Anche Jasse affida la sua ricerca ad un allestimento complesso, fatto di sovrapposizione di immagini che riflettono sul passato che ha negato la cultura locale a causa del colonialismo. Il suo linguaggio apre una riflessione non solo sul presente, ma anche sul futuro delle metropoli africane, caratterizzate per lo più dall’incertezza e a logiche legate ad un veloce sviluppo piuttosto che a criteri di sostenibilità.

 

ARMIN LINKE – Biblioteca Universitaria di Bologna Università del Texas, Austin, sala di modellizzazione delle correnti oceaniche, Institute for Computational Engineering and Sciences (ICES) Computational Research in Ice and Oceans Group (CRIOS), Austin, Texas, USA, 2018 © Armin Linke 2018. Courtesy Galleria vistamare/ vistamarestudio, Pescara / Milan.

 

DÉLIO JASSE – Fondazione del Monte - Palazzo Paltroni Sem valor, 2019 © Délio Jasse. Courtesy of the artist and Tiwani Contemporary.


Matthieu Gafsou, H+, di formazione filosofo, lavora sul concetto di Transumanesimo, spesso abbreviato con la sigla H+. È un movimento che si dà come obiettivo quello di migliorare le performance cognitive, psichiche e fisiche dell’uomo attraverso l’utilizzo della scienza e della tecnologia. Il progetto costituisce una vasta ricerca su questo fenomeno, svolta all’interno di istituzioni scientifiche, laboratori e comunità in diversi paesi. A partire dalla capillare diffusione degli smartphone, che costituiscono ormai l’estensione del corpo di miliardi di individui, il lavoro documenta dispositivi e innovazioni che vanno dai supporti medici (pacemaker, protesi, arti cibernetici) agli innesti di microchip, dai cibi sintetici alle strategie anti-invecchiamento. Immagini che sono affidate a un vero sistema di allestimento che sovrasta l’opera e che pare diventare il vero tema della mostra stessa e dove le opere diventano funzionali all’allestimento stesso. Appare quindi una deroga dell’autore che sposta l’attenzione del proprio messaggio all’allestimento, a volte a scapito della chiarezza, nel tentativo forse di superare la figura stessa del fotografo o del linguaggio fotografico. Il progetto si inserisce quindi più nel mondo del visuale più che all’espressione della fotografia tradizionalmente intesa. Sappiamo, tuttavia, come il rapporto tra opera e suo allestimento sia emergente nell’arte contemporanea, così come è evidente, in May You Live In Interesting Times a cura di Ralph Rugoff, alla Biennale d’arte di Venezia. La complessità del tema è inequivocabile: si evince anche da alcune mostre degli autori che potremmo definire “tradizionali”. 

 

MATTHIEU GAFSOU – Palazzo Pepoli Campogrande 4.5.1 © Matthieu Gafsou / Galerie C / MAPS.

 

Ben lo testimonia Lisetta Carmi, che nel restituire le immagini del porto di Genova e dello stabilimento dell’Italsider utilizza un linguaggio sperimentale, tra astrazione e documentazione. La mostra è accompagnata dal brano musicale di Luigi Nono che visita, con Lisetta Carmi, quegli stabilimenti nel 1964, ne registra i rumori e li pone alla base della sua composizione La fabbrica illuminata

 

LISETTA CARMI - 2019.


David Claerbout, Olympia, propone un’analisi della rappresentazione dove protagonista è il celebre Olympiastadion di Berlino, noto per avere ospitato le Olimpiadi del 1936, progettato dall’architetto Werner March. Secondo il suo progetto originario, lo stadio dovrebbe resistere per mille anni: tale era infatti la durata attesa dai gerarchi per l’intero ciclo del Terzo Reich. Per questo lavoro David Claerbout si è dunque chiesto come dovrebbe apparire l’Olympiastadion tra un millennio, sviluppando un complesso software di computergrafica che simula il degrado dell’architettura in una proiezione di grande formato, fino alla sua totale sparizione. La creazione delle immagini è quindi affidata ad un software governato da complessi algoritmi ideato da ingegneri in collaborazione con l’artista. Il progetto non si preoccupa quindi del reale, ma di quello che ipoteticamente sarà.

 

Yosuke Bandai, A Certain Collector B lavora sull’aspetto archeologico dei manufatti e su come il tempo abbia dato loro nuovi destini. I rifiuti sono un inevitabile oggetto di attenzione e dibattito, nel contesto della Tecnosfera. Il fotografo giapponese li mette al centro del proprio lavoro che costituisce insieme una riflessione estetica e filosofica. Per le sue immagini, egli raccoglie una serie di rifiuti e altri materiali ritrovati e ne fa una serie di sculture minime e fragili, che durano il tempo di una ripresa fotografica. Il risultato sono immagini insieme attraenti, misteriose e disturbanti, fuori scala, frutto di un attento processo di revisione in cui gli oggetti di partenza, pur rimanendo del tutto riconoscibili, risultano completamente trasformati. Immediato è il riferimento al kintsugi, l’arte di riassemblare la ciotola di ceramica che si rompe e, ricomponendola, da rifiuto prende nuova vita attraverso le nuove forme e le linee di frattura che, secondo la filosofia giapponese, la rendono ancora più pregiata. Kintsugi ci insegna a non vergognarci delle ferite, degli scarti, ma di abbracciare i resti per dar loro nuova vita. È una lezione simbolica che viene riportata alla nostra attenzione con prepotenza da Tecnosfera.

 

Stephanie Syjuco, Spectral City, combina nei suoi lavori fotografia, video e nuovi media digitali. Questo progetto consiste in un video realizzato con immagini scaricate da Google Earth che ricostruisce il percorso compiuto dal ‘cable car’ di San Francisco nel film A Trip Down Market Street del 1906, per realizzare il quale i Miles Brothers avevano montato una cinepresa sulla parte anteriore di un ‘cable car’. Pochi giorni dopo le riprese il grande terremoto di San Francisco avrebbe cancellato gran parte degli edifici documentati dalla pellicola. Parallelamente, nel video di Stephanie Syjuco, l’algoritmo di Google cancella ogni presenza umana. Completamente deserta, la città appare proprio come dopo un enorme cataclisma. Spectral Cityè una riflessione sui limiti e le distorsioni della visione delle macchine, sullo spazio pubblico e sul continuo processo di costruzione e ricostruzione della città. 

Questa edizione di Foto/Industria ha mostrato un cambio di passo rispetto alle precedenti edizioni, curate da François Hebel, forse più attente al linguaggio fotografico nella più alta accezione del “fotografico”; ma è anche vero che la percezione dell’arte e della fotografia trovano i fotografi, gli artisti e i videomakers impegnati a riflettere su questi Interesting Times (tempi interessanti). La fotografia, come arte, può denunciare, farci sentire partecipi e soprattutto consapevoli della realtà in cui viviamo, attraversata da profondi cambiamenti ambientali, turbata da problemi politici e sociali, e che ben poco può incidere sulle decisioni politiche per cambiare il mondo. Foto/Industria evidenzia una visione sociale della fotografia contemporanea che mette in discussione formule del passato offrendoci una nuova lettura degli oggetti, della scena quotidiana, del mondo del lavoro, delle metropoli e del mondo dell’industria. Un linguaggio della fotografia che considera più punti di vista: quello dell’autore e quello dello scienziato, richiamando a gran voce l’attenzione del visitatore su temi ormai inderogabili almeno per le nostre coscienze.

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Resistere dal corpo

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Orme di sangue aprono ferite e risvegliano memorie, drammatiche tracce rosse sui toni grigi di strade e marciapiedi. La mattina del 23 luglio 2003, Regina José Galindo, vestita con un abito da sera nero, mette in scena ¿Quién puede borrar las huellas? (Chi può cancellare le impronte?), una performance dove attraversa a piedi nudi Ciudad de Guatemala, fermandosi di tanto in tanto per immergerli in un catino bianco che contiene sangue umano e lasciare orme insanguinate, come atto di denuncia contro la ricandidatura appena validata del generale Efraín Ríos Montt, ex dittatore sanguinario ed esponente del Fronte Repubblicano Guatemalteco, alla presidenza del Guatemala. Dalla Corte Costituzionale del Palazzo Nazionale avanza tra le persone con lo sguardo chino, fisso sulla bacinella. Le impronte sono da leggere come tracce ancora fresche di un dramma avvenuto durante la repressione degli anni Ottanta, per dare di nuovo memoria e voce ai fantasmi delle vittime della guerra civile. L’artista intende la sua performance come un atto di psicomagia, un’azione in grado di scuotere l'immobilità patologica che ci tiene prigionieri. Ritorna nei luoghi che hanno visto il dramma della storia e, attraverso il suo corpo, “ripete” azioni, come fossero rituali in grado di coniugare lo spazio del proprio corpo con quello del tempo sociale, entro una sorta di teatro della ripetizione, dove però la replica non coincide mai con il ritorno del medesimo atto, ma rende il passato come un qualcosa che può ancora realizzarsi con un altro esito.

 

Regina José Galindo (1974) è conosciuta dal pubblico italiano per avere vinto il Leone d’oro alla Biennale di Venezia del 2005 con l’opera Himenoplastia, una performance sul tema della verginità come imposizione istituzionale, presentando in video un intervento di ricostruzione del proprio imene. L’artista opera con gestualità aggressiva sui propri limiti fisici e psicologici: utilizza il proprio corpo per denunciare la violenza contro le donne, dove la nuda vita viene messa in campo come fosse il teatro di un conflitto permanente. 

L’opera di Galindo non è meramente politica, non è finalizzata alla sola presentazione di un discorso in generale, non è una operazione di denuncia, ma non è nemmeno solo qualcosa dal carattere poetico, e neanche atto che sottolinea la sofferenza e la forte carica emotiva, nemmeno solo simbolo della resistenza personale e ritratto collettivo di una società civile priva di tutele e di certezze. I suoi interventi artistici non servono solo a denunciare ciò che l’istituzione politica mantiene ancora celato, nemmeno solo a porsi come dichiarazioni di giustizia indipendenti dall’autorità dello stato. Le performance psicomagiche attingono alla tradizione delle pratiche sciamaniche di guarigione e ai rituali religiosi; accedono al potere evocativo delle forze sacrali rimaste in sospensione nel tempo storico e nel non tempo universale; trasformano il luogo geografico in uno spazio performativo, dove affiorano fantasmi, spiriti della terra, presenze invisibili, e dove viene data voce all’ indicibile. 

 

 


Quando il corpo nudo di Galindo sta ritto e immobile nella performance Tierra (2013), in verticale come un’antenna atta a captare le forze ctonie della terra e le energie del cielo, mentre una scavatrice scava tutto attorno alla sua porzione di terreno, l’atto rende visibile il potere della resistenza umana. Ma al contempo viene reso visibile che, in uno stato di soprusi, la terra non ha più l’aura della terra-madre, ma è stata trasformata in terra-tomba, teatro delle decomposizioni. Galindo si è chiesta: “Come uccidevano le persone durante gli anni di guerra civile?”. Con la performance risponde alla sua maniera, diretta e indiretta al contempo, ricostruendo come un macchinario scavava la fossa e come un camion portava lì i prigionieri, i quali venivano prima infilzati con una baionetta o fucilati e poi gettati nella fossa. 

E successivamente le questioni e le problematiche legate alla terra hanno preso altre derive e ulteriori declinazioni. L’era del globalismo si era presentata con i suoi slogan di smantellamento di barriere politiche ed economiche. Mentre il crollo dell’autorità feudale era stato pagato con l’espropriazione di terre e commons ai contadini, creando una massa di lavoratori “liberi” di lavorare in cambio di uno stipendio, la globalizzazione ha creato nuove recinzioni contro la conquista proletaria di maggior potere.

Guerre, carestie, pestilenze e svalutazioni monetarie ogni giorno sradicano milioni di persone dalle loro terre, dai loro lavori, dalle loro case; ricercare una giustizia contro tutto questo necessita una visione politica e anche azioni coraggiose contro il potere.

 

Il lavoro di Galindo è una forma di atto di resistenza e di reazione a crimini, che spesso inducono a un mutismo irrazionale, nello spazio metaforico dell’arte. La sua opera ha spesso come protagonista il corpo minuto dell’artista, teatro di un conflitto permanente, che esemplifica i drammi generati dal capitalismo e da tutte le relazioni di potere che affliggono la società contemporanea. La disobbedienza civile, la protesta femminista e antimperialista nella sua opera si traducono in immagini universali di rottura e di antagonismo concreto, controbilanciando una certa feticizzazione che il capitale ha fatto storicamente di atti di resistenza, anche alla luce della ricostruzione anticomunista dell’Europa.

Galindo ricerca la poetica della violenza con un’arte che è politica, perché in linea con la coscienza politica dell’artista e in cui l’uso della performance determina per l’artista un coinvolgimento totale, in una metafora costante della interconnessione tra arte, vita e morte. Scava nelle rovine della storia, per mettere in luce il dimenticato e indagare in maniera universale le implicazioni etiche dell’ingiustizia sociale, delle discriminazioni di sesso e razza e degli altri abusi causati dalle relazioni inique, dominate dal potere nella società di oggi. A che tipo di immagini danno spazio i nostri occhi? In che modo ospitiamo in essi fotografie, video e performance di soprusi? Ci sono idee e storie che lottano per trovare un proprio spazio di ascolto contro forme di conferma di un piano civilizzatore. Un piano che ha due facce, una delle quali è quasi sempre in ombra. Abbiamo incontrato, in occasione della sua conferenza al MACRO, l’artista guatemalteca per porle alcune domande lasciate aperte nelle sue opere:

 

 

 

Ci potrebbe parlare delle sue azioni e performance più recenti?

 

I miei ultimi lavori affrontano il tema della migrazione. Ho realizzato un progetto molto aspro con le famiglie di minori morti mentre erano rinchiusi nelle carceri di immigrati esistenti negli Stati Uniti, dove si trovavano dopo essere stati separati dalle loro famiglie attraversando illegalmente gli Stati Uniti.  Realizzerò un altro progetto, ancora sul tema della migrazione, a dicembre, a Roma e Madrid.  Mi sembra che sia una questione che tocchi tutti i paesi, tutti i continenti.

 

Quali sono le difficoltà più fastidiose che incontra ogni volta che denuncia con il suo lavoro problematiche sociali, violenze fisiche o violazioni dei diritti umani?

Il disagio prodotto dalla comprensione che il mio lavoro non è altro che un piccolo granello di sabbia nella lotta di un immenso mare di problemi e situazioni avverse. Anche se sei consapevole della portata e dei limiti dei processi dell'arte, è sempre un po' deludente non essere in grado di fare di più. Ma per fare ciò avremmo dovuto scegliere una professione differente.

 

Il suo corpo è inteso anche come strumento di metafora nella sua opera e la chiave di lettura di un lavoro intersezionale in cui femminismo, antirazzismo e politica si intersecano e contaminano? Come mantiene la tensione emotiva nei suoi lavori (penso a Nadie atraviesa la region sin ensuciarse)?

Il mio lavoro è direttamente collegato al mio contesto, alla mia storia, al mio luogo di origine. Il mio corpo, che è il mio materiale di lavoro in molte delle mie opere, risponde a quel contesto. Il mio corpo è quindi il contenitore di tale molteplicità: sono una donna, latino-americana, guatemalteca.  

Ho sempre creduto che l'empatia generi tensione. Se un'opera riesce a risvegliare l'empatia nel pubblico, il pubblico ha verso di essa un atteggiamento che va oltre la contemplazione passiva. Compenetrando, comprendendo o cercando di farlo, sperimentando, provando, sentendo – anche se questo sentimento è puro disagio – si genera tensione. E la tensione ci fa sentire vivi, attivi e svegli.

 

 

La libertà era considerata dai pensatori illuminati come il più alto e universale valore politico. Tale metafora, “man’s natural state and inalienable right”, ha messo radici proprio al tempo della pratica economica della schiavitù, ossia la schiavizzazione dei non-europei come forza lavoro nelle colonie. Mi vengono in mente i temi provocatori presenti nel film Il fantasma della libertà, di Buñuel. Qual è la definizione di libertà in Guatemala? Qual è la sua definizione di libertà?

In una realtà perversa come quella in cui viviamo oggi, in cui il mondo e l'umanità vivono secondo un sistema economico, tutto, compresa la libertà, è permeato dal denaro. È difficile parlare di libertà in un paese colonizzato, sfruttato, saccheggiato, annullato.  Un paese pieno di risorse e di bisogni, in cui tutte le risorse sono riservate per l’esterno. La libertà della grande maggioranza è definita dalla fame. Nessuno può pensare alla libertà mentre la pancia brontola. Per me la libertà è la possibilità di vivere una vita dignitosa e piena di opportunità. Nel mio paese pochissime persone hanno opportunità. La stragrande maggioranza sopravvive soltanto.

 

Molte sue opere sono o evocano visioni di tortura e di umiliazione (penso a Perra, 2005, a Waterboarding, 2007, a Estrias, 2009, a Hermana, 2010). Assumendo il ruolo della vittima, in talune sue opere ricrea un campo di visione non dissimile da quello di torture esemplari, subite nei secoli scorsi da eretici e streghe. Che cosa cela in sé il dolore? Cosa ha mosso nella sua vita e nella ricerca artistica?

Non mi interessa il dolore come meccanismo di ricerca.  In alcuni progetti, il dolore ha dovuto essere parte del processo, perché tale processo in qualche lavoro ha portato a qualcosa. Era necessario sentire dolore mentre facevo l'imenoplastica o la cagna, era inevitabile. Ma il dolore non era la cosa importante. L'importante era parlare di ciò di cui si doveva parlare. Di corpi di donne che nella vita sono stati torturati, violati, uccisi, e mostrare alcuni dei metodi utilizzati dagli autori di tali atti. Tanto meno mi considero una vittima. Mi sembra che questa sia la prima lettura del mio lavoro, quella che si ferma alla apparenza delle cose.  Io faccio il lavoro sporco, cioè sono oggetto e soggetto delle mie idee.  Nel caso di opere come Confesión, non mi metto nella posizione di vittima. Io in realtà svolgo il ruolo di "autore intellettuale". Ho l'idea, assumo l'oppressore, do l'ordine di azione, pago.  Ma nell'arte succede come nella vita, è difficile per noi vedere un pochino più in là.  Non vediamo e parliamo quasi mai dell'autore intellettuale, che ha davvero il potere. 

 

 

A proposito del controllo delle nascite come forma di controllo alla povertà, in un’ottica razzista e quindi concentrata in particolare nell’impedimento di nuove nascite in paesi sottosviluppati, penso a Rita Segato quando scrive che nella lunga storia patriarcale di uguali (alleati o competitori) e disuguali (dominatori e dominati), le relazioni di genere sono la cellula elementare di tutta la violenza. Lei è d’accordo?

In Guatemala è avvenuto un genocidio. E tra le grandi atrocità che l'esercito ha commesso c'è stata quella di abusare sessualmente di migliaia di donne maya.  L'esercito raggiungeva le comunità indigene, separava le donne dagli uomini, separava le donne incinte dalle altre e procedeva a farle violentare da gruppi composti tra dieci e venti soldati. Volevano farle abortire, ma volevano anche impedire loro di essere in grado di generare nuova vita in futuro.  Per questo le hanno violentate: per generare in loro grandi infezioni che non potevano curare in seguito. Il patriarcato non ha funzionato come sistema di vita.  E la violenza e il potere sono alla base del patriarcato.

 

La ricchezza accumulata attraverso la schiavitù ha determinato diversi tipi di contro-risposta morale. Franz Hals in Family Group in a Landscape (1645-48), conservato al Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid, rappresenta una famiglia olandese in “stile picnic”, all’aria aperta, insieme a un ragazzino di colore, un soggetto pittorico raro nella Haarlem del tempo di Franz Hals. Nel passato, nell’arte occidentale, personaggi di colore sono sempre stati considerati figure di contorno. Immagino che sia stato molto difficile fare emergere la sua opera e dare a essa visibilità, anche in questi anni. Quale è stata la matrice della sua forza e della sua azione volitiva?

È difficile essere un'artista guatemalteca? Certo. C’è un maggior grado di difficoltà a partire dalle periferie. Immaginate di arrivare da un posto dove non c'è posta, per non parlare dei sedici morti al giorno o delle ventidue donne stuprate al giorno. Ma ciò che non ti uccide ti rende forte. E quel che serve è disciplina.  

Il fatto di avere una galleria in Italia che mi ha sostenuto fin dall'inizio, naturalmente, è stato fondamentale.

 

 

La povertà, causata dalle politiche del debito, radicate in espropriazioni del diritto della terra (come quelle avvenute a opera dell’esercito guatemalteco sin dagli anni ’70 ai danni soprattutto di contadini e indigeni) o in politiche di guerra che hanno reso certi territori inaccessibili, è la principale causa di flussi migratori verso paesi “avanzati”. Potrebbe parlarci dell’elemento della terra nel suo lavoro (penso a Piedra, 2013 o a Tierra, 2013)?

Tutte le guerre sono realizzate per ragioni economiche. La terra è uno dei valori più grandi. Quindi le guerre e la terra sono intimamente legate. La terribile guerra che è avvenuta in Guatemala è stata realizzata per le stesse cause. Con l'argomento di una guerra contro il comunismo, gli Stati Uniti sono intervenuti dando il via libera all'assassinio dello stato guatemalteco, affinché attraverso l'esercito potessero fare ciò che volevano. Il risultato è stato che migliaia e migliaia di indigeni sono stati assassinati, espulsi dalle loro terre. Terre che poi sono state convertita in un primo momento in fattorie, e più tardi sono state utilizzate per estrarre minerali, produrre energia idroelettrica o costruire campi di palma e simili. Per le comunità Maya, la terra è vita.  È dove lasciamo sepolto l'ombelico. È l'origine e la vita. Io non sono maya, sono meticcia, ma sento anche un immenso attaccamento alla terra su cui cammino.

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Marina Ballo Charmet, o della Defotografia

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La fotografia potrebbe essere dunque definita l’espressione del desiderio di contenere e conservare una traccia dell’esperienza e costituirebbe dunque una protesi tecnologica dell’apparato psichico.

Marina Ballo Charmet

 

Si crede ancora oggi che l’occhio umano veda tutte le cose nitidamente su una grande estensione: questo è falso: in realtà l’occhio non vede nitidamente che una piccola parte del campo visivo, tutto intorno resta sfuocato […] l’occhio fissa solamente gli oggetti in casi molto rari, in generale si muove dentro un campo visivo largo circa 200 gradi, mentre l’ottica fotografica normale non comprende che un settore molto più ristretto di 45 gradi. Anche se l’occhio fissa un oggetto, è capace grazie al suo ampio campo visivo di registrare anche fenomeni ottici che avvengono o si trovano ai bordi del suo campo visivo. 

 

Queste parole di Raoul Hausmann, grande pioniere dell’avanguardia dada e surrealista anni Trenta-Quaranta, citate da Marina Ballo Charmet in uno degli scritti raccolti nel suo libro Con la coda dell’occhio (a cura di Stefano Chiodi, Quodlibet 2017, p. 50), si possono accostare al passo in assoluto più celebre della teoria e della storia della fotografia, quello di Walter Benjamin nella Piccola storia della fotografia del 1931 (in Aura e choc. Saggi sulla teoria dei media, a cura di Andrea Pinotti e Antonio Somaini, Einaudi 2012, p. 230):

 

la natura che parla alla macchina fotografica è […] una natura diversa da quella che parla all’occhio; diversa specialmente per questo, che al posto di uno spazio elaborato consapevolmente dall’uomo, c’è uno spazio elaborato inconsciamente […]. La fotografia […] rivela questo inconscio ottico, così come la psicoanalisi fa con l’inconscio pulsionale. 

 

I due partono da presupposti inversi: Hausmann sostiene che l’occhio – la nostra percezione ottica naturale – vede più della macchina fotografica, almeno dell’otticafotograficanormale; mentre per Benjamin è vero il contrario: la macchina è in grado di scoprire una porzione di spazio che la nostra attenzione, di norma, non mette a fuoco. Colpisce però come tutti e due ci richiamino a un’attenzione – dello sguardo umano o di quello della macchina – che dal centro del campo si sposta ai suoi margini. 

È in quest’ottica, è il caso di dire, che va ricostruito il meccanismo del pensiero di Marina Ballo Charmet: che fin dal principio del suo percorso – dalla fine dagli anni Ottanta, cioè – si è posta in controtendenza rispetto ai suoi maestri: i quali si erano assunti il partito preso etico e politico, prima che la missione estetica, di mettere sempre a fuoco il centro dell’immagine impiegando addirittura (come spiega Stefano Chiodi nella postfazione a Con la coda dell’occhio, p. 165), nel caso specifico di Gabriele Basilico per esempio, l’artificio del «tutto a fuoco»: l’immagine è perfettamente razionale, completamente percepibile, e mostra il proprio oggetto per intero. 

 

Il presupposto di Marina Ballo Charmet è simmetricamente opposto: a interessarle è proprio il margine di una percezione che, nel lessico dei suoi altri maestri – psicoanalisti come Salomon Resnik e Anton Ehrenzweig –, viene definita «visione periferica»: quella che ci fa percepire la presenza di un oggetto senza che in realtà ce ne accorgiamo. Il nostro occhio, o forse piuttosto la nostra psiche, si comporta come l’obiettivo fotografico di Benjamin: vede più di quanto, cognitivamente e razionalmente, pensi di farlo. 

Se però dalla generazione dei padri risaliamo a quella dei “nonni”, un air de famille si avverte inequivocabile.

 

 

Dobbiamo pensare al tempo di personaggi come John Cage o Ornette Coleman, fine anni Cinquanta-inizio Sessanta. Ricorda questa couche d’infanzia e adolescenza attorno a suo padre Guido critico d’arte e poeta, Marina Ballo Charmet, nell’Introduzione al suo Con la coda dell’occhio. È la temperie che trova la sua sintesi perfetta, nel 1966, nel Blow-Up di Michelangelo Antonioni: celebre apologo sulla fotografia in cui pare circolare il concetto di inconscio ottico (anche se è difficile che Antonioni potesse conoscere, allora, il saggio di Benjamin; la sua traduzione esce da Einaudi, nell’antologia L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, lo stesso anno del film; sono, in ogni caso, pensieri tipici di quel tempo). Questa avventura di un fotografo– come di lì a poco, alla maniera appunto di Antonioni, intitolerà Italo Calvino uno dei suoi Amori difficili– è quella di Thomas, fashion photographer che per caso riprende delle immagini in uno spazio aperto, in un parco alla periferia di Londra – “set” che somiglia da vicino, peraltro, a certi luoghi d’affezione di Ballo Charmet – e poi, sviluppando e ingrandendo quelle fotografie, si convince che quel luogo anonimo, senza senso e “senza qualità”, sia stato in effetti la scena di un delitto. Qualcosa che invece ha molto senso, dunque: e quel senso bisogna a tutti i costi cercare di comprendere. Ma l’ingrandimento ossessivo dell’immagine ha un esito opposto a quello perseguito dal fotografo: la prova del delitto che crede di aver intravisto e di cui cerca le “prove” nell’immagine fotografica gli sfugge, in quanto l’ingrandimento della fotografia finisce per deformare l’immagine, riconducendola alla sua grana materica e astratta.

 

Mentre probabilmente sta già pensando al suo film sulla fotografia, nel ’64, Antonioni scrive una frase-manifesto: «sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà, e sotto quest’altra un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima. Fino alla vera immagine di quella realtà, assoluta, misteriosa, che nessuno vedrà mai. O forse fino alla scomposizione di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà. Il cinema astratto avrebbe dunque la sua ragion di essere» (Fare un film è per me vivere, a cura di Carlo di Carlo e Giorgio Tinazzi, Marsilio 1994, pp. 61-2). Un’espressione come cinema astratto è in effetti un ossimoro perché il cinema – come spiegava fra gli altri Pier Paolo Pasolini, nei testi di quegli anni raccolti in Empirismo eretico– ha come sua vocazione, o forse maledizione, quella di avere sempre di fronte una realtà materiale (il famigerato «profilmico») che, in un modo o nell’altro, necessariamente condiziona l’immagine che le si riferisce. Il che non toglie che Antonioni sia l’autore che più ha spinto la sua ricerca in quella direzione; il suo cinema astratto non giunge mai a essere davvero tale, semmai è meta-astratto: come in Blow-Up, mette in scena il processo col quale all’astrazione si giunge (o, piuttosto, vi si precipita). 

 

Il momento decisivo, in questa storia, si colloca nel 1962, negli ultimi cinque minuti e mezzo di quello che forse è il più bel finale della storia del cinema italiano, quello dell’Eclisse: quando la storia, non so se chiamarla d’amore, fra Monica Vitti e Alain Delon, si perde – proprio come si perderà la soluzione del “giallo” inseguito da David Hemmings nel film di quattro anni dopo. Le immagini che mostrano il quartiere romano dell’EUR dove si danno l’ultimo appuntamento i due protagonisti, un appuntamento al quale nessuno dei due si presenta, non è appunto “astratta” ma si svincola definitivamente dalla successione logica della narrazione, si affranca dal suo dover-essere narrativo. Sono Antonioni e – con stile diversissimo dal suo – Federico Fellini a introdurre nel cinema quella che negli stessi anni veniva definita «denarrazione». Come spesso nella storia dell’arte, questa espressione venne usata originariamente in negativo; fu la scrittrice (nonché critica cinematografica) Anna Banti, consorte di Roberto Longhi, a impiegarla nel ’67 sulla rivista «Paragone» per stroncare i tentativi narrativi degli scrittori della Neoavanguardia di quegli anni: «denarratori» perché, appunto svincolando la successione delle “scene” da ogni possibile filo logico-temporale, de-costruivano in primo luogo i presupposti logici causa-effetto sui quali, più o meno consapevolmente, si fonda ogni pratica narrativa. (Con scarto a sua volta tipico, quella taccia ominosa verrà assunta in positivo quando l’anno dopo Vanni Scheiwiller lancerà una collana editoriale intitolata proprio «Denarratori», inaugurata – nonché conclusa… – da due opere in effetti estremistiche come Obsoleto di Vincenzo Agnetti e L’equivalente di Corrado Costa; negli anni Settanta, verosimilmente all’oscuro di questo precedente, s’intitolerà The Untelling– da Damiano Abeni reso appunto come La denarrazione– il più ampio tentativo di narrazione in versi del grande poeta americano di origine canadese Mark Strand: ora in Tutte le poesie, Mondadori 2019, pp. 222-39). 

 

 

Per un esempio eloquente, di quella che si potrebbe definire una “funzione Blow-Up”, si pensi all’oltranza antiromanzesca di un testo di Nanni Balestrini dal titolo Tristano, uscito lo stesso anno del film di Antonioni (nel controverso convegno del Gruppo 63 sul Romanzo sperimentale, tenutosi a Palermo l’anno prima, Balestrini aveva dichiarato sprezzante: «i fili spezzati con la realtà non si riannodano più e basta, non ce n’è più bisogno» – a p. 133 nell’edizione a mia cura pubblicata da L’orma nel 2013 – e qui non importa il fatto che la sua opera letteraria a venire smentirà, persino clamorosamente, un simile assunto). Tornando alle narrazioni o de-narrazioni per immagini (non è un caso, però, che mostri un impianto spiccatamente visivo pure il Tristano di Balestrini…), si pensi ai capolavori di un altro grande autore di quella generazione, Alain Resnais: il quale, con un filo d’ironia forse, una volta ha spiegato le infrazioni al codice narrativo, da lui allora spregiudicatamente operate, ricordando come, subito prima e all’inizio della Seconda guerra mondiale, da adolescente fosse abbonato a riviste di fumetti americane che, per arrivare in Francia, dovevano attraversare l’oceano: un percorso talmente lungo che spesso le spedizioni si accavallavano le une alle altre, e poteva capitare che gli arrivassero in lettura prima le puntate successive e poi le precedenti. 

 

Mi sono ricordato di questo aneddoto quando ho visto la mostra di Marina Ballo Charmet, Sguardo terrestre, curata da Stefano Chiodi al MACRO nel 2013. Nella sala conclusiva e apicale dell’esposizione, infatti, era esposto un trittico (spesso le immagini di Ballo Charmet sono composte in successione orizzontale, mimando un “effetto panoramica”) tratto dalla serie Il Parco del 2006: immagini riprese in un parco parigino e intitolate appunto Paris, Les Buttes Chaumont. Ora, proprio in virtù di quello che potremmo definire il nostro inconscio cinematografico, quando vediamo una successione orizzontale di immagini siamo portati a ricondurla a una sequenza lineare, cioè a un ordine temporale – per noi che leggiamo da sinistra a destra – uniforme: a sinistra il “prima”, a destra il “dopo”.

 

 

Ma Marina Ballo Charmet disattende alla radice il presupposto di tale linearità («la sequenza, la ripetizione di fotografie di uno stesso soggetto, non ha per me un valore cinetico, né suggerisce una lettura da sinistra a destra, ma ha invece a che fare con una sorta di interruzione della narrazione»: Con la coda dell’occhio, p. 28). Le tre immagini – che riprendono persone sdraiate nell’erba a prendere il sole o a leggere il giornale, più lontano dei bambini che giocano coi loro genitori – hanno in comune gli stilemi cui il linguaggio dell’autrice ci ha abituato: il piano della composizione è s-centrato dall’abbassamento della prospettiva (sicché al centro dell’immagine non si trova il suo presunto “soggetto”, quello che ho appena descritto, bensì l’erba che si frappone fra esso e l’occhio della macchina) e la sua superficie è “macchiata” dal fuoco ondivago, che restituisce con precisione determinate parti del piano “allontanandone” altre in tratti più confusi.

 

Ma a rendere totalmente s-paesante l’opera è soprattutto qualcosa che in prima battuta percepiamo, invece, solo per via subliminale. La successione delle tre immagini infatti sembra, ma a ben vedere non è, quella logico-spaziale che risponde alla nostra ipotetica percezione “reale”. Dalla collocazione delle persone nelle tre fotografie, quella che si trova a sinistra (i bambini che giocano) in teoria dovrebbe invece – per riprodurre la “panoramica” del nostro sguardo – stare a destra. 

Viene così messa in discussione l’implicita credenza “narrativa” che, volenti o nolenti, attribuiamo alla fotografia nei confronti della realtà. Marina Ballo Charmet ha realizzato anche dei video, e parlando con Chiodi delle proprie immagini metropolitane ha definito, i suoi, «fermo-immagine del nostro vivere e camminare nella città»: come se ogni immagine servisse a “fermare”, e così appunto de-costruire, l’immaginario, interminabile film della nostra esistenza (la «lingua scritta della realtà», come il Pasolini anni Sessanta definiva appunto il cinema). La disposizione in serie (come, in questo caso, in trittico) delle immagini fisse, in una sorta di “effetto Kuleshov” della nostra attenzione, ci induce ogni volta a metonimicamente narrativizzarle, come appunto quando seguiamo un film. Così che l’infrazione di Ballo Charmet – nei confronti di questa sintassi, incongrua e implicita quanto, per lo più, strettamente vigente – ci turba in profondità. L’illusione di coerenza lineare, decostruita al proprio interno, fa vacillare il nostro senso del tempo, la nostra collocazione nello spazio e dunque, in generale, il nostro rapporto con la realtà.

 

 

Commentando i primi lavori della serie che dà il titolo al suo libro, Con la coda dell’occhio, Chiodi ha definito la fotografia di Ballo Charmet «una fabbrica di nulla» (nella postfazione citata, a p. 162). È un’espressione che mi ha colpito molto perché, proprio come non è astratto il cinema di Antonioni (i cui paesaggi metropolitani, come quelli del finale dell’Eclisse, ricordano inequivocabilmente quelli di Ballo Charmet), non si può definire astratta neppure questa fotografia: la quale, se mette a repentaglio il nostro ordine di lettura del mondo sino a “fabbricare il nulla”, è appunto in virtù dell’infrazione continua che perpetra nei confronti dell’ordine compositivo: come detto, tanto internamente alla singola immagine che nella relazione fra un’immagine e l’altra. 

Negli anni Sessanta sopra evocati si parlava molto, in letteratura, di «lettura subliminale» – chiamata in causa, in particolare, a proposito dell’opera di due narratrici donne, Ivy Compton-Burnett e Nathalie Sarraute –: la scrittura intendeva mostrare al lettore oggetti ed eventi che, di norma, sono collocati sotto la soglia della nostra attenzione (l’ottica fotografica normale di cui parlava Haussmann) e che dunque sta a noi ricostruire a posteriori (con la stessa attitudine analitica del Thomas di Blow-Up...). Questo sguardo, questa particolare impaginazione cognitiva dell’immagine da parte di Marina Ballo Charmet è una visione da lei esplicitamente definita «anti-antropocentrica» (Con la coda dell’occhio, p. 34; non a caso Jean-François Chevrier ha parlato, per certe sue fotografie, di «sguardo del cane»): nella misura in cui, s’intende, consideriamo propriamente anthropos solo l’essere umano adulto – coi sensi e il pensiero ormai codificati e, in qualche misura, standardizzati. 

 

 

Si recupera così una lunga tradizione, ben precedente a quella anni Sessanta che sinora ho richiamato ma che, a ben vedere, ne è la matrice diretta. Nei suoi scritti Marina Ballo Charmet si rifà infatti a precedenti illustri, “bisnonni” come Paul Klee o Matisse: il quale sosteneva che bisogna «guardare tutta la vita con gli occhi dei bambini» (citato in Con la coda dell’occhio, p. 20). Più alla radice, e in senso più tradizionalmente anti-antropocentrico, viene da pensare a uno scrittore leopardiano come Italo Calvino, che nei suoi ultimi testi vagheggia di uscire dalla percezione cognitiva del soggetto per conseguirne una non astratta, ripeto, ma certo estranea alla coscienza individuale, aliena all’identità soggettiva («magari fosse possibile», scriveva nei primi anni Ottanta nell’ultima pagina compiuta delle testamentarie Lezioni americane, «un’opera concepita al di fuori del self, un’opera che ci permettesse d’uscire dalla prospettiva limitata d’un io individuale, non solo per entrare in altri io simili al nostro, ma per far parlare ciò che non ha parola, l’uccello che si posa sulla grondaia, l’albero in primavera e l’albero in autunno, la pietra, il cemento, la plastica…»: Molteplicità, in Id., Saggi 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, Mondadori 1995, p. 733). Anche Gilles Deleuze cercava una «scrittura» che «ha fondamentalmente a che fare con la vita», ma non nel senso volgarmente voyeuristico dello show-biz, del biografismo individuale; viceversa «portando la vita allo stato di una potenza non personale» (dalle Conversazioni’77 con Claire Parnet: ombre corte 1998, p. 55): non la vita del singolo, dunque, ma qualcosa che appartiene alla specie – o al general intellect, parafraserebbe qualcuno – e che è dato ritrovare, prima dello sviluppo e appunto dell’individuazione, molto meglio nel bambino che nell’individuo adulto. 

 

Il che ci introduce alla ricerca di Ballo Charmet che in assoluto trovo più affascinante, quella della serie intitolata Primo campo: in cui si riproduce quello che si immagina il primo sguardo da noi portato all’esterno del nostro corpo, e che per oggetto ha il collo della persona – padre o madre che sia – che ci tiene in braccio appena nati. Si tratta naturalmente di un’astrazione, una ricostruzione virtuale; eppure almeno una volta – in un seminario per l’infanzia condotto con Elio Grazioli e Lorena Peccolo – Ballo Charmet ha effettivamente messo una macchina fotografica in mano a dei bambini (ancorché certo non neonati!), avendo così modo di riscontrare come le immagini da loro prodotte – prima appunto dell’uniformazione cognitiva, razionale, di uno sguardo a misura di uomo adulto – ricordino in certa misura, soprattutto per l’ottica iper-ravvicinata, quelle della serie Primo campo (Con la coda dell’occhio, pp. 126 sgg.). 

 

 

Non può che venire in mente Donald Winnicott: secondo il quale il volto della madre, e più in generale dell’essere adulto che accudisce l’infante, per quest’ultimo equivale in effetti a uno specchio. Nel saggio La funzione di specchio della madre e della famiglia nello sviluppo infantile (che è del ’67: in italiano è raccolto nell’antologia Gioco e realtà, Armando 2006, pp. 175 sgg.) lo psicoanalista britannico prende le mosse dal celebre testo di Lacan sullo «stadio dello specchio», ma se ne discosta decisamente per la direzione relazionale che prende (che varrebbe la pena commentare col pensiero radicalmente intersoggettivo di Emmanuel Lévinas sul volto e lo sguardo). Questa idea straordinaria mi ricorda quella di un altro grande scrittore, Carlo Emilio Gadda, che in un frammento gravitante nell’orbita del suo grande romanzo autobiografico, scritto fra anni Trenta e Quaranta ma pubblicato in forma incompiuta solo nel 1963, La cognizione del dolore (si legge alle pp. 527-35 dell’edizione critica a cura di Emilio Manzotti, Einaudi 1987), descrive il rapporto fra il bambino e la madre (cioè quello tra lui e sua madre) come appunto un rispecchiamento mancato. L’odio fra madre e figlio – dal quale provengono le fantasie di matricidio che avvelenano il romanzo – si produce nel momento in cui il bambino non riconosce se stesso nello sguardo della madre: l’uomo adulto ricollegherà il «male invisibile», che è all’origine della propria personalità, precisamente a questo errore di coincidenza. Tale rispecchiamento mancato è definito per contrasto, da Gadda, con un verso della IV Ecloga di Virgilio, «incipe, parve puer, risu cognoscere matrem».

 

Un verso di straordinaria ambivalenza: perché il risus può essere attribuito, anfibologicamente, tanto al bambino che alla madre (nel primo caso è l’espressione che accompagna, nel bambino, il momento in cui riconosce il volto della madre; nel secondo, il segno affettivo dal quale il bambino effettivamente la riconosce); ma l’ambiguità del v. 60 si scioglie, appunto per contrasto (e tormentosa resa filologica del testo virgiliano a parte), ricorrendo ai successivi vv. 62-3 – «Incipe, parve puer; cui non risere parentes / nec deus hunc mensa, dea nec dignata cubili est» –: colui al quale i genitori non hanno sorriso ne avrà la vita devastata, tanto sul piano sociale che su quello specificamente amoroso. (Diagnosi in qualche modo confermata dalle più recenti ricerche di psicologia infantile – quelle delle università di Oslo e di Uppsala pubblicate nel 2015 sul «Journal of vision» e riportate in un articolo di Elena Dusi uscito su «la Repubblica» il 2 luglio di quell’anno, col titolo Il mondo visto dagli occhi dei bimbi. «Così a cinque mesi decifrano un sorriso»: «i bambini hanno una vista molto ridotta e non percepiscono i colori», spiega lo psicologo Svein Magnussen, e «l’espressione più facile da identificare per i neonati è il sorriso».) 

Il frammento dal laboratorio della Cognizione del dolore s’intitola proprio Cui non risere parentes, ed è interessante che ogni volta che evoca questi versi-feticcio di Virgilio Gadda pensi pure alla figura proiettiva di Leopardi e alla sua aneddotica famigliare (ci si metteva pure l’onomastica, a fargli proiettare la figura della propria madre anaffettiva, Adele Lehr, su quella per antonomasia anaffettiva – Gadda la chiama «a-genetica» e «castrante» – del canone letterario italiano, Adelaide Antici). Troppo capzioso, forse, sarebbe ricollegare l’anti-antropocentrismo di Leopardi – dalle Operette morali alla Ginestra– a questo mancato rispecchiamento materno, che su di lui proietta Gadda (eppure com’è noto definisce «matrigna», Leopardi, quella «natura» che nega all’essere umano l’abitarla in armonia).

 

 

Ma colpisce ritrovare nel lavoro di Ballo Charmet questa medesima, duplice e in apparenza divergente, linea di ricerca: lo sguardo de-narrativo, s-centrato e anti-antropocentrico dei suoi paesaggi metropolitani, e quello invece iper-centrato dell’infantile Primo campo (ancorché, con s-centramento “iper-realistico” in effetti questo “manchi” ogni volta il volto, il risus, per concentrarsi sulla regione, del corpo parentale, che immediatamente vi sottostà; in un suo scritto, infatti, Ballo Charmet corregge appunto Winnicott con Resnik: Con la coda dell’occhio, p. 72).

In entrambi i casi, comunque, siamo di fronte a uno sguardo inquieto. Le due classi di immagini non hanno nulla di astratto, s’è detto, e neppure alcunché di doloroso (a differenza che in Leopardi o in Gadda); eppure ci inquietano profondamente entrambe. Se lo fanno è perché ci costringono in tutti e due i casi a fare nostro, a riscoprire nella nostra stessa memoria di osservatori, uno sguardo che rifiuta di assoggettarsi alla nostra tradizione percettiva. Quello di Marina Ballo Charmet è uno sguardo radicalmente insubordinato: ci mette di fronte a un’esigenza di liberazione, una liberazione che molti di noi – io per primo – troviamo inquietante, forse persino angosciosa, ma che in sé non ha nulla di distruttivo. Semplicemente ci trascina in luoghi distanti da quelli cui siamo abituati. 

 

In un suo scritto affascinante, intitolato Il documento di esperienza, Marina riflette su due suoi video, Agente apri e Frammenti di una notte, accomunati dal «mostrare le soglie, il margine fra il sonno e veglia, fra controllo razionale e abbandono» (Con la coda dell’occhio, p. 110) e ambientati rispettivamente in carcere e in ospedale. Quest’ultimo in una sezione problematica come quella dei cosiddetti «post-acuti» dove, per le condizioni molto gravi dei pazienti, i parenti sono ammessi a restare anche di notte a vegliarli: proprio come fanno i figli delle donne carcerate che in Agente apri (video realizzato in collaborazione con Walter Niedermayr), sino all’età di tre anni, possono soggiornare nel «carcere dei bambini», un’area riservata del penitenziario nella quale possono restare a contatto colle madri. «Agente apri» è l’espressione che il bambino rivolge alla guardia carceraria, alla fine del lungo travelling che lo segue mentre accompagna la madre verso il cancello di uscita. Lui potrà varcarlo, lei no. E qui davvero accediamo a un luogo paradossale, dove la liberazione coincide con l’accostarsi il più possibile alla condizione carceraria: un regime radicalmente diverso da quello che ci è abituale.

Non è un caso che nei suoi scritti Marina Ballo Charmet riprenda il concetto foucaultiano di «eterotopia» (Con la coda dell’occhio, pp. 117 sgg.). Luoghi come appunto l’ospedale (La nascita della clinica) o la prigione (Sorvegliare e punire), che Michel Foucault studierà analiticamente negli anni Settanta, sono accomunati – nella sua fondamentale conferenza del 1967, Altri luoghi – dal discostarsi dalle nostre abitudini, dalle sedi che ci sono consuete, dai luoghi in cui ci sentiamo a casa: sono luoghi che ci costringono a ridefinire la nostra identità cognitiva ed esistenziale, cioè appunto il nostro punto di vista. E, se è vero che questo linguaggio fotografico ci interroga così in profondo, non penso sia un caso che la sua matrice concettuale, la sua humus primordiale e diciamo il suo primo campo, sia riconducibile a quel momento della nostra storia e della nostra cultura, fra gli anni Sessanta e i Settanta, che oggi dai più viene stramaledetto: proprio perché ci costringeva a essere liberi. È il medesimo paradosso cui oggi ci mette di fronte il linguaggio di Marina Ballo Charmet. 

 

 

Era un tempo, quello, in cui l’arte che si vedeva, la musica che si ascoltava, le letture che si facevano inducevano le persone a prendere il mare aperto – un’apertura sconosciuta alle generazioni precedenti. Marina usa spesso un’espressione di Salomon Resnik, «l’errare delle immagini». L’errareè strettamente collegato all’errore: e in fondo tanto i suoi paesaggi che i suoi primi campi, secondo la tecnica classica della fotografia, andrebbero appunto rubricati quali “errori”. Anche il fotografo Thomas di Blow-Up commette un errore fatale: cercando di trarre una storia sensata dalle immagini, deve prendere atto che quel senso irrimediabilmente gli sfugge. Ma il suo è un errore vitale: il segno di una libertà e di un’insubordinazione, la presa in carico di una missione di libertà che il nostro tempo pare aver dimenticato.

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The seventh continent

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Solo dal 1995, la 1st International Istanbul Contemporary Art Exhititions– così l’iniziale dicitura della rassegna inaugurata nel settembre del 1987 sotto la direzione di Beral Madra – diviene una manifestazione con cadenza biennale, nonostante, già nel 1989, si fosse prefissata una simile frequenza, introducendo l’aggettivo “biennale” nella denominazione. 

Dopo il coordinamento della prima e della seconda edizione da parte di Berel Madra (non può passare inosservato che ad avviarla fu una curatrice), anche le successive, con un’alternanza quasi chirurgica tra curatori femminili e maschili, hanno visto sfilare direttori del calibro di Rosa Martinez (1997), Paolo Colombo (1999), Hou Hanru (2007), Carolyn Christov-Bakargiev (2015), Elmgreen & Dragset (2017, per intenderci il duo di Prada Marfa, del cavallo a dondolo a Trafalgar Square del 2011 e della FiatUno con roulotte nella galleria Vittorio Emanuele di Milano o del collezionista annegato in una piscina del Padiglione dei Paesi del Nord alla Biennale di Venezia), fino all’attuale presieduta da Nicolas Bourriaud (classe 1965 che vanta nel suo curriculum, di essere stato fondatore e co-direttore del Palais de Tokyo di Parigi).

 

Di altrettanta indiscussa levatura sono gli artisti via via invitati nel corso di ciascuna esposizione, da Marina Abromovic a Jimmie Durham, a Cildo Meireles, a Tacita Dean, William Kentridge, Daniel Buren, Michelangelo Pistoletto, Jannis Kounellis, Joseph Beuys, Alberto Garutti, solo per citarne alcuni. Le diverse direzioni e le importanti partecipazioni hanno conferito alla Biennale respiro internazionale, collocandola, così, nella rosa degli eventi e degli appuntamenti di assodata autorevolezza e di grande richiamo per un ampio pubblico di appassionati, studiosi e collezionisti. Oltre ad offrire agli artisti locali (in quanto è d’obbligo, per i curatori, invitare un determinato numero di artisti turchi) una prestigiosa vetrina, nel corso degli anni la Biennale ha definitivamente aperto la capitale turca all’arte contemporanea. E lo dimostrano lo stretto susseguirsi di inaugurazioni di musei e gallerie. Non ultima, nei primi giorni di settembre 2019, la nuova sede di ARTER, progettata da Grimshaw Architects di Londra e allestita in un edificio di 18.000 metri quadrati di spazio espositivo, distribuiti su cinque piani.

Mentre la cadenza si è definitivamente regolarizzata, ad oscillare sono, invece, le sedi espositive (sinora da un minimo di una a un massimo di trentasei) che, di volta in volta, hanno coinvolto strutture e istituzioni diverse (dal Museo dell’Innocenza al Mimar Sinan Haman, al Military Museum, dai Billboards a Taksim Square), spalmandosi in tal modo in diversi quartieri della città, includendo finanche la cristallizzata Büyükada, la maggiore dell'arcipelago delle Isole dei Principi, situata in mezzo al mar di Marmara, distante circa un’ora e mezza di traghetto dalla Capitale.

 

Immutati, fino ad oggi, sono invece due elementi: l’organizzazione, sin dall’inizio nelle mani dell’Istanbul Foundation for Culture and Arts (IKSV), e l’ingresso libero, il quale, quest’anno, necessita di una registrazione sul sito bienal.iksv.org per l’ottenimento di un QR code personale da mostrare agli ingressi delle diverse sedi. 

Dopo le prime edizioni, a delinearsi con chiarezza è stato altresì il taglio intellettuale che la Biennale intendeva assumere: uno sguardo attento, e di monitoraggio, sulle questioni storico-culturali che attraversano la società presente. A good neighbour; SALTWATER: A Theory of Thought Forms; Mom, am I barbarian?; Waht Keeps Mankind A live?; Not Only Possible, But Also Necessary: Optimims in the Age of Global War, sono alcuni titoli delle ultime edizioni che ben illustrano le intenzioni della mostra. 

Naturalmente, pure quella inaugurata il 14 settembre, e visitabile fino al 10 novembre 2019, si pone in questo binario tracciato negli anni. Dal roboante titolo The seventh continent, la XVI Istanbul Biennial ha posto al centro della sua indagine il delicato tema ambientale collocandosi, così, all’interno della dibattuta questione dell’Antropocene. Perché il settimo continente, oltre a evocare la Zealandia, nonché l’omonima pellicola del 1989 di Michael Haneke, vuole direttamente alludere alla fluttuante ed evanescente isola di plastica, individuata nel 1997, collocata nell’Oceano Pacifico, tra la California e le Hawaii. 

 

Per sviluppare tale argomento, il curatore francese ha invitato cinquantasei artisti, di venticinque paesi, suddividendo i relativi lavori in tre sedi: il MSFAU-Istanbul Painting and Sculpture Museum (la cui costruzione di 17.700 metri quadrati di esposizione si sta ancora ultimando), dal quale prende avvio l’esposizione, il Pera Museum, per concludersi nella già citata Isola di Büyükada

Probabilmente, l’autorevolezza del curatore nonché il soggetto prescelto, hanno alzato molto le aspettative e sollecitato l’interesse del pubblico. Però, altrettanto probabilmente, l’elaborazione di una tesi aprioristica, maneggiata come un contenitore nel quale inserire dei lavori, anziché il contrario, un tema talmente delicato che non tutti, artisti compresi, sono capaci di affrontare, e l’aver ideato questa manifestazione come la conclusione di un percorso (le cui precedenti tappe sono state The Great Acceleration, Biennale di Tapei, 2014, e Crash Test, Centro per l’arte contemporanea di Montpellier, 2018), hanno evidenziato la validità teorica del curatore, non sempre ben tradotta nella pratica.

 

Opera di Simon Fujiwara.

 

Opera di Simon Fujiwara.


Così, l’inclusione di alcuni lavori, di cui molti video anche di lunga durata, è risultata una pura forzatura (esempio su tutti It’s a Small World di Simon Fujiwara, nonostante sia stato appositamente realizzato con materiali trovati tra i rifiuti di una fabbrica di giostre, è un lavoro divertente e ironico che, in sintesi, si prende gioco di quegli artisti mainstream e del sistema che li ha sostenuti finanche creati). Altri, arbitrariamente piegati all’idea di fondo dell’esposizione (come il lungo Prospecting Ocean di Armin Linke, un video nel quale l’artista documenta la moderna tecnologia utilizzata per visualizzare e sfruttare le risorse marine), generano la difficoltà di rintracciare il tema prefissato dalla rassegna, con un risultato finale non sempre soddisfacente.

Tuttavia, tra le oltre duecento opere, spicca un esiguo numero di lavori che denuncia con forza l’interferenza dell’uomo sulla natura, di cui modifica e stravolge, per ragioni tra le più disparate, la fisionomia e la forma. Esempio eccellente è l’installazione To Become a Melon Head di Max Hooper Schneider, angurie manipolate a tal punto che hanno assunto la forma di un cubo. Romanticamente melanconica è Monochrome, l’installazione di Ozan Atalan, che attraverso due video allestiti ad angolo e uno scheletro di un bufalo posto al centro della sala, denunciano l’inesorabile distruzione del territorio circostante la capitale turca per far spazio a nuovi edifici, operazione che ha totalmente annientato l’habitat del bufalo turco, ormai prossimo all’estinzione. 

 

Opera di Max Hooper Schneider.

 

Opera di Max Hooper Schneider.


Attraverso una tecnica impeccabile, Deniz Aktaş cristallizza in The Ruins of Hope, due quadri di grande formato, per mezzo del mesto bianco e nero del disegno a inchiostro, il degrado urbano e la trasformazione della città attraverso accumuli di rifiuti, montagne di pneumatici che, al contempo, creano inediti skyline. Piuttosto interessante, nonostante nell’insieme l’installazione di Elmas Denisz non convinca, è la serie History of a particular nameless creek, composta di piccoli quadri e minute mensole che accolgono, secondo la pratica del collezionare, gli elementi naturali (una conchiglia, un guscio di lumaca, una pietra levigata, a altri materiali) che raccontano, evocano e ricostruiscono un habitat e, allo stesso momento, fondano l’archivio e la memoria di qualcosa che lentamente potrebbe essere distrutto. Lavori, questi appena citati, tutti allestiti nell’originale architettura del MSFAU, la quale sembra riprodurre un magazzino costruito con l’ordinato sovrapporsi di container.

 

Opera di Deniz Aktas.

 

Opera di Deniz Aktas.

 

Opera di Deniz Aktas.

 

Opera di Elmas Denisz.

 

Opera di Elmas Denisz.

 

Opera di Elmas Denisz.


Senza dubbio, a spiccare tra quelli esposti a Büyükada, è Appearence di Hale Tenger, un’installazione sonora e multimediale mista, che fa propria la tecnica botanica del “girdling”, decorticazione anulare alla base del tronco per bloccare lo sviluppo dell’albero inducendo l’allegagione; una tecnica che, se da una parte aumenta la produzione di frutti, dall’altra, oltre alla violenza praticata sull’albero, può condurre anche alla sua morte. In un giardino di una casa abbandonata, nei pressi di alcuni fusti e ceppi sono stati allocati invisibili amplificatori e, su aste di diverse altezze, dischi di ossidiana variabilmente orientati: i primi, emettono un sussurro che declama una poesia scritta dalla stessa artista sul potere, sull’avidità; i secondi riflettono e aumentano la luce verso gli arbusti, entrambi interventi che aspirano ad accudire e sanare le piante trascurate e maltrattate dall’indifferenza e cupidigia dell’uomo.

 

Opera di Hale Tenger.

 

Opera di Hale Tenger.


Al Pera Museum, infine, è esposto Untitled di Charles Avery, il lavoro che meglio incarna il tema. Attraverso un’installazione immersiva, sviluppata all’interno di un’intera stanza, e costruita con disegni, gouache, acquerelli a inchiostro e matita, e sculture in vetro, Avery dà corpo a uno dei tanti angoli dell’isola immaginaria (nello specifico una sorta di mercato del pesce) che, dal 2005, l’artista inglese sta lentamente costruendo: un mondo parallelo, o un mondo post-apocalisse, in cui tutti i livelli e le coordinate note sono completamente ribaltati e spazzati via. 

 

Opera di Charles Avery.


Opera di Charles Avery.

 

Opera di Charles Avery.


The seventh continent– XVI Biennale di Istanbul, a cura di Nicolas Bourriaud

dal 14 settembre al 10 novembre 2019. Sedi: MSFAU-Istanbul Painting and Sculpture Museum, Meclis-i Caddesi n. 2, Tophane, Beyoğlu; Pera Museum, Meşrutiyet Caddesi n. 65, Tepebaşi, Beyoğlu; Isola di Büyükada.

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L’arte “sublime ed intellettuale” di Canova

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Intesa Sanpaolo ospita alle Gallerie d’Italia due grandi protagonisti della scultura moderna: l’italiano Antonio Canova (1757-1822) e il danese Bertel Thorvaldsen (1770-1844). Per Giovanni Bazoli, Presidente Emerito di Intesa Sanpaolo: «Questa mostra rappresenta un traguardo di grande significato nel percorso di valorizzazione dell’arte e della cultura italiana intrapreso dalle nostre Gallerie d’Italia. Grazie alla collaborazione con l’Ermitage di San Pietroburgo e il Museo Thorvaldsen di Copenaghen, sarà possibile ammirare, in un accostamento e dialogo del tutto inedito, alcuni tra i maggiori capolavori dell’arte di tutti i tempi».

 

“La luce fa quello che vuole. Aprire e chiudere le finestre non serve a nulla. Nemmeno lavorare al buio, le ho provate tutte! Lei t’imbroglia lo stesso”, pare dica Antonio Canova attraverso le superfici dei suoi marmi, che si possono ammirare nell’imponente allestimento della mostra milanese Canova/Thorvaldsen. La nascita della scultura moderna (Gallerie d’Italia – Piazza Scala, fino al 15 marzo) e in quello più intimo e raccolto della mostra Canova. I volti ideali (Galleria d’Arte Moderna di Milano, fino al 15 marzo). 

 

Rudolph Suhrlandt, Antonio Canova, 1811. Copenhagen, Thorvaldsen Museum / Rudolph Suhrlandt, Bertel Thorvaldsen, 1810. Copenhagen, Thorvaldsen Museum.


La mostra allestita a Gallerie d’Italia – Piazza Scala (a cura di Stefano Grandesso e Fernando Mazzocca) propone un confronto fra l’italiano Antonio Canova (1757-1822) e il danese Bertel Thorvaldsen (1770-1844), ricostruendo le vicende artistiche che fra Settecento e Ottocento hanno visto la nascita del moderno in scultura, sollecitata anche dal mercato, che chiedeva un prodotto diverso dalle copie dall’antico. La perdita d’interesse estetico nei confronti delle copie moderne tratte da quelle romane, a loro volta tratte dagli originali greci, procedeva di pari passo con lo sviluppo di una sensibilità romantica, che attribuiva all’atto creativo l’unicità che alle copie mancava.

 

Lo studio di Antonio Canova a Roma in un disegno a penna e inchiostro acquarellato eseguito da Francesco Chiarottini nel 1785 circa. Udine, Civici Musei, Gabinetto Disegni e Stampe del Castello / Lo studio di Bertel Thorvaldsen a Charlottenborg in un dipinto eseguito da Johan Vilhelm Gertner nel 1839. Copenhagen, Thorvaldsen Museum.


Canova e Thorvaldsen non copiavano gli antichi ma, come questi, imitavano la natura idealizzandola. Entrambi evocavano un ideale vivificato dal confronto con la natura, giungendo però ad esiti diversi. Le opere di Canova sono palpitanti e piene di vita. Concepite per essere viste girandovi attorno, potevano anche girare su se stesse per mezzo di piedestalli rotanti, mentre degli specchi, appositamente posizionati nello spazio che le ospitava, permettevano una visione simultanea dei loro diversi lati. Le opere di Thorvaldsen sono invece statiche, frontali e chiuse in modo austero nella loro idealità, anche se in alcune la naturalezza della posa, presa dal vero, rompe questo schematismo. 

 

Veduta della sala principale di Gallerie d’Italia – Piazza Scala con il gruppo marmoreo Le tre Grazie scolpito da Antonio Canova tra il 1812 e il 1817 (San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage), e il gruppo marmoreo Le Grazie con Cupido di Bertel Thorvaldsen scolpito tra il 1820 e il 1823 (Copenhagen, Thorvaldsen Museum).


Nella grande sala centrale di Gallerie d’Italia – Piazza Scala si è voluto dar prova di queste differenze con un confronto, mai tentato prima, fra i due celebri gruppi marmorei: Le tre Grazie di Canova e Le Grazie con Cupido di Thorvaldsen, attraverso i quali i due scultori hanno espresso la propria concezione della “bellezza ideale” teorizzata da Johann Joachim Winckelmann nel Settecento e ancor prima da Giovanni Pietro Bellori, che individuò nella scultura – soprattutto – l'arte dove la natura si unisce all'Idea che alberga nella mente dell'artista (L’ Idea del Pittore, dello scultore e dell’Architetto in Le vite de' pittori, scultori et architetti moderni, Roma, 1672). 

 

Antonio Canova, Venere, 1817-1820. Leeds Art Gallery / Bertel Thorvaldsen, Venere vincitrice, 1805-1809 (Lituania, Nacionalinis Mikalojaus Konstantino Čiurlionio dailės muziejus). Nella comparazione visiva qui proposta è evidente come il comportamento della luce sulle superfici del marmo lavorato da Canova si differenzi da quello sulle superfici del marmo lavorato da Thorvaldsen.


Nell’interpretazione canoviana della “bellezza ideale” dominano le linee di movimento e un trattamento luministico delle superfici. Nell’interpretazione di Thorvaldsen domina invece una semplicità del disegno e un chiaroscuro che porta la scultura verso una visione grafica. Troviamo qui, già ben formata, la concezione della scultura come impressione di superficie, che sarà poi teorizzata da Adolf Hildebrand nel suo trattato Il problema della Forma nell'arte figurativa pubblicato nel 1893 (Aesthetica, Palermo 2001, p. 73). In questa teoria la scultura non è tale se non supera la sua forma “cubica” (tridimensionale) per risolversi in un effetto chiaroscurale di superficie. La differenza fra un bassorilievo e un altorilievo, per Hildebrand, infatti, non è la profondità “fattuale”, considerata irrilevante, ma il contrasto chiaroscurale, più accentuato nell’altorilievo e meno nel bassorilievo. Se le osserviamo attentamente, le opere a tuttotondo di Thorvaldsen ci appariranno infatti come rilievi, nell’esecuzione dei quali peraltro eccelleva. A questa visione grafica e chiaroscurale possiamo supporre sia stato educato dalle riproduzioni a puntasecca e ad acquaforte della scultura antica, che fra Settecento e Ottocento si diffusero in tutta Europa.

 

Bertel Thorvaldsen, Il Giorno, 1821. Brescia, Musei Civici d’Arte e Storia, Pinacoteca Tosio Martinengo, legato Paolo Tosio.


Sia le incisioni che illustrano i libri di Winckelmann, ottenute con contorni o “linee girate”, sia le incisioni dei vedutisti, caratterizzate da un dilagare dell'ombra e della macchia, contribuirono infatti a diffondere un’immagine grafica della scultura antica, formando una cultura visiva, un modo di vedere. A questo riguardo è necessario ricordare quello che Johann Wolfgang von Goethe scrive nel suo diario Viaggio in Italia a proposito delle visite notturne ai musei romani illuminati dalla luce delle fiaccole. Subito dopo aver lodato Heinrich Meyer per le sue riproduzioni a seppia dei busti antichi, nel contesto di alcune osservazioni sulla raccolta di volumi e illustrazioni che hanno il pregio di far “rivivere” il tempo in cui “l’antichità era studiata seriamente”, Goethe descrive i vantaggi propri di questa illuminazione: “permette di rilevare assai meglio tutte le delicate sfumature del lavoro […] rende più nette le ombre [e] fa apparire più chiare le parti illuminate […] Fa meglio individuare le sporgenze e le rientranze e le relazioni reciproche tra le diverse parti” (Viaggio in Italia. Mondadori, Milano 2002, pp. 491, 492). Da questo resoconto del 1787 emerge chiaramente come le illustrazioni nei libri elogiati da Goethe abbiano contribuito al diffondersi di una visione monocromatica, contrastata da quella diametralmente opposta, sostenuta dagli studi di Antoine Chrysostome Quatremère de Quincy – amico di Canova – sulla presenza dei colori nella scultura antica. 

 

È nella direzione della visione policromatica che Canova tenta una via parallela a quella monocromatica, con una sensibilità per la luce che è tipica della tradizione pittorica veneta, di cui si sente erede. Il segreto della sua arte era l’“ultima mano” con la quale calibrava gli effetti luminosi, talvolta anche al lume di candela. Osservando la superficie cangiante della Venere scolpita fra il 1817 e il 1820, mi pare di sentire ancora una volta la voce dell’autore: Le ho provate tutte! Lei [la luce] t’imbroglia lo stesso”. Dopo che i lustratori chiudevano le porosità del marmo con pietra pomice, Canova trattava ulteriormente le superfici per trasformare il marmo in “vera carne”, secondo alcuni giungendo a stendere una leggera velatura di minio sulle labbra e le gote delle statue. Tale ipotesi è smentita da Melchiorre Missirini, suo biografo, che denuncia come menzognere queste supposizioni, aggiungendo che Canova “soleva lavare unicamente le sue sculture con acqua di rota [l’acqua usata per raffreddare i ferri mentre si arrotano sulla mola], la quale scorre affatto sulle parti lucide e si arresta su quelle che sono meno lisce secondo la loro scabrosità” (Vita di Antonio Canova, 1824, in Collana Fonti e Testi di Horti Hesperidum 10, Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, 2016, pp. 117-119)

 

Antonio Canova, Socrate congeda la propria famiglia, 1787-1790. Gallerie d’Italia – Piazza Scala, Milano Collezione Fondazione Cariplo / Michele Fanoli, Opere di Antonio Canova. Soggetti eroici in un’arena, 1842. Milano, Biblioteca Nazionale Braidense.


Canova tentò di raggiungere con la scultura gli effetti della pittura. Tuttavia, sia la serie dei suoi rilievi socratici gettati in gesso e riproducibili come “cartoline” destinate ad amici, ammiratori e collezionisti (gessi che non volle mai tradurre in marmo), sia le riproduzioni in grisaille o monocromo delle sue opere in gesso, inviate ai committenti prima di avviare la loro traduzione in marmo, sia le riproduzioni litografiche delle sue sculture divise per categorie, documentano la persistenza di una visione grafica e chiaroscurale. Nella sua opera l’aspetto monocromatico convive con quello policromatico, così come, nella riproduzione grafica della scultura antica, la linea di contorno convive con la macchia che dilaga nelle stampe di Giovan Battista Piranesi, dove la rappresentazione delle rovine del passato anticipa una sensibilità romantica.

 

È frequente rinvenire elementi classici in opere attribuite al romanticismo e, viceversa, rinvenire elementi romantici in opere considerate classicistiche, ma nel caso di Canova dove rinvenire questi elementi romantici? Nei sentimenti che comunicano le sue figure, alle quali conferisce un’apparenza di vita, così come nei capricci della luce. “Tu non vuoi che lei venga lì e lei viene lo stesso a visitarti, di nascosto”, sembra dire lo scultore attraverso i suoi marmi, sulla superficie dei quali si accanisce ossessivamente cercando di addomesticare la luce, ora con una lustratura che la riflette, ora con una leggera scabrosità che la diffonde con effetti di sfumato. “Inseguire le difficili strade della luce, estrarre le immagini dai blocchi di pietra” è una disciplina conoscitiva “ancor più penetrante di un testo di filosofia”, osserva Ruggero Pierantoni riferendosi all’opera dello scultore antico e moderno, che deve fare i conti con due luci: quella naturale e quella da lui stesso creata e indotta sulla scultura (Monologo sulle stelle. Bollati Boringhieri,Torino 1994, pp. 125, 126). Bene ebbe a dire Missirini in Vita di Antonio Canova a proposito dell’arte “sublime ed intellettuale da esso usata per dar vita alle sue immagini” (p. 119).

 

Antonio Canova, Autoritratto, 1812. collezione privata / Antonio Canova, Busto colossale di Leopoldo Cicognara, 1818-1822. Ferrara, Musei Civici di Arte Antica, Palazzo Bonacossi. Cicognara è stato amico di Canova, con il quale s’impegnò sia nella difesa del patrimonio artistico, sia nel sostenere e incoraggiare i giovani artisti.


A differenza della luce naturale, che può variare in direzione e intensità, quella emessa dalla fiamma di una lanterna o di una candela si può dirigere e controllare. Canova spesso lavorava al lume di candela, come faceva Tintoretto quando studiava i calchi delle opere di Michelangelo. I vantaggi di questa illuminazione li ha descritti molto bene Goethe nei passi citati in precedenza, riferendoli a una visione chiaroscurale della scultura. Qui si capisce come la visione monocromatica e quella policromatica della scultura si compenetrino l’una nell’altra. Lo scultore di Possagno tratta la superficie del marmo di Paolina Borghese per imitare il colore dell’incarnato e, al tempo stesso, “stampa” le sue “cartoline” in bianco e nero: insegue i capricci della luce che scorre sulla pelle di Paolina, mostrata a una folla che accorre ad ammirarla anche di notte al lume delle torce, così come insegue i capricci di quella che chiaroscura i rilievi socratici in gesso. “La luce è la cosa più difficile, snatura ogni cosa. Se le lasci fare s’insinua ovunque. Alla luce ci si abitua poco per volta. All’inizio non si comprende quasi niente, poi piano piano ci si abitua e si intuisce come raggirarla. La devi inseguire come una donna. È possente e insolente. Se non l’aspetti diventa tenace. Bisogna accudirla per farla ragionare, per ammansirla, farla cedere poco a poco… lei poi ti condona”.

 

Canova tenta di “ammansire” una luce capricciosa e irragionevole che pervade la logica delle “parti grandi unite alle medie con poche, piccole e tutte concordate insieme ed ordinate a formare un intero largo e sublime”, vale a dire la logica della proporzione numerica, concepita da Canova come “terna corrispondenza” (Melchior Missirini, Pensieri di Antonio Canova sulle Belle Arti. Abscondita, Milano 2005, pp. 31, 46). Nelle sue sculture, l’unità e la semplicità “congiunte con armonia e combinate dalla proporzione”, dalle quali discende l’idea di classico come armonia delle parti e “pura tranquillità” (Winckelmann, Della bellezza; e ch’egli è impossibile definirla, in Dell’arte del disegno de’ Greci e della bellezza, 1767) si combinano con una sensibilità romantica. 

 

Antonio Canova, Paolina Borghese, 1804-1808. Roma, Galleria Borghese.


Nell’articolo Canova nostro contemporaneo pubblicato nel trimestrale d’arte contemporanea Terzoocchio (n° 65, dicembre 1992), Paola Mola segnala che Paolina Borghese, nota come allegoria di Venere vincitrice, ripropone la tipologia dell’urna etrusca con il defunto sdraiato sul triclinio mentre partecipa al suo banchetto funebre. Secondo la storia dell’arte, Canova risponde alla richiesta di un ritratto con una tipologia funebre perché immerso nel romanticismo del suo tempo, quello dei Sepolcri di Ugo Foscolo, pubblicati un anno prima che Paolina venisse scolpita (1808). 

 

L’altra mostra allestita alla Galleria d’Arte Moderna di Milano (a cura di Omar Cucciniello e Paola Zatti) è dedicata alle “teste ideali” di Canova, ben rappresentate dalla Vestale, che costituisce un modello per la scultura dell’Ottocento e che si spinge fin dentro il Novecento attraverso l’opera di Adolfo Wildt, altro virtuoso dell’arte del marmo. Alla Vestale s’ispira la Vergine scolpita da Wildt nel 1924. In questa scultura il classico si mescola al barocco, al virtuosismo secentesco che trasfigura la pietra in carne con un ossessivo lavoro sulla superficie, come aveva fatto notare Margherita Sarfatti, in una recensione del 1923, riferendosi alla vasta produzione scultorea di Wildt e, in tempi recenti, Paola Mola (catalogo della mostra Adolfo Wildt 1868-1931. Mondadori, Milano 1989). Attraverso la Vergine, esposta nella Sezione 3 della mostra alla GAM, si “vede” il barocco che nell’opera di Canova convive con il neoclassicismo e addirittura con la pittura del Trecento e del Quattrocento, che lo scultore porta nelle sue “teste ideali” attraverso la letteratura. È il caso dell’opera in gesso Beatrice esposta nella Sezione 4. Un incrocio di sguardi che si chiude perfettamente con l’opera Mimesi realizzata dall’artista Giulio Paolini nel 1975, composta da due copie in gesso della testa dell'Hermes di Prassitele, collocate in modo che lo sguardo di una rinvii a quella dell’altra. Uno sguardo rivela l’altro, così come lo sguardo di Wildt alla GAM rivela lo sguardo barocco, oltre che neoclassico e romantico, di Canova. Alla GAM, così come a Gallerie d’Italia – Piazza Scala, tutto è un incrocio di sguardi lanciati da spazi e tempi diversi. 

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Paola Agosti. Elogio della discrezione

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Con la spiazzante saggezza dell’incoscienza, Forrest Gump ripeteva spesso che “la vita è come una scatola di cioccolatini: non sai mai quello che ti capita”. Vero. Lo stesso si potrebbe dire delle evoluzioni artistiche di stili e linguaggi, di scrittori, artisti e fotografi. Ai suoi esordi con la macchina fotografica, Paola Agosti non sapeva cosa le avrebbero riservato i sali d’argento. All’epoca frequentava i teatri d’Italia, come fotografa di scena. Dietro le quinte. Attenta a non disturbare lo spettacolo: a non oscurare l’immagine degli attori. Aveva iniziato al Piccolo di Milano, introdotta da Augusta Conchiglia. 

 

Era la fine degli anni sessanta e Paola Agosti era una giovane ragazza cresciuta a Torino. A casa sua era facile incontrare personalità del mondo politico e della cultura. Il padre Giorgio era stato partigiano e magistrato. Questore di Torino all’indomani della liberazione, poi dirigente d’azienda. La madre, Ninì Castellani Agosti, era la storica traduttrice di Jane Austen in Italia. Tra le più apprezzate, tanto da esserle poi intitolato un prestigioso riconoscimento. Primo Levi era un amico di famiglia. 

Forse è stato proprio nell’ambiente domestico che ha sviluppato il suo sguardo preciso e attento. Capace di cogliere la cronaca dal punto di vista di chi la osserva e di chi la vive, di proiettare chi si ritrova per le mani una sua foto hic et nunc proprio in quella stanza e in quel tempo. Con disinvoltura e senza soggezione, né impazienze.

 

Primo Levi, Canale (Langhe, Piemonte) 1978.


Trovarsi al momento giusto e nel posto giusto. Saper cogliere l’occasione con la dovuta discrezione. Questo è a mio giudizio il fil rouge dell’attività di una donna che oggi festeggia i suoi primi 50 anni con la macchina fotografica. Una carriera caleidoscopica, che come in un’antologia di fiabe e racconti è esposta in mostra a Roma, fino al 7 dicembre alla Galleria s.t. con il titolo: “Cronache e leggende”. Curata da Matteo di Castro, la mostra è una selezione di cinquanta opere. Una per ogni anno di carriera. Ma è solo un’idea. Più propriamente è la raccolta visiva del diario di una ragazza che ancora oggi continua a guardare la scena davanti a sé, muovendo il suo sguardo in più direzioni: le lotte degli operai, delle femministe, degli studenti, ma anche le foto di animali o di oggetti quotidiani. In una scena dominata dallo sguardo e dalla fisicità maschile, la sua fotografia non ha nulla di muscolare, ma un sublime esercizio di discrezione. La sua determinazione appare scandita da un controcanto di compostezza.

 

È nei ritratti che si compie con maggiore evidenza questa sua cifra. Ritratti che non sempre considera tali, ma preferisce chiamare scatti di cronaca. Non ha mai portato nessuno in uno studio di posa, ci tiene a sottolineare. Magari nelle loro case, nei loro studi, a un comizio, o casualmente per strada. La naturalezza del suo approccio è fuori dal comune.

Fu forse senza farsi vedere che Paola Agosti, fermò il viso bianco e tondo di Orson Welles fuori dal Sistina. Siamo a Roma nel 1969. Amalia Rodriguez si esibiva nel teatro romano, racconta, e Orson Welles si era affacciato a vederla durante le prove. Lo vide passare. Sfruttò l’occasione e scattò rapida, fissando per sempre il suo sguardo laterale e assorto. Illuminato per intero come da un riflettore sulla scena, il suo volto spunta da una massa scura, pieno come la luna. 

Da quel giorno in cui ha intercettato il regista di Citizen Kane, Paola Agosti non ha mai smesso di rubare con gli occhi: di cogliere la pausa di artisti, scrittrici, attori, registi e politici. Tra i primi ritratti politici quello di Salvador Allende con il cane (1970). Molti gli scatti fatti a Enrico Berlinguer, quindi quelli a Bruno Trentin. Come la foto che lo ritrae a Torino Mirafiori nel 1973, mentre parla agli operai. Lo scatto ce lo racconta come se fossimo là in mezzo alla folla. Trentin è lontano. Mentre parla con enfasi, con una mano tiene il microfono e con l’altra agita un foglio. Forse sono appunti. Il punto di vista è tra la folla. La figura di Trentin al centro dell’immagine è piccola. In primo piano ci sono le teste dei “compagni” tra cui l’occhio si fa spazio. Lo stesso anno, Paola Agosti è ad Algeri. Alla conferenza dei paesi non allineati sfilano tra gli altri: Yasser Arafat, Muammar Gheddafi, Fidel Castro, Indira Gandhi. 

 

Bruno Trentin, Fiat Mirafiori, Torino, 1973.


Dalla politica all’arte, nel 1971 Andy Warhol è a Roma per una serie di iniziative promosse da Graziella Lonardi Bontempo, mecenate indiscussa della scena artistica romana di quegli anni. Spesso ripreso dal basso, il suo Warhol è freddo come una statua di cera.

Molto diversa da questa è la foto che avrebbe scattato circa un decennio dopo a Buenos Aires a un altro gigante mondiale, questa volta della letteratura. È il 1980 e Paola Agosti è nella capitale argentina. Come ha raccontato di recente in un’intervista rilasciata a Francesca Bolina per le cronache torinesi di Repubblica, cerca Jorge Luis Borges sulla rubrica del telefono. Lo trova. Compone il numero e chiama. Dall’altro lato della cornetta una voce risponde: “Venga. La aspetto tra venti minuti”. Il bibliotecario più famoso d’Argentina, le dedica un intero pomeriggio. Lo fissa con uno scatto dall’alto. Lo scrittore è seduto comodo sulla sua poltrona. Il suo sguardo si gira lateralmente come se cercasse il gatto, senza però muoversi troppo. Inclina appena la testa. Di traverso. Le due figure, il poeta e l’animale, sembrano fluttuare, l’uno alter ego dell’altro. La scena è in penombra. La macchia bianca del gatto che gongola in terra sulla schiena è un colpo di luce. Borges è già cieco, eppure sembra guardarlo con complicità. La composizione è tagliata in due da una linea verticale che corre al centro dell’inquadratura, attraversando il volto, la cravatta, il ginocchio, la gamba e il piede di Borges. Sullo sfondo, oltre la poltrona il buio. La linea della poltrona e del bastone sul lato destro e quella del gatto sul lato sinistro della foto chiudono una piramide magica. La sola illuminata dalla luce. L’immagine sembra ritrarre il confine tra il reale e magico.

 

Jorge Luis Borges. Buenos Aires, 1980


Nel 1984 l’occasione è data dal libro che sta scrivendo Sandra Petrignani: Le signore della scrittura (La Tartaruga). Una serie di interviste a protagoniste della scena letteraria, come Anna Maria Ortese, Maria Bellonci, Elsa Morante, Lalla Romano, e molte altre. A dare corpo a un nuovo filone nel lavoro di Paola Agosti, quello della ritrattistica femminile, si aggiungono figure come Dacia Maraini o Natalia Ginzburg. Antecedente di questo filone era stato lo scatto fortuito rubato con permesso a Venezia nel 1982. Protagonista: la scrittrice Marguerite Yourcenar. Paola Agosti camminava per le calli della laguna. Osserva un’anziana signora mangiare una pizza in un bar. Non riesce a smettere di fissarla fino a quando non riconosce la scrittrice. La avvicina: “Mi scusi, posso fotografarla?” Senza scomporsi troppo la signora accetta. Chiede solo del tempo per tornare in albergo e ricomporsi. Possibilmente senza essere ritratta in strada. La foto è scattata da lontano. Ancora una volta lo sguardo è laterale. Uno scialle copre il capo e la gola di Yourcenar. Immagini di un altro tempo. Sembra quasi una contadina invece che una scrittrice in una delle kermesse più esclusive di sempre. Questo scialle, in contrasto con l’eleganza delle poltrone su cui si siede, la dolcezza del suo sorriso e la sincerità della sua pelle sono la sua bellezza e la sua forza.

 

A metà tra il piano della cronaca e la ritrattistica ci sono due lavori, due album potremmo dire, simili tra loro e distanti al tempo stesso. Sono le due facce dell’Italia del XX secolo. Il primo, alla fine degli anni settanta si chiama Immagini dal mondo dei vinti (Mazzotta 1979). È ispirato alle testimonianze raccolte da Nuto Revelli. Un diario di immagini che raccontano l’Italia immersa nella miseria, quella che fatica ad emergere. Sempre più sradicata dalle sue abitudini e dagli stili di vita. I residui di un’Italia che svuota le sue montagne e le sue campagne per riempire le città. 

 

Orson Welles. Roma, 1969


Poco più di dieci anni dopo, affianca Giovanna Borgese e pubblica Mi pare un secolo (Einaudi, 1992). Il libro nasce sul crinale del secolo e vuole essere un album di storie e ritratti di personaggi illustri. Qui si ritrovano alcuni scatti tra quelli fatti in precedenza e altri fatti proprio per l’occasione. Tra i ritratti un altro celebre regista: Federico Fellini. Ripreso sul suo set, mentre si diverte, scherzando con un cerchio riflettente come se fosse un’aureola. Anche Fellini è ripreso di tre quarti, come se stesse facendo altro che stare in posa.

 

Paola Agosti scatta senza esibirsi, né al suo soggetto, né dentro la foto. Restando sempre dietro le quinte. Perché è da dietro le quinte che si tiene lo spettacolo, che si regge il palcoscenico. È dietro le quinte che si svolge il lavoro senza il quale il pubblico non potrebbe vedere gli attori in scena. 

E chissà se questo modo di guardare lo ha conosciuto a casa da bambina o piuttosto in teatro. Primo Levi era un amico di famiglia. Passava spesso a casa sua a trovare i genitori. Tanto spesso che lo ritrasse molto poco. “Avrò occasione” si ripeteva. Fino a quell’aprile del 1987 quando una telefonata la smentì.

 

50 anni di cronache e leggende– Galleria s.t. Roma. A cura di Matteo di Castro. Fino al 7 dicembre

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Bianco, nero, grigio

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Tre belle mostre a dominante coloristica, o forse proprio non-coloristica, si possono vedere a Milano in questo momento. Ritorno del monocromo?

Una è bianca ed è di Luca Pancrazzi alla galleria Tega. Sono anni che Pancrazzi dipinge quadri esclusivamente con il bianco steso sulla tela grezza. È il bianco che viene dal “bianchino”, quello che si usava per cancellare gli “errori”, tema ricorrente nell’opera dell’artista. Per questo è una sorta di non-colore, il quale, secondo la dialettica messa sempre in atto da Pancrazzi, nel suo uso improprio rivela, cioè fa emergere le figure, mentre cancella, fa vibrare luci e ombre, superficie e profondità, primo piano e sfondo, vicinanza e lontananza. Anche i temi che raffigura sono variazioni di quelli di sempre, andati ora a scovare in giro per Milano: la galleria, magari di alberi o di fili del tram, il passaggio, l’edificio in costruzione, cioè luoghi – o non-luoghi, come anche si è usi dire – che a loro volta mettono in dialettica asimmetrica il dentro e il fuori, la città e la natura, e così via. La mostra è intitolata appunto Bianco Milano, come fosse un tipo di bianco, come bianco zinco o bianco avorio.

 

Questo è Pancrazzi ormai da tempo, come dicevo, il che fa di questa mostra una bella mostra, perché Pancrazzi è un ottimo artista, ma senza elementi di novità, una mostra di consolidamento. Pancrazzi infatti ha colto l’opportunità di esporre in una galleria di quelle economicamente solide, che espongono nomi sicuri spaziando in ogni ambito storico così come stilistico, per essere finalmente riconosciuto a sua volta in tale contesto. Era ora, come lo sarebbe per molti della sua generazione, di venire considerati non più come giovani o ex-giovani, ma per quello che hanno fatto ormai in più di trent’anni e fanno ora. Cosa succede in Italia? Perché non si è guardati con la stessa serietà degli altri artisti? Ci vuole un cambio generazionale perché questo avvenga? Devono morire i vecchi, o certi vecchi? Anche in arte bisogna aspettare la pensione, quando rischia di essere troppo tardi? Bisogna aspettare il mercato? Pancrazzi fa bene a sottoporsi con grande determinazione a questa prova. E si badi bene che non è né per opportunismo né per cinismo, perché si ricordi che pochi artisti come lui da sempre espongono con i giovani, conosciuti o meno, giovani e non, purché siano bravi e facciano le cose in un determinato modo, anzi promuovendo a sua volta opportunità per confronti su progetti significativi, come fa con Made in Filandia a Pieve di Presciano e con Spazio C.O.S.M.O. a Milano.

 

Ebbene, mentre Pancrazzi dipinge solo con il bianco, a duecento metri dalla sua mostra Giovanni Oberti espone alla galleria Milano i suoi oggetti interamente ricoperti di grafite nera. La chiama “seconda pelle”, che appunto duplica la prima sopra di essa, congelando gli oggetti ma al tempo stesso, anche nel suo caso, rivelandoli in modo diverso, trasfigurandoli. In una stanza sono esposti specchi di varie forme e dimensioni, nell’altra stanza si tratta invece di semi e frutti diversi. I due tipi di oggetti naturalmente funzionano per analogie e contrasti: natura e cultura, seme e ripetizione, origine e scomparsa... Ma la seconda pelle non si limita a coprire bensì cambia il funzionamento di ciò che copre. Lo si vede bene negli specchi, che sono esposti un poco discosti dalle pareti per mostrare che ad essere ricoperta dalla grafite è la parte posteriore, mentre quella specchiante resta tale, ma rivolta contro il muro, negazione che al tempo stesso si rivela strumento di alterazione della luce che trapela allora da dietro e si espande intorno alla forma nera opaca come un’aura.

 

E quando si dice “aura” si dice tutta una serie di rimandi che qui risparmiamo ma che aprono un mondo di affascinanti temi e connessioni. La stanza assume un’atmosfera metafisica, stavo per dire “suprematista”, con queste forme nere aurate sulle pareti bianche.

Nell’altra i semi e frutti da parte loro, esposti in bacheche e scatole trasparenti, appaiono come sospesi, a loro volta moltiplicati e riflessi nei giochi del vetro delle pareti delle bacheche, come abitanti altre dimensioni. L’effetto è poetico, lirico.

 

Opera di Giovanni Oberti.


Il nero della grafite è dunque anche qui un non-colore che rovescia il suo significato simbolico più diffuso, è vita invece che morte, anzi è vita “altra”, vita seconda.

Il dato curioso è che anche in questo caso c’è qualcosa a che vedere con la galleria in cui Oberti espone. La galleria Milano infatti, come molti sanno, ha appena perso la sua fondatrice Carla Pellegrini in un momento di grande vitalità in cui l’ottantenne gallerista stava rinnovando il suo parco artisti, cominciando a diventare un nuovo punto di riferimento per le più recenti generazioni. Chi le succede sta proseguendo questo lavoro che speriamo non interrompa. Intendo dire che in questo caso, in senso inverso a quello di Tega, si potrebbe arrivare a immaginare che attraverso un rinnovamento del genere si possa operare un effetto inverso, di sguardo dall’oggi sugli artisti di ieri, sui meno giovani e sugli storici, effetto non solo auspicabile ma indissolubile dall’altro.

 

Ora, la terza mostra è in grigio ed è di un grande e riconosciuto maestro, tanto che era difficile aspettarsi qualcosa di nuovo da lui. Sto parlando di Joseph Kosuth alla galleria Lia Rumma. Anche il grigio è un colore dalle forti connotazioni, peraltro quasi sempre piuttosto negative, ma forse per Kosuth è il colore del “neutro”. Comunque anch’esso in questo senso una sorta di non-colore, è insieme un colore propriamente misto di bianco e nero, che, qui è evidente, fa da sfondo per metterli in rilievo, che sia in forma di scritte o d’altro.

La mostra è sviluppata su tre piani orchestrati in un crescendo. Al piano terra si trovano sparsi sulle tre pareti della stanza degli orologi tondi le cui lancette girano tutte a velocità diverse e sotto i quali sono scritte in grande una serie di citazioni sul tempo, tutte in inglese e al neon, prese da autori disparati indicati solo con le iniziali. Ne riporto qualcuna tradotta: “Mille anni fa cinque minuti equivalevano a mille e rotti grammi di sabbia sottile. Guarda fisso le stelle. Il tempo infinito del passato e l’infinito tempo del futuro: richiudono sopra di te le ali immense, e già è la fine, V.N.”; “Ogni momento è il paradosso di ora o mai più. S.V.B.”; “Ci sono distanze che sono misurate solo con le parole. V.L.”. Il tempo dunque è commentato nei modi più diversi; forse si potrebbe notare che le citazioni sono tutte letterarie e filosofiche, nessuna scientifica o analitica. D’altronde il titolo dell’esposizione è Existential Time, quindi il tempo è posto sul piano esistenziale.

 

Al primo piano si presenta una grande immagine di un serpente che si morde la coda, noto simbolo di una certa idea di tempo, con sotto un’altra citazione. Il resto della stanza è vuoto ma la parete di fronte, che è a vetrata, è ricoperta lasciando una fascia all’altezza degli occhi, chiaro invito a guardare fuori, all’esterno, dove infatti, sui lati della terrazza, sono scritte altre citazioni, tutte da Nietzsche, autore stavolta dichiarato perché il titolo dell’insieme è Nietzsche Enlightened (Essay). “Illuminato” qui rivela il suo duplice significato. Non sveliamo le citazioni e proseguiamo al piano superiore, l’ultimo della visita, dove c’è, direi, la sorpresa maggiore. Il lettore in effetti forse si starà dicendo che, certo, Kosuth è Kosuth ma orologi a velocità diverse e citazioni son cose già viste. A parte che questo lo si pensa forse di più leggendo un resoconto, mentre si tenga presente che ogni installazione ha un suo carattere peculiare, qui il grigio appunto, l’impaginazione, l’accostamento di oggetto e testo, poi la fotografia, e il passaggio da interno a esterno, e altro ancora.

 

Ebbene, nella terza stanza, terzo capitolo dell’insieme, le pareti sono spoglie mentre troviamo un tappeto a terra su cui sono disposti dei mobili, una sedia, un tavolo, uno scrittoio, delle lampade, una cuccia per cane, tutti rigorosamente grigi, di sfumature diverse. Che oggetti sono? Hanno un’etichetta ciascuno appesa che dice di che cosa si tratta. Ogni oggetto si rivela così legato a un autore, da Kierkegaard a Virginia Woolf, a Duchamp, a Darwin, ad altri. L’effetto è spaesante e affascinante, feticista ma intellettuale. Niente citazioni, si dirà? L’idea è appunto questa: non più la frase, la parola, ma l’oggetto come citazione. Non staremo a sottilizzare sulla differenza con il readymade, ma sarebbe proprio il caso, non fosse che per riflettere sull’aspetto “linguistico” dell’“arte dopo la filosofia” di Kosuth, come si ricorderà. E un altro pensiero mi viene: che rapporto c’è tra tempo (esistenziale) e citazione?

Comunque concludo: questa è una mostra importante, una “vera” mostra di un artista già storicizzato ma che si impegna ancora ad ogni occasione espositiva. Sono mostre che fanno ancora pensare che le gallerie non sono solo luoghi di mercato, e che l’arte contemporanea può essere ancora grande, importante, profonda, necessaria.

 

Luca Pancrazzi, Bianco Milano, a cura di Riccardo Venturi, Galleria Tega – Arte Moderna e Contemporanea, dal 29 ottobre al 21 dicembre 2019.

 

Giovanni Oberti, Galleria Milano, via Manin 13 - via Turati 14 - 20121 Milano, dal 28 ottobre al 10 dicembre 2019.

 

Joseph Kosuth, Existential Time, Galleria Lia Rumma, Via Stilicone, 19, 20154 Milano MI, chiude il 23 novembre 2019.

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I cani-uomo di William Wegman

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Sono umani, sono come noi. Il percorso di William Wegman riflette (e anticipa) quanto è avvenuto nella relazione sapiens-cane negli ultimi quarant’anni. I cani hanno fatto ingresso nelle case, hanno abbandonato il ruolo di subalterni e ci sono diventati pari. Li pettiniamo, li vestiamo, li coccoliamo, li accudiamo come i nostri eterni bambini. Possono stare con noi sempre, ogni barriera è caduta. Dormono con noi, intrufolati tra le nostre gambe. Guardo i cani di Wegman. Sono 200 foto in mostra al MASI di Lugano, le vedo per la prima volta, ma mi dicono che per gli americani sono immagini generazionali, comparse un po’ ovunque, dai calendari alle pubblicità.

 

Sono immagini con cui ci sono cresciuti insomma quelli che erano bambini negli anni Settanta. Polaroid, perlopiù, belle, che non si possono non guardare. Perché in quell’immagine c’è qualcosa che è accaduto, qualcosa che noi abbiamo fatto a loro e che loro si sono lasciati fare. I cani sono tra i più affascinanti che si possano immaginare, i grigi elegantissimi Weimaraner con gli occhi d’azzurro perforante. Wegman li ha cominciati a fotografare quando il primo di loro, Man Ray, è entrato in casa sua, sembra contro la sua volontà, era la moglie a desiderare il cane. Ebbene, lo spiega William Ewing, curatore della mostra (e del libro del 2017), da quel momento i Weimaraner diventano la musa di Wegman. Alla musa si attribuisce un’azione nei confronti del poeta, lo aiuta a comporre, a superare il mare in tempesta della creazione. Che fanno in realtà le Muse? Dormono nella testa dei poeti come un’idea tra le idee? O sono le vittime e gli alibi e i falsi doppi degli animi inquieti? 

 

William Wegman, George, 1997.


La musa è inerte o attiva? Detto altrimenti: è Wegman che ha costruito quei cani-umani, being human, esseri diventati umani? O sono loro, seriosamente giocosi, impassibilmente disponibili a farsi fare qualunque cosa, immuni dal senso del ridicolo, ad averlo costretto a giocare allo scambio dei ruoli? La virata verso i cani che diventano noi ce la siamo inventata completamente perché siamo atomizzati, senza figli, egoisti, iperprotettivi, o ce l’hanno suggerita i nostri compagni, i da sempre amici dell’uomo, che mai come in questi decenni hanno saputo interpretare bene i nostri immedicabili vuoti? Ma che scemenza è questa, direbbe il razionalista. Che c’entra la volontà del cane. Il cane è materia nelle mani dell’artista che gli fa fare la parte che Lui, l’artefice ha voluto, così come è nelle mani del “padrone” che lo traveste da damerino, che lo sistema nel passeggino, che gli mette il cappottino, che gli trova pappe deliziose e, immancabilmente, spende parole allo zucchero postando la sua immagine sul social di pertinenza. Eppure guardando Wegman il ragionamento per assurdo che i suoi cani – e poi tutti i cani – abbiano contributo in prima persona (mai come in questo caso la parola è centrata) a costruire qualcosa con noi mi sembra evidente. Saremmo dunque dentro alla svolta. Saremmo (continuo ad usare il condizionale che solo mi può permettere di rimanere qui tra noi, di non smarrirmi definitivamente) appena entrati nella strana Storia del Canuomo (per dirla con il neologismo coniato alcuni anni fa da Asor Rosa)? 

 

William Wegman, Newsworthy, 2004.


I cani di Wegman sembrano poter fare qualunque cosa. Possono essere il malinconico travestimento di “Masquerade”, lo straniante depistaggio di “Hallucinations”, il disinvolto posare di “Vogue”, l’inquietante contro gioco di “Zoo”, il disturbante effetto di “Nudes”. Mescidano nature, giocano con i nostri vestiti e con i nostri sguardi, possono diventare citazione di opere d’arte (Constructivism) e contorsionisti in posa tra gli oggetti o controfigure di personaggi della storia. Nulla sembra loro impossibile. 

Questa straordinaria plasmabilità del cane, questo suo assumere la forma che noi vogliamo, è l’effetto più duraturo delle fotografie dell’artista americano. Osservandole si riesce a tratti a intuire quanto profondo sia diventato l’incontro tra le specie, quanto ogni umanesimo sia anacronistico, quanto sia diventato impossibile cercare di capire qualcosa di noi senza di loro. 

 

William Wegman, On base, 2007.


Sosto davanti a “Casual”, foto del 2002 che è stata scelta come locandina della mostra. La testa del Weimaraner è leggermente inclinata verso la sua destra, lo sguardo esprime un’attenzione disinvolta, amichevole. Uno stare al mondo senza troppi pensieri. La stessa idea che arriva dalle braccia che corrono lungo il corpo per infilarsi in tasca. Sono braccia vuote, che simulano gli arti umani. Ma, pur non essendoci, si leggono come segnali di abbassamento della guardia, di resa soddisfatta al ritmo diverso di una giornata non lavorativa. Collana rossa e calzoni dello stesso colore si abbinano alla maglia e suggeriscono sensazioni di pomeridiana stravaganza, eleganti soluzioni estemporanee di un gentiluomo di campagna. 

Provo a pensare a una testa umana al posto di quella del cane. Non riesco a farcela stare, per nulla. È come se per quel corpo l’unica possibilità fosse avere quel muso marrone da malinconico bracco. E mi sembra che questo sia il definitivo congedo dalla pretesa superiorità della nostra specie. Su quel corpo ci può stare solo un cane. Il Canuomo, appunto.

 

William Wegman, Being human, Masi, Luhano, fino al 6 gennaio 2020

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L'occhio della macchina

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Da domenica 9 giugno, Hong Kong è diventata teatro di scontri tra le forze governative e gli attivisti pro-democrazia che protestano contro un disegno di legge che faciliterebbe l'estradizione in Cina di cittadini accusati di reati gravi. La popolazione, preoccupata per le conseguenze che la legge avrebbe sul delicato equilibrio politico del paese, ha cominciato a manifestare pacificamente, in un crescendo di tensione e di scontri sempre più duri. Durante le manifestazioni, gli attivisti hanno invitato i partecipanti a utilizzare mascherine per coprirsi il volto e occhiali per rendersi irriconoscibili dalle forze di polizia e hanno chiesto ai reporter di non scattare immagini che potessero aiutare a identificare chi protesta. Le immagini dei civili che fronteggiano i poliziotti a colpi di puntatori laser, cercando di “accecare” i sistemi di riconoscimento facciale e di impedire agli agenti di mirare, hanno fatto il giro del mondo, segnando un cambio di passo nella pratica dei conflitti sociali.

 

Hong Kong, Photograph: Kevin On Man Lee/Penta Press/REX/Shutterstock.


L'“ansia da riconoscimento” dei manifestanti di Hong Kong trova una giustificazione nell'atteggiamento autoritario del governo cinese, fautore di una politica securitaria restrittiva, da cui discendono soprusi denunciati sistematicamente dalle associazioni di tutela dei diritti umani. La risposta più recente del governo cinese agli scontri in corso è l'atto legislativo che vieta l'utilizzo di maschere e durante le manifestazioni. Un provvedimento che gli attivisti hanno sfidato apertamente, continuando a scendere in strada a viso coperto.

Non è un caso che questo conflitto a bassa intensità si verifichi in un teatro come quello di Hong Kong, metropoli orientale che rientra in quegli scenari geo-politici ed economici che rappresentano dei veri e proprio laboratori del “capitalismo della sorveglianza”, definizione che circola da tempo e che trova una disamina puntuale in The Age of Surveillance Capitalism (2019), libro di Shoshanna Zuboff, appena uscito anche in Italia.

 

 

Per capire meglio come si articola questo regime scopico, si può visitare la mostra Training Humans di Kate Crawford e Trevor Paglen, aperta presso l'Osservatorio Prada di Milano. Si tratta della prima esposizione interamente dedicata ai set fotografici utilizzati per istruire le macchine, principalmente con scopi di riconoscimento facciale e per sviluppare modelli predittivi. 

Sospeso all'ingresso, un ciclopico occhio umano (SDUMLA, Yilong  Yin, Lili Liu, Xiwei Sun, 2011) accoglie lo spettatore che si accinge a entrare in un labirinto di immagini solo all'apparenza neutrali. Sul retro dell'opera è riprodotta un'impronta digitale presa da un set di dati multimodali sviluppati dall'Università di Shandong: occhi e impronta, due immagini icastiche che rappresentano con forza simbolica il tema della sorveglianza. 

Nessuna fotografia d'arte è presente in mostra: l'esposizione raccoglie alcune collezioni di immagini basate su soggetti umani e utilizzate per allenare i sistemi di AI. Al piano d'ingresso dell'Osservatorio si trovano alcune tra le prime raccolte prodotte in ambito militare e scientifico, mentre al piano superiore sono esposti alcuni set prodotti durante l'era di Internet. Immagini raccolte e catalogate principalmente senza il consenso degli autori delle foto o di chi vi è ritratto, “rubate” per essere date in pasto agli algoritmi.

 

Addentrandosi nel percorso della mostra, si affronta un viaggio cronologico nella storia della computer vision attraverso i progetti che ne hanno permesso la nascita e lo sviluppo. Un tema tutt'altro che marginale, se si comprende il ruolo che questi dispositivi svolgono nel panorama politico ed economico odierno. 

Tra la semplice raccolta di dati biometrici finalizzata allo sviluppo di un metodo di riconoscimento facciale della prima installazione, basata sugli studi finanziati dalla CIA (A facial recognition project report,Woodrow Wilson Bledsoe, 1963), e i modelli prodotti dai ricercatori di Facebook e Amazon pensati per stimare sesso, età e stato emotivo dei soggetti rilevati, che chiudono la mostra, è racchiusa una rivoluzione epocale la cui portata rimane forse ancora in parte oscura. Se consideriamo i due grandi momenti evolutivi nella storia umana quali l'invenzione dell'agricoltura durante il Neolitico e la rivoluzione industriale in epoca moderna, il terzo passaggio può essere individuato a pieno titolo nella rivoluzione informatica. È un passaggio che segna un cesura radicale con il mondo analogico, dalle molteplici implicazioni, e che rende possibile ipotizzare un passaggio di specie, da Homo Sapiens a qualcosa che ancora non ha nome ma che lo storico Yuval Noah Harari ha battezzato provocatoriamente Homo Deus.

 

 

La mostra di Crawford e Paglen prende in esame un aspetto specifico di questa rivoluzione e si concentra su ciò che accade alla cultura visiva attraverso l'osservazione dello sviluppo e la diffusione della computer vision. Per la prima volta nella storia dell'umanità, gli esseri umani sono diventati oggetto di uno sguardo radicalmente altro, impegnato nella ricerca della materia di maggior valore sul mercato: i dati. Per il momento, tale sguardo è ancora supervisionato dal controllo umano, ma è lecito chiedersi fino a quando ciò accadrà e cosa comporterà l'eventuale emancipazione delle AI, alla luce dei processi istruiti affinché siano sempre più efficienti e degli elementi critici che emergono osservando proprio le immagini e i dispositivi che sono coinvolti in tali processi.

Le abitudini, i comportamenti e tutto il patrimonio di informazioni che compone il quadro delle  vite delle persone rappresentano il “materiale raw” da cui le macchine possono estrarre ed elaborare le informazioni necessarie alla creazione di algoritmi sempre più raffinati. Per questo  “esistono set di training per qualunque biodato”, come raccontano gli autori della mostra. Nell'ambito di questa rivoluzione in atto, “la computer vision rappresenta una tipologia specifica di intervento sulla cultura visuale”che porta con sé dei segni essenziali alla comprensione del presente.

 

Nel frattempo, i problemi che ci impone questo nuovo regime visivo si fanno sempre più concreti. Nella serie Multiple Encounter Dataset – II (Meds – II) del 2011, una serie di fotografie segnaletiche di persone decedute che hanno commesso reati reiterati nel tempo colpisce per la crudezza della ritrattistica. Non c'è alcun filtro artistico né pietà nelle foto ma solo il lavorio del tempo, che incide il dolore nella fisionomia dei volti fotografati, e l'evidenza di tragiche storie umane dimenticate negli archivi delle forze dell'ordine, a cui si aggiunge la consapevolezza che quelle foto contribuiscono a costruire un gigantesco database dell'umanità stessa, scandagliata e organizzata in una operazione tassonomica su vasta scala. Immagini per le quali nessuno dei soggetti ritratti ha dato il consenso all'utilizzo e che sono state scattate prima delle condanne, consegnate dall'FBI al  National Institute of Standards, che ne ha disposto liberamente.

 

Da questi cataloghi umani quello che viene estratto è spesso un volto destinato a combaciare con un'altro volto ripreso magari da un circuito di sorveglianza, un'immagine di difficile lettura o di bassa qualità, utilizzata per individuare il responsabile di un reato. Un'idea seducente, sulla carta, ma che si è dimostrata fallace. I set di training rispecchiano infatti i pregiudizi di chi li compone, e gli errori umani vengono amplificati dalle macchine, come racconta Angelique Carson su TechCrunch, che definisce il riconoscimento facciale uno “strumento di razzismo istituzionale”. I casi di procedure di riconoscimento effettuate dalla polizia statunitense in modo arbitrario, senza scientificità, sono documentati, così come è documentato il margine di errore dei sistemi di riconoscimento, che aumenta esponenzialmente nel caso di individui di colore o appartenenti a minoranze.

 

 

Dietro uno sterminato paesaggio di server che raccolgono quantità inimmaginabili di dati, si profila l'ombra dei Tech Giants, i grandi player che detengono le informazioni e che sono ormai titolati a trattare con i governi da pari. Da questa inedita concentrazione di potere nelle mani di pochi soggetti privati, trasformati in entità parastatali, discende quell'“asimmetria del potere” che interessa chiunque oggi abbia a che fare con le tecnologie digitali. La gestione opaca dei dati, spesso ceduti a terze parti senza che l'utente ne sia a conoscenza o possa esprimere una reale volontà di controllo, alimenta un sistema che ha generato lo scandalo di Cambridge Analytica e ha portato alla luce le ingerenze nelle elezioni presidenziali statunitensi e nel processo della Brexit, rivelando il potenziale destabilizzante insito nella strumentalizzazione dei dati personali. È ormai evidente come il problema della privacy sia  stato scavalcato da un problema di autonomia degli individui e di autodeterminazione, che riguarda tutti ma colpisce in maniera esponenziale chi è più fragile per via del proprio status sociale o perché appartenente a una delle tante minoranze. Essere costantemente sottoposti allo sguardo delle macchine sta cambiando il nostro modo di vivere, trasformandoci in sorvegliati perenni. La capilarizzazione del Panoticon di Bentham si è compiuta con il nostro benestare e gli spazi in cui possiamo agire senza essere identificati sono sempre più ristretti. Siamo diventati una piattaforma estrattiva senza rendercene conto, cedendo alla sirene della seduzione dell'esposizione socialmediatica e alla paranoia della sicurezza.

Il lavoro di Trevor e Paglen indica che è giunto il momento di interrogarsi sul carattere situato delle immagini utilizzate dall'AI, proprio perché all'apparenza esse si mostrano come neutre e “trasparenti”. La cultura che le ha prodotte, la nostra stessa cultura popolare, sembra averne perso il controllo e i soggetti delle immagini si ritrovano in una condizione di passività, incapaci di esercitare il diritto alla privacy.

 


The Japanese Female Facial Expression (Jaffe) Database è il nome di un controverso progetto basato sulle teorie di Paul Elkman, psicologo pioniere degli studi sul riconoscimento facciale che negli anni '70 individuava sei emozioni universali chiave che è possibile rilevare sul volto di una persona (paura, disgusto, rabbia, sorpresa, felicità tristezza). Malgrado le teorie di Elkman siano state ampiamente confutate, sono state comunque applicate da numerosi ingegneri impegnati nei progetti di machine learning. I due set presenti in mostra illustrano con chiarezza come l'attribuzione di sentimenti sul volto di alcune donne giapponesi sia del tutto opinabile, così come è evidente che ogni soggetto può aver simulato un'espressione senza averne provato i sentimenti reali. Il riconoscimento dei sentimenti, una sorta di evoluzione del riconoscimento facciale, comporta l'educare una macchina a riconoscere un codice espressivo che può non essere vero: al momento, la possibilità di commettere errori da parte del sistema AI è così alto da rendere quantomeno critico ogni utilizzo di queste tecnologie. Almeno fino a che sistemi di rilevazione dei dati biometrici non diventeranno così raffinati da poter raccogliere in un'istante valori incontrovertibili quali battito cardiaco, pressione sanguigna, dilatazione delle pupille, sudorazione e così via. 

 

Il compendio di volti che si susseguono nelle serie di UTK Face (Zhifei Zhang, Yang Song, Hairong Qi, 2017), 20.000 foto usate per classificare gli individui in base a razza, sesso ed età, evoca l'idea dell'uomo – cavia e la vertigine compilatoria tipica degli esperimenti di ingegneria sociale. Ancora più inquietante Image – Net (Li Fei – Fei, Kai Li, 2009), un progetto monumentale pensato allo scopo di mappare l'intero universo di oggetti e che include oltre 14 milioni di immagini suddivise in più di 21.000 categorie; in mostra sono presenti quasi un milione di fotografie suddivise in 2000 categorie che, alla lettura, sollevano molteplici interrogativi sulle attribuzioni di significato e sulle possibili derive interpretative di ogni immagine. Tra le categorie sono visibili alcune apertamente offensive, razziste o violente, abbinate a foto di persone ignare che hanno caricato i propri contenuti su piattaforme come Flickr e che sono all'oscuro di essere diventati un modello per una tipologia come “depresso”, “fallito”, “imbroglione”, “tossico” e così via. Inoltre, le classificazioni sono chiaramente frutto di una visione culturale, non di un processo scientifico, nel quale il confine labile tra osservazione e giudizio svanisce. Un punto evidenziato dall'opera Image – Net Roulette, creata dal Trevor Paglen Studio, che attraverso una rete neurale addestrata al riconoscimento di fotografie di persone dalle categorie del set di Image – Net, getta una luce sull'aspetto politico sotteso all'operazione di classificazione di soggetti umani da parte dei sistemi di AI. 

 

La mostra si chiude con Age, Gender, and Emotion in the Wild (modelli di Gil Levi e Tal Hassner), un apparecchio realizzato dal Trevor Paglen Studio che propone un algoritmo di riconoscimento facciale sviluppato da Facebook e Amazon. Mentre mi sottopongo alla rilevazione della macchina, che analizza il mio volto e le espressioni, appaiono sullo schermo dei dati che mi riguardano: età approssimativa 25 – 32, femmina, emozione: paura. L'algoritmo deve avere una pessima vista, se è riuscito a individuare correttamente solo il mio sesso. O forse ci vede così bene da aver colto nelle micro espressioni del mio viso un'emozione nascosta di cui neanche io sono pienamente consapevole. 

Mi torna in mente il romanzo di Jaques Spitz L'occhio del purgatorio, in cui un pittore cinico e depresso acquista casualmente, grazie a una pillola, una vista che gli permette di osservare il futuro, un futuro che si rivela in realtà un angosciante “presente invecchiato”. Se il protagonista del libro di Spitz acquisce il poco invidiabile dono di vedere oltre la durata delle cose, il tempo a cui abbiamo assoggettato la nostra visione, quello di Internet, è un tempo per certi versi non meno sinistro, il tempo dell'infinito presente, dove tutto continua perennemente ad accadere e non conosce l'oblio. Le macchine che stiamo educando sembrano al momento essere il megafono di una visione umana distorta, inchiodata in un clamoroso fraintendimento. Un presente stravolto, perché non in progressione, come vorrebbe l'etimologia stessa della parola.

 

Come una GIF che si ripete all'infinito, l'occhio dell'AI fa proprio il nostro sguardo e lo disumanizza, riproponendone gli errori  e le “sviste” su una scala incommensurabilmente ampia. Si sta completando il passaggio alla società panottica, dove siamo visti senza poter vedere, costantemente osservati senza avere coscienza dello sguardo sorvegliante. Proprio come auspicava Bentham, nelle parole di Foucault in Sorvegliare e punire, “Lo schema panoptico, senza attenuarsi né perdere alcuna delle sue proprietà, è destinato a diffondersi nel corpo sociale; la sua vocazione è divenirvi funzione generalizzata.”. Il passaggio dalla semplice condivisione di contenuti personali, trasformata nella spettacolarizzazione del privato, al restringimento degli spazi personali e alla compressione dell'esercizio dei diritti, è stato più rapido di quanto si potesse immaginare. Aprire la scatola nera tecnologica e comprenderne i meccanismi è la strada per riprendere il controllo dello sguardo e non cedere passivamente al voyeurismo tecnologico che ci costringe ad essere oggetti.

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L’arte “sublime ed intellettuale” di Canova

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Intesa Sanpaolo ospita alle Gallerie d’Italia due grandi protagonisti della scultura moderna: l’italiano Antonio Canova (1757-1822) e il danese Bertel Thorvaldsen (1770-1844). Per Giovanni Bazoli, Presidente Emerito di Intesa Sanpaolo: «Questa mostra rappresenta un traguardo di grande significato nel percorso di valorizzazione dell’arte e della cultura italiana intrapreso dalle nostre Gallerie d’Italia. Grazie alla collaborazione con l’Ermitage di San Pietroburgo e il Museo Thorvaldsen di Copenaghen, sarà possibile ammirare, in un accostamento e dialogo del tutto inedito, alcuni tra i maggiori capolavori dell’arte di tutti i tempi».

 

“La luce fa quello che vuole. Aprire e chiudere le finestre non serve a nulla. Nemmeno lavorare al buio, le ho provate tutte! Lei t’imbroglia lo stesso”, pare dica Antonio Canova attraverso le superfici dei suoi marmi, che si possono ammirare nell’imponente allestimento della mostra milanese Canova/Thorvaldsen. La nascita della scultura moderna (Gallerie d’Italia – Piazza Scala, fino al 15 marzo) e in quello più intimo e raccolto della mostra Canova. I volti ideali (Galleria d’Arte Moderna di Milano, fino al 15 marzo). 

 

Rudolph Suhrlandt, Antonio Canova, 1811. Copenhagen, Thorvaldsen Museum / Rudolph Suhrlandt, Bertel Thorvaldsen, 1810. Copenhagen, Thorvaldsen Museum.


La mostra allestita a Gallerie d’Italia – Piazza Scala (a cura di Stefano Grandesso e Fernando Mazzocca) propone un confronto fra l’italiano Antonio Canova (1757-1822) e il danese Bertel Thorvaldsen (1770-1844), ricostruendo le vicende artistiche che fra Settecento e Ottocento hanno visto la nascita del moderno in scultura, sollecitata anche dal mercato, che chiedeva un prodotto diverso dalle copie dall’antico. La perdita d’interesse estetico nei confronti delle copie moderne tratte da quelle romane, a loro volta tratte dagli originali greci, procedeva di pari passo con lo sviluppo di una sensibilità romantica, che attribuiva all’atto creativo l’unicità che alle copie mancava.

 

Lo studio di Antonio Canova a Roma in un disegno a penna e inchiostro acquarellato eseguito da Francesco Chiarottini nel 1785 circa. Udine, Civici Musei, Gabinetto Disegni e Stampe del Castello / Lo studio di Bertel Thorvaldsen a Charlottenborg in un dipinto eseguito da Johan Vilhelm Gertner nel 1839. Copenhagen, Thorvaldsen Museum.


Canova e Thorvaldsen non copiavano gli antichi ma, come questi, imitavano la natura idealizzandola. Entrambi evocavano un ideale vivificato dal confronto con la natura, giungendo però ad esiti diversi. Le opere di Canova sono palpitanti e piene di vita. Concepite per essere viste girandovi attorno, potevano anche girare su se stesse per mezzo di piedestalli rotanti, mentre degli specchi, appositamente posizionati nello spazio che le ospitava, permettevano una visione simultanea dei loro diversi lati. Le opere di Thorvaldsen sono invece statiche, frontali e chiuse in modo austero nella loro idealità, anche se in alcune la naturalezza della posa, presa dal vero, rompe questo schematismo. 

 

Veduta della sala principale di Gallerie d’Italia – Piazza Scala con il gruppo marmoreo Le tre Grazie scolpito da Antonio Canova tra il 1812 e il 1817 (San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage), e il gruppo marmoreo Le Grazie con Cupido di Bertel Thorvaldsen scolpito tra il 1820 e il 1823 (Copenhagen, Thorvaldsen Museum).


Nella grande sala centrale di Gallerie d’Italia – Piazza Scala si è voluto dar prova di queste differenze con un confronto, mai tentato prima, fra i due celebri gruppi marmorei: Le tre Grazie di Canova e Le Grazie con Cupido di Thorvaldsen, attraverso i quali i due scultori hanno espresso la propria concezione della “bellezza ideale” teorizzata da Johann Joachim Winckelmann nel Settecento e ancor prima da Giovanni Pietro Bellori, che individuò nella scultura – soprattutto – l'arte dove la natura si unisce all'Idea che alberga nella mente dell'artista (L’ Idea del Pittore, dello scultore e dell’Architetto in Le vite de' pittori, scultori et architetti moderni, Roma, 1672). 

 

Antonio Canova, Venere, 1817-1820. Leeds Art Gallery / Bertel Thorvaldsen, Venere vincitrice, 1805-1809 (Lituania, Nacionalinis Mikalojaus Konstantino Čiurlionio dailės muziejus). Nella comparazione visiva qui proposta è evidente come il comportamento della luce sulle superfici del marmo lavorato da Canova si differenzi da quello sulle superfici del marmo lavorato da Thorvaldsen.


Nell’interpretazione canoviana della “bellezza ideale” dominano le linee di movimento e un trattamento luministico delle superfici. Nell’interpretazione di Thorvaldsen domina invece una semplicità del disegno e un chiaroscuro che porta la scultura verso una visione grafica. Troviamo qui, già ben formata, la concezione della scultura come impressione di superficie, che sarà poi teorizzata da Adolf Hildebrand nel suo trattato Il problema della Forma nell'arte figurativa pubblicato nel 1893 (Aesthetica, Palermo 2001, p. 73). In questa teoria la scultura non è tale se non supera la sua forma “cubica” (tridimensionale) per risolversi in un effetto chiaroscurale di superficie. La differenza fra un bassorilievo e un altorilievo, per Hildebrand, infatti, non è la profondità “fattuale”, considerata irrilevante, ma il contrasto chiaroscurale, più accentuato nell’altorilievo e meno nel bassorilievo. Se le osserviamo attentamente, le opere a tuttotondo di Thorvaldsen ci appariranno infatti come rilievi, nell’esecuzione dei quali peraltro eccelleva. A questa visione grafica e chiaroscurale possiamo supporre sia stato educato dalle riproduzioni a puntasecca e ad acquaforte della scultura antica, che fra Settecento e Ottocento si diffusero in tutta Europa.

 

Bertel Thorvaldsen, Il Giorno, 1821. Brescia, Musei Civici d’Arte e Storia, Pinacoteca Tosio Martinengo, legato Paolo Tosio.


Sia le incisioni che illustrano i libri di Winckelmann, ottenute con contorni o “linee girate”, sia le incisioni dei vedutisti, caratterizzate da un dilagare dell'ombra e della macchia, contribuirono infatti a diffondere un’immagine grafica della scultura antica, formando una cultura visiva, un modo di vedere. A questo riguardo è necessario ricordare quello che Johann Wolfgang von Goethe scrive nel suo diario Viaggio in Italia a proposito delle visite notturne ai musei romani illuminati dalla luce delle fiaccole. Subito dopo aver lodato Heinrich Meyer per le sue riproduzioni a seppia dei busti antichi, nel contesto di alcune osservazioni sulla raccolta di volumi e illustrazioni che hanno il pregio di far “rivivere” il tempo in cui “l’antichità era studiata seriamente”, Goethe descrive i vantaggi propri di questa illuminazione: “permette di rilevare assai meglio tutte le delicate sfumature del lavoro […] rende più nette le ombre [e] fa apparire più chiare le parti illuminate […] Fa meglio individuare le sporgenze e le rientranze e le relazioni reciproche tra le diverse parti” (Viaggio in Italia. Mondadori, Milano 2002, pp. 491, 492). Da questo resoconto del 1787 emerge chiaramente come le illustrazioni nei libri elogiati da Goethe abbiano contribuito al diffondersi di una visione monocromatica, contrastata da quella diametralmente opposta, sostenuta dagli studi di Antoine Chrysostome Quatremère de Quincy – amico di Canova – sulla presenza dei colori nella scultura antica. 

 

È nella direzione della visione policromatica che Canova tenta una via parallela a quella monocromatica, con una sensibilità per la luce che è tipica della tradizione pittorica veneta, di cui si sente erede. Il segreto della sua arte era l’“ultima mano” con la quale calibrava gli effetti luminosi, talvolta anche al lume di candela. Osservando la superficie cangiante della Venere scolpita fra il 1817 e il 1820, mi pare di sentire ancora una volta la voce dell’autore: Le ho provate tutte! Lei [la luce] t’imbroglia lo stesso”. Dopo che i lustratori chiudevano le porosità del marmo con pietra pomice, Canova trattava ulteriormente le superfici per trasformare il marmo in “vera carne”, secondo alcuni giungendo a stendere una leggera velatura di minio sulle labbra e le gote delle statue. Tale ipotesi è smentita da Melchiorre Missirini, suo biografo, che denuncia come menzognere queste supposizioni, aggiungendo che Canova “soleva lavare unicamente le sue sculture con acqua di rota [l’acqua usata per raffreddare i ferri mentre si arrotano sulla mola], la quale scorre affatto sulle parti lucide e si arresta su quelle che sono meno lisce secondo la loro scabrosità” (Vita di Antonio Canova, 1824, in Collana Fonti e Testi di Horti Hesperidum 10, Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, 2016, pp. 117-119)

 

Antonio Canova, Socrate congeda la propria famiglia, 1787-1790. Gallerie d’Italia – Piazza Scala, Milano Collezione Fondazione Cariplo / Michele Fanoli, Opere di Antonio Canova. Soggetti eroici in un’arena, 1842. Milano, Biblioteca Nazionale Braidense.


Canova tentò di raggiungere con la scultura gli effetti della pittura. Tuttavia, sia la serie dei suoi rilievi socratici gettati in gesso e riproducibili come “cartoline” destinate ad amici, ammiratori e collezionisti (gessi che non volle mai tradurre in marmo), sia le riproduzioni in grisaille o monocromo delle sue opere in gesso, inviate ai committenti prima di avviare la loro traduzione in marmo, sia le riproduzioni litografiche delle sue sculture divise per categorie, documentano la persistenza di una visione grafica e chiaroscurale. Nella sua opera l’aspetto monocromatico convive con quello policromatico, così come, nella riproduzione grafica della scultura antica, la linea di contorno convive con la macchia che dilaga nelle stampe di Giovan Battista Piranesi, dove la rappresentazione delle rovine del passato anticipa una sensibilità romantica.

 

È frequente rinvenire elementi classici in opere attribuite al romanticismo e, viceversa, rinvenire elementi romantici in opere considerate classicistiche, ma nel caso di Canova dove rinvenire questi elementi romantici? Nei sentimenti che comunicano le sue figure, alle quali conferisce un’apparenza di vita, così come nei capricci della luce. “Tu non vuoi che lei venga lì e lei viene lo stesso a visitarti, di nascosto”, sembra dire lo scultore attraverso i suoi marmi, sulla superficie dei quali si accanisce ossessivamente cercando di addomesticare la luce, ora con una lustratura che la riflette, ora con una leggera scabrosità che la diffonde con effetti di sfumato. “Inseguire le difficili strade della luce, estrarre le immagini dai blocchi di pietra” è una disciplina conoscitiva “ancor più penetrante di un testo di filosofia”, osserva Ruggero Pierantoni riferendosi all’opera dello scultore antico e moderno, che deve fare i conti con due luci: quella naturale e quella da lui stesso creata e indotta sulla scultura (Monologo sulle stelle. Bollati Boringhieri,Torino 1994, pp. 125, 126). Bene ebbe a dire Missirini in Vita di Antonio Canova a proposito dell’arte “sublime ed intellettuale da esso usata per dar vita alle sue immagini” (p. 119).

 

Antonio Canova, Autoritratto, 1812. collezione privata / Antonio Canova, Busto colossale di Leopoldo Cicognara, 1818-1822. Ferrara, Musei Civici di Arte Antica, Palazzo Bonacossi. Cicognara è stato amico di Canova, con il quale s’impegnò sia nella difesa del patrimonio artistico, sia nel sostenere e incoraggiare i giovani artisti.


A differenza della luce naturale, che può variare in direzione e intensità, quella emessa dalla fiamma di una lanterna o di una candela si può dirigere e controllare. Canova spesso lavorava al lume di candela, come faceva Tintoretto quando studiava i calchi delle opere di Michelangelo. I vantaggi di questa illuminazione li ha descritti molto bene Goethe nei passi citati in precedenza, riferendoli a una visione chiaroscurale della scultura. Qui si capisce come la visione monocromatica e quella policromatica della scultura si compenetrino l’una nell’altra. Lo scultore di Possagno tratta la superficie del marmo di Paolina Borghese per imitare il colore dell’incarnato e, al tempo stesso, “stampa” le sue “cartoline” in bianco e nero: insegue i capricci della luce che scorre sulla pelle di Paolina, mostrata a una folla che accorre ad ammirarla anche di notte al lume delle torce, così come insegue i capricci di quella che chiaroscura i rilievi socratici in gesso. “La luce è la cosa più difficile, snatura ogni cosa. Se le lasci fare s’insinua ovunque. Alla luce ci si abitua poco per volta. All’inizio non si comprende quasi niente, poi piano piano ci si abitua e si intuisce come raggirarla. La devi inseguire come una donna. È possente e insolente. Se non l’aspetti diventa tenace. Bisogna accudirla per farla ragionare, per ammansirla, farla cedere poco a poco… lei poi ti condona”.

 

Canova tenta di “ammansire” una luce capricciosa e irragionevole che pervade la logica delle “parti grandi unite alle medie con poche, piccole e tutte concordate insieme ed ordinate a formare un intero largo e sublime”, vale a dire la logica della proporzione numerica, concepita da Canova come “terna corrispondenza” (Melchior Missirini, Pensieri di Antonio Canova sulle Belle Arti. Abscondita, Milano 2005, pp. 31, 46). Nelle sue sculture, l’unità e la semplicità “congiunte con armonia e combinate dalla proporzione”, dalle quali discende l’idea di classico come armonia delle parti e “pura tranquillità” (Winckelmann, Della bellezza; e ch’egli è impossibile definirla, in Dell’arte del disegno de’ Greci e della bellezza, 1767) si combinano con una sensibilità romantica. 

 

Antonio Canova, Paolina Borghese, 1804-1808. Roma, Galleria Borghese.


Nell’articolo Canova nostro contemporaneo pubblicato nel trimestrale d’arte contemporanea Terzoocchio (n° 65, dicembre 1992), Paola Mola segnala che Paolina Borghese, nota come allegoria di Venere vincitrice, ripropone la tipologia dell’urna etrusca con il defunto sdraiato sul triclinio mentre partecipa al suo banchetto funebre. Secondo la storia dell’arte, Canova risponde alla richiesta di un ritratto con una tipologia funebre perché immerso nel romanticismo del suo tempo, quello dei Sepolcri di Ugo Foscolo, pubblicati un anno prima che Paolina venisse scolpita (1808). 

 

L’altra mostra allestita alla Galleria d’Arte Moderna di Milano (a cura di Omar Cucciniello e Paola Zatti) è dedicata alle “teste ideali” di Canova, ben rappresentate dalla Vestale, che costituisce un modello per la scultura dell’Ottocento e che si spinge fin dentro il Novecento attraverso l’opera di Adolfo Wildt, altro virtuoso dell’arte del marmo. Alla Vestale s’ispira la Vergine scolpita da Wildt nel 1924. In questa scultura il classico si mescola al barocco, al virtuosismo secentesco che trasfigura la pietra in carne con un ossessivo lavoro sulla superficie, come aveva fatto notare Margherita Sarfatti, in una recensione del 1923, riferendosi alla vasta produzione scultorea di Wildt e, in tempi recenti, Paola Mola (catalogo della mostra Adolfo Wildt 1868-1931. Mondadori, Milano 1989). Attraverso la Vergine, esposta nella Sezione 3 della mostra alla GAM, si “vede” il barocco che nell’opera di Canova convive con il neoclassicismo e addirittura con la pittura del Trecento e del Quattrocento, che lo scultore porta nelle sue “teste ideali” attraverso la letteratura. È il caso dell’opera in gesso Beatrice esposta nella Sezione 4. Un incrocio di sguardi che si chiude perfettamente con l’opera Mimesi realizzata dall’artista Giulio Paolini nel 1975, composta da due copie in gesso della testa dell'Hermes di Prassitele, collocate in modo che lo sguardo di una rinvii a quella dell’altra. Uno sguardo rivela l’altro, così come lo sguardo di Wildt alla GAM rivela lo sguardo barocco, oltre che neoclassico e romantico, di Canova. Alla GAM, così come a Gallerie d’Italia – Piazza Scala, tutto è un incrocio di sguardi lanciati da spazi e tempi diversi. 

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