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Palermo - Milano, Antonino Costa

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La forma dell’Italia come la vedono i fotografi che la vivono e la attraversano. Le città, i paesi, le periferie, la campagna, i luoghi delle aggregazioni, le vie, i negozi e l’ambiente naturale vanno a costituire un patrimonio culturale da osservare, come le relazioni che si stabiliscono tra le persone e gli spazi. Ad ogni fotografo e fotografa chiediamo di esplorare i loro archivi e scegliere dieci foto che rappresentino l’Italia, accompagnate da un unico testo, o da dieci brevissimi testi che fungono da didascalie, in cui ognuno racconta come e perché ha realizzato i suoi scatti. L’insieme delle loro immagini andrà a costruire il mosaico degli sguardi, che via via daranno corpo all’Italia di oggi.

 

Venditori di pesce a Mondello. Palermo, Italia. 2009.


Fotografia tratta dal lavoro Palermo come un’infanzia

 

Nel 2009, molto probabilmente ero nel pieno della mia vita milanese. In quel tempo lavoravo come aiuto operatore sui set cinematografici. Un lavoro duro e molto tecnico. Mio figlio aveva sei anni e mi ero separato dalla madre da circa due anni. In sostanza di quel periodo ricordo che era veramente un casino. Molto raramente tornavo a Palermo, non cosciente, ancora, di quanto mi rigenerassero quei brevi soggiorni nella mia città natale. Viaggio dopo viaggio avevo cominciato a fotografare, con una vecchia Rollei, tutto ciò che mi riportava a quel passato fanciullesco. Nasceva così il lavoro fotografico Palermo come un’infanzia, terminato poi nel 2016… mi pare (anno più anno meno).

Nella foto ritraggo il signor Giuseppe nell’atto di imbustare il pesce “pulito” (in questo caso un polpo). Giuseppe imbusta e basta, fa da aiutante a Nicolino che è il pescivendolo; di lui si scorgono il braccio e i coltelli poggiati sul bancone; coltelli che gli furono lasciati dal padre, anche lui pescivendolo; mestiere che come spesso accade in Sicilia è fatto ad arte e che nel nostro dialetto si dice Rigattèri.

 

Scuola primaria. Milano, Italia. 2018.


Fotografia tratta dal lavoro Barona.

Mi ero stabilito da quelle parti da circa un mese e dopo qualche tempo esplorai la zona delle risaie che qualcuno del luogo mi aveva indicato come una bella passeggiata. Come di solito non portavo la macchina fotografica. E lì che ho visto il palazzo di edilizia popolare che mi ha indotto a cominciare questo lavoro fotografico, ritornai così qualche settimana dopo con la macchina fotografica che riuscii a trovare in prestito. Presi del tempo pure per decidere se usare una pellicola in bianco e nero o a colori, scelsi quest’ultima.

Quando iniziai a scattare c’era il sole basso dell’inverno milanese.

 

Finestra di un palazzo di edilizia popolare. Milano, Italia. 2018.


Fotografia tratta dal lavoro Barona.

 

Quello che mi ha colpito, credo sia stato il silenzio attorno a questo palazzo, dove nei giorni successivi ho provato ad avvicinarmi sempre di più, ammetto con circospezione e cautela, perché in certe passeggiate precedenti di sopralluogo, avevo potuto riscontrare una certa durezza di linguaggio e anche negli sguardi in alcuni inquilini che si trovavano giù nei piazzali circostanti.

 

 

Parco Andrea Campagna. Milano, Italia. 2018.


Fotografia tratta dal lavoro Barona.

 

Nel primo rullino, non ho fatto in tempo a instaurare qualche dialogo con gli abitanti del palazzo. Ho scattato furtivamente. Solitamente cerco, dopo aver preso confidenza con l’ambiente, di fare alcuni ritratti; pochi comunque.

Mi è capitata un’occasione di contatto con le persone con questa fotografia, che ritrae il padre e figlio seduti sulla panchina; poco prima del crepuscolo. Gli ho domandato se potevo fotografarli nella posizione in cui stavano. Non mi hanno chiesto perché. Mi ero comunque presentato come uno che stava fotografando i dintorni. Tutto molto rapidamente: uno scatto, un ringraziamento e un saluto. Non so se guardassero a un futuro migliore, desiderando un trasloco, magari abitavano nel palazzo fatiscente che avevo fotografato nei giorni precedenti, oppure chiacchieravano compiacendosi della loro nuova abitazione che avevano di fronte, alla quale mi sembrava guardassero e che è un palazzo più bello.

 

Tramonto nei pressi di un palazzo di edilizia popolare. Milano, Italia. 2018.


Fotografia tratta dal lavoro Barona.

 

Era febbraio inoltrato quando ho cominciato a scattare, e nel primo rullino di trentasei pose c’è la prima impressione istintiva di ciò che mi aveva interessato della zona della Barona che ho circoscritto con le fotografie di questa serie.

Dopo qualche giorno che gironzolavo attorno al palazzo di edilizia popolare che avevo individuato, ebbi il coraggio (avendo tastato la diffidenza di alcuni inquilini) di spingermi nel portico, proprio sotto le finestre del primo piano.

Il tempo atmosferico cambiò nei giorni seguenti, preparandosi alla nevicata che poi arrivò; riuscii a finire il rullino prima che il paesaggio imbiancasse e non ebbi poi modo di fare altri scatti lì.

 

Piazza Vittorio. Roma, Italia. 2002.


Fotografia tratta da nessun lavoro, ritrovata in un cassetto del mio archivio.

 

Di questa foto non ricordo nulla, o quasi. Ricordo che avevo ancora la Rollei, l’avevo comprata di seconda o forse terza mano. Ricordo che ero a Roma… innamorato della ragazza con la quale l’anno dopo ci feci un figlio e per poi separarci qualche tempo dopo. Non ricordo come mai mi trovassi a Piazza Vittorio, forse ero appena arrivato in città o forse stavo andando in stazione per ritornare a Milano; perché ero andato a trovarla appunto a Roma. Comunque camminavo da solo in quel momento. Avrò guardato verso la piazza e scattato la foto ai ragazzini che giocavano a pallone.

Ho ripensato a questa fotografia solo ultimamente e ho voluto inserirla nella selezione preparata per la mia mostra “Italie”. Non facendo parte di un mio progetto fotografico, che tengo separati in singole cartelle nei cassetti del mio archivio metallico, ci ho messo un po’ di tempo a ritrovarla.

 

Gioco dell'antenna a mare durante i festeggiamenti dei santi patroni Cosma e Damiano a Sferracavallo. Palermo, Italia. 2002.


Fotografia tratta dal lavoro Palermo come un’infanzia

 

Dal giocare per strada con un pallone in una piazza romana a giocare su un’antenna insaponata sospesa sul mare per acchiappare la bandiera posta nella sua punta più esterna ne passa. La foto precedente e questa sono state scattate nel 2002. Lo so solo perché ho datato i negativi. Certamente in quell’anno che era circa il sesto dopo che avevo lasciato Palermo, avevo iniziato a sentire la mancanza della mia terra, vivendo ormai a Milano. Ero però ancora lontano dal pensare a un progetto fotografico (quello che poi scaturì in Palermo come un’infanzia e che è carico di nostalgie e situazioni personali complesse); in quel tempo, nel 2002 intendo, ero spensierato e fotografavo come un turista. Durante uno dei miei soggiorni in Sicilia mi trovai a Sferracavallo, piccola borgata di pescatori vicino a Palermo. Avevo saputo che alla fine di settembre si festeggiano i due santi patroni Cosma e Damiano; due medici romani gemelli che furono decollati, martiri insomma. Arrivai nella borgata e la trovai piena di gente, i festeggiamenti cospicui e coreografici; coi due simulacri dei medici nell’atto di benedire portati a spalla sulla vara dai baldi giovani della relativa confraternita che con sapienti sforzi sapevano simulare una sorta di ballo, di annacamento dei due santi… Essi a quanto pare, uscirono dall’acqua del mare, senza teste «ballando ballando». E fu il miracolo! Che li eresse a santi patroni di Sferracavallo.

 

Giocatori di carte in un bar della periferia. Milano, Italia. 2015.


Fotografia tratta dal progetto Bar, ancora in corso.

 

La periferia sud di Milano, uno dei tanti bar ormai gestiti dai cinesi che hanno imparato a fare il caffè, il caffè ristretto, il caffè macchiato, il cappuccio (cappuccino dalle mie parti), il marocchino e a sfornare ottime brioches congelate. Certo il bar, un tempo, era una connotazione della nostra bella Italia. Da sud a nord andare al bar per noi italiani è in parte un rito. Era in uso a Napoli, ma si faceva anche a Palermo, di pagare due caffè anche se, se ne riceveva uno. Bastava che il cliente ordinasse il caffè sospeso e questo andava a beneficio di uno sconosciuto avventore, bisognoso, che poteva richiederlo in un successivo momento.

Che altro dire di questa foto: ho esposto e messo a fuoco il lampadario che mi colpì subito entrando, come unico elemento originario rimasto in questo bar.

 

Parcheggio sul lungomare di Romagnolo. Palermo, Italia. 2016.


Fotografia tratta dal lavoro Romagnolo: lavoro a cavallo tra Palermo come un’infanzia e Brancaccio.

 

Il ciclo di fotografie riguardanti questo progetto sancisce la fine di Palermo come un’infanzia. Ero andato a fotografare quest’antica spiaggia del capoluogo siciliano, disposta a sud del golfo.

La storia di Romagnolo risale al 1800 quando le nobili famiglie palermitane avevano costruito le loro case di villeggiatura in questa parte di costa cittadina.

Un tempo, quando mio padre era bambino, negli anni ’50 e lui viveva lì, la spiaggia aveva ancora una certa rilevanza, c’erano stabilimenti balneari in funzione. Poi il costante declino e l’abbandono. Negli anni più recenti, dopo incurie, abusivismo e scarichi illeciti nel nostro bel mare, pare sia cominciato (alla maniera e nei tempi palermitani) un piano di rivalutazione dell’area. 

Questa foto risale al 2016: la bandiera nuova di pacca dell’Italia fronteggia quella vecchia e logora, posta a sinistra della composizione, e che tuttavia pur ridotta in brandelli, continua a ostentare un certo vigore e una dinamicità nel movimento impostagli dal vento di Ponente.

 

Fotografia tratta dal lavoro Borgo Nuovo.

 

Ecco siamo alla fine di queste dieci fotografie scelte tra le venticinque che saranno in mostra alla fine di novembre a Bruxelles. La mostra ha come intento di parlare dell’Italia. Certo la mia Italia è Milano e Palermo, a parte una divagazione nella città di Roma.

Volevo terminare questa breve rassegna con la foto del polpo, o, se si preferisce quest’altra descrizione: la foto del braccio del venditore ambulante che lo innalza. È tra le mie foto più recenti, scattata appena un anno fa (da allora non ho ripreso ancora la macchina fotografica in mano… ma neanche ne ho una, come al solito).

Ero andato nel quartiere di Borgo Nuovo che si sviluppa ai piedi del monte Cuccio, stando lì non sembra di essere in una città di mare.

Ho cominciato a fotografare Palermo nel 2001 (con una foto che qui non è presente e non lo sarà neanche a Bruxelles). Mi sono mosso sempre di più nei suoi quartieri popolari del centro e della periferia. Quartieri, specie quelli periferici, che hanno una brutta reputazione. Lasciati per decenni al loro destino, dove l’acculturazione stenta ad attecchire; ma dove anche e per fortuna l’omologazione e la globalizzazione hanno un freno. La gente che le abita, il popolo, mantiene codici di comportamento antichi (a volte pesanti) e parla il dialetto.

A Milano ho cercato e fotografato la mia Palermo.

 

Italie, Italies, Italiës”, la mostra personale del fotografo Antonino Costa, ha aperto il 28 novembre all'Istituto Italiano di Cultura di Bruxelles e potrà essere visitata sino al 20 dicembre 2019.

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Primo Levi. Figure

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A quasi trent'anni dalla sua morte e a cento dalla sua nascita, Primo Levi continua a stupirci. In questo momento drammatico per l'ondata di antisemitismo e di odio razzista che, come in un passato che sembrava fino a poco tempo fa un incubo lontano, sembra colpire in ugual misura i giovani, gli inermi e le anziane dignitose, le celebrazioni del centenario di Levi danno un piccolo segnale prezioso di un altro modo di vivere e di interagire con il mondo. E al di là delle cerimonie e degli eventi pubblici, i convegni e le premiazioni per celebrare questa straordinaria figura “poliedrica” del Novecento, per dirla con Marco Belpoliti, forse colpisce più di qualsiasi altra iniziativa la piccola mostra aperta in una stanza della Galleria d'Arte Moderna (GAM) a Torino (fino al 26 gennaio 2020), intitolata modestamente Figure, a cura di Fabio Levi e Guido Vaglio. Colpisce innanzitutto perché aggiunge un tassello nuovo, inedito, al ritratto di Levi che conosciamo, ma anche perché trasforma in materiali concreti, in oggetti proiettati nello spazio tri-dimensionale quell'ethos congiunto tra l'homo faber e l'homo ludens che Levi ha fatto suo altrove, attraverso la parola e la scrittura. Qui si passa dalla parola all'oggetto, o meglio, per dirla con il filosofo americano Bill Brown, dalla parola alla cosa (thing), cioè al fenomeno che nella sua contingenza resiste a qualsiasi tentativo di uso e consumo, celebrando invece la sua assoluta “inutilità”. Per parafrasare una frase pregnante di Levi in I sommersi e i salvati, è forse “l'unica utilità” delle cose inutili.

La mostra si trova in una stanza della GAM chiamata la Wunderkammer, a richiamo di quegli affascinanti precursori del museo moderno che furono le collezioni rinascimentali di figure quali Athanasius Kirchner, Elias Ashmole e Hans Sloane, che cercarono di contenere in uno spazio chiuso il mondo intero, accumulando centinaia di oggetti curiosi della natura in tutta la sua varietà enciclopedica, tra piante, animali, minerali, costruzioni artificiali, opere d'arte e via dicendo. In inglese la Wunderkammer si traduce con il Cabinet of Curiosities. Levi, benché lontano dalle manie quasi ossessive dei creatori delle Wunderkammern (anche se Calvino aveva visto benissimo la vena enciclopedica in Levi) ha comunque in comune con loro e con i loro laboratori-musei il senso della meraviglia (Wunder) e della curiosità di fronte ai fenomeni del mondo, un'attenzione acuta verso l'universo naturale e animale, le materie prime, e il contatto dell'occhio e della mano umani con essi.

 

Ph Pino Dell'Aquila.


Figure ci offre per la prima volta la visione diretta di alcune delle dozzine di sculture create da Levi in filo di rame (e in un caso in latta) in un arco di tempo che va dal 1955 al 1975. (La mostra non ha niente del “filologico”, e quindi non ci sono né titoli, né datazioni esatte.) Levi le costruiva qua e là nelle ore libere, tra il lavoro di fabbrica, gli impegni del testimone e la scrittura di libri – i suoi tre mestieri – e le faceva per diletto e per gioco, per regalare agli amici o per appendere in vari angoli della sua casa, come si vede in qualche foto e come ha notato Philip Roth nella sua bellissima intervista-incontro con Levi del 1986.

 

Le figure-sculture sono quasi tutte di animali, tra il reale e il fantastico. Infatti, in uno dei saggi più brillanti di L'altrui mestiere, “Inventare un animale”, Levi avrebbe riflettuto, tra un senso di divertimento e di sfida alle potenze della scienza e della fantasia, su quanto fosse effettivamente difficile – “pressoché impossibile” – inventare un animale che non esistesse già in natura e, inciso tipicamente leviano, “che possa esistere (intendo dire che possa esistere fisiologicamente, crescere, nutrirsi, resistere all’ambiente ed ai predatori, riprodursi)”. La stessa sfida anima il fascino per la creazione, per il mito di Genesi e i suoi epigoni che attraversa l'intera opera leviana, dalla anti-creazione dell'uomo in Se questo è un uomo alla Creazione dell'animale-uomo nel racconto-dramma Il sesto giorno. Intanto, Levi passava gli anni divertendosi a plasmare queste figure di rame, con un lavoro lento, paziente e esperto di manipolazione del metallo, tra la linea del lungo filo di rame e i nodi di congiunzione, che combinava abilmente per dare forma ai corpi degli animali, ognuno con la sua sagoma e il suo volume, e per innestarci un senso di espressione e di vitalità, evidente per esempio nell'elaborazione attenta degli occhi in serie concentrate di cerchi metallici. Vien da pensare a un altro racconto di Levi sulla creazione "dal nulla" di un essere vivente, Il servo (Vizio di forma), dove il Golem è portato in vita dal rabbino Arié attraverso l'inserimento in bocca dello spirito vitale inerente in alcune lettere sacre.

 

Ph Pino Dell'Aquila.


Ma non c'è niente di mistico nelle creature della Wunderkammer di Primo Levi, o se c'è, è leggero, accompagnato da una vena di ironia divertita. In questo giardino zoologico si possono quindi contemplare tra gli altri, ognuno illuminato nella sua nicchia all'interno della Wunderkammer, il gufo, la farfalla, il canguro, la balena, il coccodrillo, il rinoceronte, la testuggine, il ragno, lo squalo, ma anche il centauro, la figura angelica, il mostro-guerriero e così via. I curatori della mostra respingono l'etichetta di opere d'arte per queste strane costruzioni, e forse hanno ragione se per opera d'arte s'intende l'espressione estetica di una forma di visione d'artista. Però, possiamo dire che queste “cose” sono fortemente intrise dello spirito del loro autore-creatore, sono prodotti del suo lavoro, della sua materia (il filo di rame veniva dalla fabbrica SIVA dove Levi lavorava), e del suo spirito di invenzione e di curiosità, trasformate in presenze animate e non poco inquietanti. C'è poi un elemento di etica e di economia tipicamente leviano nel procedimento creativo, nell'uso cioè di materiali di scarto, delle escrescenze del lavoro di fabbrica e di laboratorio, recuperati e trasformati in questi oggetti fantasiosi. Anche questa potenzialità plurima di recupero, di espressione e di metamorfosi vale come forza creativa e artistica.

 

C'è, infine, nella mostra e nella storia delle origini di questo passatempo innocuo, un elemento affascinante di autobiografia, che i curatori svelano attraverso un altro inedito, questa volta un brano di un testo manoscritto di Levi del 1974, riprodotto in un pannello della mostra, di straordinaria importanza. Si tratta di un capitolo incompiuto del Sistema periodico dedicato appunto all'elemento rame ("Cu"). Sono pagine in cui Levi evoca soprattutto la figura di suo padre, l'ingegnere Cesare, morto nel 1942 prima della tragedia immane della Shoah, presenza enigmatica ma fondamentale per la formazione scientifica, letteraria e (non-)religiosa del giovane Primo – ma decisamente non, come racconta Levi divertito in "Cu", per l'alpinismo; Cesare odiava la montagna – e la cui biografia interseca insieme a quella del figlio il filo di rame. Il racconto evoca nel ricordo "l'ufficio-deposito" di Cesare in Corso S. Martino a Torino, uno spazio semi-magico come altri laboratori e luoghi di lavoro scientifico nel Sistema periodico, in questo caso zeppo di motori elettrici di varie dimensioni e potenza, e anche di tantissimi "rocchetti di rame trafilato", che sia il padre che il figlio giocavano a "piegare ed attorcere in forma d'animali fantastici [...] e forme molto belle che chiamava iperboloidi e quadriche a due falde".

 

Ph Pino Dell'Aquila.


C'è quindi una forte e commovente genealogia intima di queste sculture in rame, un filo che passa dal padre Cesare al figlio Primo, attraverso il mestiere di entrambi, e infine anche al figlio-nipote della terza generazione, Renzo Levi, professore di biofisica e di fisiologia animale, che ha collaborato con i curatori della mostra non solo concedendo le figure stesse, ma anche raccogliendo i giochi matematici del padre, le simulazioni fatte con il suo primo computer, e perfino ricostruendo in modelli geometrici proprio quelle forme "iperboloidi e quadriche a due falde" fatte dal nonno insieme al padre nei lontani anni 30.

 

Come collocare dunque questa novità, questa nuova “opera” di Primo Levi, di cui si sapeva l'esistenza ma che quasi nessuno aveva visto prima di questa mostra? Sarebbe senz'altro sbagliato relegarla ai margini delle nostre considerazioni, insieme ad altre curiosità aneddotiche, così come sarebbe errato innalzarla al livello del capolavoro sconosciuto. Forse l'area più vicina nell'opera di Levi, per contenuto, forma e prassi creativa, è la sua poesia, soprattutto la poesia non-testimoniale raccolta nel volume Ad ora incerta e in altri testi sparsi. Anche per la poesia, Levi confessa un interesse sporadico e occasionale più che una vocazione profonda letterario-estetica; anche lì si concentra sul puro divertimento, spesso legato al reame degli animali e del fantastico, ma con una vena di auto-espressione delle paure e delle ansie; e anche lì, spesso dedicava o spediva i suoi componimenti ai colleghi e agli amici (una poesia s'intitola, appunto, “Agli amici”). Alla fine, forse è in questa dinamica del dono, dell'offerta ad altri, dello scambio reciproco di gioco e di fantasia, sia nelle poesie che nelle sculture, che le “cose” di Levi ci possano offrire un piccolo atto di resistenza e di civiltà, nel momento buio del presente.

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Il pollice nero di André Breton

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Incidente nella grotta

 

“Degrado di monumenti storici”. È questa l’accusa che viene mossa contro André Breton, padre del movimento surrealista ora sotto processo come un vandalo qualsiasi. La vicenda, poco conosciuta, merita di essere ricostruita.

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Wo | Man Ray

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Di mostre su Man Ray se ne sono viste molte, anche recentemente, quindi plaudiamo alla bella idea che rende originale e anche questa volta non ripetitiva l’esposizione, Wo | Man Ray, a Camera, Torino (fino al 19 gennaio 2020): l’Uomo Raggio e le sue Donne Raggio, il Fotografo e le sue Donne, non solo modelle ma soprattutto assistenti e allieve. L’idea non è scontata, non è pettegola o furba, come certe biografie in cui di un artista si raccontano solo le avventure e relazioni amorose come un brutto romanzo d’appendice, ma perché qui il rapporto è valorizzato nei suoi apporti all’arte, alla fotografia. Dell’uomo infatti, delle sue vicende si dice solo quel che serve e che non mortifica né lui né la donna, mentre al contrario ecco che proprio della donna viene ad emergere il ruolo attivo, interattivo, creativo. Anche della modella, aspetto a cui si pensa solitamente poco.

 

 

Così Kiki de Montarnasse, la prima in ordine cronologico, Man Ray appena sbarcato a Parigi dagli Stati Uniti nel 1921, diventa una cocreatrice con il Fotografo. Mettiamo l’iniziale maiuscola perché qui si vede bene che Man Ray si autoritrae sempre come fotografo, più che come individuo, insieme all’apparecchio fotografico, intento a maneggiarlo, guardando perlopiù di lato, mai o quasi verso di noi se non per sottolineare ulteriormente la sua identificazione con la macchina. Kiki ha un corpo particolare, si racconta che si vergognasse a posare nuda, e allora sceglie come stare, nega alcune posizioni; d’altro canto è audace, non si risparmia; forse proprio così ha contribuito all’invenzione di queste fotografie, come a quella famosa che la riprende da dietro, piegata, con le mani che coprono le parti intime. E che dire delle sue labbra? Era la moda, quel rossetto che dà una forma così accentuata alle labbra sottili? E gli occhi, quante invenzioni! Aperti, chiusi, sognanti, sorridenti, piangenti, ingranditi fino a sembrare non si sa se fiori o piante carnivore o altro organismo vivente. La più spettacolare per me non è Violon d’Ingres, forse la più famosa, ma Noire et blanche, con quel gioco solo apparentemente di opposizioni, la donna bianca e la maschera nera, che ne fa invece l’una il sogno dell’altra. Così il bianco e nero stesso diventa un rapporto onirico e la fotografia il suo prodotto.

 

 

Quella di Berenice Abbott è forse la sala più interessante e nuova della mostra, il paragone tra i suoi ritratti e quelli di Man Ray è una sorpresa, il fronteggiarsi di due modi opposti di ritrarre, entrambi ai massimi livelli. (E la presenza in mostra del ritratto che di lei fece Walker Evans apre una terza finestra, un terzo polo dialettico, ma lasciamo ad altra occasione la riflessione.) Man Ray pensa alla forma, all’arte, non alla persona; Abbott pensa al contenuto, alla restituzione dell’“uomo o donna nuovi”, alla singolarità dell’individuo speciale, originale, artista. Bellissimo il suo uso dell’asimmetria, dei gesti, del piglio di sfida (Violette Murat), dell’indifferenza (James Joyce). Il doppio ritratto, di fronte e di profilo, di Eugène Atget, il vecchio fotografo da lei riscoperto, è impressionante: senza espressione, era diventato così, era diventato una fotografia, da qualsiasi lato lo si prendesse.

 

 

Lee Miller era inglese e diretta, aristocratica e bellissima, e lo sapeva; si presentò a Man Ray, che non voleva assistenti e men che meno allievi, dicendo appena aperta la porta: “Sono Lee Miller, la vostra prossima allieva”. Non si poteva dirle di no. È diventata una grande fotografa? Meno originale delle altre, mi pare, per quanto comunque brava. Certamente come modella non la dimenticheremo più: il suo profilo solarizzato è un capolavoro, ma soprattutto suo è il busto nudo su cui si proiettano i giochi di luce delle tende, splendidamente commentato da Rosalind Krauss, sulla scorta del mimetismo nevrastenico di Roger Caillois, come l’immagine dello spazio perturbante, cioè vivo, come fosse a sua volta una presenza impalpabile, un fantasma, che non si proietta sopra il corpo che lo occupa ma cerca di possederlo.

 

 

Poi c’è Dora Maar: anche il suo volto solarizzato è indimenticabile, ma molto diverso da quello di Lee Miller, inscenato – come lei effettivamente era, sempre sopra o sotto le righe – nel gesto e nelle stoffe che lo avvolgono, per evidenziare il contrasto tra le sue mani e le altre piccole surreali. Certo, l’invenzione è notevole e lei stessa la riprenderà nelle proprie fotografie. Fu dunque sua o di Man Ray, viene da pensare? Di loro insieme è la risposta qui. Anche la sua sala è una scoperta per l’Italia, che non la conosce molto se non come donna per un certo periodo di Picasso, la “piangente”, come la chiamava esasperato, rendendola famosissima nei numerosi ritratti con le lacrime che scorrono dagli occhi. Come fotografa si inserirà perfettamente nella corrente surrealista, con invenzioni di animali fantastici tanto più conturbanti in quanto in fotografia.

 

 

Varie altre donne si ritrovano nella mostra, elencarle tutte sarebbe troppo lungo qui, ma c’è attraverso di loro la storia in filigrana di quel periodo e contesto storico artistico. C’è Nusch Éluard, moglie del poeta e audace musa del Surrealismo, che restituisce qui il risvolto lesbico e di ménage à trois dei rapporti tra i suoi protagonisti. C’è il famoso album privato di nudi e c’è l’ardito album, del 1929, con poesie di Benjamin Péret e foto sessualmente esplicite del Nostro.

 

 

Nel 1940, allo scoppio della guerra, Man Ray torna negli Stati Uniti, dove conoscerà Juliet Browner, che sarà la sua ultima moglie. La mostra finisce con la serie che ha lei come soggetto, una raccolta di 50 ritratti intitolata Fifty Faces, in cui Man Ray ha di fatto riassunto tutta la sua carriera, tutte le sue invenzioni, da quelle dadà a quelle surrealiste, dalle solarizzazioni ai veli, fino a quelle introdotte nella fotografia di moda, e ai ritocchi a matite colorate e altra tecnica, insomma cinquanta volti di Juliet e al contempo cinquanta facce-sfaccettature di Man Ray stesso. Giusta conclusione del taglio della mostra, che sancisce l’inscindibilità dei rapporti fino a farne un carattere intrinseco della fotografia, una specialità dell’arte.

La mostra è accompagnata da un catalogo, che però non era ancora pronto nei primi giorni dell’apertura e di cui quindi non possiamo rendere conto, ma che sarà senza dubbio a sua volta un volume necessario, dato l’insieme di immagini mai viste insieme, a confronto l’una con l’altra.

 

WO | MAN RAY. Le seduzioni della fotografia, a cura di Walter Guadagnini e Giangavino Pazzola, Camera, Centro italiano per la fotografia, via delle Rosine 18, Torino, da17 ottobre 2019 - 19 gennaio 2020.

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L’arte “sublime ed intellettuale” di Canova

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Intesa Sanpaolo ospita alle Gallerie d’Italia due grandi protagonisti della scultura moderna: l’italiano Antonio Canova (1757-1822) e il danese Bertel Thorvaldsen (1770-1844). Per Giovanni Bazoli, Presidente Emerito di Intesa Sanpaolo: «Questa mostra rappresenta un traguardo di grande significato nel percorso di valorizzazione dell’arte e della cultura italiana intrapreso dalle nostre Gallerie d’Italia. Grazie alla collaborazione con l’Ermitage di San Pietroburgo e il Museo Thorvaldsen di Copenaghen, sarà possibile ammirare, in un accostamento e dialogo del tutto inedito, alcuni tra i maggiori capolavori dell’arte di tutti i tempi».

 

“La luce fa quello che vuole. Aprire e chiudere le finestre non serve a nulla. Nemmeno lavorare al buio, le ho provate tutte! Lei t’imbroglia lo stesso”, pare dica Antonio Canova attraverso le superfici dei suoi marmi, che si possono ammirare nell’imponente allestimento della mostra milanese Canova/Thorvaldsen. La nascita della scultura moderna (Gallerie d’Italia – Piazza Scala, fino al 15 marzo) e in quello più intimo e raccolto della mostra Canova. I volti ideali (Galleria d’Arte Moderna di Milano, fino al 15 marzo). 

 

Rudolph Suhrlandt, Antonio Canova, 1811. Copenhagen, Thorvaldsen Museum / Rudolph Suhrlandt, Bertel Thorvaldsen, 1810. Copenhagen, Thorvaldsen Museum.


La mostra allestita a Gallerie d’Italia – Piazza Scala (a cura di Stefano Grandesso e Fernando Mazzocca) propone un confronto fra l’italiano Antonio Canova (1757-1822) e il danese Bertel Thorvaldsen (1770-1844), ricostruendo le vicende artistiche che fra Settecento e Ottocento hanno visto la nascita del moderno in scultura, sollecitata anche dal mercato, che chiedeva un prodotto diverso dalle copie dall’antico. La perdita d’interesse estetico nei confronti delle copie moderne tratte da quelle romane, a loro volta tratte dagli originali greci, procedeva di pari passo con lo sviluppo di una sensibilità romantica, che attribuiva all’atto creativo l’unicità che alle copie mancava.

 

Lo studio di Antonio Canova a Roma in un disegno a penna e inchiostro acquarellato eseguito da Francesco Chiarottini nel 1785 circa. Udine, Civici Musei, Gabinetto Disegni e Stampe del Castello / Lo studio di Bertel Thorvaldsen a Charlottenborg in un dipinto eseguito da Johan Vilhelm Gertner nel 1839. Copenhagen, Thorvaldsen Museum.


Canova e Thorvaldsen non copiavano gli antichi ma, come questi, imitavano la natura idealizzandola. Entrambi evocavano un ideale vivificato dal confronto con la natura, giungendo però ad esiti diversi. Le opere di Canova sono palpitanti e piene di vita. Concepite per essere viste girandovi attorno, potevano anche girare su se stesse per mezzo di piedestalli rotanti, mentre degli specchi, appositamente posizionati nello spazio che le ospitava, permettevano una visione simultanea dei loro diversi lati. Le opere di Thorvaldsen sono invece statiche, frontali e chiuse in modo austero nella loro idealità, anche se in alcune la naturalezza della posa, presa dal vero, rompe questo schematismo. 

 

Veduta della sala principale di Gallerie d’Italia – Piazza Scala con il gruppo marmoreo Le tre Grazie scolpito da Antonio Canova tra il 1812 e il 1817 (San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage), e il gruppo marmoreo Le Grazie con Cupido di Bertel Thorvaldsen scolpito tra il 1820 e il 1823 (Copenhagen, Thorvaldsen Museum).


Nella grande sala centrale di Gallerie d’Italia – Piazza Scala si è voluto dar prova di queste differenze con un confronto, mai tentato prima, fra i due celebri gruppi marmorei: Le tre Grazie di Canova e Le Grazie con Cupido di Thorvaldsen, attraverso i quali i due scultori hanno espresso la propria concezione della “bellezza ideale” teorizzata da Johann Joachim Winckelmann nel Settecento e ancor prima da Giovanni Pietro Bellori, che individuò nella scultura – soprattutto – l'arte dove la natura si unisce all'Idea che alberga nella mente dell'artista (L’ Idea del Pittore, dello scultore e dell’Architetto in Le vite de' pittori, scultori et architetti moderni, Roma, 1672). 

 

Antonio Canova, Venere, 1817-1820. Leeds Art Gallery / Bertel Thorvaldsen, Venere vincitrice, 1805-1809 (Lituania, Nacionalinis Mikalojaus Konstantino Čiurlionio dailės muziejus). Nella comparazione visiva qui proposta è evidente come il comportamento della luce sulle superfici del marmo lavorato da Canova si differenzi da quello sulle superfici del marmo lavorato da Thorvaldsen.


Nell’interpretazione canoviana della “bellezza ideale” dominano le linee di movimento e un trattamento luministico delle superfici. Nell’interpretazione di Thorvaldsen domina invece una semplicità del disegno e un chiaroscuro che porta la scultura verso una visione grafica. Troviamo qui, già ben formata, la concezione della scultura come impressione di superficie, che sarà poi teorizzata da Adolf Hildebrand nel suo trattato Il problema della Forma nell'arte figurativa pubblicato nel 1893 (Aesthetica, Palermo 2001, p. 73). In questa teoria la scultura non è tale se non supera la sua forma “cubica” (tridimensionale) per risolversi in un effetto chiaroscurale di superficie. La differenza fra un bassorilievo e un altorilievo, per Hildebrand, infatti, non è la profondità “fattuale”, considerata irrilevante, ma il contrasto chiaroscurale, più accentuato nell’altorilievo e meno nel bassorilievo. Se le osserviamo attentamente, le opere a tuttotondo di Thorvaldsen ci appariranno infatti come rilievi, nell’esecuzione dei quali peraltro eccelleva. A questa visione grafica e chiaroscurale possiamo supporre sia stato educato dalle riproduzioni a puntasecca e ad acquaforte della scultura antica, che fra Settecento e Ottocento si diffusero in tutta Europa.

 

Bertel Thorvaldsen, Il Giorno, 1821. Brescia, Musei Civici d’Arte e Storia, Pinacoteca Tosio Martinengo, legato Paolo Tosio.


Sia le incisioni che illustrano i libri di Winckelmann, ottenute con contorni o “linee girate”, sia le incisioni dei vedutisti, caratterizzate da un dilagare dell'ombra e della macchia, contribuirono infatti a diffondere un’immagine grafica della scultura antica, formando una cultura visiva, un modo di vedere. A questo riguardo è necessario ricordare quello che Johann Wolfgang von Goethe scrive nel suo diario Viaggio in Italia a proposito delle visite notturne ai musei romani illuminati dalla luce delle fiaccole. Subito dopo aver lodato Heinrich Meyer per le sue riproduzioni a seppia dei busti antichi, nel contesto di alcune osservazioni sulla raccolta di volumi e illustrazioni che hanno il pregio di far “rivivere” il tempo in cui “l’antichità era studiata seriamente”, Goethe descrive i vantaggi propri di questa illuminazione: “permette di rilevare assai meglio tutte le delicate sfumature del lavoro […] rende più nette le ombre [e] fa apparire più chiare le parti illuminate […] Fa meglio individuare le sporgenze e le rientranze e le relazioni reciproche tra le diverse parti” (Viaggio in Italia. Mondadori, Milano 2002, pp. 491, 492). Da questo resoconto del 1787 emerge chiaramente come le illustrazioni nei libri elogiati da Goethe abbiano contribuito al diffondersi di una visione monocromatica, contrastata da quella diametralmente opposta, sostenuta dagli studi di Antoine Chrysostome Quatremère de Quincy – amico di Canova – sulla presenza dei colori nella scultura antica. 

 

È nella direzione della visione policromatica che Canova tenta una via parallela a quella monocromatica, con una sensibilità per la luce che è tipica della tradizione pittorica veneta, di cui si sente erede. Il segreto della sua arte era l’“ultima mano” con la quale calibrava gli effetti luminosi, talvolta anche al lume di candela. Osservando la superficie cangiante della Venere scolpita fra il 1817 e il 1820, mi pare di sentire ancora una volta la voce dell’autore: Le ho provate tutte! Lei [la luce] t’imbroglia lo stesso”. Dopo che i lustratori chiudevano le porosità del marmo con pietra pomice, Canova trattava ulteriormente le superfici per trasformare il marmo in “vera carne”, secondo alcuni giungendo a stendere una leggera velatura di minio sulle labbra e le gote delle statue. Tale ipotesi è smentita da Melchiorre Missirini, suo biografo, che denuncia come menzognere queste supposizioni, aggiungendo che Canova “soleva lavare unicamente le sue sculture con acqua di rota [l’acqua usata per raffreddare i ferri mentre si arrotano sulla mola], la quale scorre affatto sulle parti lucide e si arresta su quelle che sono meno lisce secondo la loro scabrosità” (Vita di Antonio Canova, 1824, in Collana Fonti e Testi di Horti Hesperidum 10, Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, 2016, pp. 117-119)

 

Antonio Canova, Socrate congeda la propria famiglia, 1787-1790. Gallerie d’Italia – Piazza Scala, Milano Collezione Fondazione Cariplo / Michele Fanoli, Opere di Antonio Canova. Soggetti eroici in un’arena, 1842. Milano, Biblioteca Nazionale Braidense.


Canova tentò di raggiungere con la scultura gli effetti della pittura. Tuttavia, sia la serie dei suoi rilievi socratici gettati in gesso e riproducibili come “cartoline” destinate ad amici, ammiratori e collezionisti (gessi che non volle mai tradurre in marmo), sia le riproduzioni in grisaille o monocromo delle sue opere in gesso, inviate ai committenti prima di avviare la loro traduzione in marmo, sia le riproduzioni litografiche delle sue sculture divise per categorie, documentano la persistenza di una visione grafica e chiaroscurale. Nella sua opera l’aspetto monocromatico convive con quello policromatico, così come, nella riproduzione grafica della scultura antica, la linea di contorno convive con la macchia che dilaga nelle stampe di Giovan Battista Piranesi, dove la rappresentazione delle rovine del passato anticipa una sensibilità romantica.

 

È frequente rinvenire elementi classici in opere attribuite al romanticismo e, viceversa, rinvenire elementi romantici in opere considerate classicistiche, ma nel caso di Canova dove rinvenire questi elementi romantici? Nei sentimenti che comunicano le sue figure, alle quali conferisce un’apparenza di vita, così come nei capricci della luce. “Tu non vuoi che lei venga lì e lei viene lo stesso a visitarti, di nascosto”, sembra dire lo scultore attraverso i suoi marmi, sulla superficie dei quali si accanisce ossessivamente cercando di addomesticare la luce, ora con una lustratura che la riflette, ora con una leggera scabrosità che la diffonde con effetti di sfumato. “Inseguire le difficili strade della luce, estrarre le immagini dai blocchi di pietra” è una disciplina conoscitiva “ancor più penetrante di un testo di filosofia”, osserva Ruggero Pierantoni riferendosi all’opera dello scultore antico e moderno, che deve fare i conti con due luci: quella naturale e quella da lui stesso creata e indotta sulla scultura (Monologo sulle stelle. Bollati Boringhieri,Torino 1994, pp. 125, 126). Bene ebbe a dire Missirini in Vita di Antonio Canova a proposito dell’arte “sublime ed intellettuale da esso usata per dar vita alle sue immagini” (p. 119).

 

Antonio Canova, Autoritratto, 1812. collezione privata / Antonio Canova, Busto colossale di Leopoldo Cicognara, 1818-1822. Ferrara, Musei Civici di Arte Antica, Palazzo Bonacossi. Cicognara è stato amico di Canova, con il quale s’impegnò sia nella difesa del patrimonio artistico, sia nel sostenere e incoraggiare i giovani artisti.


A differenza della luce naturale, che può variare in direzione e intensità, quella emessa dalla fiamma di una lanterna o di una candela si può dirigere e controllare. Canova spesso lavorava al lume di candela, come faceva Tintoretto quando studiava i calchi delle opere di Michelangelo. I vantaggi di questa illuminazione li ha descritti molto bene Goethe nei passi citati in precedenza, riferendoli a una visione chiaroscurale della scultura. Qui si capisce come la visione monocromatica e quella policromatica della scultura si compenetrino l’una nell’altra. Lo scultore di Possagno tratta la superficie del marmo di Paolina Borghese per imitare il colore dell’incarnato e, al tempo stesso, “stampa” le sue “cartoline” in bianco e nero: insegue i capricci della luce che scorre sulla pelle di Paolina, mostrata a una folla che accorre ad ammirarla anche di notte al lume delle torce, così come insegue i capricci di quella che chiaroscura i rilievi socratici in gesso. “La luce è la cosa più difficile, snatura ogni cosa. Se le lasci fare s’insinua ovunque. Alla luce ci si abitua poco per volta. All’inizio non si comprende quasi niente, poi piano piano ci si abitua e si intuisce come raggirarla. La devi inseguire come una donna. È possente e insolente. Se non l’aspetti diventa tenace. Bisogna accudirla per farla ragionare, per ammansirla, farla cedere poco a poco… lei poi ti condona”.

 

Canova tenta di “ammansire” una luce capricciosa e irragionevole che pervade la logica delle “parti grandi unite alle medie con poche, piccole e tutte concordate insieme ed ordinate a formare un intero largo e sublime”, vale a dire la logica della proporzione numerica, concepita da Canova come “terna corrispondenza” (Melchior Missirini, Pensieri di Antonio Canova sulle Belle Arti. Abscondita, Milano 2005, pp. 31, 46). Nelle sue sculture, l’unità e la semplicità “congiunte con armonia e combinate dalla proporzione”, dalle quali discende l’idea di classico come armonia delle parti e “pura tranquillità” (Winckelmann, Della bellezza; e ch’egli è impossibile definirla, in Dell’arte del disegno de’ Greci e della bellezza, 1767) si combinano con una sensibilità romantica. 

 

Antonio Canova, Paolina Borghese, 1804-1808. Roma, Galleria Borghese.


Nell’articolo Canova nostro contemporaneo pubblicato nel trimestrale d’arte contemporanea Terzoocchio (n° 65, dicembre 1992), Paola Mola segnala che Paolina Borghese, nota come allegoria di Venere vincitrice, ripropone la tipologia dell’urna etrusca con il defunto sdraiato sul triclinio mentre partecipa al suo banchetto funebre. Secondo la storia dell’arte, Canova risponde alla richiesta di un ritratto con una tipologia funebre perché immerso nel romanticismo del suo tempo, quello dei Sepolcri di Ugo Foscolo, pubblicati un anno prima che Paolina venisse scolpita (1808). 

 

L’altra mostra allestita alla Galleria d’Arte Moderna di Milano (a cura di Omar Cucciniello e Paola Zatti) è dedicata alle “teste ideali” di Canova, ben rappresentate dalla Vestale, che costituisce un modello per la scultura dell’Ottocento e che si spinge fin dentro il Novecento attraverso l’opera di Adolfo Wildt, altro virtuoso dell’arte del marmo. Alla Vestale s’ispira la Vergine scolpita da Wildt nel 1924. In questa scultura il classico si mescola al barocco, al virtuosismo secentesco che trasfigura la pietra in carne con un ossessivo lavoro sulla superficie, come aveva fatto notare Margherita Sarfatti, in una recensione del 1923, riferendosi alla vasta produzione scultorea di Wildt e, in tempi recenti, Paola Mola (catalogo della mostra Adolfo Wildt 1868-1931. Mondadori, Milano 1989). Attraverso la Vergine, esposta nella Sezione 3 della mostra alla GAM, si “vede” il barocco che nell’opera di Canova convive con il neoclassicismo e addirittura con la pittura del Trecento e del Quattrocento, che lo scultore porta nelle sue “teste ideali” attraverso la letteratura. È il caso dell’opera in gesso Beatrice esposta nella Sezione 4. Un incrocio di sguardi che si chiude perfettamente con l’opera Mimesi realizzata dall’artista Giulio Paolini nel 1975, composta da due copie in gesso della testa dell'Hermes di Prassitele, collocate in modo che lo sguardo di una rinvii a quella dell’altra. Uno sguardo rivela l’altro, così come lo sguardo di Wildt alla GAM rivela lo sguardo barocco, oltre che neoclassico e romantico, di Canova. Alla GAM, così come a Gallerie d’Italia – Piazza Scala, tutto è un incrocio di sguardi lanciati da spazi e tempi diversi. 

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La storia dell’arte, dell’architettura, della musica è stata insegnata sino a pochi anni fa per personalità oltre che per opere e solo dagli anni Settanta del Novecento l’attenzione degli addetti ai lavori si è posata sulla forma delle mostre che, in alcuni casi, hanno portato scompiglio nelle nozioni ordinate della nostra formazione scolastica. Mostre che indubbiamente hanno cambiato il rapporto tra pubblico e cultura, tra pubblico e museo, mostre che a volte guardano più a obiettivi turistici e commerciali, ma che comunque avvicinano l’arte al grande pubblico. A fianco di esse vi è il catalogo che aiuta a ricordare l’esperienza estetica vissuta osservando, molto spesso, per la prima volta opere che escono dai musei più importanti del mondo e dalle più prestigiose collezioni private.

 

Mostre che raccolgono opere di autori più o meno sconosciuti attraverso, a volte, percorsi eccentrici, ma non per questo meno interessanti. Per diversi decenni sono state le esposizioni, molto più degli studi accademici e specialistici, la forza propulsiva della cultura artistica. Questo fenomeno è spiegato molto bene da Anna Ottani Cavina in Una panchina a Manhattan (2019), che da storica dell’arte internazionale raccoglie nel volume le recensioni delle mostre da lei visitate nel corso della sua attività da studiosa. Anna Ottani Cavina afferma che le esposizioni sono state “vettori di molte idee di lunga durata” il che, nel tempo attuale del visual e digital non è un fatto di poco conto. La mostra What a wonderful world. La lunga storia dell’ornamento a cura di Claudio Franzoni e Pierluigi Nardoni si situa in questo filone di pensiero, di storia e di critica. Non è una mostra collettiva come suggerisce la grafica, che trae in inganno riportando alcuni dei nomi degli artisti e delle opere presenti in mostra. Il visitatore si chiede, infatti, perché quelli e non altri suggerendo una chiave interpretativa distraente dall’impostazione generale del tema, tema molto difficile e complesso perché trasversale a tutte le arti e alla cultura: quello dell’ornamento. 

 

La mostra, che è divisa in diverse sezioni che attraverseremo, seppur velocemente, per evidenziare la profonda riflessione dei curatori e soprattutto con la speranza di dare una guida utile al lettore, inizia con un invito: Come ti senti oggi? Scegli il percorso in linea con il tuo stato d’animo

Proprio di fronte a questo invito è riportata la frase di Leonardo da Vinci che recita: Luce, tenebre, colore, corpo, figura, sito, rimozione, propinquità, moto e quiete; le quali sono dieci ornamenti della natura (1540?). Questi due binari di lettura della mostra aprono immediatamente un grande interrogativo che cronologicamente i curatori cercano di districare con sapienza, competenza e attenzione negli innumerevoli percorsi della storia dell’arte e della percezione. Già, ma cos’è la decorazione? Che rapporto ha con l’ornamento del corpo, dell’ambiente in cui l’uomo, non solamente moderno, vive o ha vissuto? Ovviamente, sia Leonardo che i curatori non forniscono una risposta univoca. Esse, così come le diverse risposte di artisti, teorici, architetti e designer delineano una storia intrigante, affascinante e a tratti bellissima dell’ornamento. Gli stessi storici dell’arte si avvalgono degli studi di antropologi, filosofi, scienziati per delineare una risposta coerente o quanto meno plausibile.

 

Già dalla prima sezione, dal titolo Natura Ornata, si evince che la Natura ha un ruolo fondamentale nella storia della decorazione: essa appare infatti all’uomo, sia nelle sue forme organiche sia in quelle inorganiche come il luogo della decorazione. Il mondo animale, ad esempio ci offre esempi innumerevoli, alcuni dei quali estremamente appariscenti come i pavoni, le farfalle o il fagiano argo.

 

Fagiano argo, Musei Civici, Reggio Emilia.


 Aspetti su cui Charles Darwin si sofferma lungamente con un linguaggio degno di uno storico dell’arte, piuttosto che quello di un biologo e naturalista: “belle tinte”, “squisite forme”, “raffinata bellezza”, “grande perfezione”. Ma la domanda, prima di tutte le altre, è: perché l’uomo ha inventato la decorazione, e soprattutto perché vede l’ornamento nella natura? Le varie teorie degli antropologi, degli scienziati e dei biologi ci riportano all’evoluzione del cervello e quindi della mente umana. Perché l’uomo ha sentito la necessità di decorare le pareti delle caverne, dei primi contenitori per il cibo, del proprio corpo con monili, ma anche con tatuaggi? Le teorie sono diverse e affascinanti: dallo sviluppo fisico del corpo, in particolare del pollice opponibile che diventa lo strumento di lavoro principe dell’ominide che a sua volta ha determinato il potente sviluppo del cervello e quindi della mente a scoprire il mondo, a progettare, a pensare prima del fare, di realizzare ciò di cui l’uomo ha bisogno per la sopravvivenza. Gli scienziati affermano che già 3,2 milioni di anni fa l’uomo era dotato del pollice opponibile come documenta M. Skinner, paleoantropologo dell’Università del Kent (GB). Grazie a questa possibilità l’Homo Erectus impara a cuocere i cibi, questa pratica consente di ricavare più calorie dalle sostanze consumate e di diminuire, di conseguenza, le ore dedicate all'alimentazione. Furono così superate le limitazioni metaboliche che negli altri primati non hanno permesso uno sviluppo del numero di neuroni e delle dimensioni del cervello proporzionale alle dimensioni corporee. Inoltre si avvia il processo di sviluppo della corteccia prefrontale che è una delle aree più interessanti e decisive per comprendere il pensiero astratto. Si sviluppa così la mente, termine con cui gli scienziati indicano una delle funzioni superiori del cervello, insieme alla nascita del linguaggio, un fenomeno tutt’altro che semplice e uniforme, considerato la guida dei pensieri e delle azioni in relazione agli obiettivi e agli aspetti di adattamento dell’uomo (E. Cassirer, Saggio sull’uomo. Una introduzione alla filosofia della cultura umana, Armando editore, 2004). La mente, però, è una mente inquieta che abbraccia la modalità del fare, che continuamente pensa, immagina, lavora, cerca soluzioni, si proietta all’esterno e inventa. È in quest’epoca che l’uomo inizia a decorare le pareti delle grotte, le ciotole e non di meno il proprio corpo. È forse un tentativo per trovare una soluzione apotropaica, spirituale, animistica per sopravvivere all’ignoto, alla paura della morte, per ingraziarsi gli spiriti?

 

Non solo. Scrive George David Haskell in Il canto degli alberi: Storie dei grandi connettori naturali (Einaudi, 2018): "Intorno al fuoco l’immaginazione [dell’uomo del Neolitico] prende il volo e si raccontano storie. Si parla dei legami e dei litigi all’interno delle reti sociali, di matrimonio, di famiglia, dello spirito del mondo. La fiamma sembra rinforzare la comunità umana, legandone più strettamente i fili. Le nostre menti, a quanto pare, sono particolarmente ben sintonizzate con il suono del fuoco. Nel laboratorio di psicologia, la pressione sanguigna dei soggetti sotto esame si abbassa, e la loro socialità aumenta quando viene fatto loro ascoltare il suono del fuoco crepitante. Invece, la vista di un fuoco silenzioso non genera alcun effetto.” Dal Paleolitico superiore, circa 17.500 anni fa, abbiamo un esempio eclatante: più di 6.000 immagini di animali, figure umane e segni astratti (decorazioni?) delle grotte di Lascaux. Un esempio tra i tanti, come è possibile osservare anche in mostra. 

Se i presupposti per lo studio dell’ornamento partono da queste basi, dalla storia dell’uomo, dalla storia della sua mente, l’argomento si fa ancora più interessante e per certi aspetti controverso. La domanda che pone la mostra è: la natura è ornata o è la mente dell’uomo che trova percorsi ideali per guidare la propria mente e attivare un processo di mimési, dove potersi riconoscere? È una storia fascinosa che ha attraversato la storia dell’arte e quindi dell’ornamento. La mostra propone nella prima sezione uccelli imbalsamati, disegni, incisioni, tempere per giungere alla pietra paesina. Un altro esempio calzante di come la mente dell’uomo vede ciò che non esiste e attraverso semplicemente la “nomina” di quell’oggetto, una pratica antica quanto l’uomo stesso, lo possiede, addomestica il mondo, come ha ben spiegato Ernst Cassirer nel suo saggio già citato. In ambito prettamente artistico Massimiliano Gioni nella 55 Esposizione Internazionale d’Arte dal titolo Il Palazzo Enciclopedico, del 2013, una mostra sulla conoscenza, sul desiderio di sapere, dimostra questa tesi esponendo la collezione di pietre di Roger Caillois: scaglie d’agata, quarzi, ametiste che vengono titolati: Corona di Cristo, Occhio blu, Il piccolo fantasma ecc. Esse perdono la loro vera identità di pietre per assumerne un’altra, quella assegnata dal collezionista, dall’uomo, per affermare un’idea davvero suggestiva e cioè che anche la natura crea immagini, opere d’arte. Régis Debray nel saggio Vita e morte dell’immagine (Il Castoro, 1998) si chiede: “Perché vi è immagine piuttosto che niente?” Gli risponde Hans Belting nel suo saggio Antropologia delle immagini (Carocci, 2013) dove afferma che l’uomo è probabilmente l’unico essere vivente non solo a produrre immagini, ma è l’unico a dar loro vita. La sua mente, e con essa il suo corpo, è popolata da rappresentazioni proiettate all’esterno. 

 

Addentrandosi nella seconda sezione, Il corpo decorato, vengono analizzati vari tipi di interventi estetici sul corpo che variano a seconda del tempo e delle mode ma, come sostiene lo studioso viennese Alois Riegl, hanno un obiettivo primario: la ricerca di un’idea di bellezza. Un’attenzione speciale, proprio in merito anche alla lunga premessa, è riservata al corpo, alla pelle: a volte viene dipinta, tatuata a volte scolpita, scarnificata. Nelle varietà infinita di interventi sul corpo e per il corpo che i curatori illustrano con alcune pregevoli opere e documenti, propongono l’affiancamento di un’opera contemporanea di Claudio Parmigiani dal titolo Deiscrizione del 1972 che rappresenta uno scriba il cui corpo è ricoperto di ideogrammi misteriosi, un’opera di grande forza evocativa, che inaugura il dialogo incessante tra opere d’arte del passato e contemporanee, che accompagna il percorso della mostra.

 

Malcolm Kirk, Samo tribesman, Sokabi village, Western Province, 1978 © Malcom Kirk and the Metropolitan Museum of Art, New York.


La sezione Il fascino della vegetazione riprende di nuovo il dialogo con la natura che, ci spiega Ernest Gombrich in Il senso dell’ordine (Phaidon, 2010) “offre un campo d’azione in tutte le attività fondamentali [dell’artista] come “inquadrare, riempire, connettere” raggiungendo nella storia esempi oltre che interessanti anche di notevole bellezza. I capitelli d’epoca greca, poi romana, la ceramica, le legature, le cornici, le miniature, i paramenti sacri, fino a giungere alle moderne carte da parati di William Morris. Un percorso che viene declinato in innumerevoli modi, anche sofisticati, come ci illustra la sezione L’incanto dell’astrazione: intrecci, incroci e nodi dove Leonardo da Vinci e Dürer mettono in campo tutta la loro bravura senza mai perdere di vista il disegno, la forma, l’armonia, ma trasformando questo esercizio in una prova della capacità della mente di sapersi districare lungo un percorso abilmente tracciato. 

 

Noce di cocco, gusci intagliati, dalla collezione di Lazzaro Spallanzani, seconda metà del XVIII sec., Reggio Emilia, Musei Civici © foto Carlo Vannini.

 

Disegno di Leonardo da Vinci, Nodo vinciano, incisione, 1497-1500, Milano, Biblioteca Ambrosiana, Pinacoteca.

 


Non poteva mancare La scrittura come ornamento, sezione della mostra che si apre con una frase di Walter Benjamin: “Non c’è palazzo reale, né cottage di miliardario che abbiano provato un millesimo di quell’amore per la decorazione che è stato rivolto alle lettere dell’alfabeto nel corso della storia della cultura, per il piacere del bello e per onorarle al tempo stesso.” È possibile ammirare Liber figurarum di Gioacchino da Fiore poco distante da Women of Allah di Shirin Neshat (1957) e da Avere fame di vento di Alighiero Boetti (1988-89), facendo scaturire uno scatto percettivo interessante oltre che inedito.

 

Shirin Neshat, Women of Allah, 1994, Milano, Collezione Consolandi © Shirin Neshat.


Si giunge poi ad una cesura, alla fine di una utopia ornamentale che con l’Art Decò aveva invaso le abitazioni, rinnovando lo stile di ogni cosa, anche degli oggetti quotidiani. È l’architetto Adolf Loos nel suo saggio Ornamento e delitto (1908, tra. It. in Parole nel vuoto, Adelphi, 1972) in cui l’autore afferma che ornare le case, gli oggetti è un’azione diretta contro i principi morali di una civiltà, se si considerano gli aspetti sensuali, voluttuosi o persino erotici dell’arte della decorazione. Così facendo Loos apre nuove ere dove i razionalismi e i funzionalismi troveranno solide basi teoriche. Ma la lezione dell’architetto austriaco non è puntualmente seguita dalle avanguardie, così come analizza la sezione Le avanguardie artistiche: il ritorno al “rimosso”. Picasso, Braque, ma anche Malevič e Mondrian nel cercare la forma pura diventano “decorativi”. 

 

Tocca a Matisse che con la sua immaginazione, la sua mente libera, va oltre i dettami moralistici di Loos, giungendo a disgregare lo spazio razionale dell’occidente ispirandosi all’arte nord africana e introducendo nel suo linguaggio fluidità, musicalità e non trame narrative. Matisse ibridando le sue fonti visive supera la rappresentazione naturalistica restituendoci il percorso della sua mente, verso l’astrattismo. In mostra è proposto uno splendido esemplare del libro d’artista Jazz del 1947. 

 

Henri Matisse, Jazz (VIII Icaro), 1947 Paris, Tériade, Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze.

 

Le suggestioni di questa mostra sono moltissime e ben documentate dai densi saggi dei curatori e dal Vocabolario, le cui voci sono compilate da storici dell’arte, da psicoanalisti, da scienziati, da letterati, da architetti che nel compilare il lemma suggerisco altri punti di vista dell’ornato. Il catalogo si pone quindi come un punto di arrivo, e certamente un punto di partenza, per lo studio dell’ornato grazie anche all’apparato della bibliografia generale.

 

Un’altra lodevole particolarità di questa mostra è quella di aver fatto dialogare opere d’arte, oggetti e documenti provenienti dalle collezioni locali, non sempre facilmente visibili, con opere provenienti da musei internazionali, oltre che aver valorizzato fatti artistici strettamente locali proiettandoli in un quadro più generale, ampio e complesso. È il caso della sezione dedicata all’esperienza della psichiatra Maria Bertolani Del Rio che fra il 1928 e il 1935 utilizza le decorazioni romaniche di epoca matildica per recuperare quello che rimane delle abilità dei bambini con disabilità intellettiva, dimostrando come il lento, ma preciso lavoro di ricamo e di decorazione su oggetti quali ceramiche e stoviglie, possa guidare e quindi recuperare la mente. Un esperimento che ha fatto storia, anche quella dell’ornamento. 

La mostra prosegue ai chiostri di san Pietro con l’esposizione di opere contemporanee che ci conducono fino ai giorni nostri. Una mostra, in conclusione che traccia le linee generali, metodologiche dello studio fenomenologico trascurando volutamente alcuni temi come la street art ma che è degnamente rappresentata da uno dei suoi più importanti esponenti: Keith Haring. La mente, quindi, non ha confini, la città, le metropoli diventano una scena urbana dove potersi esprimere senza limitazioni. La storia dell’ornamento è quindi anche la storia della mente inquieta, che regala tanta bellezza. 

 

(Un ringraziamento particolare a Marco Tamelli)

 

What a wonderful world. La lunga storia dell’ornamento

A cura di Claudio Franzoni e Pierluca Nardoni

Palazzo Magnani – Chiostri di San Pietro, 16 novembre-8 marzo 2010

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Robert Morris: prima di morire

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Robert Morris è sicuramente uno dei grandi artisti degli ultimi sessant’anni. Scomparso l’anno scorso, il 28 novembre, era talmente esasperato dalle continue domande sul minimalismo con cui era stato identificato e sul perché aveva poi deviato da quella strada che ha scritto una lettera aperta di “indisponibilità” ai critici e giornalisti.

Ricordo ancora quando vidi per la prima volta a metà degli anni ottanta in una mostra a New York le sue opere con teschi e ossa in bassorilievo, tutti neri, con enormi cornici. Erano in mostra insieme a dei Richard Serra e dei Bruce Nauman, così discordanti dai lavori degli altri due. Mi fecero un grande effetto. Erano gli anni del successo dirompente della Transavanguardia e della New Image, Picture Generation, Neo-Geo, e la sua opera davvero apparve come una sterzata sorprendente. Era noto come minimalista della prima ora, quello delle L-beams uguali ma disposte in tre modi diversi nella mostra alla Green Gallery del 1964, poi dell’Antiform, certo anti, ma pur sempre nella scia di riflessione sulla form, quindi come dire post-minimalista.

 

Poi si cominciò a parlare dei suoi lavori precedenti il 1964, quelli con Simone Forti, minimalisti ma con una forte implicazione del corpo, e quelli pre-concettuali, scatolette con varie cose dentro. Georges Didi-Huberman rese famose Column e Box for Standing, del 1961: dei parallelepipedi in effetti, ma contenenti un uomo, all’occasione l’artista, che faceva cadere la prima e stava nella seconda come in una bara verticale aperta. Anche i feltri “cadevano” e insomma le forme minimali rivelavano un’ossessione che non era per niente minimalista, quella dell’entropia, per usare un termine scientifico adatto all’Antiform, quella della morte, per usarne un altro esistenziale.

 

Personalmente inseguii le tracce di un’opera che mi colpì di nuovo in modo particolare, anche perché pochissimo ricordata. La vidi nella mostra parigina L’art conceptuel: une perspective, nel 1989. Si tratta di Dichiarazione di ritrattazione estetica, del 1963. Davvero singolare, consiste in un’opera in piombo come ne faceva in quell’anno ma accompagnata da un atto notarile in cui l’artista dichiarava che quella non era più da considerarsi un’opera d’arte. Tornava dunque, o diveniva, un oggetto tra oggetti: l’opposto di un readymade! Un caso unico, che io sappia: caduta, entropia dell’opera e dell’arte stessa. Sua morte? Sì, ma al tempo stesso restituzione alla realtà, e forse altro ancora.

Così le ultime opere di Morris, ora esposte alla Galleria Nazionale di Roma nella mostra intitolata Monumentum. È una grande installazione, pensata dall’artista prima che morisse, che raggruppa le opere dei suoi ultimi anni. Sono soprattutto delle figure umane in varie situazioni, la cui particolarità comune è la sparizione del corpo, restando solo i tessuti vuoti che li avvolgevano, ora irrigiditi o fusi in altro materiale. 

 

Sono disposti in composizioni diverse, da Keep it to yourself (2014-15), esplicita e significativa indicazione: “Tientelo per te”, a Dunce I e II, che stigmatizzano l’ignoranza, che fanno parte della serie intitolata Moltingsexoskeletonsshrounds, dove è questione di sesso, esoscheletri e di muta e mutazione; a Criss-Cross (2016), incrocio di corpi che, è stato notato, sostituisce con corpi i segni dell’allover dell’Action Painting; a Out of the past (2016), vera e propria danza di fantasmi, e a Dark passage (2017-18), l’ultima opera, quella prima dell’“oscuro passaggio”.

 

Photo Anton Giulio Onofri
 © Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea.


Il tema è certamente ed esplicitamente quello della morte, un tema difficile, se non propriamente impossibile (di fronte alla quale siamo tutti dei “somari”). Lo è da tanto tempo nell’opera d Morris, fin dall’inizio nel senso che abbiamo accennato sopra, ma ora in particolare in quello “monumentale”, come giustamente dice il titolo dell’allestimento romano. Ha dichiarato che il momento topico è stata la visita al monumento funebre a Alessandro VII del Bernini alla fine degli anni ’70, con quello scheletro nero sotto un enorme panneggio di marmo. Ma la morte è stata per i decenni seguenti il tema centrale di una riflessione sulla violenza e i mali del mondo, di fronte ai quali Morris non sentiva di poter fare un’arte che non li affrontasse. Come sintesi del suo pensiero al riguardo si veda una delle pochissime interviste e interventi scritti che è stato possibile strappare alla sua indisponibilità, che sono nel catalogo del suo intervento a Reggio Emilia, nei chiostri di San Pietro, Less than (Gli Ori, 2005).

 

Sono passati più di dieci anni da quel “monumento”: un corpo cavo e senza la parte superiore, testa e braccia, piegato sotto il peso dell’anfora di Pandora, sotto l’enigmatico sguardo interrogativo dei cavalli che scandiscono un lato del chiostro e hanno scatenato, a detta dell’artista, l’idea stessa dell’opera; i “mali”, quanto ad essi, si manifestano sotto forma di rumori molesti emessi da altoparlanti al calar del giorno, di ogni giorno.

Da allora la morte è diventata però anche un problema personale. Passati gli ottant’anni il pensiero dell’imminenza della propria morte diventa pressante. L’ultimo ciclo forse segna proprio questa riflessione. Le opere più vecchie inscenano ancora situazioni che rimandano alla riflessione sui mali del mondo, con riferimenti a Mantegna, a Goya, a Abu Graib (almeno mi pare nei cappelli a punta dei personaggi) e così via. Le due più recenti per me sono quelle che chiamerei opere “ultime”, cioè realizzate con la consapevolezza che siano le ultime, propriamente prima di morire. Una riflessione dunque sulla morte individuale.

 

Photo Anton Giulio Onofri
 © Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea.


Giustamente Cincinelli incentra il suo testo in catalogo sulla tecnica del calco e sulla nozione di “impronta”, che cortocircuita il qui e ora con il là e allora, il risultato con il processo, la fine con l’origine, il non più con il non ancora, l’apparizione con la sparizione. Federico Ferrari da parte sua rileva il titolo dell’ultima serie, Boustrophedon, e lo commenta come pensiero bustrofedico della morte, “movimento ritmico, di andata e ritorno, attraverso cui la vita riconosce il proprio doppio e il proprio sempre nuovo senso o non-senso”, ma per lui la sparizione-rimozione del corpo, del corpo morto, è la “prova inconfutabile del non mantenimento della promessa”: scomparso il corpo, appare la pura angoscia, la “tragicità della mancanza di appigli”.

 

Azzardo un’ulteriore interpretazione. Con “opera ultima” vorrei riferirmi al fatto che l’artista, pur essendo concentrato sul pensiero della morte imminente, comunque non rinunci a realizzare ancora un’opera, ancora una, forse quella decisiva, quella in cui riuscirà a mettere finalmente davvero in gioco tutto. Penso sempre a questo proposito a un testo, bellissimo, che dice come meglio non si potrebbe questo pensiero, cioè Così sia di André Gide, il quale, giunto appunto alla soglia della fine, scrive: sto per morire, ma voglio tentare ancora una volta di dire quello che non ho detto fin qui. Ancora una, ancora un’ultima, perché ultima porta sempre l’articolo indeterminativo.

 

Non si tratta qui del rinvio della morte, secondo il paradigma di Sherazade. Qui non si tratta di narrazione. Ma il rimando alla scrittura non è arbitrario, visto che il titolo stesso del ciclo di Morris la chiama in causa. Ebbene, la scrittura bustrofedica è quella delle tavolette antiche che procede in un senso fino al margine scrittorio e prosegue a ritroso nella direzione opposta, secondo un procedimento "a nastro", senza "andare a capo". È insomma evidentemente una metafora dell’idea di morte che Morris propone, un “passaggio oscuro” ma un “passaggio”, non una fine: il rapporto tra vita e morte ha forse un andamento bustrofedico, i fantasmi sospesi di Out of the past e i penitenti di Dark passage sono lì a suggerircelo, senza direzione e in tutte le direzioni. È come se Morris si sia guardato già dal dopo, abbia inteso cioè che ogni monumento è sempre postumo. In fondo, anzi, ogni opera è sempre postuma, come alla fine ci ha insegnato Duchamp.

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Giulio Romano e il piano sequenza

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Sul coperchio della scatola Baci Perugina da 257 grammi due innamorati si baciano sotto un cielo stellato. L’influsso delle stelle sembra avere una relazione con il desiderio dei due innamorati, come suggerisce il termine latino “de-sidere” (dal quale discende il nostro “desiderare”), composto dalla preposizione “de”, che indica il moto dall’alto verso il basso, seguita da “sidere”, ablativo di “sidus – stella”.

 

Scatola Baci Perugina da 257 grammi.


“Oh se potessi toccare la mano di Neobule!” esclama Archiloco nel frammento 118 West, citato da Plutarco di Cheronea nel contesto di una discussione sulla natura della lettera “E” contenuta nella formula di consultazione oracolare (L’E di Delfi, in Dialoghi delfici. Adelphi, Milano 1983, p. 139). Archiloco canta l’amore con immagini di forte erotismo e Plutarco lo cita portando l’attenzione in modo colto ed elegante sul rapporto fra Eros e divinazione. Nella letteratura greca, già a partire da Omero (Odissea 291s.) e dagli Inni (H. Ven. 155ss.), l’espressione “toccare la mano” indica i preliminari di un amplesso.

L’Eros al quale Plutarco si riferisce nei dialoghi pitici non è quello sensuale di Archiloco ma quello virtuoso di Platone. Il delirio d’amore, che strania dalle normali regole di condotta innalzando l’anima verso le stelle, è contiguo a quello poetico, mistico e profetico. Il sentimento dei due innamorati che si baciano sotto il cielo stellato, nella confezione dei Baci da 257 grammi, conserva questa contiguità con il delirio profetico? E quello dei soggetti erotici, ispirati all’arte antica e ai testi classici, che coabitano e talvolta anche s’intrecciano con quelli astrologici negli affreschi dipinti da Giulio Romano e bottega a Palazzo Te? 

 

Giulio Romano e bottega, Banchetto (particolare), 1526-1528. Mantova, Palazzo Te, Camera di Amore e Psiche.


Realizzato in un arco di tempo che corre dal 1524 al 1534, Palazzo Te fu eretto da Federico II Gonzaga come “tempio” dedicato alla sua amante Isabella Boschetti (Gian Battista Intra, Il Palazzo del Te presso Mantova e le sue vicende storiche, in Archivio Storico Lombardo, XIV, 1887, pp. 65-84).  

Riferimenti alla passione di Federico per Isabella sono inseriti in modo sia implicito che esplicito nell’intreccio fra temi erotici e astrologici affrescati sulle volte e le pareti del palazzo. L’impresa dello zodiaco, affrescata nella Camera degli Imperatori, rappresenta il pianeta Venere in rotazione intorno alla terra mentre interseca la costellazione del Toro, segno zodiacale di Federico. L’immagine è corredata dal motto “in eodem semper – sempre nello stesso posto”. L’immagine e il motto s’interpretano reciprocamente per significare la costanza dell’amore di Federico nei confronti di Isabella

Le immagini erotiche affrescate sulle volte e le pareti di Palazzo Te svolgono anche una funzione politica, spiega Barbara Furlotti nel saggio Eros e immagini alla corte di Federico II Gonzaga, pubblicato nel catalogo della mostra Giulio Romano. Arte e desiderio in corso a Palazzo Te (fino al 6 gennaio). Maggiore è l’ardore amoroso dell’uomo, maggiore è anche il suo coraggio: “alla guerra [le donne] fanno li omini senza paura ed arditi sopra modo”, scrive Baldassare Castiglione, zio di Isabella Boschetti, nel suo Il Cortegiano pubblicato nel 1528. In questo testo Castiglione elogia l’amore in chiave virtuosa, ma in molte delle immagini affrescate nelle sale di palazzo Te e in quelle rappresentate nelle opere ivi esposte l’erotismo assume un aspetto indecoroso spogliandosi – è proprio il caso di dire – di riferimenti colti ed eruditi.

 

Marcantonio Raimondi (da Giulio Romano), Baccanale (particolare), 1510-1513 circa. Vienna, Albertina.


La mostra invita a riflettere sul rapporto fra visione e desiderio nella cultura del Cinquecento, con riferimento al rovesciamento dell’immaginario poetico dell’amore cortese petrarchesco. All’idea dell’amor cortese, nei primi decenni del Cinquecento, si oppose una forte corrente anti-petrarchista che si manifestò nei versi burleschi e sfacciati delle composizioni poetiche “burlesche”, nelle novelle e nelle commedie che ebbero gran successo di pubblico, riferisce Guido Rebecchini nel saggio Lo sguardo, i sensi. Giulio Romano e l’arte erotica del Cinquecento pubblicato in catalogo (pp. 20-21). Nel 1520, Giulio Romano e Marcantonio Raimondi pubblicarono una serie di incisioni di soggetto pornografico, probabilmente ispirate a fonti antiche, alla quale Pietro Aretino associò dei sonetti usando un linguaggio privo di inibizioni. Queste incisioni, riprodotte in differenti media, inclusi disegni, bronzetti e decorazioni su maiolica, ebbero grande fortuna e continuano ad averla considerando la folla che stipa la sala dove si trovano esposte, bloccando il flusso dei visitatori verso le altre sale. 

 

A fatica riesco ad avvicinarmi al Baccanale inciso da Raimondi, che suscita la mia curiosità per la metamorfosi antropomorfica, zoomorfica e fitomorfica (i segni grafici che rappresentano i capelli e i velli sembrano suggerire forme arboree o vegetali) delle figure, nel contesto di un passaggio dall’immagine scolpita a quella incisa che la rappresenta (l’incisione richiama la tipologia del rilievo su sarcofago e nella composizione sono anche inserite delle erme). Questo passaggio porta alla luce il rapporto che la scrittura ha con questi altri medium. Alla radice etimologica del termine “scrittura” troviamo infatti “incisione”, “scavo”, “solco”, che il nero dell’inchiostro tipografico invade prima di essere trasferito a stampa sul foglio. 

 

Giulio romano, Due amanti, 1524 circa. San Pietroburgo, Museo Statale Hermitage.


L’intelligenza visiva dell’incisione di Raimondi, che pone il problema dello sguardo che si forma attraverso lo scambio fra medium diversi nel segno di un erotismo colto e intellettuale, non è da meno dei Due amanti dipinti da Giulio Romano. I corpi dei due giovani sembrano risplendere di luce propria grazie alle sapienti velature di colore e a un contrasto di complementari, esaltato dal rosso delle due pantofole lasciate ai piedi del triclinio. L’intelligenza visiva di questo capolavoro è anche nello sguardo perso degli amanti, che comunica la vertigine del desiderio erotico e, al tempo stesso, quella della forma eccentrica nell’arte manierista, che trova uno dei suoi vertici nella Camera dei Giganti

Che sorpresa quando si entra per la prima volta in questa sala, inserita nel percorso di visita! La meraviglia e il divertimento caratterizzano la cultura di corte di quel tempo: un mondo irreale punteggiato da feste e spettacoli, spiega Ernst Hans Josef Gombrich in Il palazzo del Te. Riflessioni su mezzo secolo di fortuna critica: 1932-1982 (Quaderni di Palazzo Te, luglio-dicembre 1984. Edizioni Panini, Modena 1984, p. 20). La Camera dei Giganti suscita meraviglia tanto quanto la costruzione figurativa dei Due Amanti, che supera il limite della pittura per raggiungere un effetto teatrale. I dipinti a tema erotico esposti negli spazi privati avevano spesso una coperta che veniva rimossa per mostrare l’opera. Possiamo immaginare quale poteva essere l’evento pre-cinematografico al quale si poteva assistere. Scoprendo un po’ alla volta il dipinto, come in un piano sequenza, si potevano vedere i due amanti impegnati nei preliminari e poi, in un crescendo della tensione, ecco apparire una vecchia che si affaccia da una porta infilando nell’occhiello della serratura il dito medio, allusione all’atto sessuale in procinto di compiersi. Serrature e chiavi, padelle, forni, comignoli, lance e pennelli appartengono a un linguaggio in codice dell’erotismo.

 

Giulio romano, Due amanti (particolari), 1524 circa. San Pietroburgo, Museo Statale Hermitage.


In Palazzo Te i soggetti erotici, mascherati dietro l’apparenza di una storia mitologica e giustificati come traduzioni in immagini di invenzioni letterarie e poetiche, si moltiplicano di sala in sala, accompagnando il percorso espositivo ricco di opere, fra le quali disegni di Rosso Fiorentino, di Perino del Vaga, della bottega di Raffaello e, naturalmente, anche di Giulio Romano. La mostra non esplora il rapporto fra l’erotismo e l’oscurità che vorremmo penetrare con l’aiuto della luce delle stelle, non esplora il campo semantico del “de-sidera” da cui siamo partiti, ma offre una buona occasione per ammirare le opere esposte attraverso un’accurata lettura critica. Offre anche l’occasione per visitare il complesso architettonico di Palazzo Te, allo studio del quale Gombrich dette nel 1984 un importante contributo (vedi il testo citato in precedenza), mettendo in luce le problematiche dell’interpretazione storico-artistica. 

 

Perino del Vaga, Vertumno e Pomona, 1527 circa. Londra, British Museum / Giulio Romano, Venere e Adone, 1516. Vienna, Albertina.


Gombrich ritiene che la sua interpretazione del Manierismo come sintomo di un conflitto non risolto sia stata influenzata dall’ambiente freudiano con il quale entrò in contatto, ma anche dall’arte dei suoi tempi: dai conflitti non risolti del Cubismo con il Neoclassicismo, emersi nel corso degli anni in cui Picasso inserì nella sua opera suggestioni neoclassiche (p. 18). Nel suo esprimere un giudizio sul passato ogni storico dell’arte esprime impliciti giudizi anche sul presente. Il presente dell’arte influisce sull’interpretazione storica ristrutturando il passato, mentre il passato irradia verso il presente gettando un ponte verso il futuro, sostiene la storica dell’arte Paola Mola nei suoi saggi (fra questi segnalo Avatar e il Laocoonte pubblicato nel catalogo della mostra Wildt. L’anima e le forme, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2012). Vale per tutti l’esempio di Giorgio Vasari che inventò il Rinascimento come storia fiorentina perché era allievo di Michelangelo, indirizzando di conseguenza molto del Manierismo. 

Giulio Romano si trova esattamente al centro di questa distorsione del tempo, che è anche una distorsione dello spazio. Vasari ricorda la sua visita a Palazzo Te accompagnato dal “capricciosissimo ed ingegnoso” Giulio che, per realizzare la Camera dei Giganti, “fece murare le porte, le finestre, ed il camino di pietre rustiche a caso scantonate, e quasi in modo scommesse e torte, che parea proprio pendessero in sur lato, e rovinassero veramente: e murata questa stanza così stranamente, si mise a dipingere la più capricciosa invenzione che si potesse trovare, cioè Giove che fulmina i Giganti”. A questo “rovinare” che rovescia e confonde nello spazio così come nel tempo dobbiamo rassegnarci perché fa parte della nostra cultura. 

 

La visita alla mostra e al palazzo ci aiuta a capire meglio il nostro tempo, anche attraverso il confronto con forme del desiderio diverse dalla nostra, come illustrano gli affreschi realizzati da Giulio Romano e bottega nella Camera di Amore e Psiche. Queste opere hanno sollecitato diverse interpretazioni: da quella neoplatonica di Frederick Hartt a quella di Egon Verheyen, che considera questi dipinti come semplici esaltazioni visive dell’amore e della sensualità. Uno di questi rappresenta Giove, in aspetto di serpente, che seduce Olimpiade, madre di Alessandro Magno e moglie del re Filippo II il macedone. Secondo una leggenda riferitaci da Plutarco, il vero padre di Alessandro sarebbe stato lo stesso di Giove. In questo affresco pare che Giulio Romano abbia rappresentato senza alcuna censura l’amplesso di Federico e della sua amante Isabella (legittimamente sposata con Francesco Cauzzi Gonzaga di Calvisano), rispettivamente nei panni di Giove e Olimpiade. Dalla loro relazione nacque infatti nel 1520 un figlio al quale diedero il nome di Alessandro. 

 

Giulio romano e bottega, Giove seduce Olimpiade, 1510-1513 circa. Mantova, Palazzo Te, Camera di Amore e Psiche.


Visito la sala seguendo le tracce letterarie lasciate dalla lettura di Plutarco nel Cinquecento. Molti anni fa visitai Delfi portando con me il volumetto Adelphi curato da Dario del Corno. Leggendo Plutarco salivo lungo la Via Sacra colpito dal parere espresso da Nicandro a proposito della misteriosa lettera “E”, uno dei simboli sacri del santuario oracolare di Delfi, che andrebbe inteso come “εἰ”, da interpretare nel valore della particella interrogativa “se” posta all’inizio della formula di consultazione dell’oracolo: “se” sarò vittorioso, “se” mi sposerò”. Questa particella esprime una connotazione desiderativa, oltre che interrogativa: “Oh se riuscissi! dice chiunque prega” (L’E di Delfi, p. 139). Nel testo di Plutarco questa espressione è seguita da un’invocazione che (come abbiamo avuto modo di rilevare in precedenza) nella letteratura greca ha un senso erotico: “Oh se potessi toccare la mano di Neobule!”.

I due innamorati Perugina interrogano le stelle colore argento stampate su fondo blu, ma solo nella confezione classica da 257 grammi. Nelle altre confezioni gli innamorati sono spariti. Restano solo le stelle, senza abbraccio, bacio e desiderio, se non quello che spinge all’acquisto. 

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La Madonna di Alzano, di Giovanni Bellini

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Quella con la Madonna di Alzano di Giovanni Bellini è la dodicesima edizione di L’Ospite illustre, la rassegna curata e promossa da Intesa Sanpaolo che propone un’opera di rilievo in prestito temporaneo da prestigiosi musei italiani e stranieri ospitata nelle sedi espositive della Banca, le Gallerie d’Italia di Milano, Napoli e Vicenza, e il grattacielo di Torino, diventato spazio museale di Intesa Sanpaolo.

Il capolavoro di Giovanni Bellini è per alcuni giorni visitabile a Torino, nello “Spazio Trentacinque” al 36° piano del grattacielo di Intesa Sanpaolo, assieme al suggestivo scenario della Serra bioclimatica. Un’occasione da non perdere per chi non conosce l’Accademia Carrara di Bergamo che l’ha prestata, che è uno dei Musei di città minori più belli d’Italia, dove il dipinto è giunto grazie alla donazione che il grande esperto e collezionista Giovanni Morelli ha fatto della propria Raccolta alla fine dell’800. Ma bergamasco il dipinto lo è da sempre. È accertato infatti che sia stato commissionato al pittore da Alessio Agliardi, che l’ha poi lasciato a sua figlia Lucrezia, da vedova divenuta badessa delle Carmelitane ad Albino, per passare poi, con una sosta secolare su un altare a Alzano, da cui il suo nome, per le mani di alcuni religiosi e collezionisti fino a Morelli. L’opera era conosciuta e amata anche dai fedeli, tanto che il grande Giovan Battista Moroni ne ha fatto a metà '500 una bella copia, cambiando lo sfondo, come forse di sua mano è un'altra replica sua contemporanea.

 

Tra le numerosissime “Sacre conversazioni” belliniane, questa è senza dubbio una delle più alte, come il volto di Maria è a mio parere uno dei più belli tra quelli dipinti dal grande veneziano, e dunque di tutta la storia della pittura. 

Maria è vicinissima come lo può essere una donna e una donna-madre, e misteriosa, non solo per i suoi mirabili lineamenti, il suo contegno, la postura, i gesti accennati, ma soprattutto come lo è la maternità, l’essere madre, e madre Dio, come un dio è ogni figlio per ogni madre, o quasi. Per un uomo, affascinante, nel senso originale del termine, e incomprensibile. Fuori portata forse non dell’immaginazione, che è poca cosa, ma del sentimento incarnato, che è tutto, forse non solo in questo contesto.

 

Giovanni Bellini, Madonna Lochis.


Anche la Madonna Lochis, sempre alla Carrara, o quella della Presentazione di Gesù al tempio della Fondazione Querini Stampalia, o la Madonna greca di Brera sono bellissime, ma io preferisco questa. Quella di Brera è meravigliosa, con quel suo sguardo irrimediabilmente triste, per quanto composto, trattenuto; ma in quella di Alzano persino la tristezza è superata, lo sguardo va lontano, all’interno però, verso un luogo dove ogni emozione si deposita e resta, senza tradirsi in alcun modo. Non chiede com-passione, non reclama e nemmeno suggerisce nulla, e proprio per questo chi guarda è indotto, e si direbbe obbligato, a proiettare su di essa tutte le emozioni che la venerazione e l’amore (e anche la seduzione) possono suscitare, nel tentativo di colmare l’infinita distanza che proprio dalla prossimità sembra promessa, favorita e dischiusa dal taglio a close-up delle figure – dalla prossimità visiva cioè, e della partecipazione a uno spazio comune accentuato dalla luce dei quadri belliniani, che più che colpire le cose e i corpi, come dice Hans Belting, li circonda delicatamente – mentre invece viene assolutamente preclusa, proiettata in uno spazio non attraversabile, dalla postura della Donna e da quel suo sguardo che lo ignora. Inaccessibile come lo è il segreto di ciascuno, spesso persino a lui stesso; come lo è il dolore. La stessa concezione di Bellini dell’immagine, dice ancora Belting sia pure a proposito di un altro quadro, “come luogo estetico [contribuisce a] allontana[re] la realtà rappresentata” dallo spettatore.   

 

Giovanni Bellini, Maria.


Se cioè la scelta di Bellini di dipingere la Madonna a mezza figura, quasi una sua invenzione, è per portare la Vergine in presenza, come una persona reale nei ritratti (e difatti Ritratto mariano era considerato questo genere di opere), o come una visione, dall’altro la separazione resta. È la stessa funzione che viene affidata al parapetto marmoreo (che come è noto richiama la pietra sepolcrale e il sacrificio di Cristo, marcato ancor di più nel nostro caso dal colore rosso del marmo e dalla pera che vi è posata, allusione al peccato e alla necessità del sacrificio salvifico di Cristo, e della Madre quindi come nuova Eva), che introduce e separa: è la soglia che permette al fedele il contatto con il mondo del sacro ma che al contempo lo confina al suo esterno. Egli può solo guardare, provare compassione, pentirsi, pregare, adorare, ma non accedervi, se non mediante il salto della fede. Lo spazio che apre è quello della visione, che è visione della coppia sacra, ma anche della pittura, della bellezza dell’opera, perché a Venezia i quadri, inclusi quelli di devozione, erano anche oggetto da collezione ormai, visti con sguardo da amatore quasi altrettanto che da credente. Allo stesso modo la firma che sul parapetto è apposta è segno della fede dell’autore, ma anche attestato della sua individualità e del suo valore di artista. Nella Madonna di Alzano la prevalenza della funzione di separazione è segnalata anche dal fatto che il bambino non giace sulla pietra né vi sta ritto sopra, magari sporgendo il piede come a entrare nello spazio del fedele come in altre varianti, e che entrambe le figure stanno nettamente oltre la soglia, per quanto avvolte dalla stessa luce del paesaggio alle loro spalle, che sembra il nostro ma non lo è, e richiama piuttosto un ideale arcadico, pacifico, dove gli uomini attendono serenamente alle proprie occupazioni, come in un sogno bucolico, in un paradiso recuperato, o da attingere.

 

Giovanni Bellini, Madonna greca, Brera.


Tra le due figure in primo piano non sembra quasi esserci interazione, né la Madre né il figlio indulgono a qualche gesto reciproco, la scena è immobile, contemplativa, come lo sguardo rivolto verso l’alto del Bambino. Nessun aneddoto, nessuna emozione sembra trasparire, anche se questo non si traduce in una rappresentazione ieratica e monumentale. I corpi si stagliano in volumetrie nette, ma, oltre al panneggio morbido del manto con le sue sfumature e le screziature che lo rendono quasi tattile e alla carne soffice del Bambino che evidenziano le pieghe delle cosce e le fossette sulle manine, il colore impedisce ogni rigidità, li soffonde dell’aura di corpi vivi, per quanto immobili. Nessuna scenetta tra loro, nessun gesto esplicito, nessun indizio di presagio, nessuna smanceria così come nessun dramma.

Mentre in molte versioni tra la Madonna e il Bambino non c‘è grande contatto (Julia Kristeva arriva a dire che prevale “la distanza, se non l’ostilità”, la separazione e nessun “accesso diretto”), qui la Madre tiene il figlio sulle ginocchia, le mani non solo lo sostengono, ma la destra gli tocca delicatamente il petto, quasi lo accarezza, anche se gli sguardi non si incontrano. E forse nemmeno si cercano. Almeno in questa circostanza. Il bimbo guarda in l’alto, ma non è rivolto verso la madre; mentre lo sguardo di Maria sembra rivolto verso il basso, con le palpebre un po’ socchiuse, ma non verso il figlio.

 

Il suo sguardo sembra non avere nessun oggetto concreto, è pensoso, serio, quasi grave, ma la sua direzione è interiore. Non malinconico, o forse appena un po’; la compostezza sembra non tradire emozioni, e piuttosto trattenerle, e non certo per celarle a uno sguardo esterno, per dissimularle, quanto perché l’esterno è escluso, e quindi anche qualsiasi forma indiretta di comunicazione con lo spettatore (il fedele); la distanza, che in altri quadri era quella fisica dal bambino, qui sembra verso tutto e tutti, quasi da configurare il gesto materno che, con quelle bellissime mani che mi hanno fatto ricordare le parole dell’Angelo dell’“Annunciazione” di Rilke (Tu non sei più vicina a Dio / di noi: siamo lontani / tutti. Ma tu hai stupende/ benedette le mani. / Nascono chiare a te dal manto, / luminoso contorno: Io sono la la rugiada, il giorno, / ma, tu sei la pianta) trattiene e tocca il Bambino con un che di tenero, ma automatico: di automaticamente tenero, quello di un corpo che non dimentica mai di amare il Figlio anche quando non sembra lui l’oggetto diretto dei pensieri. Sollecitudine, forse, più che tenerezza, quanto meno nel momento qui rappresentato; che però, in quanto rappresentato, e rappresentato nel modo dell’icona, dell’immagine di devozione, non è parte di un continuum esistenziale e psicologico ma momento assoluto, che studiosi e teologi inseriranno nella serialità delle tipologie, ma qui, per chi guarda, è a sé stante, attuale, senza tempo. 

 

Giovanni Bellini, Madonna di Alzano, dettagli.


Il Bambino è seduto sulla coscia sinistra rialzata della madre, e pure lui ha uno sguardo meditativo, forse estatico, come se fosse rivolto al Padre più che alla Madre, contemplando il destino che gli è riservato, con lo sguardo al cielo che rivolgerà sulla croce nel pronunciare le sue ultime parole, quelle dell’angoscia e del senso di abbandono. Il bellissimo piedino sinistro piegato a cercare un appoggio più saldo, come una memoria del corpo che non rinuncia a se stesso anche quando pare messo tra parentesi, pare richiamare questi momenti, perché è dipinto in quella posizione per ovviare allo squilibrio causato dalla gambina messa in diagonale per nascondere e insieme, proprio in questo modo, indicare il sesso, che in molte altre opere simili è invece esibito, a segnalare la piena umanità, e quindi la mortalità di Cristo, come ha mostrato Leo Steinberg nel suo capolavoro La sessualità di Cristo

 

Intanto lei, con quel suo purissimo ovale, il lungo collo, non piegato verso il bambino nel gesto della tenerezza, ma ritto, quasi teso nella meditazione, o nella fantasia, continua a cercare di sondare l’inconoscibile, pur percependolo e vivendolo come tale e sapendo che tale sempre resterà, eppure non potendo sottrarvisi, perché l’ha portato prima in sé e ora lo regge sulle ginocchia. Quell’inconoscibile a cui, davanti a lei e al quadro, non possiamo sottrarci nemmeno noi, calamitati dall’ombra scura che proietta, simile a quella sul drappo d’onore alle spalle di Maria, chiamati a cercare di comprenderlo, di farlo nostro, sempre più esclusi, quanto più faticosamente riusciamo a inoltrarci in esso, abbagliati dal suo buio, eppure in qualche modo illuminati, appagati.

 

Nota di lettura

 

Rona Goffen, Giovanni Bellini, Motta editore, 1990. 

Hans Belting, Giovanni Bellini. La pietà, Panini editore, 1996

Julia Kristeva, “Maternité selon Giovanni Bellini”, in Polylogue, Seuil, 1977, p. 409-435

Massimo Cacciari, Generare Dio, Il Mulino, 2017

Federico Zeri e Francesco Rossi, La raccolta Morelli nell’Accademia Carrara, Credito bergamasco, 1986

Marco Lucco e Giovanni Carlo Federico Villa (a cura di), Giovanni Bellini, Silvana Editoriale, 2008

Otto Pächt, La pittura veneziana del Quattrocento, Bollati Boringhieri, 2005

Rainer Maria Rilke, Poesie, trad. it. Giaime Pintor, Einaudi, 1970

 

La madonna di Alzano di Giovanni Bellini al grattacielo Intesa San Paolo, Corso Inghilterra 3, Torino.

L’ingresso è gratuito con prenotazione obbligatoria su questo sito

Apertura mostra: 20 dicembre 2019 – 6 gennaio 2020 (25 dicembre chiuso).

Orari:

Nei giorni feriali (*) e il 1° gennaio (ultimo ingresso ore 19.30)

9.30-20.00 sabato e nei giorni festivi (ultimo ingresso ore 19.30)

9.30-13.00 nei giorni 24 e 31 dicembre (ultimo ingresso 12.30)

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Emilio Prini: tautologia, letteralità e paradosso

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Emilio Prini è stato uno degli artisti più misteriosi che si potessero mai incontrare. Non solo la sua opera, pochissimo esposta, per volontà sua, ma anche la sua vita è stata ammantata di mistero. Rarissime apparizioni pubbliche, era chiuso nel suo rifugio, prima a Genova poi a Roma e riceveva solo chi voleva – ci ha fatto un libro d’artista Luca Vitone, raccogliendo le telefonate tra loro per un appuntamento mai andato a buon termine (Effemeride Prini, Quodlibet, Macerata 2016). Colpito dalla malattia degenerativa che l’ha poi ucciso, negli ultimi decenni si reggeva male in piedi, a volte cadeva mollemente a terra mentre stava parlando con te e continuava a parlare come se niente fosse successo; le sue reazioni erano imprevedibili, poteva ingiuriarti se ti chinavi ad aiutarlo o prenderti la mano per sollevarsi come per non dare nell’occhio. Non aveva, credo volutamente, nessuna nozione del tempo; parlava tantissimo, ininterrottamente, su qualsiasi argomento, ma sempre dirigendo lui il discorso; ti teneva a parlare per ore, guai a interromperlo o fargli fretta per un appuntamento o un impegno. È stata la persona più geniale che abbia conosciuto, e l’ho conosciuto tardi e purtroppo pochissimo; era un vulcano di idee, nessuna scontata, nessuna puramente riportata, sempre ripensate e fatte proprie.

 

 

Niente era scontato con lui. Poteva mandare a monte – e l’ha fatto varie volte, mi risulta – qualsiasi impegno; non sapevi se avrebbe veramente esposto o avrebbe rispettato un appuntamento. A Montalcino, per la manifestazione “Arte all’arte” a cui l’avevo invitato, nel 2003, espose un vecchio lavoro modificandolo fino a cinque minuti prima dell’inaugurazione, chiuso dentro il luogo d’esposizione con il suo assistente mentre tutti aspettavamo fuori, senza la sicurezza che ci avrebbe fatto entrare!

Si usciva e si esce da una sua mostra, del resto rarissime – e già è una ragione per non perdersi assolutamente questa in corso alla Fondazione Merz di Torino fino al 9 febbraio –, storditi, con l’impressione di non aver trovato nessuna chiave per potersi orientare tra i numerosi indizi che comunque si è percepito sparsi lungo il percorso. Lo dico senza timore di autodenuncia di ignoranza critica, ma perché in realtà questa mi sembra proprio una delle chiavi, o meglio la cornice, per cominciare a comprenderlo: quello di Prini è stato un costante gioco di assenza e di dirottamento, di rottura dei luoghi comuni e di sorpresa, di vertigine dell’affermazione.

 

 

Per esempio, l’aspetto più evidente è quello dell’esecuzione di un’opera, un esercizio più che un oggetto, il quale ultimo può non essere esposto oppure è dichiarato svanito o perso o svolto o presente altrove. Così le Ipotesi d’azione (1967-68) o le dichiarazioni con cui partecipa al famoso libro Arte povera che lancia il movimento nel 1969 e che intitola Lato di vita chiave biologica. “La fotografia che ho scattato è svanita”, “Ho ricoperto una grande porzione del prato in adesione totale al terreno. Per azione della luce la foto si è progressivamente consumata, è stata arrotolata. Per azione del buio la porzione d’erba coperta è risultata bianca. La foto consumata è stata tagliata e accatastata in una stanza”. Sono tautologie vertiginose, come pochi in quel periodo di arte concettuale osavano o sapevano fare. Joseph Kosuth le intendeva in senso “analitico”, gli altri del gruppo americano in quello “processuale”, Prini in “chiave biologica”: non il concetto, ma l’esistenza biologica dell’artista. “Tutta la mia vita” è la dichiarazione principale della serie: “biologia” sta appunto per il significato vivo, organico di “biografia”. (Nel periodo in cui l’ho frequentato ricordo l’insistenza con cui tornava su un’idea che riprendeva da Gino De Dominicis, cioè quella dell’“immortalità del corpo”, piuttosto che dell’anima, sottolineava, questa è l’immortalità.) Nella vita non c’è presenza senza assenza, ma non c’è neanche assenza senza presenza: vedi Mostro – una esposizione di oggetti non fatti non scelti non pensati da Emilio Prini (1974-75). Così le Ipotesi d’artista sono sottotitolate “Scritte che restano scritte”.

 

 

Le sue opere oscillano tra la tautologia, la letteralità e il paradosso. Così un’opera paradigmatica resta Il cartello del film non fatto (1967-68), che tale è, un cartello con la scritta del titolo. Il film non è stato fatto ma il cartello ne dichiara una sorta di esistenza: anche il non fatto esiste in qualche modo nel momento in cui è dichiarato. Non fare è un fare, come hanno insegnato Marcel Duchamp e John Cage.

Del resto il meccanismo diventa il seguente, come dichiarato in Standard 1969: “Il registratore registra a consumo del meccanismo”, ovvero “Lo standard nel pieno possesso delle proprie attività dimensionali è intero nel senso del termine”. Così la fotografia della macchina fotografica: l’opera si realizza nel suo rimando interno e attraverso il suo consumo, è un Racconto che si fa da solo (1969).

L’idea di standard è uno dei fili conduttori della sua opera. Standard significa modello, tipo, norma cui si devono uniformare, o a cui sono conformi, tutti i prodotti e i procedimenti di una stessa serie, ma per Prini significa al tempo stesso “identico alieno scambiato”. Standard sono i rifacimenti di un gradino tipo per porta (1967) o il muro in curva o il sottopassaggio (1967/1995). I riferimenti reali li trovi nelle foto esposte nelle bacheche, ma, appunto, quale è il reale ora, quale il modello? È questo il collegamento tra la “vita” e l’oggetto-opera. In un’opera fotografica – l’uso della fotografia in Prini è tutto particolare, come si intuisce dagli esempi – scrive nel titolo “Ci sono anch’io”, per evidenziare il valore “biologico” dell’immagine. Standard sono anche le barche usate come fermacarte (Fermacarte, 1995), tra le sue opere più famose, o i Fogli da un taccuino di legno (1996): assurdi, dal punto di vista della funzione, ma reali.

 

 

Le ultime opere sono sbalorditive, se possibile ancora più enigmatiche e fuorvianti, cioè inattese. Per esempio La Pimpa Il Vuoto, del 2008, una serie di stampe fotografiche di vignette del famoso personaggio di Altan che disserta con gli amici su vari argomenti, all’insegna del “vuoto”, che non viene mai nominato ma sottende tutti gli pseudoragionamenti e aleggia sull’intera sequenza; anzi è letteralmente “presente” negli spazi vuoti lasciati appositamente all’inizio e alla fine, o meglio prima e dopo: l’esistente è già iniziato, continua...

Oppure Colori, del 2016, quindi sicuramente la sua ultima opera, composta da cartoni dai diversi colori, disposti in un ordine di cui non vedo una logica chiara, ma con il bianco al centro.

Standard è anche la regola – del mercato, del sistema dell’arte – a cui si chiede all’artista di sottostare, quella che si chiama stile o forma, riconoscibilità. La varietà dei mezzi, materiali e modi diventa allora essenziale per Prini, come strategia di spiazzamento, di paradosso, di inafferrabilità, di non volersi adattare, con-formare. (Questa lezione l’ha còlta Gianluca Codeghini che alla galleria Six di Milano, ha una mostra, intitolata significativamente Si spiega ma non si spezza, ispirata da un suggerimento in tal senso che gli venne appunto da Prini più di venti anni fa: sfuggire alle aspettative, degli altri ma su cui ci si regola anche noi stessi. Ma non solo Codeghini, anche tutto un gruppetto di artisti, tra cui Maurizio Cattelan, Maurizio Mercuri, Mirko Zandonà, che nei primi anni ’90 non per niente si scambiavano perfino tra loro: “identico alieno scambiato” appunto.)

 

L’arte è questo esercizio. Ha un senso? Ognuno risponda per sé. Resta anche il risvolto politico della questione. Prini non lo evita, anzi: c’è un Governo non standard – Due linee che si uniscono in basso, del 1986. È significativo che Prini abbia detto “governo”, non teoria ma propriamente esercizio della cosa pubblica. Eterno – o almeno secolare – problema del rapporto tra arte e politica: come si può concepire un governo che risponda all’indicazione dell’arte? La divisione resta inesorabile o le due linee si uniscono “in basso”?

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L’antico silenzio delle montagne

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Novembre 2019, dopo alcuni giorni di neve salgo verso Ortisei, vado in visita da Adolf Vallazza, artista del legno. Dei troni e dei totem. Dei Don Chisciotte e delle civette, degli uomini che leggono e che pensano. Ma è anche un amico colpito da un grave lutto. 

Nel salone per le esposizioni, una serie di troni disposti a cerchio da sua figlia Sabina. Si avverte subito il loro slancio verso l’alto, e una sorta di quieta eleganza: sembrano in attesa di un incontro tra antichi cavalieri, “amanti di cortesie fuggite”, sognatori di montagne, viaggiatori. In quei troni Adolf vede le altezze e sente l’eco delle montagne, evoca le leggende di Karl Felix Wolff e dei Monti Pallidi, ma anche culture lontane e diverse: lavorandoli sente tutta la storia di quei legni antichi e la possibilità di dar loro una nuova vita. 

 

 

Le sue opere nascono quasi sempre da un’idea stilizzata a matita su un foglio, poi un disegno a colori, sufficientemente definito, poi un dipinto vero, e la scelta del legno, infine il lavoro di intaglio, levigatura e incastro.

Nato nel 1924, cresce in un ambiente che soffre l’italianizzazione forzata avvenuta dopo la fine della Grande Guerra: la tradizione del legno non è solo un buon modo di guadagnarsi il pane, ma anche la possibilità di preservare l’identità di un popolo. Oltre che per la scultura, ha anche una grande passione per la pittura, nata probabilmente ammirando le opere del nonno materno Josef Moroder Lusenberg, forse il più importante pittore ladino, abile nel ritrarre con sensibilità uomini e paesaggi; le sue opere si possono ammirare nella chiesa di Ortisei e in molti altri luoghi del Trentino. 

Adolf dimostra presto una straordinaria abilità tecnica, scolpendo volti e figure di impressionante forza e aderenza al vero. In seguito, su libri e cataloghi scopre l’arte, e gli viene il desiderio di superare la ripetitività dell’artigianato gardenese, fatto di vie Crucis, presepi, pastori, cacciatori, animali, un mondo immutabile che si ripete all’infinito come in una bolla di vetro. Potrebbe divenire un bravo artigiano, con una vita tranquilla cadenzata dal passare delle stagioni e dei turisti, ma decide di intraprendere un’altra strada. 

 

 

Visita la Biennale di Venezia, impara a conoscere Picasso, Braque, Brâncuși, Giacometti, Moore, Cascella, Marini. Soprattutto lo scultore romeno Constantin Brâncuși, è per lui un forte riferimento, per la sua capacità di ridurre i volumi, mirando all’essenziale. Scolpire figure realistiche è comunque una premessa necessaria, la tecnica e la conoscenza del corpo umano sono per Adolf un passaggio obbligato per qualsiasi artista, solo dopo si può aspirare all’astrazione. 

Pochi giorni prima della mia visita è scomparsa Renata, la compagna di tutta una vita. Si sposano nel 1952, Renata Giovannini è una ‘straniera’, di Pesaro, venuta in villeggiatura a Ortisei, un’unione difficile in quegli anni e in quei luoghi. Per Adolf è l’incontro più importante della sua vita: sia per i lunghi decenni di amore e complicità che vivranno insieme, sia soprattutto perché lei lo incoraggia a rischiare, a cercare l’arte. Adolf ha l’abitudine di fotografare le sue opere e Renata ha il coraggio di prendere un’iniziativa inconsueta per quei tempi: parte da sola per Milano e porta le foto ai più importanti galleristi. Questi apprezzano, non lo invitano per una esposizione ma lo indirizzano alle gallerie del Trentino, affinché cominci da lì. Adolf ha poi l’amara sorpresa di dover pagare un costo non lieve a una nota galleria di Trento, ma è comunque un inizio, decisivo: da lì in avanti il suo percorso artistico non si ferma più. Sceglie di restare ancorato a Ortisei, perché, pur sentendosi in parte diverso per gusti e apertura verso mondi e culture lontane, ama profondamente quella piccola patria e la sua storia. Qualche anno fa ho chiesto a Renata se erano stati duri i suoi primi anni in Val Gardena. Lei ha sorriso, mosso la mano come a scacciare qualcosa davanti al viso, e mi dice: “Avevo tanto da lavorare per i miei quattro figli e anche per Adolf, sono passata sopra a tante cose”.

 

 

L’idea dei troni nasce alla fine degli anni Settanta proprio grazie a una intuizione di Renata. Guardando alcuni totem più lunghi e alti di altri gli dice: “Sembrano delle spalliere di un trono, prova a trasformare questi totem in sedie. Prova a creare qualcosa che aggiunga funzionalità e umanità”. 

I troni hanno schienali allungati, sproporzionalmente alti, forme che richiamano a volte i castelli del Tirolo, altre volte la verticalità di certe crode dolomitiche, altre volte lo slancio vitale degli alberi. Chi ha provato a sedersi su un trono ne ha scoperto una imprevedibile comodità. Vuoti, nel silenzio dell’atelier, evocano assenze perse nel tempo. 

“Come per le montagne, è la prospettiva frontale a catturare lo sguardo” mi spiega Adolf, “Non è necessario girargli intorno per capire cosa c’è dietro”. 

Nello studio-laboratorio dove Adolf lavora da tanti anni, ammiro una grande scultura in legno che, mi dicono, abbellirà la tomba di Renata: una porta, alta, volta non a chiudere ma ad aprire lo spazio e il tempo. Come sempre l’ha prima immaginata e disegnata, i fogli sono ancora lì nella sua scrivania. “Mi è sempre stata vicina, mi aveva tanto incoraggiato quando ho iniziato la via dell’arte. A volte mi sembra di vederla, mi viene da parlare con lei, ma lei non c’è più”.

 

 

Nel salotto di casa dove Renata amava lavorare a maglia e discorrere con garbo e ironia, si percepisce un senso di vuoto, di parole inascoltate; è rimasto il suo viso sorridente, impresso nel bronzo tanti anni fa da Augusto Murer, lo scultore di Falcade amico di Adolf. Entrambi per un certo periodo sono accomunati da un modo di scolpire che fa emergere dal legno figure umane raccolte e contratte, piene di forza e di dolore trattenuti: è il periodo dei ‘torsi’, soggetti intagliati in forme ruvide su tronchi di legno, spesso di olivo, seguendo uno stile che si avvicinava all’Espressionismo: l’abbraccio disperato di Il figliol prodigo, l’abbraccio sensuale e avvolgente di Paolo e Francesca, la forza trattenuta del Centometrista, il tragico torso con fori denominato Massacro, che evoca le tragedie del ‘900, l’enorme Crocefisso con un Gesù disperato che alza le braccia al cielo (oggi nella chiesa di Pegli, in Liguria).

 

Ph Giuseppe Mendicino.


Le stanze dello studio-atelier profumano di cera d’api, sono popolate di legni antichi e di ombre. Dopo il periodo dei torsi, viene il tempo dei totem, figure dense di richiami storici, epici, architettonici, naturalistici: don Chisciotte, civette, Menhir, alberi, antichi strumenti musicali. Per realizzarli Adolf ha un’intuizione che nasce dal caso: un vicino recupera molti legni antichi dalla dismissione di un vecchio maso e li accatasta proprio nei pressi della sua casa, in attesa di utilizzarli come legna da ardere. Adolf rimane colpito dalla bellezza e dalla vita di quei legni antichi, e gli sembra terribile l’idea che finiscano in brace. Decide di acquistarli, e immagina per loro una nuova esistenza. I totem nascono quindi dall’assemblaggio e dal lavoro di intaglio su una materia antica, restituita agli sguardi e al tatto di chi li va ad ammirare: legni di cirmolo, di abete, di larice, di pino; un tempo assi di porte, imposte di finestre, rivestimenti di stuben, scale, scandole. Il legno cambia colore nel tempo a seconda dell'esposizione al sole: nelle superfici a nord muta in un grigio color cenere, mentre in quelle esposte a sud assume tinte rossastre striate di giallo e di bruno. Per molti anni Adolf recupera porte, tavoli e finestre da masi centenari in disuso, salvandoli da una distruzione sicura; negli ultimi decenni il loro utilizzo diviene poi una foggia, e la ricerca di Adolf si fa via via più difficile. Quei legni sono divenuti altro: totem con una parte centrale a volte aggrovigliata, e le aree esterne più geometriche e distese, quasi a raccogliere e diffondere la luce; troni dove l’armonia e l’intarsio si sviluppano in orizzontale per accogliere, lungo linee verticali per inseguire il tempo, passato o futuro. Su alcune opere sono ben visibili i segni antichi di scarponi chiodati, di limature e di segni indecifrabili; mondi lontani e perduti sono passati tra quei legni, accarezzandoli, annusandoli e scrutandoli nella penombra se ne avverte l’eco. 

 

Ph Giuseppe Mendicino.


Il legno, a differenza della pietra, del ferro e del bronzo, ha vissuto, ha un passato, visibile nelle linee dei suoi cerchi e nei colori imposti dal sole e dal gelo. Quando usa il legno di ulivo per realizzare figure umane, nel periodo dei tronchi, Adolf cerca di “vedere” le forme già contenute in esso, cercando poi di trasformarle in altro senza stravolgerle. Componendo i totem e i troni con il legno di larice e di abete lavora con lo stesso rispetto della materia, cercando di mantenere i colori originari, armonizzando le linee del legno con quelle dell’opera. 

Nel corso degli anni i legni antichi di Adolf si sono sempre più alleggeriti, l’artista ha lavorato più per togliere che per aggiungere, cercando l’essenziale e l’armonia delle linee scultoree, giocando con la luce. 

Attraverso le ampie vetrate del suo studio si vedono il cielo e alcune cime innevate. “Montagne a parte, vivi bene adesso qui a Ortisei? È cambiata molto, vero?” Adolf sorride: “Si, hanno costruito tanto, troppo, ingrandito alberghi, cercato ricchezza oltre il necessario. Intorno alla mia casa ricordo prati e alberi che sono stati sommersi dal cemento. C’è sempre stata diffidenza verso la mia arte, e questo mi ha dato dispiacere, però ho sempre avuto amici e persone che mi hanno voluto bene”. Tra loro, Sandro Pertini, che amava le montagne e tornava spesso in Val Gardena. “Ricordo perfettamente il 2 agosto del 1980: Pertini era qui, nel mio studio, e all’improvviso arrivarono i carabinieri, gli dissero qualcosa seppi poi che si trattava della strage della stazione di Bologna il suo sguardo divenne cupo, non disse una parola, si scusò e mi salutò, doveva partire per Roma”. 

 

 

Sabina mi spiega che Adolf lavora ancora, con la passione di sempre, nonostante tutto. “È giusto, tua madre avrebbe voluto così” le dico. Adolf mi saluta donandomi un piccolo uomo che legge realizzato non molti giorni prima, un inaspettato segno di amicizia: “Passaci la cera d’api una volta all’anno, e il giorno dopo spazzola con un pennello”. Io guardo quegli occhi celesti ancora tenaci e guizzanti, e penso che lavorerà finché avrà occhi e mani per farlo, l’arte è la sua vita. 

Tonino Guerra, scrittore, poeta e scenografo, gli dedicò una poesia: “I legni che sono stati leccati da bestie solitarie / e hanno sentito la voce della neve e del vento, / adesso hanno preso l’impronta di un uomo che gli ha cambiato vita / senza togliergli di dosso la storia che hanno / e tutto il silenzio delle montagne”.

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Nei troni e nei totem di Adolf Vallazza
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Sun Yuan e Peng Yu: I Can’t Help Myself

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Talvolta l’arte pare più vera della vita. E l’efficacia di tale verità è data dal non presentarsi in tempo reale in un contesto, in cui ogni esistenza è tele-presente a se stessa.

Una scopa, collegata a un braccio meccanico che muove l’aria, dissipa un cerchio di fumo ogni volta che viene a formarsi dal meccanismo. Sun Yuan Peng Yu (2009) è l’installazione-autoritratto che descrive il sodalizio del duo artistico cinese composto da Sun Yuan (Beijing, 1972) e Peng Yu (Jiamusi, 1974), formatosi nell’ambiente culturale della Beijing degli anni Novanta e diventato stabile dal 2000: “Ogni persona pensa a una cosa sola quando si mette insieme a qualcun altro; una relazione espressiva sarà costruita tra di loro”.

 

Sun Yuan and Peng Yu, Old peoples home, 2007.


Sun Yuan e Peng Yu hanno espresso la loro singolarità, sfidando gli standard morali prevalenti nell’arte contemporanea globale attraverso un approccio concettuale, in spettacoli e installazioni che evocano un senso di minaccia. 

Il loro lavoro si caratterizza per l’uso di materiali inusuali (quali la tassidermia, il grasso umano e le macchine), con un’attenzione particolare per il conflitto e il paradosso, elementi che dall’opera si trasferiscono nel contesto che le accoglie. 

Nel 2017, al Museo Guggenheim di New York presentano Dogs That Cannot Touch Each Other (2003): quattro coppie di pitbull americani si affrontano a vicenda, mentre corrono su tapis roulant non motorizzati. Il lavoro suscita l’indignazione di sostenitori dei diritti degli animali, che a due settimane dall’opening della mostra fanno pressione sul museo affinché l’opera venga esclusa dalla mostra. Il compromesso del Guggenheim è di esporre il video della performance, e non l’azione stessa, seppur si trattasse di un’opera “sconvolgente”.

 

Sun Yuan and Peng Yu in Venice 2019.


I due artisti cinesi utilizzano tecnologie “abbastanza comuni, quelle presenti nella vita quotidiana”, e creano cortocircuiti, in una tensione tra realtà e ideali. Con l’avvento del motore nel XIX secolo, la distinzione cartesiana tra macchina animale e essere vivente è drammaticamente collassata. Il corpo del lavoratore (il “motore umano” di Anson Rabinbach), come le macchine industriali, converte l’energia in lavoro meccanico. Mentre “all’automa non può più essere negata un’anima”, l’espansione storica della metafora del motore umano ha portato a una simulazione dei gesti della macchina da parte dell’uomo e a una eliminazione della resistenza di quest’ultimo al lavoro continuato. Il progresso era pronto a eliminare la fatica e “la metafora del motore umano ha dato credibilità agli ideali del liberalismo socialmente reattivo”.

 

Sun Yuan and Peng Yu, Old peoples home, 2007.


Nel Padiglione Cinese della Biennale di Venezia del 2005, il duo invita l’agricoltore cinese Du Wenda, della provincia di Anhui, a presentare il disco volante da lui costruito insieme ad altri agricoltori locali. Questo UFO – fabbricato con rottami metallici e fogli di alluminio, e capace, secondo Du Wenda, di raggiungere la Luna – aveva attirato le attenzioni delle stampa nazionale cinese e successivamente di quella internazionale. Il salto di Du Wenda dalla cultura feudale allo spazio extraterrestre è stato considerato un simbolo (esasperato) del salto della Cina verso la modernità. L’immaginazione di Du Wenda precedeva l’atterraggio lunare nel 2013 del rover Coniglio di Giada, giunto sulla Luna a bordo del vettore cinese Chang’e, prima sonda a effettuare un atterraggio morbido sulla Luna, dopo quello di Luna 24, missione sovietica del 1976.

 

Sun Yuan and Peng Yu in Venice 2019.


Magistrale è l’opera Old people’s Home (2007) in cui tredici anziani – resi in modo iperrealistico, molto simili ai leader della scena politica mondiale in quegli anni, seduti su sedie a rotelle elettriche – si scontrano lentamente e in moto continuato come autoscontri alle giostre. Peng Yu afferma in un’intervista precedente che “l’idea di Old Persons Homeè giunta mentre erano in Europa: “Abbiamo visto molti vecchi per strada” e continua Sun Yuan “ci sono tredici protagonisti. Ci immaginavamo queste tredici persone che si recavano in luoghi diversi per fondare ognuno una propria nazione. E governarla gelosamente. Pensavamo: che ne sarà di loro nella vecchiaia, quando non potranno più esercitare i loro poteri? Abbiamo immaginato che si trovassero all’ospizio a giocare all’autoscontro, ognuno sulla propria sedia a rotelle. Forse non si rassegneranno mai a smettere di lottare. Persino quando non hanno più il fisico, il gesto della lotta rimane per loro l’unica cosa che li fa sentire vivi”.

La lotta tra la compulsione umana e la natura fisica dei materiali è oggetto anche dell’opera I Can’t Help Myself (2016), presentata all’ultima Biennale di Venezia da Sun Yuan e Peng Yu, su cui è incentrata l’intervista che segue.

 

Sun Yuan and Peng Yu, Can't help myself, 2016.


Sara Benaglia e Mauro Zanchi: Per realizzare “I Can’t Help Myself” (2016) avete utilizzato un robot industriale, di quelli comunemente impiegati nelle catene di montaggio, un braccio meccanico chiuso in una grande teca in plexiglass che si muove cercando di contenere un liquido vischioso molto simile al sangue, sensori di riconoscimento visivo e sistemi software che gli permettono di eseguire ben trentadue movimenti diversi. I suoi movimenti paiono al contempo gesti calcolati e movimenti fuori controllo: trasmettono un senso di pericolosità, una minaccia, e lasciano intendere qualcosa che riguarda un'azione calcolata a priori dal potere e dalla classe dirigente. Quale è stata la prima idea o collegamento da cui siete partiti per realizzare questa opera polisemica? E in prospettiva cosa predice questa opera immaginando scenari e minacce future?

 

Sun Yuan and Peng Yu, Farmer du wendas ufo, 2005.


Sun Yuan e Peng Yu: L'idea nasce da una forma di disturbo ossessivo compulsivo: quando un bicchiere d'acqua viene rovesciato sul tavolo e l'acqua si diffonde, le persone usano inconsciamente le mani per bloccare il flusso d'acqua, per impedire che l'acqua goccioli a terra o più in là sul tavolo. Il senso di controllo è un istinto umano. Viviamo tutti in un sistema, controllati dal sistema, e cerchiamo di controllare più cose nel sistema. L'incarnazione del potere di una persona risiede in quanto controlla il mondo. Più si ha il controllo e più si ha il potere. Questa regola non cambierà mai, dai tempi antichi fino al futuro. Nel frattempo, il libero arbitrio di un uomo è come il flusso dell'acqua, sempre cercando di liberarsi del controllo. Questa è una contraddizione, che ci intriga. È inspiegabile che anche in futuro, quando l'uomo avrà più libertà, allo stesso tempo sarà governato ugualmente, e in forma forse diversa da come accade oggi, da un sistema più potente. In un certo senso, non saremmo in grado di ottenere più libertà senza una regola più potente. 

Per quanto riguarda le minacce che potrebbero venire dal futuro, pensiamo che giungeranno sempre dall'uomo, non dalle macchine. Le macchine non hanno il libero arbitrio. Semplicemente eseguono il libero arbitrio umano in modo accurato. Alla fine della giornata, non importa quanto potenti siano le macchine che vediamo, ciò che vediamo è ancora il potere dell'umano, e l'assurdità dell'umano.

 

Sun Yuan and Peng Yu, Can't help myself, 2016.


La macchina di “I Can’t Help Myself” (2016) esegue anche azioni che non le sono affatto consone. Il modo del tutto sgraziato con cui si muove fa schizzare il “sangue” sulle pareti della teca. Lo spettatore non può far altro che guardare, oltre la teca di vetro, osservare i gesti della macchina mentre si viene pervasi da un profondo senso di inquietudine: un automa umanizzato che spala sangue. Che ruolo ha lo spettatore in rapporto alle vostre opere, quando ci sono recinti che lo relegano solo a un ruolo passivo?

 

Non abbiamo alcun obbligo di considerare il pubblico. Questa opera non è un film commerciale, non abbiamo bisogno di guadagnare soldi dal pubblico. In effetti, anche quando un'opera non viene esposta c'è un pubblico, che è l'artista stesso. Gli artisti a volte hanno bisogno di osservare le loro opere come pubblico. Quando hai bisogno di considerare altri pubblici oltre a te stesso, significa che questo pubblico è diventato un materiale nel tuo lavoro, un lavoro sperimentale. A questo punto, questo pubblico fa già parte del tuo lavoro, sta dentro, e quindi non è più un pubblico. Il vero pubblico è ancora l'artista stesso, che osserva un materiale guardando un altro materiale.

 

Sun Yuan and Peng Yu, Can't help myself, 2016.


Anche “Dear” (2015), all’Arsenale, è contenuta dentro la teca, dove un sontuoso trono in silicio bianco, e quindi un oggetto dove si presume siedano persone che rivestono potere. A intervalli regolari, un tubo di gomma inizia a sbuffare aria altamente pressurizzata che lo trasforma in una frusta feroce. Questa, contorcendosi in modo convulso, danneggia sia la teca, sia lo stesso “trono”. Quando l’aria smette di pompare violentemente, la poltrona torna a essere inerte, e si trasforma in un oggetto quasi seducente e invitante nel suo candore austero. Ma solo fino all’attacco successivo.  Anche qui ogni fruitore è solo costretto a essere passivo testimone dell'azione del potere, delle trame ambigue della dittatura, della repressione, la coercizione?

 

Il pubblico è solo un passante. Può imbattersi in questa strana scena. Non ha bisogno di fare associazioni su realtà politiche o sociali. Basta guardare questa scena.

 

Sun Yuan and Peng Yu, Dear, 2015.


La seduta è liberamente ispirata a quella del Lincoln Memorial di Washington DC? Fino a che punto un sistema che si professa democratico, oggi, può essere immune da retroscena controversi?

 

Naturalmente. La forma di questa sedia si riferisce alla sedia di Lincoln. La democrazia è un argomento interessante, ma non siamo bravi a farlo. Non siamo sicuri che sia davvero un'esplorazione, o una trappola, o forse entrambe le cose. Ma ha il potenziale per esplodere con grande potenza.

 

I vostri lavori sembrano agenti che esprimono un’intenzione, un’azione, al posto vostro sulla scena. Talvolta si tratta di elementi meccanici ed elettrici dotati di una durata infinita, per cui sono in grado di mettere in scena perfomance senza fine. La macchina, prolungando l’estensione temporale di una intenzione, può modificare la stessa?

 

No, l'attore che interpreta l'Amleto può morire, ma il personaggio Amleto non muore. Vivrà sul palcoscenico per sempre; nuovi attori entreranno in scena e lo spettacolo continuerà.

 

Sun Yuan and Peng Yu, Dogs cannot touch each other, 2003.

 

Sun Yuan and Peng Yu, Farmer du wendas ufo, 2005.


La macchina è incapace di mettere in atto azioni che non siano programmate dall’uomo, ovvero azioni che vadano oltre l’esperienza umana. Ma la macchina non sente fatica, per cui è in grado di eseguire un lavoro in maniera continuativa, almeno fino a quando essa sarà alimentata. Nel vostro lavoro non c’è ibridazione tra natura umana e macchinica, piuttosto le due sono mantenute distinte. Perché?

 

Le macchine non hanno il libero arbitrio, che deve essere definito dall'uomo. Le macchine possiedono qualsiasi natura che l'uomo decide di dare loro. La meccanica è parte della natura umana. Le macchine non fanno altro che amplificare questo, molte volte più del corpo umano, ma è ancora la volontà umana che funziona. La durata delle macchine deriva dal disegno delle persone, non da sé stesse. 

Nella vostra domanda c’è qualcosa che ci sfugge: cosa si intende quando si dice che "la natura umana e quella meccanica sono tenute distinte"? Se una macchina risponde a questa domanda, questa domanda non avrà risposta. Penso che quello che voi state cercando di chiedere è: “perché c'è un confronto tra il moto meccanico e il flusso del liquido?” Perché c'è una persona che trova interessante questo confronto, essi sono progettati per essere ciò che è.

 

Ringraziamo Laura Scaringella, Fabio Benincasa e il Macro Asilo di Roma.

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Una conversazione
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La collezione come racconto

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Alla Whitechapel Gallery di Londra le parole di Enrique Vila-Matas, Maria Fusco, Tom McCarthy e Veronica Gerber Bicecci incrociano le opere della collezione “la Caixa” per “promuovere un nuovo modo di guardare”. Ognuno dei quattro scrittori ha scelto un gruppo di opere trasformandole in protagoniste di una narrazione che si svolge sia nello spazio espositivo che nel libro che accompagna la mostra. La narrazione di McCarthy (la mostra da lui “scritta” e curata è la terza dopo quella di Vila-Matas e di Fusco) inizia con la descrizione di un residuato bellico fotografato dall’artista Sophie Ristelhueber. 

 

Sophie Ristelhueber, Fait #60, 1992. “la Caixa” Foundation / Isa Genzken, Bookshelves, 2008. la Caixa” Foundation.


Sfruttando l’ambivalenza del termine “face”, che sta sia per “superficie” che per “volto”, McCarthy attribuisce all’oggetto una sembianza umana: “a fallen Easter Island statue; Ozymandias’s broken bust – una statua caduta dell’isola di Pasqua; il busto spezzato di Ozymandias” (Tom McCarthy, Empty House of the Stare, Fondazione “la Caixa” e Whitechapel Gallery, Londra 2019, p. 17). Il viso sfranto e mezzo sepolto che giace sul suolo desertico descritto da  Percy Bysshe Shelley nel sonetto dal titolo Ozymandias (“half sunk a shattered visage lies”) è evocato nel testo di McCarthy anche attraverso l’aggettivo “lidded” (riferito ai due oblò rotondi del marchingegno), derivato dal sostantivo “lid – coperchio”, che in questo contesto narrativo richiama alla mente di chi legge anche “eyelid – palbebra”. Con una prosa caratterizzata da associazioni fonetiche e semantiche, McCarthy porta l’attenzione sull’arroganza del potere e, insieme, sulla sua caducità spostandosi dalla fotografia di Ristelhueber al sonetto di Shelley, dal romanzo L’arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon al film Illuminer di Steve McQueen. Attraverso parole che ne contengono e ne richiamano altre, McCarthy esplora immagini fotografiche, plastiche, pittoriche e cinematografiche facendo da queste emergere immagini letterarie. Le parole e i loro elementi costitutivi si combinano fra loro e con le opere in mostra in una nuova forma di scrittura critica. 

 

Pedro Mora, Memory Exercise, 1991. “la Caixa” Foundation.


L’ingresso del discorso sull’arte nella letteratura è di vecchia data. Dai primi trattati sulla téchne, finalizzati a trasmettere agli allievi di bottega il cosiddetto know-how o l’abilità del fare qualcosa di specifico, si sviluppa una storia dell’arte come genere o sotto-genere letterario alla quale Salvatore Settis ha dedicato il saggio La nascita (in Grecia) della storia dell’arte, in Vitruvio e l’archeologia a cura di Paolo Clini (Marsilio, Venezia 2014). Il saggio ripercorre lo sviluppo di questo genere da uno dei primi testi che in età ellenistica inaugurarono l’ingresso del discorso sull’arte nello spazio letterario (i due trattati Sui pittori e Sulla scultura in bronzo di Duride di Samo, 340-280 a.C. circa) fino all’opera di Winckelmann, passando attraverso la Naturalis Historia di Plinio, i Commentari di Lorenzo Ghiberti e le Vite di Vasari. 

 

Vitruvio e l’archeologia, a cura di Paolo Clini (Marsilio, Venezia 2014).


Se la codificazione del vocabolario del giudizio d’arte con parole tratte dal linguaggio retorico, in età ellenistica, influenzerà la critica d’arte dei secoli successivi giungendo fino a Winckelmann e oltre, che conseguenze avrà sul giudizio critico la scrittura ipertestuale di McCarthy (due volte finalista al Booker Prize), caratterizzata da dialoghi serrati e cinematografici e da un taglio visivo sulle azioni, come rileva la sua traduttrice italiana Anna Mioni nell’intervista rilasciata il 28 luglio 2017 alla casa editrice SUR? 

Il titolo della mostra “scritta” e curata da McCarthy, Empty House of the Stare,è tratto da un verso della poesia Meditations in Time of Civil War di William Butler Yeats. L’ambivalenza del termine “stare”, che può essere usato sia per identificare il chiassoso uccello che si raduna in stormi che per significare la fissità dello sguardo, collega punti lontani fra loro: lo sguardo di Steve McQueen, che si filma mentre guarda un documentario sull’addestramento militare, allo sguardo dell’assassino nel film Peeping Tom di Michael Powell; il crollo dei sistemi di sorveglianza e controllo dei media alla libreria metallica contorta, trovata dopo il crollo delle Torri Gemelle, scelta da Isa Genzken come possibile memoriale; l’installazione di Pedro Mora composta da bobine di zinco, che non offrono alcun indizio sulla lettura e il possibile recupero della memoria, al film Tutta la memoria del mondo di Alain Resnais; la guerra  che svuota e rovina le case nella poesia di Yeats alla camera oscura costruita da Eugenio Ampudia. 

 

Eugenio Ampudia, Espacio habitable (dia), 2003. “la Caixa” Foundation.


L’artista spagnolo ha costruito un modello di spazio abitabile scavando l’interno di ottanta cataloghi. Poi ha scattato una foto che ha ingrandito e stampato su pellicola per pannelli retroilluminati (lightbox) simulando un interno con delle scale in prospettiva che conducono a una porta. La sequenza dei piani di profondità ricorda il soffietto pieghevole di una fotocamera con obiettivo anteriore, che colloca virtualmente il visitatore nel buio di una camera oscura. La casa vuota di Yeats e la camera buia di Ampudia, lo storno e lo sguardo fisso…  La mostra Empty House of the Stare nasce dai meccanismi della lingua e dalla prosa ipertestuale di McCarthy, nel contesto di un discorso sull’arte divenuto nel corso del tempo un genere o sotto-genere letterario, che il progetto londinese sottopone a una serrata sperimentazione. 

 

Enrique Vila-Matas e Dominique Gonzalez-Foerster. Fotografa di Giasco Bertoli.


Nella mostra Cabinet d’amateur, an oblique novel (la prima delle quattro) Enrique Vila-Matas esplora l’ambiguità dell’esperienza con un mix di finzione e saggistica. Maria Fusco sperimenta invece la scrittura d’arte come pratica interdisciplinare. Per la mostra Nine qwerty bells (la seconda della serie) ha messo in scena degli incontri. Uno di questi è quello fra il silenzioso video Astonishment, Disdain, Pain and So On di Esther Ferrer e il ritmico The History of the Typewriter Recited by Michael Winslow di Igacio Uriarte. Una giovane donna in un interno di Cindy Sherman osserva con curiosità l’incontro. Cosa avrebbe fatto la scrittrice messicana Valeria Luiselli che avrebbe dovuto curare la quarta mostra, dopo quella di McCarthy? Non lo sapremo perché il programma alla Whitechapel è nel frattempo cambiato. Il quarto episodio del progetto è stato assegnato a Veronica Gerber Bicecci (In the Eye of Bambi, dal 14 gennaio al 19 aprile). La narrativa di Bicecci esplora gli effetti della catastrofe umana e ambientale sul linguaggio e sul paesaggio in uno scenario fantascientifico post-apocalittico. 

Alla Whitechapel Gallery è in corso una sperimentazione della scrittura d’arte e della curatela promossa in collaborazione con la fondazione bancaria “la Caixa”. Auspichiamo che una ricerca in questa direzione trovi anche in Italia spazio e sostegno.

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John Baldessari. Mai più arte noiosa

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L’illusione del cinema

 

Santa Monica, vicino Los Angeles, una mattina dei primi anni settanta. John Anthony Baldessari (nato nel 1931 e scomparso di recente, il 2 gennaio) si reca nel suo studio e trova l’ingresso ostruito da camioncini pieni di apparecchiature da film. Formano una sorta di barricata che gl’impedisce l’accesso. Nel parcheggio circostante, nel mezzo della troupe cinematografica, spuntano una sedia per il regista e una per l’attore – il regista è Roman Polanski, l’attore Jack Nicholson, come recita l’aneddoto. Baldessari è insomma finito nel bel mezzo del tournage di Chinatown

“Pardon me, can I get into my studio?” o, secondo le versioni, “I’d like to get in. That’s my studio”, chiede a Polanski e Nicholson un Baldessari allora quarantenne, con quel volto da sette nani innestato su un corpo da gigante. Dentro di sé rimugina: “Okay so, the line between reality is my door”.

La vicenda (riportata in un’intervista con Jeremy Blake, “Artforum”, marzo 2004) non sorprende Baldessari: capita spesso che nei dintorni della sua abitazione e del suo studio si allestiscano set cinematografici. L’industria di Hollywood dista poco lontano e rende la zona circostante un luogo sospeso tra realtà o finzione o, meglio, uno spazio-tempo in cui coesistono, uno accanto all’altro, uno dentro l’altro, diversi livelli di realtà costruiti attraverso finzioni sempre più sottili. Un gioco di specchi in cui non si sa più indicare l’originale. “Credo che gran parte del mio interesse [nel realizzare Intersections, 2001-2003] derivi dal fatto che non riusciamo più a capire cosa è reale perché siamo cresciuti vedendo film”; “È lo specchio del mondo, ma è in un altro luogo”. Tante sono le occasioni in cui Baldessari ha espresso il fascino esercitato su di lui dai film in quanto macchina dell’immaginario. Al punto da dichiarare che l’artista più importante degli anni sessanta non è stato Andy Warhol o Jasper Johns ma Jean-Luc Godard.

 

Space available, 1966-67.


Per questa ragione valicare la porta del suo studio, scavalcando la troupe che ne ostacola l’accesso, è un gesto ambiguo aperto a diverse letture. Secondo la più evidente, l’artista ripara in uno spazio domestico, quello del suo studio, estromettendo il mondo del cinema. Del resto uno dei migliori complimenti che abbia mai ricevuto è: “quello che mi piace della tua arte è quanto lasci fuori”. Tuttavia basta poco per sospettare che in realtà, scavalcando i fili delle luci e le apparecchiature del set cinematografico e varcando la soglia di casa, Baldessari penetri in una sala cinematografica. O forse entra all’interno del film, passando da una parte all’altra dello schermo. Come se il suo atelier diventi il set di un film di cui ignora il copione, allestito nei minimi dettagli in attesa del suo arrivo.

La porta non segna lo scarto tra pubblico e privato, tra spazio sociale e spazio domestico ma coincide col “ciak si gira”. Una volta chiusa dietro di sé, la macchina da presa comincia a girare. “How can this be a movie, I live there”, si chiede Baldessari, ma è troppo tardi per simili speculazioni.

 

 

Del resto la storia del cinema non coincide solo con la cultura d’immagine di Baldessari ma è anche uno dei suoi principali materiali di lavoro, come dimostra il suo immenso archivio di fotogrammi classificati per tipologie. Penso, ad esempio, all’installazione video Five ’68 Films (2001), in cui accosta i footages di quattro film realizzati negli Stati Uniti e programmati a Los Angeles il 20 agosto 1968, ovvero il giorno dell’invasione dei carrarmati dell’URSS a Praga, inizio di un processo di normalizzazione che inferse un colpo mortale alla più grande utopia del XX secolo. I film appartengono a quattro generi diversi: la guerra in Vietnam con I Berretti verdi di John Wayne; la fantascienza distopica con Il Pianeta delle scimmie di Franklin J. Schaffner; la storia sentimentale con Il caso Thomas Crown di Norman Jewison; l’orrore psicologico con Rosemary’s Baby di Polanski (ancora lui).

 

Il cinema allontana Baldessari dalla nozione d’immagine, filtrata dalla pittura modernista. Come riconosce in un’intervista del 1999, “All’improvviso ho iniziato a vedere la pittura in serie nei musei come singole immagini di una sequenza cinematografica. Immaginavo quale immagine dovesse venire prima di un dipinto di Van Gogh e quale dopo. Pensavo a come l’immagine sarebbe apparsa attraverso un grandangolo. All’improvviso ho visto la pittura attraverso categorie filmiche. E mi sono convinto che un’immagine individuale sia troppo emblematica per la verità. Un’immagine individuale vuol sempre dire: le cose stanno così”. Al contrario, varcando la porta del suo atelier quella mattina dei primi anni settanta, Baldessari capisce che le cose non stanno sempre così.

 

John Baldessari, 2015, courtesy Manfredi Gioacchini.


Le ceneri della pittura

 

“EVERYTHING IS PURGED FROM THIS PAINTING 

BUT ART, NO IDEAS HAVE ENTERED THIS WORK”

“Tutto è cancellato da questo dipinto / eccetto l’arte, nessuna idea è entrata in quest’opera”: così si legge in un dipinto acrilico e aniconico di Baldessari del 1966-68, sulla cui superficie grezza e bianca è riportato, con un fine tratto nero e in maiuscolo, il messaggio indirizzato allo spettatore. Le fa realizzare da un pittore d’insegne, “istruito a non tentare di fare un lettering attraente e artistico, ma a trascrivere le informazioni nel modo più semplice possibile”.

Come la porta del suo atelier, la superficie del dipinto – che sia considerata come una finestra, una griglia, una porta sbarrata, un tessuto tirato sul telaio – non è meno ambigua. Baldessari dichiara perentorio (così interpreto il maiuscolo) che quasi tutto il mondo esterno è rimasto fuori dai margini del quadro, un gesto di apparente ascendenza modernista, come testimonia il ricorso alla purificazione, alla depurazione. Fuori sono rimaste soprattutto le idee, che l’arte concettuale, giocando con la smaterializzazione della pratica artistica, trasformava all’epoca in un nuovo materiale plastico.

Ma impedire alle idee di entrare nel dipinto non è un mero gesto di negazione, al punto che al suo interno resta la cosa che più conta: l’arte. Un monocromo potremmo dire, se non fosse per quel messaggio che ne costituisce anche il contenuto esclusivo.

 

Everything is purged from this painting but art, 1968.


Con un’ironia sottile, declinazione West Coast dell’arte concettuale di cui Baldessari è stato l’esponente principale, si prende gioco dell’automatismo – vera e propria fisima degli anni 1950-60 – che identificava l’arte con la pittura, alla testa di un’ipotetica gerarchia di forme artistiche. Al punto che fare arte concettuale, ricorda Baldessari, voleva dire non fare pittura. Un assunto perseguito con tale abnegazione che nel 1970 porta tutti i suoi dipinti realizzati tra il 1953 e il 1966 in un crematorio (Cremation Project). Le ceneri finiscono dentro nove urne utilizzate per gli adulti, e una decima più esigua utilizzata per i bambini. La placca riporta la seguente iscrizione: 

 

I will not make any more boring art, 1971.


JOHN ANTHONY BALDESSARI 

MAY 1953           MARCH 1966

 

Custodite sotto forma di libro, ogni tanto le apre e con la cenere prepara dei cookies, che un amico di cui Baldessari non rivela l’identità assaggia, in un ideale prosieguo delle uova sode firmate da Manzoni.

L’autodafé è liberatorio ma non sufficiente: l’anno successivo Baldessari realizza quello che resta il suo statement più celebre: “I will not make any more boring art”, ricopiato su un quaderno da scuola elementari, come una punizione inflitta sui banchi di scuola da un severo maestro. La ripetizione – colmo del tedio, come ricorda chi è andato a scuola un’era pedagogica fa – ha tuttavia la stessa natura processuale di tanta conceptual art. Si ripete qualcosa in modo martellante finché la frase s’imprime nella propria coscienza e, allo stesso tempo, perde di senso compiuto, in quanto letta in orizzontale ma anche in verticale, con le sue colonne tutte uguali. Insignificanti sono anche i gesti dell’artista in un video del 1971 accompagnati dalla ripetizione della frase I am making art.

 

Quando la pittura rinasce dalle sue proprie ceneri, lo fa in modo inaspettato. In Six Colorful Inside Jobs (1977) dipinge una piccola stanza quadrata di un solo colore, uno al giorno: lunedì rosso, martedì arancione, mercoledì giallo, giovedì verde, venerdì blu, sabato viola. Si tratta di una delle più potenti riattivazioni della pittura monocroma che conosca, di uno dei suoi vecchi sogni. Penso alla Chambre rouge di Matisse, rossa da cima a fondo, immersa nel colore come un acquario, col mobilio e le suppellettili appesi nel vuoto bidimensionale. Baldessari non amava essere considerato come un “L.A. artist” e comunque non stava a lui deciderlo – “uno squalo, diceva, è l’ultimo a poter criticare l’acqua salata”. Nutriva però un amore viscerale per Mantegna e soprattutto per Giotto, di cui teneva le riproduzioni della cappella degli Scrovegni nel suo studio. E Giotto, per inciso, era il nome del suo cane.

 

Il corpo del linguaggio

 

Nato a quindici minuti dal confine messicano da genitori immigrati – dalla Danimarca lei, dal sud Tirolo lui – il papà di Baldessari rivendeva materiali e oggetti di scarto recuperati smantellando case nei paraggi. “Non sprecava nulla e riciclava tutto […] Non riusciva a buttar via nulla perché vedeva un valore in tutto. Io riconosco un valore visivo in tutto” (intervista con Barbara Isenberg, dicembre 1998). Il figlio si abitua presto a formulare frasi semplici e comprensibili al padre, che parlava a malapena l’inglese.

Anni dopo Baldessari elegge il linguaggio a unico elemento dei suoi dipinti, esplorandone gli aspetti visivi e plastici: “Mi ha sempre interessato il linguaggio. Mi sono detto: perché no? Se un dipinto, secondo la classica definizione del termine, è pittura su tela, perché non si possono dipingere parole su tela? E poi ho maturato un interesse parallelo per la fotografia... Non sono mai riuscito a capire perché la fotografia e l’arte hanno storie separate. Così ho deciso di esplorare entrambe” (intervista con David Salle in “Interview Magazine”, ottobre 2013). 

 

Cremation project.

 

Pure Beauty riprende una delle più trite esclamazioni davanti a un capolavoro; unendo due nozioni quali la purezza e la bellezza che attraversano la storia della pittura e dell’estetica, Baldessari compie un’operazione sarcastica se non iconoclasta sui giudizi di valore attribuiti alle opere d’arte. In Tips for Artists Who Want to Sell sono elencati tre consigli, assai anacronistici considerata la crisi del modernismo o forse precorrenti la vague postmodernista: dipingere con colori chiari (quelli scuri si vendono male); dipingere soggetti consensuali quali Madonna e bambino, paesaggi, fiori, nature morte, nudi, marine, temi astratti e surrealisti; prediligere tori e galli a mucche e galline, che rischiano di prendere polvere nell’atelier. 

 

Cremation project.


Di questa serie il più suggestivo resta, a mio avviso, Space Available (1966-67), che gioca sul doppio senso dell’espressione: nel linguaggio pubblicitario indica uno spazio libero da affittare; in quanto meta-linguaggio commenta il dipinto sul quale è tracciata, quella superficie monocroma storicamente sottomessa alle più diverse attribuzioni di senso, disponibile ad libitum a qualsiasi intervento e progetto.

Interessato alla parola scritta, Baldessari non è meno interessato all’oralità. In un video dei primi anni settanta lo vediamo impegnato a canticchiare, con  un’intonazione un po’ stonata, uno dei testi più concettuosi e complessi mai prodotti dall’arte contemporanea: le Sentences on Conceptual Art di Sol LeWitt (Baldessari Sings LeWitt, 1972). Un omaggio sincero, convinto che cantarle aiuti a diffonderle presso un pubblico più ampio degli acquirenti dei cataloghi d’arte. 

La sua ricerca linguistica toccherà un vertice di saggezza e ironia – mai scindibili in Baldessari – quando prova a insegnare l’alfabeto a una pianta, ripetendo una lettera alla volta con tanto di abbecedario alla mano, accostato alla pianta come se avesse occhi per vedere e orecchie per ascoltare (Teaching A Plant The Alphabet, 1972).

 

Charles Addams, vignetta pubblicata sul “New Yorker”.


Baldessari amava una vignetta di Charles Addams pubblicata sul “New Yorker”, ambientata in una sala cinematografica, un tema sviluppato già dalla pittura americana: si girano le spalle al film sullo schermo per interessarsi agli effetti del film sugli spettatori – un approccio su cui è costruito, più recentemente, lo straordinario Shirin (2008) di Abbas Kiarostami.

Nella vignetta di Addams il pubblico ha un’espressione inorridita, tranne un bastian contrario che se la ride bellamente. Forse perché sa che le immagini che scorrono sullo schermo non corrispondono a uno stato della realtà, ma sono pura finzione recitata da attori-mentitori. O forse perché vuole mettere in scacco il dispositivo empatico della sala cinematografica, che induce precise reazioni sul pubblico. O forse perché ignora che quelle immagini in movimento non fanno altro che mettere in scena la nostra esistenza e la nostra realtà, quelle ambientazioni urbane che lo spettatore ritroverà rincasando a proiezione terminata. Sempre che non trovi una troupe davanti casa, pronta a girare la prossima scena.

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Jitka Hanzlová, Silences

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Il paese si chiama Rokytník. Un bambino sta fermo in mezzo alla strada. Guarda direttamente nell’obiettivo. Tiene in mano uno scudo e una spada. Sembra che voglia giocare e contemporaneamente ostacolare il passaggio. Lo sguardo è sicuro di sé, quasi impenetrabile. Familiare e perturbante. Una presenza ostinata da cui non si può prescindere, e al contempo un brandello di passato che torna a vivere nel fotogramma. Non c’è dubbio: l’obiettivo è il doppio dello scudo. Poiché Rokytník è anche il paese in cui è vissuta Jitka Hanzlová, l’autrice dello scatto. La sua storia ne è l’emblema. Nata nel 1958 a Náchod, nella ex Cecoslovacchia, fugge ad Essen nel 1982, dove studia Design della Comunicazione. In seguito alla dissoluzione del regime comunista cecoslovacco ritorna al suo paese. “Tutto il mio lavoro ruota attorno all’idea di ciò che è casa. Vivere in esilio significa parcheggiare la memoria, il nostro stesso linguaggio, perdere l’equilibrio, mettendo tutta la speranza nel futuro”, racconta la fotografa. La Galleria Nazionale di Praga le dedica una mostra intitolata Silences, a cura di Adam Budak, che ripercorre trent’anni di attività.

 

Dal 1990 non cessa più di scattare, come se dovesse colmare un vuoto irrecuperabile. Nelle immagini della Hanzlová, sin dai suoi primi libri, si percepisce la presenza di una tonalità che rappresenta la perdita, lo smarrimento, la caducità ma anche l’idea di un “c’è, è qui”, “c’era, e c’è ancora”, indipendente dalla durata temporale. Le immagini sono le sue parole, una lingua perduta e poi ritrovata. “Sono giunta alla fotografia (…) in un momento in cui, come straniera, non potevo conversare o capire. Durante questo periodo, guardare è diventata la mia prima lingua”, racconta la Hanzlová. Rokytník (1990-1994) è il suo primo lavoro. Attorno allo sguardo di quel bambino, magnetico come quello fotografato nel 1962 a Central Park da Diane Arbus, una delle sue fotografe predilette, si polarizza la tensione sprigionata dalle immagini della Hanzlová. 

 

Jitka Hanzlová, Rokytník (1990-1994).


Osservarle significa scontrarsi con una forma di apparente banalità. Non vi sono picchi di orrore o di bellezza. Ci si chiede: perché il prato estivo di Rokytník, che apre il lavoro omonimo, è sinonimo di serenità e al contempo sembra celare un mistero? Charlotte Cotton definisce questo stile “estetica dell’impassibilità”: un genere di fotografia fredda, distaccata, perfettamente a fuoco. E ne fa risalire l’origine agli insegnamenti di Bernd e Hilla Becher, e ancor prima ai movimenti tedeschi della Nuova Oggettività, sviluppatisi negli anni Venti e Trenta del Novecento. Eppure, nelle immagini della Hanzlová, sembra esserci qualcosa che si spinge oltre questa solida impassibilità. 

 

Ne è un esempio il lavoro intitolato Forest (2000-2005). Secondo John Berger, che scrive l’introduzione a questo lavoro, “l'interno profondo di una foresta, è percepito come una mano percepisce l'interno di un guanto”. Cos’è la foresta-guanto? Il sogno, l’inconscio, la paura, il buio? E cosa significa spingersi al suo interno? 

Degli alberi si vedono solo i tronchi, così vicini da sembrare le sbarre di una porta immaginaria; il suolo è ricoperto di erba verde, in piena luce, e sembra condurre verso lo sfondo nero della fotografia e della foresta, rami e foglie ricoprono la superficie delle foto e invogliano lo sguardo a varcare la loro soglia. Gli animali sono gli unici esseri viventi: piccoli ragni tessono una tela invisibile sospesi nel vuoto ed un uccello, poggiato sopra un ramo, pare che guardi direttamente l’obiettivo. Secondo Urs Stahel, che ha scritto un lungo saggio introduttivo al catalogo della mostra, guardare le immagini della foresta genera una precisa sensazione: è come trovarsi nel cuore di un uragano, pacifico, silenzioso, in decelerazione, apparentemente vuoto. Eppure vi è altro. 

La foresta-guanto è l’entrata nel mondo delle ombre. La Hanzlová non si accontenta di fotografare ciò che vede. Vuole mostrarne il segreto. Per questo le sue immagini sono inafferrabili. La loro è una verità di cui non possiamo tracciare dei contorni netti, ma di cui non possiamo fare a meno. 

 

Jitka Hanzlová, Forest (2000-2005).


Cosa significa abitare in un posto in cui non si è nati? Le immagini di Bewohner (1994-1996), scattate nella maggior parte a Essen, sono l’esatta antitesi di Rokytník. Le immagini sono perfettamente speculari: la città dell’esilio vista dopo il ritorno a casa. Ciò che abita l’immagine è qualcosa di estraneo. Vi si contrappongono il paese e la città. Il libro si apre con un’immagine di Berlino innevata e nebbiosa vista da Alexanderplatz, e si chiude con la foto di un vaso che contiene un girasole rinsecchito. Della natura restano poche tracce: un bellissimo pavone, chiuso in gabbia, con la coda aperta; i rami di un albero che sembrano sfiorare la parete di un edificio in cemento; una scia luminosa, lasciata forse da una traccia di carburante sull’asfalto, che ricorda un arcobaleno.  

 

Jitka Hanzlová, Bewohner (1994-1996).


La medesima luce trapela dallo spazio della foresta e illumina le protagoniste di Female (1997-2000). Ma chi sono queste donne? Quali sono le loro storie? In questa serie di ritratti, la fotografa chiede alle donne che incontra per le strade di Los Angeles, Madrid, Londra, Essen, Berlino, se può scattare loro una foto. Le biografie di chi fotografa e di chi viene fotografata tendono a confondersi. La luce, il suo dispiegarsi sui volti, suggerisce l’esistenza di una storia, lo “sviluppo” si potrebbe dire in termini fotografici, l’idea che in ogni immagine sviluppata sopravviva un’immagine latente. Eppure tutto resta misterioso. 

 

Jitka Hanzlová, Female (1997-2000).


Cosa raccontano le immagini di Horses (2007-2014) I cavalli vengono spesso ritratti attraverso singoli dettagli del loro corpo: la coda, un orecchio, il collo, tanto da sembrare quasi umani. In una di queste, si vede una parte del corpo quasi irriconoscibile, una spirale che ricorda la forma di un orecchio umano. Un altro invito a penetrare la superficie, per giungere in una cavità. Il silenzio che avvolge le immagini è una ulteriore soglia da varcare. La luce di queste immagini, che sono quasi sempre a fuoco, non fa altro che invitarci ad entrare nel buio della foresta, nel suo spazio profondo. L’apparenza manifesta delle cose, la loro superficie, non è altro che la porta per raggiungere una visibilità segreta, nascosta. Un modo per entrare nello spessore delle immagini, per dare loro un corpo. 

 

Tutto è dinnanzi ai nostri occhi e tutto sembra che stia per scomparire. Le fotografie della Hanzlová sono frammenti che si attirano, si cercano, ma il motore interno che le unisce non si lascia mai completamente definire. Non dice sino in fondo il groviglio di emozioni che accompagna i soggetti, eppure l’emozione non è sottratta, è solo spostata. Questo trasferimento passa attraverso il suo sguardo, attraverso il suo modo di incontrare la gente, i posti, gli animali. I soggetti sono colti in un gesto, in un dettaglio. Passano. E poi restano.

 

Forse non è un caso che la fotografa abbia imparato a fotografare e nel contempo a rilegare i suoi libri. Rilegare equivale a generare uno spessore dietro una superficie, significa dare un volume. Ogni pagina conduce nel corpo del testo, ogni immagine è un frammento di volume. “Ho iniziato a studiare fotografia e ho anche imparato a rilegare libri. (…) Alcuni anni dopo, stavo scattando fotografie a Rokytník e recuperando il mio passato, pezzo per pezzo, cercavo il mio linguaggio fotografico e, alla fine, la verità. Ma cos'è la verità?”, si chiede la fotografa.

 

Tutto è avvolto dal silenzio. Non solo nelle immagini di Horses, ma anche in quelle di Rokytník, di Brixton (2002), il quartiere a sud di Londra abitato da immigrati dei Caraibi, del Giappone di Cotton Rose (2004-2006) e così per tutti i luoghi in cui la Hanzlová ha fotografato. Il silenzio, “è uno spazio dove mi sento a casa, dove il mio orologio interiore segna la via che ha senso”, afferma la fotografa. Il suo ultimo lavoro, intitolato Water (2013-2019), torna a confermarlo. L’acqua segna il ritorno al vuoto, all’origine, alla profondità. Un vuoto antecedente al linguaggio. Forse sta qui il senso. Ogni immagine è la forma di un silenzio che reca in sé la consapevolezza della propria fugacità. Eppure ogni silenzio, pare suggerire la Hanzlová, al di là del provvisorio universo in cui viviamo, è anche uno spazio in cui si può abitare. Profondo e misterioso. Forse è questo il vero segreto.

 

Silences, di Jitka Hanzlová a cura di Adam Budak, Galleria Nazionale di Praga, fino al 16/2/2020.

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Andrea Mantegna. Rivivere l'antico, costruire il moderno

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“Lasciò costui alla pittura la difficultà degli scorti delle figure al di sotto in su: invenzione difficile e capricciosa” scrive Giorgio Vasari in Vite de' più celebri pittori, scultori e architettori, riferendosi alle figure rappresentate in scorcio nei dipinti di Andrea Mantegna. Lo scorcio del Cristo morto nel sepolcro e tre dolenti conservato alla Pinacoteca di Brera è un capolavoro assoluto, ispirato al motivo iconografico del Compianto sul Cristo morto. Una sua videoriproduzione giganteggia con movimenti di camera sui dettagli nell’allestimento multimediale che correda la mostra Andrea Mantegna. Rivivere l'antico, costruire il moderno (Torino, Palazzo Madama, fino al 4 maggio 2020), promossa dalla Fondazione Torino Musei e da Intesa Sanpaolo. Il Cristo in scurto, presentato come uno sviluppo illusionistico della prospettiva rinascimentale, deve l’effetto del rendere più breve in pittura anche alle linee di contorno, dette da Vasari “linee girate”.

 

Andrea Mantegna, Cristo morto nel sepolcro e tre dolenti, 1483 circa. Milano, Pinacoteca di Brera.


La linea di contorno infatti “deve come girare su se stessa e finire in modo da lasciare immaginare altri piani dietro di sé e da mostrare anche quelle parti che nasconde” spiega Gaio Plinio Secondo in Storia Naturale, (XXXV,67-68), riferendo che Antigono e Senocrate attribuirono a Parrasio la conquista del primato nel disegno delle linee di contorno. Queste linee furono da Bernard Berenson intese con valore plastico e a questa loro interpretazione “funzionale” si deve in parte la lettura plastica e monumentale delle figure dipinte da Mantegna. 

 

Antonio del Pollaiolo, Battaglia dei dieci uomini nudi, 1465 circa. Chiari, Fondazione Biblioteca Morcelli, Pinacoteca Repossi.


Il racchiudere entro il limite del contorno la modalità di scorcio dell’immagine, come nella Battaglia dei dieci uomini nudi incisa da Antonio del Pollaiolo, nota al Mantegna dal tempo del suo apprendistato presso la bottega di Francesco Squarcione, risponde a una logica visiva diversa da quella prospettica. 

 

Lucca, Biblioteca Governativa, ms. 1448, (cc.1r-8r: Elementa picture nella redazione latina con lettera a Teodoro, cc.8v-53v: De pictura nella redazione latina con lettera al Gonzaga, cc.53v-54r: De punctis et lineis apud pictores). Nel manoscritto albertiano del Cinquecento, l’immagine di un occhio materializza il punto geometrico della costruzione prospettica .

 

Andrea Mantegna, scomparto centrale, sinistro e destro della Pala di San Zeno, 1456-1459. Verona, basilica di San Zeno / Sant’Antonio di Padova e San Bernardino da Siena presentano il monogramma di Cristo, 1452. Padova, Museo Antoniniano. L’affresco, che accoglie il visitatore della mostra al Piano Nobile di Palazzo Madama, rappresenta in scorcio dal basso i due santi e alcuni oggetti appoggiati sulla cornice inferiore della lunetta resi con una prospettiva d’effetto.


Nel De pictura e negli Elementa picturae, entrambi composti a Firenze tra il 1435 e il 1436, Leon Battista Alberti espone i principi della geometria euclidea con il linguaggio dei pittori, gettando i fondamenti concettuali e pratici dell’innovazione figurativa trovata da Brunelleschi. Mantegna, che entra in contatto con Alberti alla corte dei Gonzaga, adotta la ratio della prospettiva puntocentrica o lineare che mette in fuga verso un punto infinito (nella Pala di San Zeno il punto è posto al centro del piccolo rosone alla base del trono), ma per scorciare il corpo del Cristo morto usa anche la linea di contorno, che abbrevia segnando il limite di ciò che è finito. Il rendere più breve in pittura con un termine nel quale si racchiude l’intera estensione della figura, nel caso del Compianto di Brera esprime la tragedia della morte di Cristo che completa ed esemplifica il significato della sua esistenza umana.

 

Andrea Mantegna, Madonna con il Bambino e santi Gerolamo e Ludovico di Tolosa, 1453-1454 circa. Parigi, Institut de France, Musée Jacquemart-André.


Nelle opere di Mantegna il disegno della linea di contorno che monumentalizza le figure si combina alla symmetria, intesa nell’accezione antica, greca e poi latina, come proporzione fra le parti e fra le parti e il tutto. Parrasio, che conquistò il primato nella linea di contorno, fu anche il primo che dette symmetria alla pittura (Plinio, Storia Naturale, XXXV, 67). La compostezza delle figure “scolpite” dal disegno fermissimo dei contorni nelle opere di Mantegna è data anche dalla symmetria della composizione. Si presume che il pittore fosse a conoscenza dell’opera di Plinio attraverso una delle ultime copie manoscritte in lingua latina della Naturalis Historia (Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino, MS I.I.22-23, c. 469r.) consultata dagli intellettuali e dagli artisti alla corte dei Gonzaga. 

 

Andrea Mantegna, Madonna delle cave, 1490 circa. Firenze, Gallerie degli Uffizi.


Nella sezione I Trionfi e l’anticoè esposta la Madonna delle cave dipinta nel 1490 circa. Alle spalle della Madonna si erge una montagna di pietra vulcanica che degli scalpellini stanno estraendo e lavorando. La precisione con la quale Mantegna rappresenta il mondo minerale e geologico probabilmente risente della lettura dei Libri XXXIII-XXXVII dedicati alla mineralogia e alla storia dell’arte, nel corso della quale possiamo ragionevolmente supporre che il pittore non abbia trascurato di esaminare il passo riferito a Parrasio, nel contesto di una classificazione della pittura, ripartita per categorie cronologiche, alfabetiche e qualitative: opere dei grandi maestri (catalogate a seconda della tecnica usata e dei contenuti illustrati), dei primis proximi, dei non ignobiles e infine delle pittrici. Questa complessa classificazione della pittura comprende anche un suo giudizio sul piano morale. 

L’antico non rinasce nel Quattrocento solo sul piano estetico. 

 

Ritratto di Decio, 249 circa. Roma, Musei Capitolini / Andrea Mantegna, Ritratto del cardinale Ludovico Trevisan, 1459-1460 circa. Berlino, Staatliche Museen zu Berlin, Gemäldegalerie.


Il contegno delle figure monumentalizzate da Mantegna richiama tipologie della scultura antica, come il Ritratto del cardinale Ludovico Trevisan. La compostezza delle sue figure “scolpite” dalle linee di contorno trasporta nella pittura un ideale di compostezza e misura tratto dai suoi studi sulla scultura antica. La permeabilità fra pittura e scultura nell’opera di Mantegna è ben documentata nella mostra a Palazzo Madama anche dalla relazione fra il Martirio di San Sebastiano gettato in bronzo da Donatello e i monocromi con i quali Mantegna tenta di restituire la consistenza della materia bronzea, ora con effetti di doratura, come nella tempera a colla e oro su tela Donna vestita all’antica e vecchio in panni orientali (Sibilla e profeta?), ora con effetti di patinatura, come nella Madonna con il Bambino, realizzata a punta metallica, rialzata a biacca, su carta blu scuro preparata. Fonte d’ispirazione per il Mantegna è la scultura antica rivisitata da Donatello, dalla quale trae l’idea di una “classicità rinata”.

 

Donatello, Martirio di San Sebastiano, 1450-1452 circa. Parigi, Institut de France, Musée Jacquemart-André / Andrea Mantegna, Donna vestita all’antica e vecchio in panni orientali (Sibilla e profeta?), 1495. Cincinnati, Cincinnati Art Museum, Bequest of Mary M. Emery.


La monumentale compostezza delle figure dipinte da Mantegna, come quella dei ritratti descritti da Plinio “che si potevano vedere negli atrii degli antenati” (Storia Naturale, XXXV, 6), ha un valore morale oltre che estetico. La bellezza che si esprime attraverso la symmetria degli antichi e che rinasce nel Quattrocento è anche un ideale di controllo, equilibrio e misura nella condotta sociale. Leon Battista Alberti, che Mantegna incontra alla corte dei Gonzaga, è uno dei primi moralisti a teorizzare un nuovo modello di comportamento etico ed estetico (Amedeo Quondam, Forma del vivere. L'etica del gentiluomo e i moralisti classici (Il Mulino, Bologna 2010). Attraverso la sua opera Mantegna educa alla misura, alla symmetria coniugata allo scorcio che riassume l’estensione dell’intera figura, mostrando con un termine grafico la misura della finitezza umana, entro la quale acquista senso e scopo un’intera esistenza. In questo, lo scorcio del Cristo morto raggiunge un vertice. 

 

Anonimo, fotografia del cadavere di Ernesto Guevara scattata il 10 ottobre 1967 a Vallegrande, Bolivia.


Nel testo Image of imperialism pubblicato il 26 Ottobre 1967 nella rivista New Society, John Berger analizza una fotografia del corpo di Ernesto Guevara ucciso dall’esercito boliviano 17 giorni prima. Il corpo è fotografato dalla stessa altezza di quello del Cristo morto. In comune il dettaglio delle mani rattrappite, la pieghettatura del velo e della stoffa, la posizione leggermente rialzata della testa. La relazione tra le due immagini porta alla luce la tragedia della morte che completa ed esemplifica il significato di un’intera esistenza, nel caso di Guevara esemplifica il tentativo di agire in prima persona per eliminare ciò che nella società è intollerabile, con la consapevolezza di esporsi a un destino tragico. 

Mentre collego, attraverso la prosa di Berger, l’immagine del corpo dipinto da Mantegna a quella del corpo fotografato da un anonimo a Vallegrande in Bolivia, risuonano nella mia mente i versi della poesia Veglia, scritta da Giuseppe Ungaretti in trincea il 23 dicembre 1915. Il poeta dell’Ermetismo fa con la poesia quello che Mantegna fa con la pittura: scorcia la sintassi affidandosi a valori fonetici, così come ai mezzi grafici e tipografici (gli “spazi” e i “bianchi”), perché “la parola è impotente, non riuscirà mai a dare il segreto che è in noi, mai… lo avvicina”, spiega il poeta nell’ intervista televisiva trasmessa dalla RAI nel 1961 (Incontro con… Giuseppe Ungaretti, a cura di Ettore Della Giovanna). Entrambi, sia Mantegna che Ungaretti, lasciano immaginare ciò che sta più in là, lo avvicinano, lo suggeriscono. Il primo con una linea di contorno che sintetizza l’intera estensione della figura ponendovi un termine; il secondo con la parola scritta in trincea, nel pericolo della morte che pone un termine alla vita umana. 

Mostrando con un termine grafico la misura della finitezza umana, entro la quale acquista senso e scopo un’intera esistenza, Mantegna scorcia e dà symmetria, senza tralasciare d’inserire con la prospettiva lineare l’infinito di cui l’antichità aveva orrore: fa “rivivere l’antico” costruendo il moderno. 

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Palermo - Milano, Antonino Costa

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La forma dell’Italia come la vedono i fotografi che la vivono e la attraversano. Le città, i paesi, le periferie, la campagna, i luoghi delle aggregazioni, le vie, i negozi e l’ambiente naturale vanno a costituire un patrimonio culturale da osservare, come le relazioni che si stabiliscono tra le persone e gli spazi. Ad ogni fotografo e fotografa chiediamo di esplorare i loro archivi e scegliere dieci foto che rappresentino l’Italia, accompagnate da un unico testo, o da dieci brevissimi testi che fungono da didascalie, in cui ognuno racconta come e perché ha realizzato i suoi scatti. L’insieme delle loro immagini andrà a costruire il mosaico degli sguardi, che via via daranno corpo all’Italia di oggi.

 

Venditori di pesce a Mondello. Palermo, Italia. 2009.


Fotografia tratta dal lavoro Palermo come un’infanzia

 

Nel 2009, molto probabilmente ero nel pieno della mia vita milanese. In quel tempo lavoravo come aiuto operatore sui set cinematografici. Un lavoro duro e molto tecnico. Mio figlio aveva sei anni e mi ero separato dalla madre da circa due anni. In sostanza di quel periodo ricordo che era veramente un casino. Molto raramente tornavo a Palermo, non cosciente, ancora, di quanto mi rigenerassero quei brevi soggiorni nella mia città natale. Viaggio dopo viaggio avevo cominciato a fotografare, con una vecchia Rollei, tutto ciò che mi riportava a quel passato fanciullesco. Nasceva così il lavoro fotografico Palermo come un’infanzia, terminato poi nel 2016… mi pare (anno più anno meno).

Nella foto ritraggo il signor Giuseppe nell’atto di imbustare il pesce “pulito” (in questo caso un polpo). Giuseppe imbusta e basta, fa da aiutante a Nicolino che è il pescivendolo; di lui si scorgono il braccio e i coltelli poggiati sul bancone; coltelli che gli furono lasciati dal padre, anche lui pescivendolo; mestiere che come spesso accade in Sicilia è fatto ad arte e che nel nostro dialetto si dice Rigattèri.

 

Scuola primaria. Milano, Italia. 2018.


Fotografia tratta dal lavoro Barona.

Mi ero stabilito da quelle parti da circa un mese e dopo qualche tempo esplorai la zona delle risaie che qualcuno del luogo mi aveva indicato come una bella passeggiata. Come di solito non portavo la macchina fotografica. E lì che ho visto il palazzo di edilizia popolare che mi ha indotto a cominciare questo lavoro fotografico, ritornai così qualche settimana dopo con la macchina fotografica che riuscii a trovare in prestito. Presi del tempo pure per decidere se usare una pellicola in bianco e nero o a colori, scelsi quest’ultima.

Quando iniziai a scattare c’era il sole basso dell’inverno milanese.

 

Finestra di un palazzo di edilizia popolare. Milano, Italia. 2018.


Fotografia tratta dal lavoro Barona.

 

Quello che mi ha colpito, credo sia stato il silenzio attorno a questo palazzo, dove nei giorni successivi ho provato ad avvicinarmi sempre di più, ammetto con circospezione e cautela, perché in certe passeggiate precedenti di sopralluogo, avevo potuto riscontrare una certa durezza di linguaggio e anche negli sguardi in alcuni inquilini che si trovavano giù nei piazzali circostanti.

 

 

Parco Andrea Campagna. Milano, Italia. 2018.


Fotografia tratta dal lavoro Barona.

 

Nel primo rullino, non ho fatto in tempo a instaurare qualche dialogo con gli abitanti del palazzo. Ho scattato furtivamente. Solitamente cerco, dopo aver preso confidenza con l’ambiente, di fare alcuni ritratti; pochi comunque.

Mi è capitata un’occasione di contatto con le persone con questa fotografia, che ritrae il padre e figlio seduti sulla panchina; poco prima del crepuscolo. Gli ho domandato se potevo fotografarli nella posizione in cui stavano. Non mi hanno chiesto perché. Mi ero comunque presentato come uno che stava fotografando i dintorni. Tutto molto rapidamente: uno scatto, un ringraziamento e un saluto. Non so se guardassero a un futuro migliore, desiderando un trasloco, magari abitavano nel palazzo fatiscente che avevo fotografato nei giorni precedenti, oppure chiacchieravano compiacendosi della loro nuova abitazione che avevano di fronte, alla quale mi sembrava guardassero e che è un palazzo più bello.

 

Tramonto nei pressi di un palazzo di edilizia popolare. Milano, Italia. 2018.


Fotografia tratta dal lavoro Barona.

 

Era febbraio inoltrato quando ho cominciato a scattare, e nel primo rullino di trentasei pose c’è la prima impressione istintiva di ciò che mi aveva interessato della zona della Barona che ho circoscritto con le fotografie di questa serie.

Dopo qualche giorno che gironzolavo attorno al palazzo di edilizia popolare che avevo individuato, ebbi il coraggio (avendo tastato la diffidenza di alcuni inquilini) di spingermi nel portico, proprio sotto le finestre del primo piano.

Il tempo atmosferico cambiò nei giorni seguenti, preparandosi alla nevicata che poi arrivò; riuscii a finire il rullino prima che il paesaggio imbiancasse e non ebbi poi modo di fare altri scatti lì.

 

Piazza Vittorio. Roma, Italia. 2002.


Fotografia tratta da nessun lavoro, ritrovata in un cassetto del mio archivio.

 

Di questa foto non ricordo nulla, o quasi. Ricordo che avevo ancora la Rollei, l’avevo comprata di seconda o forse terza mano. Ricordo che ero a Roma… innamorato della ragazza con la quale l’anno dopo ci feci un figlio e per poi separarci qualche tempo dopo. Non ricordo come mai mi trovassi a Piazza Vittorio, forse ero appena arrivato in città o forse stavo andando in stazione per ritornare a Milano; perché ero andato a trovarla appunto a Roma. Comunque camminavo da solo in quel momento. Avrò guardato verso la piazza e scattato la foto ai ragazzini che giocavano a pallone.

Ho ripensato a questa fotografia solo ultimamente e ho voluto inserirla nella selezione preparata per la mia mostra “Italie”. Non facendo parte di un mio progetto fotografico, che tengo separati in singole cartelle nei cassetti del mio archivio metallico, ci ho messo un po’ di tempo a ritrovarla.

 

Gioco dell'antenna a mare durante i festeggiamenti dei santi patroni Cosma e Damiano a Sferracavallo. Palermo, Italia. 2002.


Fotografia tratta dal lavoro Palermo come un’infanzia

 

Dal giocare per strada con un pallone in una piazza romana a giocare su un’antenna insaponata sospesa sul mare per acchiappare la bandiera posta nella sua punta più esterna ne passa. La foto precedente e questa sono state scattate nel 2002. Lo so solo perché ho datato i negativi. Certamente in quell’anno che era circa il sesto dopo che avevo lasciato Palermo, avevo iniziato a sentire la mancanza della mia terra, vivendo ormai a Milano. Ero però ancora lontano dal pensare a un progetto fotografico (quello che poi scaturì in Palermo come un’infanzia e che è carico di nostalgie e situazioni personali complesse); in quel tempo, nel 2002 intendo, ero spensierato e fotografavo come un turista. Durante uno dei miei soggiorni in Sicilia mi trovai a Sferracavallo, piccola borgata di pescatori vicino a Palermo. Avevo saputo che alla fine di settembre si festeggiano i due santi patroni Cosma e Damiano; due medici romani gemelli che furono decollati, martiri insomma. Arrivai nella borgata e la trovai piena di gente, i festeggiamenti cospicui e coreografici; coi due simulacri dei medici nell’atto di benedire portati a spalla sulla vara dai baldi giovani della relativa confraternita che con sapienti sforzi sapevano simulare una sorta di ballo, di annacamento dei due santi… Essi a quanto pare, uscirono dall’acqua del mare, senza teste «ballando ballando». E fu il miracolo! Che li eresse a santi patroni di Sferracavallo.

 

Giocatori di carte in un bar della periferia. Milano, Italia. 2015.


Fotografia tratta dal progetto Bar, ancora in corso.

 

La periferia sud di Milano, uno dei tanti bar ormai gestiti dai cinesi che hanno imparato a fare il caffè, il caffè ristretto, il caffè macchiato, il cappuccio (cappuccino dalle mie parti), il marocchino e a sfornare ottime brioches congelate. Certo il bar, un tempo, era una connotazione della nostra bella Italia. Da sud a nord andare al bar per noi italiani è in parte un rito. Era in uso a Napoli, ma si faceva anche a Palermo, di pagare due caffè anche se, se ne riceveva uno. Bastava che il cliente ordinasse il caffè sospeso e questo andava a beneficio di uno sconosciuto avventore, bisognoso, che poteva richiederlo in un successivo momento.

Che altro dire di questa foto: ho esposto e messo a fuoco il lampadario che mi colpì subito entrando, come unico elemento originario rimasto in questo bar.

 

Parcheggio sul lungomare di Romagnolo. Palermo, Italia. 2016.


Fotografia tratta dal lavoro Romagnolo: lavoro a cavallo tra Palermo come un’infanzia e Brancaccio.

 

Il ciclo di fotografie riguardanti questo progetto sancisce la fine di Palermo come un’infanzia. Ero andato a fotografare quest’antica spiaggia del capoluogo siciliano, disposta a sud del golfo.

La storia di Romagnolo risale al 1800 quando le nobili famiglie palermitane avevano costruito le loro case di villeggiatura in questa parte di costa cittadina.

Un tempo, quando mio padre era bambino, negli anni ’50 e lui viveva lì, la spiaggia aveva ancora una certa rilevanza, c’erano stabilimenti balneari in funzione. Poi il costante declino e l’abbandono. Negli anni più recenti, dopo incurie, abusivismo e scarichi illeciti nel nostro bel mare, pare sia cominciato (alla maniera e nei tempi palermitani) un piano di rivalutazione dell’area. 

Questa foto risale al 2016: la bandiera nuova di pacca dell’Italia fronteggia quella vecchia e logora, posta a sinistra della composizione, e che tuttavia pur ridotta in brandelli, continua a ostentare un certo vigore e una dinamicità nel movimento impostagli dal vento di Ponente.

 

Fotografia tratta dal lavoro Borgo Nuovo.

 

Ecco siamo alla fine di queste dieci fotografie scelte tra le venticinque che saranno in mostra alla fine di novembre a Bruxelles. La mostra ha come intento di parlare dell’Italia. Certo la mia Italia è Milano e Palermo, a parte una divagazione nella città di Roma.

Volevo terminare questa breve rassegna con la foto del polpo, o, se si preferisce quest’altra descrizione: la foto del braccio del venditore ambulante che lo innalza. È tra le mie foto più recenti, scattata appena un anno fa (da allora non ho ripreso ancora la macchina fotografica in mano… ma neanche ne ho una, come al solito).

Ero andato nel quartiere di Borgo Nuovo che si sviluppa ai piedi del monte Cuccio, stando lì non sembra di essere in una città di mare.

Ho cominciato a fotografare Palermo nel 2001 (con una foto che qui non è presente e non lo sarà neanche a Bruxelles). Mi sono mosso sempre di più nei suoi quartieri popolari del centro e della periferia. Quartieri, specie quelli periferici, che hanno una brutta reputazione. Lasciati per decenni al loro destino, dove l’acculturazione stenta ad attecchire; ma dove anche e per fortuna l’omologazione e la globalizzazione hanno un freno. La gente che le abita, il popolo, mantiene codici di comportamento antichi (a volte pesanti) e parla il dialetto.

A Milano ho cercato e fotografato la mia Palermo.

 

Italie, Italies, Italiës”, la mostra personale del fotografo Antonino Costa, ha aperto il 28 novembre all'Istituto Italiano di Cultura di Bruxelles e potrà essere visitata sino al 20 dicembre 2019.

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ABC

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La serie fotografica dal titolo ABC è costituita da un alfabeto di insegne pubblicitarie, disseminate nelle zone periferiche di alcune città del Nord Italia, in particolare di Milano.

 

È un’indagine sui luoghi di confine e di transito, fra la campagna e la città, lungo i viadotti e le tangenziali. Le immagini nascono quasi spontaneamente, talvolta per un insieme di coincidenze, come se avvenisse un incontro tra una causalità esterna e una finalità interna, capace di generare un forte valore simbolico e metaforico.

 

L'incontro tra il testo delle insegne e lo spazio urbano, in bilico tra banalità e stereotipo, dà forma a un'archeologia del marketing, di cui le immagini sono le rovine di un passato chesopravvive con insistenza al logorio del tempo.

 

Ho avviato la serie ABC insieme ad un altro progetto intitolato ADE, dedicato ai fiori e alle piante cresciute spontaneamente nelle aiuole o nei parchi attorno a Milano e in aree fortemente cementificate. ABC, tutt'ora in corso, ne è l’altro volto, il reperto archeologico che si affianca al mondo vegetale, raffigurato come un agglomerato di fossili viventi.

 

Sara Rossi, A (Auto), Milano, 2015.

 

Sara Rossi, B (Bar), Verona, 2014.

 

Sara Rossi, H (Hotel), Periferia nord/ovest Milano (verso Rho), 2015.

 

Sara Rossi, I (.it), Paderno Dugnano (Milano), 2015.

 

Sara Rossi, M (Mario), Cinisello Balsamo (Milano), 2015.

Sara Rossi, O (Ora), Strada statale per Lecco prima di Merate, 2015.

 

Sara Rossi, P (Perchè), Periferia sud Milano , 2016.

 

Sara Rossi, R (Ratto), Periferia nord/ovest Milano, 2015.

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Christian Boltanski, i mille volti del tempo

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Che aspetto indicibilmente terribile deve avere! Certo, il suo volto non può aver sofferto per l'invecchiamento; lo immagino come se avesse più volti, ognuno dei quali riflette uno dei periodi che ha vissuto e tutti insieme si combinano in tratti sempre nuovi, mentre infaticabilmente, e invano, cerca attraverso le sue peregrinazioni di ricostruire dai tempi che lo hanno plasmato, il tempo unico che è condannato a incarnare.” 

Questo è Ahasuerus, l’ebreo errante, nelle parole che Siegfried Kracauer sceglie per descriverlo nel saggio postumo Prima delle cose ultime, così da farne l’allegoria dell’enigma del tempo. Egli è, infatti, una figura dai mille e un solo volto, immaginato alla fine dei tempi nell’atto di voltarsi indietro per gettare uno sguardo d’insieme sulle sue peregrinazioni cronologicamente “fuor di sesto”. Prima di disintegrarsi, questo sarà il suo tentativo disperato di comprendere il tempo presente, unico orizzonte in cui è condannato a vivere.

Christian Boltanski, che al Centre Pompidou presenta Faire son temps, sembra incarnare questa stessa figura: trentacinque anni dopo la sua prima mostra negli spazi del museo parigino, Boltanski concepisce non una retrospettiva, ma uno sguardo d’insieme sulla sua lunga attività d’artista, una peregrinazione non cronologica che ambisce a risolvere gli enigmi del tempo e della memoria. Di volti, anche in questa traversée d’artista, ve ne sono mille e uno: essa si apre significativamente con le 27 possibilités d’autoportrait, 27 autoritratti che ricombinano i tratti del volto di Boltanski, adulto e bambino, in altrettante e sempre nuove combinazioni, preludio ai mille volti che popolano le sale in cui le 40 opere sono esposte. Ahasuerus dunque si mostra, ma ciononostante permane inafferrabile nella sua identità mutante, fallendo già da subito nel tentativo di darsi una forma, un volto. 

 

Laddove Ahasuerus fallisce, riesce però la seconda figura che Kracauer introduce, nel suo testo sull’enigma dei tempi, per interrogarsi sul tempo che appartiene alla memoria: Proust e il suo doppio, Marcel. Come Ahasuerus, Marcel e Proust fanno l’esperienza della discontinuità del tempo, di quegli istanti atomizzati che ne costituiscono l’insolubile antinomia; solo Proust autore potrà però scoprire che la discontinuità degli attimi della vita di Marcel doveva servire al compimento del romanzo, solo l’artista sarà in grado di redimere questi momenti “incorporandoli”, come dice Kracauer, in un’opera senza tempo. Boltanski è allora non solo Ahasuerus, ma anche Marcel e Proust. L’arco temporale che egli ci invita ad attraversare è teso tra un Départ, 2015 e un’Arrivée, 2015, per ritessere le fila di una lunga esperienza d’artista, senza nutrire però nessuna preoccupazione di continuità o di totalizzante intelligibilità: si tratta, come per Proust, di redimere tutti i momenti che hanno costituito ciò che lo stesso Boltanski definisce il suo “continuo fallimento” nella lotta alla scomparsa e all’oblio. 

 

Départ, 2015.


J’ai décidé de m’atteler au projet qui me tient à coeur depuis longtemps: se conserver tout entier, garder une trace de tous les instants de notre vie, de tous les objets qui nous ont côtoyés, de tout ce que nous avons dit et de ce qui a été dit autour de nous, voilà mon but. (Ho deciso di mettermi al lavoro sul progetto che mi sta a cuore da molto tempo: conservarsi interamente, tenere traccia di ogni momento della nostra vita, di tutti gli oggetti che ci sono stati intorno, di tutto ciò che abbiamo detto e di ciò che è stato detto su di noi, questo è il mio obiettivo.)

 

Anche se “tutti i tentativi di lottare contro la morte, contro la scomparsa, sono vani”, l’artista e l’uomo non rinunciano alla possibilità di una redenzione. È così che il volto diventa, in Faire son temps, la cifra di questo tentativo. I molti volti dell’artista si accompagnano, nel percorso della mostra, a tutti gli altri: fantasmi, come nei Fantômes de Varsovie, (2001), i 1200 “umani” di Menschlich (1994), anonimi, bambini, famiglie, Suisses morts (1991), scolaretti, giovani donne, perché nel volto, scriveva Lévinas, “l’assoluto è alla portata del mio sguardo”: nel suo rifiuto di essere contenuto, oltre la figurazione, i tratti, i contorni, il volto sfida e trascende la morte. Ecco forse un escamotage per sfuggire alla vertigine della fine del tempo che ci è dato di vivere. 

 

Et je dis toujours que c’est le rêve d’un artiste de ne plus avoir de visage […] la destruction de lui-même en tant qu’individu pour le remplacer avec une image collective. (E dico sempre che il sogno di un artista è di non avere più volto [...] la distruzione di se stesso in quanto individuo per sostituirlo con un'immagine collettiva.). 

 

 

Svincolarsi dal proprio destino singolare, sostituire al proprio volto degli specchi (Miroirs Noirs, 2015)J’aime dire qu’on a un miroir à la place du visage (Mi piace dire che abbiamo uno specchio al posto del volto) – fare di sé un’immagine collettiva e anonima; fare dell’opera un modo per redimere la vita; e della vita tutta, un’opera. Presagi di morte e giochi d’infanzia (Théatres d’ombres, 1984-1997) convivono nello spazio messo in scena dalla mostra, che è anche un gioco, infatti, libero e serio, come scriveva Georges Didi-Huberman (Remontages du temps subi. L’oeil de l’histoire2) a proposito dell’artista francese che ha fatto dell’infanzia, della sua in particolare, e della nascita come destino collettivo, il trauma dal quale è possibile creare. La vita diventa l’opera impossibile (La Vie Impossible de C.B., 2001), l’opera l’unica guarigione possibile: L’homme qui tousse (1969) e che vomita sangue, un corto degli esordi proposto in apertura, significativamente accanto alle 27 possibilità di autoritratto, detta così la tonalità emotiva dell’esperienza che il visitatore dovrà compiere. Essa sembra dirci che guarire dal male della vita è una catarsi dolorosa, e fornisce una precisa indicazione su quello che ci aspetta: il visitatore non sarà mai di fronte all’opera, sarà sempre al suo interno, ne farà parte. 

 

On n’est pas devant une œuvre mais on est à l’intérieur d’une œuvre et soi-même on fait partie de l’œuvre (Non si è di fronte a un'opera, ma si è all’interno di un'opera e si fa parte dell'opera). 

 

Quei volti siamo dunque noi, le assenze che essi evocano riguardano ognuno di noi. Forse anche quest’aspetto della sua attività fa parte dell’approccio grand public che Boltanski rivendica, di un’arte che parla a tutti, che cerca incessantemente di incontrare il nostro sguardo. Anche in questo caso, il visitatore non resta deluso, né spiazzato. I temi e i motivi che hanno fatto di Boltanski uno dei maggiori artisti contemporanei sono tutti ben presenti, così come molte delle grandi opere e dei materiali che caratterizzano il suo lavoro: le fotografie e gli abiti in particolare, usati dall’artista quasi fossero sinonimi, presentati entrambi come la traccia di un corpo morto, “un oggetto che rinvia a un soggetto e alla sua assenza”, dice Boltanski. La parete su cui si dispiega l’Album de photos de la famille D., 1939-1946 (1971) e le due installazioni presentate insieme, Le terril Grand Hornu (2015)/Les Registres du Grands Hornu (1997), si richiamano da un punto all’altro dell’esposizione. La prima – opera già presentata in occasione della Documenta 5 di Kassel – mostra una galleria di ritratti, figure vive, sorridenti, scene familiari e comuni che appaiono in fotografie ingrandite e sfuocate, quasi a voler rendere il punctum più fluido e volatile; le seconde evocano invece il motivo dell’assenza e della scomparsa di vite nell’anonimato, nella massa, sommerse dalle stoffe che ne hanno, un tempo, ricoperto i corpi lavoratori. Nomi, date, abiti scuri (evidente il riferimento à Personnes, 2010, presentata al Grand Palais) flebilmente illuminati, si accompagnano alle note scatole, agli archivi, alle lampadine, intermittenti (Cœur, 2005) o evanescenti (Crépuscule, 2015). 

 

Crépuscule, 2015.


La grande storia che fa da sfondo alla vicenda personale e artistica di Boltanski, la crepa da cui nasce l’impulso di creare, lascia spazio alle piccole vite di ciascuno di noi. Il suo uso della fotografia è in questo esemplare, come evidenzia Danilo Eccher (Christian Boltanski, Danilo Eccher, Paolo Fabbri e Daniel Soutif, Christian Boltanski, Charta, Milano, 1997) a proposito di L’abbecedario di CB, associando le parole che il fotografo di Italo Calvino pronuncia nel corso delle sue avventure alle parole di Boltanski: “Forse la vera fotografia totale – pensò – è un mucchio di frammenti d’immagini private, sullo sfondo sgualcito delle stragi e delle incoronazioni” (“L’avventura di un fotografo”, in Gli amori difficili).

 

Misterios, 2017.


Le risposte sul segreto dei tempi delle nostre vite e di quello dell’universo si nascondono da qualche parte in queste opere, sepolte forse sotto la massa di abiti sgualciti, o dietro i teli leggermente sollevati da un ventilatore, che concedono pochi e fugaci sguardi sulla violenza, sulla morte (Les Concessions, 1996). O forse altrove, nel nord della Patagonia, dove Boltanski installa le sue trombe attraversate dal vento per stabilire una comunicazione con le balene (Misterios, 2017): la leggenda lì vuole che siano questi cetacei a custodire i segreti del principio dell’universo, e Boltanski ci permette di fare l’assurda esperienza di chiedere loro una risposta sul nostro destino, che fatalmente, l’avrete capito, non arriverà. L’opera mostra e ci fa sentire, su tre schermi attigui, le trombe che risuonano; una carcassa di una balena, che ha custodito con sé il segreto fino all’ultimo; e un vasto orizzonte marino, il vuoto del mancato responso. Queste grandi trombe non resisteranno al tempo, veniamo informati che esse saranno abbattute o portate via dal vento. O forse si disintegreranno, proprio come Ahasuerus, nel momento immaginario in cui riusciranno a captare l’agognata risposta. 

 

Delle sale in cui si articola la mostra, quella che ospita le Réserves. Les Suisses morts (1991) lascia senza fiato: dopo aver attraversato i volti impressi sui veli di Les Regards, 2011, ci si trova davanti ad un’articolata scenografia. Il panorama creato dalle torri di queste riserve, di questi archivi, dialoga con la vista ad ampissimo raggio e dall’alto sulla città di Parigi. La città dei morti e quella dei vivi si contendono l’attenzione dei visitatori, e dei loro smartphone. “Oh, il y a un super panorama ici!”. È facile immaginare quale avrà la meglio.

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Franco Vaccari

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Franco Vaccari (Modena, 1936) nutre profondo interesse per la dimensione onirica, fin dall’infanzia. Dal 1975 il sogno entra anche nella sua ricerca artistica. Diventa una sorta di correlativo oggettivo di un dispositivo concettuale. Attraverso cinque Esposizioni in tempo reale– oltre a una vasta produzione di opere e annotazioni su quaderni, dove fotografia e pittura convivono per rappresentare sogni notturni, soggetti e forme suggeriti dai meccanismi dell’inconscio o da un’alterità misteriosa – Vaccari indaga e rende visibile il profondo legame tra il mondo dei sogni e il suo ruolo di artista, inteso come innescatore di processi: «il ruolo di "controllore a distanza" si dissolve a sua volta in quanto il sogno funziona da attivatore di realtà, cioè da pretesto per dirottare una situazione apparentemente definita verso esiti imprevisti, verso il reale inaspettato».

 

Nella mostra Migrazione del reale, allestita alla Galleria P420 di Bologna, il reale inaspettato è un asteroide interstellare, che giunge da una ineffabile lontananza e incombe in uno spazio siderale, avvicinandosi sempre più alla nostra coscienza. Questo asteroide è “realmente” il primo oggetto interstellare a incrociare i piani orbitali dei pianeti del sistema solare, per poi dirigersi nuovamente nello spazio profondo. Vaccari lo ha percepito come esistenza reale, come un sogno premonitore. E lo ha messo in relazione con appunti segnici e letterali, collegamenti e interpretazioni dei suoi sogni notturni, con le immagini che sono giunte da un’altra dimensione. Abbiamo posto alcune domande all’artista, come se fossimo giunti in un luogo arcaico, dedicato all’attività oracolare, come a Dodona o a Delfi, attendendo una visione o un ulteriore enigma da risolvere, come al cospetto di Pizia, di Cassandra o di una Sibilla, di fronte a una divinazione per ispirazione del nume o intuitiva, affidandoci all’oniromanzia.

 

Franco Vaccari, I sogni, spazio privato in spazio pubblico 1975.


Mauro Zanchi: Da dove provengono i sogni?

Franco Vaccari: Su che cosa siano i sogni e quale sia la loro funzione ci sono opinioni tra loro diversissime. Però hanno sempre colpito l’uomo dai tempi più antichi, per la forza delle immagini e per la superiore estraneità rispetto al nostro vissuto. Riescono a dare importanza a tanti aspetti del nostro vissuto, pur essendo apparentemente così estranei. Siccome ero un sognatore piuttosto accanito, ho pensato di non disperdere questo patrimonio onirico, che mi sembrava una sorta di ricchezza in potenza, non sapendo come avrei potuto utilizzarla. Scrivendo dei testi che si riferissero ai sogni, quando mi colpiva qualche immagine particolare, provavo anche a disegnarla. Non mi interessano gli aspetti dello straordinario e dell'eccezionale nel mondo onirico, nemmeno la dimensione surreale o straniante, e neppure quella psicanalitica. Mi affascina la dimensione reale del sogno. Mi sembra che il mondo reale si sia svuotato di realtà. Immagino che gli aspetti più misteriosi e rivelatori del reale siano migrati verso la dimensione del sogno.

 

Franco Vaccari, Messaggero che arriva per primo da lontano, 2020, Video installazione, courtesy of the artist, Bologna, credit Esom Kornmesser, USA.


Hai vissuto anche sogni preveggenti, o visioni simili a quelle che sono state descritte da antropologi venuti in contatto con sciamani di altre culture?

Sì, io ho fatto anche quei sogni che tu chiami “preveggenti”. Non sono stati esposti in questa mostra, per il semplice fatto che costituiscono un nucleo che non andrebbe disperso in mezzo ad altre immagini, ma potrebbero essere l’argomento di un’altra mostra, dove si potrebbe concentrare l’attenzione proprio su questo aspetto dei sogni.

 

Cosa evochi in Migrazione del reale e attraverso l’installazione video, che ha per soggetto un asteroide interstellare, proveniente da un luogo indefinito o indeterminato?

La notizia dell’apparizione di questo asteroide, nel campo di osservazione dei nostri mezzi di indagine dello spazio, è recente. L’asteroide ha suscitato molte curiosità, per la forma e per la provenienza, che pare essere extragalattica. È quindi un’apparizione momentanea, prima di sparire di nuovo nell’universo. Quello che mi ha colpito è il fatto che sia stato scoperto dall’osservatorio delle Hawaii e che le popolazioni di quell’arcipelago, dopo aver visto le immagini di questo asteroide, lo abbiano battezzato col nome “Oumuamua”, che nella lingua locale sembra che voglia dire “Messaggero che arriva per primo da lontano” o “Visitatore che giunge da un luogo indefinito”. Siccome stavo preparando la mostra alla Galleria P420 sul tema dei sogni, ho trovato che il nome dato a questo asteroide – che mi aveva colpito per la sua immagine e per la forma, assolutamente imprevista per un corpo che viene dallo spazio celeste – andasse perfettamente d’accordo con il tema delle mie opere, che era il tema del sogno. I sogni sono immagini, che sembrano provenire da chissà quale spazio, non soltanto interiore. Quindi ho unito – anche se i due soggetti sembrano apparentemente distanti – lo spazio dedicato alla mia opera con quello dedicato a questo asteroide. 

 

Franco Vaccari, Migrazione del reale, 2020, Installation view, courtesy of the artist, P420 Bologna, ph Carlo Favero.


Alcuni sogni che hai vissuto ti hanno portato intuizioni, che sono poi entrate nelle opere della tua ricerca?

Beh, ci sono dei sogni che mi hanno comunicato intuizioni, quelle che possono essere verità particolari. Per esempio, c’è quello dove ci sono pugni, che tengono stretta l’asta di certe bandiere. Lo trovo uno dei miei sogni più significativi, dove si vedono mani che tentano di tenere in pugno la sabbia e oggetti raccolti. Ci sono anche dei tumuli di sepoltura, che tentano di resistere all’azione del vento e, invece, vengono dispersi dal vento. I pugni che tentano di tener stretta la sabbia o questi oggetti che sono stati raccolti in realtà vengono svuotati dall’azione del vento. Il vento chiaramente rappresenta, secondo me, il tempo. E la parte veramente interessante, anomala, rispetto ad altri sogni, è che c’è qualcosa che viene da lontano, come il corpo celeste, l’asteroide. Qui si ode una voce fuori campo. Dice qualcosa che mi ha molto colpito: “Non bisogna resistere all’azione del vento, perché è uno sforzo inutile destinato al fallimento. Invece bisogna fare come le bandiere, che si dispiegano e prendono vita nel vento”.

È inutile opporsi all’azione livellante del tempo, ma bisogna approfittare del tempo per dispiegare la propria natura. E trovo che sia un consiglio veramente meraviglioso.

 

In una delle opere esposte alla Galleria P420 c’è anche un riferimento all’opera d’arte che è entrata in un tuo sogno: un segno di Capogrossi. Ci puoi parlare del sottile rapporto fra sogno, opere d’arte di altri artisti, cose viste, segni, figure, idee, concetti, che entrano nell’immaginario?

Nel sogno subentrano tantissime cose. Quando ho dovuto rendere l’immagine che vedevo sulle superfici delle uova, mi è venuto in mente Capogrossi. Ma, in realtà, forse l’immagine più precisa erano i cromosomi, nel momento in cui si suddividono, dando luogo ai corpi, allo sviluppo. Nel mio sogno c’era qualcosa che mi ricordava l’inizio dello sviluppo dei corpi. Allora questa danza dei cromosomi mi è sembrata abbastanza simile alla danza dei segni misteriosi presenti nelle opere di Capogrossi, che non sono solo decorativi, ma vogliono probabilmente dire anche qualcos’altro e hanno radici più profonde.

 

Franco Vaccari, Migrazione del reale, 2020, Installation view, courtesy of the artist, P420 Bologna, ph Carlo Favero.


Ora ti pongo una domanda che si sposta verso il futuro. Come immagini ulteriori possibilità del medium della fotografia e della fotografia contemporanea ibridata con altri media o questioni?

La fotografia è in un momento il cui argomento è in eclisse, per quanto mi riguarda. Noi vediamo tante immagini e le immagini fotografiche sono un po’ sommerse da questa quantità. Qui, proprio poco fa, nella galleria è venuto in visita Erik Kessels, che è diventato famoso per aver fatto delle mostre dove vengono esposte caterve di immagini, milioni di fotografie, che lui non so in che modo riesca a stampare in brevissimo tempo. Allora la fotografia in questo senso perde buona parte dell’interesse. Tu immagina quella che era la magia dell’apparizione dell’immagine fotografica ai primordi della sua invenzione. Oggi è estremamente banalizzata. Però, secondo me, la fotografia subisce un po’ un processo di normalizzazione, dove lo stupore passa quasi totalmente, come per la luce nel telefono.  Anche le telefonate nel loro apparire potevano essere oggetto di mostre. L’apparizione della voce di un corpo, di un essere, che per noi poteva significare tanto, ma a distanza enorme, doveva essere fonte di una meraviglia incredibile. Però adesso con la telefonata chi è che riesce a emozionarsi più sentendo una voce? Anche se ci sono situazioni in cui questo ancora si verifica, come per esempio è accaduto a Rigopiano qualche tempo fa, dove una valanga di neve ha sepolto un albergo. Ci sono state telefonate da parte di persone, che poi sono morte, che da sotto la neve si erano messe in contatto con i loro cari o con quelli che avrebbero forse potuto andare a salvarli. 

 

Franco Vaccari, I sogni, spazio privato in spazio pubblico 1975.


Un altro aspetto molto importante della tua ricerca è stato l’inconscio tecnologico. Ha lasciato il segno negli anni ’70 e nei decenni successivi. Adesso, a distanza di anni, che cosa trovi di pulsante e vitale in questa tua intuizione?

Adesso siamo nel momento in cui si sta preparando una rivoluzione tecnologica incredibile, della quale non sappiamo lontanamente quali potranno essere gli sviluppi e gli approdi. È la comunicazione dovuta all’Intelligenza Artificiale. Quando i mezzi tecnologici avranno a disposizione gli strumenti dell’Intelligenza Artificiale, soprattutto quelli nati dalla meccanica quantistica, in cui gli scambi di informazione e di operazioni para-mentali subiranno un’accelerazione tale da ridicolizzare il funzionamento del nostro sistema nervoso. Quindi lì ne succederanno di tutti i colori. 

 

Franco Vaccari, Migrazione del reale, 2020, Installation view, courtesy of the artist, P420 Bologna, ph Carlo Favero.


Quindi come immagini tu l’utilizzo di una macchina fotografica quantistica? Che immagini potrà realizzare?

Ah, non so. Dicono, per esempio – è una notizia apparsa in questo ultimo periodo – che l’immagine più importante del 2019 sia la fotografia del buco nero. Non è stata ottenuta attraverso un apparato, che con lo schiacciamento di un bottone restituisce un’immagine, ma è nata dalla sovrapposizione e dall’interferenza di una quantità di immagini ottenuta con dei mezzi incredibili, in cui l’intero apparato di recezione è stato il globo terrestre. Queste informazioni, che sono state raccolte con un apparato che era diffuso sul globo terrestre, hanno portato alla produzione di un’immagine che non poteva essere ottenuta attraverso l’uso di un mezzo classico. Quindi, non riesco proprio a figurarmi cosa ci mostrerà la macchina fotografica quantistica, nel momento in cui il passato, il presente e il futuro potranno essere colti nello stesso istante.

 

Franco Vaccari, Migrazione del reale, 2020, Installation view, courtesy of the artist, P420 Bologna, ph Carlo Favero.


Ammettiamo che sia ora possibile mettere in commercio la macchina quantistica, e che inneschi una nuova rivoluzione fotografica. Se porta con sé tutte le questioni dello spazio-tempo e le scoperte della fisica quantistica, sarà possibile secondo te fare fotografie anche di qualcosa che accadrà in futuro? La fotografia non sarà più un documento, uno scatto di qualcosa che viene colto in un determinato momento presente, ma potrà essere una previsione, un istante del futuro?

FV: Ah beh, sarà l’eclisse del mito di Cartier-Bresson.

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