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La Psicoenciclopedia possibile di Baruchello

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Un tipico volume dell'enciclopedia Treccani, nel suo formato tradizionale: grande, pesante, rilegato in rosso, con oltre 800 pagine, di cui circa 340 di testo, 400 di tavole e 60 di indici. Questa è l'opera più recente di Gianfranco Baruchello, il grande outsider dell'arte italiana che, a 96 anni, è ancora capace di sorprendere e spiazzare, dopo una vita fuori dagli schemi. 

Amico di Marcel Duchamp quando in Italia era ancora un alieno; tra gli italiani a fianco di Warhol & Co nella storica mostra The New Realists a New York nel '62; autore di Verifica incerta, il mitico film che entusiasmò John Cage, realizzato con Alberto Grifi montando 140 chilometri di spezzoni scartati da film hollywoodiani (25 anni prima di Blob); negli anni settanta, abbandonata la militanza politica, la sua opera principale diventa un'azienda agricola alle porte di Roma; opere e mostre importanti sempre da sperimentatore solitario; settant'anni d'intensa vita d'artista refrattario ai lustrini del sistema dell'arte. E oggi che viviamo tutti (più o meno intensamente) in simbiosi col grande ipertesto liquido del Web, Baruchello ci presenta un'enciclopedia d'artista nella sua forma più tradizionale e rigida: il grande libro in ordine alfabetico con quel nome che evoca un sapere “en kyklos”, un'istruzione completa e definitiva! 

Che la cosa sia molto diversa da quel che sembra, però, lo si intuisce già dal titolo: Psicoenciclopedia possibile.“Psiche” e “possibile” sono due termini che stridono con la natura obiettiva e la presunzione sistematica di un'enciclopedia. E le “istruzioni per l'uso” che introducono l'opera lo confermano: «La Psicoenciclopedia possibile è un lavoro sul sapere considerato come fragile, incerto, in divenire, aperto al dubbio e all’interrogazione. In questa enciclopedia il sapere non si accumula. Rende problematica ogni precedente acquisizione». 

 

 

Che tipo di sapere è dunque questo, che invece di accumularsi si fa incerto, dubbioso e problematico? Baruchello sembra scoprire subito le sue carte: quest'opera «risponde al progetto più volte tentato di riunire tutti i materiali di lavoro, le idee, gli appunti, le lettere, gli scritti (editi e inediti), le trascrizioni dei sogni, le poesie, le sinossi di film, le note in forma di esercizi per pensare o fare pratica di un’idea». Sembrerebbe insomma un archivio d'artista organizzato come un grande glossario. Ma non è neanche questo, perché l'autore dice di voler tentare «un lessico del pensabile» in grado di «moltiplicare le possibili relazioni» tra voci e immagini. Tutt'altro che uno statico oggetto di consultazione, dunque. Ad animarlo è infatti una fitta rete di nessi interni: ogni voce rimanda a più voci e più immagini, e ogni immagine si relaziona a più immagini e rimanda a più voci. «Tutti i materiali si intrecciano e si stratificano nella forma temporale della discontinuità o dell’anacronismo», attraverso un metodo di lavoro basato sulla «simultaneità, la giustapposizione e il montaggio di voci e immagini». In questo modo l'ordine alfabetico può essere continuamente destrutturato in un grande ipertesto nel quale il lettore è invitato a viaggiare e a trovare i propri percorsi. Insomma il Libro diventa una Rete «ma sulla carta». E così esso «mostra il metodo stesso che produce il “sapere”: il movimento dinamico delle connessioni infinite». Non solo: rompendo «ogni genere di connessione, sia tematica che cronologica», questa disseminazione di temi e immagini «simula la complessità dei processi associativi della mente». Insomma, i rimandi della Psicoenciclopedia come i link che ci fanno surfare nel Web o come le sinapsi che ci fanno lampeggiare le idee nel cervello. Con una differenza importante: al posto della velocità, c'è la lentezza; al posto del surfing istantaneo, l'attraversamento avventuroso e lento, coi suoi inopinati effetti di serendipity. 

 

Avventure e sorprese, come vedremo, sono senz'altro merito dei materiali elaborati dall'artista e dal modo in cui la loro (non)organizzazione riesce ad attivare i lampi analogici della creatività. Ma il sistema su cui si basa tutto ciò non è una “magia” d'artista, è l'applicazione di un principio che la semiotica conosce bene: il significato di un segno (testo o immagine) è un altro segno (testo o immagine) che interpreta il primo da un certo punto di vista, che lo traduce e ne allarga la comprensione, e così via in un movimento continuo e indefinitamente iterabile di segni che interpretano altri segni. Dunque, il sapere è da sempre organizzato in “rete” e la cultura funziona attraverso sequenze di segni, percorsi illimitati di connessioni e interpretazioni: è la dinamica della semiosi illimitata teorizzata da Umberto Eco sulla scorta di Charles S. Peirce. La forma-libro, grazie anche alla grafica di Edoardo Visalli, della Psicoenciclopedia può trasformarsi nella forma-rete perché nel suo universo di 800 pagine cerca di riprodurre il funzionamento della semiosi che Eco ha sintetizzato proprio col concetto di enciclopedia (il postulato della «libreria delle librerie»), per contrapporlo a quello insufficiente di dizionario, cioè di un codice che accoppia rigidamente parole a significati, secondo categorie ordinate gerarchicamente ad albero (“gatto” = animale, mammifero, felino, domestico, ecc.). 

 

Questa sorprendente convergenza teorica tra un artista anarchicamente ambiguo e un semiotico sistematicamente disambiguante è dovuta al fatto che il modello più efficace per descrivere l'enciclopedia semiotica, alla fine Eco lo ha trovato in un filosofo molto lontano da lui e molto vicino a Baruchello: Gilles Deleuze. Quel modello è infatti il rizoma, teorizzato da Deleuze e Guattari nella celebre introduzione a Millepiani, che Eco sintetizza così: «ogni punto del rizoma può essere connesso e deve esserlo con qualsiasi altro punto, e in effetti nel rizoma non vi sono punti o posizioni ma solo linee di connessione; un rizoma può essere spezzato in un punto qualsiasi e riprendere seguendo la propria linea; è smontabile, rovesciabile; […] il rizoma non ha centro». 

 

 

Ma se il “sapere” e il pensiero sull'arte che si manifestano nella Psicoenciclopedia sono rizomatici, lo sono anche, e forse soprattutto, per un aspetto del rizoma che manca nella sintesi fatta da Eco: la sua affinità elettiva col desiderio. «È sempre per rizoma che il desiderio si muove e produce», si legge nell'introduzione a Millepiani. Non a caso per spiegare il prefisso “psiche” del titolo Baruchello scrive: «Il desiderio di sapere o il piacere di pensare costituiscono insieme la premessa e l’obiettivo di questa enciclopedia». Questo sapere-desiderio con-fonde soggettività e obiettività, sogni ed esperienze, come si legge alla voce →Rizoma: «Decentrare il sapere: interessarsi alle periferie del senso. Spostare il centro e disperderlo nelle discontinuità temporali. Sospendere la causa e ogni suo effetto. Il sogno si connette con la ragione: strano miscuglio che genera l’ipotesi».

Il sapere che ci offre la Psicoenciclopediaè dunque quello dell'artista: alogico, analogico, acategoriale, affettivo, arbitrario, contradditorio, frammentato, incerto (tutti aggettivi ricavati da voci). In questo senso, più che una “baruchellogia” portatile, è uno straordinario e generoso tentativo di farci accedere alla mente stessa di Baruchello, alla sua memoria, ai sogni, ai desideri e ai modi di lavoro della sua creatività. Ma senza le sue opere. Per realizzare la parte visuale sono state usate solo immagini “già fatte”, «fotografie di fotografie», montate secondo nessi associativi e ritmi visivi. Non c'è alcuna riproduzione di disegni, dipinti, oggetti o immagini da filmati realizzati dall'artista. 

 

Questa scelta mi ha colpito e la collisione ha fatto spuntare una metafora: se immaginiamo l'insieme delle sue opere come un grande arazzo, la Psicoenciclopedia potrebbe essere il rovescio di quell'arazzo, il rovescio dell'ouvre di Baruchello. O meglio un possibile rovescio, visto che anche questo sistema è «sempre in bilico e mai assoluto», in equilibrio instabile e pertanto continuamente in movimento, come un acrobata, cioè come un artista (→Acrobata). Possiamo insomma considerare quest'opera come un tentativo di ricostruire l'artista e il suo laboratorio mentale, attraverso le tracce di lavoro e di passione, le idee e i residui fisici e mentali (→Leftover) che si sono accumulati attorno alle sue opere. 

Tuttavia, per quanto interattivo e incerto, questo non è un ritratto dell'artista da vecchio, né tanto meno una specie di monumento ipertestuale a quel pensatore che fa da alter ego dell'artista. È piuttosto uno strumento per “far pratica” delle sue idee, per tenerle in movimento e continuare a farle vivere. L'idea e la pratica degli esercizi creativi sono una costante nel lavoro di Baruchello: viaggiando tra le pagine della Psicoenciclopedia se ne trovano continuamente, molti raccolti sotto la lunga voce omonima (→Esercizi), ma tanti altri nascosti dentro lemmi insospettabili.

 

 

Il libro può così diventare un affascinante gioco in scatola, una scatola di montaggio con migliaia di frammenti e centinaia di attrezzi da usare. 

E anche questo rispecchia un aspetto della personalità dell'artista che mi ha sempre affascinato: Baruchello sprigiona possibilità, come il suo mentore Duchamp: «Il Grande Vetro e le parole del Marchand du sel sono state alla fine degli anni Cinquanta le due porte da aprire e varcare prima di iniziare il viaggio in solitario nel territorio dell’arte-come-possibile» (→Possibile). E il contatto con questa fonte continua di possibilità crea un contagioso fermento interiore, soprattutto in chi tende a rispecchiarsi in quella mancanza di solidità esistenziale che rende sempre indefinita e sfuggente l'identità di un artista. È come se si risvegliassero le facoltà creative latenti o assopite, come se l'inerzia angusta della routine si mettesse in moto e il sangue dell'immaginazione cominciasse a circolare.

Confesso che, spinto dalle mie inclinazioni teoriche, ho cominciato subito a viaggiare con entusiasmo dentro la parte testuale, costruendo perfino dei grafici dei miei percorsi, affascinato dalla sua ricchezza e dalle sorprese che scaturiscono spesso dai nessi. E mi sono perso. 

 

Seguendo i link che sembravano più pertinenti finivo spesso in vicoli ciechi (in →Arte si legge soltanto la definizione duchampiana: «Arte è quello che tu dici sia arte»); mentre passeggiando a caso mi imbattevo in voci del tutto incongrue, in cui ci sono riflessioni molto più pertinenti (→Tricheco parla di arte). Senza contare che quando, seguendo i rimandi, passavo alle tavole, mi ritrovavo sospeso nel vuoto. Ogni tavola dispone, sullo spazio bianco di due pagine contigue, una composizione di fotografie “readymade” senza didascalie (sostituite dai rimandi alle voci) basata su «un “ritmo” visivo fatto di pieni, vuoti, diverse grandezze». Tra le immagini si intuiscono talvolta rapporti analogici o ironici, più spesso surreali; ma quando alle immagini si accostano i frammenti di senso importati dalle voci, ci si ritrova quasi sempre del tutto inermi di fronte all'incongruo. 

 

Dopo un momento di frustrazione, ho capito che il mio smacco era un passaggio inevitabile, forse addirittura un esito previsto, perché viene naturale entrare in questo archivio-labirinto con l'automatica fiducia nella sua organizzazione burocratica, che invece è soltanto un effetto di superficie, come si legge alla voce Archivio: «Occorre che, nei fatti, l’archivio non appaia come una sottospecie del caos: l’apparenza dell’impianto dovrebbe essere nitida, burocratica, “sanitaria”». 

Il fatto è che sulla Psicoenciclopedia (e probabilmente su tutta l'opera di Baruchello) soffia lo spirito del maestro del nonsense Lewis Carrol e del suo tricheco che dichiara venuto il tempo «di parlar di navi, scarpe e ceralacca / di cavoli e di re». L'archivio-rizoma è un paradosso: lo si usa non per trovare, ma per perdersi. «È possibile parlare di una struttura paradossale nascosta del nonsense nell’arte?». Sì, se intende il nonsense non «come opposto a senso, ma come elemento che provoca la dispersione del senso dato e rimette tutto in movimento alla ricerca di significati dei quali fare esperienza» (→Nonsense). E a rimettere tutto in movimento, come ho constatato personalmente, è soprattutto l'immagine: «l’immagine senza confini, prelevata dal sogno, il tramite surreale [...] per convogliare, cifrare, nascondere quanto la parola invece esplicita, l’immagine come strumento del “tutto-è-possibile”, come libertà dalla logica e dal senso, come strumento più liberatorio e più ambiguo» (→Immagine).

 

Insomma, non bisogna entrare in quest'opera con uno spirito da filosofo, perché l'artista è in realtà una controfigura del filosofo, «un acrobata clandestino, uno stuntman che fa le parti pericolose e difficili rifiutate dai filosofi», un cascatore che si muove «in ogni direzione come un rizoma» (→Acrobata) e «deve sacrificarsi al ridicolo che i filosofi temono» aggirandosi in «un pericoloso, anche se attraente, spazio del logico/illogico, dell’ironico/tragico, dell’inverificabile, non rassicurante, ipotetico incerto» (→Cascatore). Solo così non ci si perde di fronte alla →confusione, «maestra di idee», e si può rimanere in bilico sui confini della →contraddizione, «sempre mescolando, sovrapponendo per vedere cosa succede al discorso che si sta costruendo». E solo così, soprattutto, si evita l'errore (in cui sono caduto inizialmente anch'io) di privilegiare le parole, abbagliati dai riflessi di senso che luccicano tra i mille frammenti testuali frullati dentro le voci della Psicoenciclopedia. Perché così si finisce per perder di vista la vera potenza metaforica nascosta dentro quest'opera: l'esplorazione del grande enigma che abita il rapporto tra parola e immagine

 

 

Un aiuto prezioso per evitare questo pericolo è il saggio allegato alla Psicoenciclopedia nel cofanetto Treccani, Note a margine. L'arte come esperimento del sapere, scritto da Carla Subrizi, docente di Storia dell'arte contemporanea a Roma, compagna di Gianfranco Baruchello e uno dei massimi esperti della sua opera. Fondamentale è ad esempio la ricostruzione dell'Artworld dell'artista (per dirla con Arthur Danto), cioè la densissima atmosfera di teoria e storia dell'arte che si ritrova incarnata nella Psicoenciclopedia, dimostrando così, sia la sua coerenza all'interno dell'itinerario dell'artista, sia la profondità inedita della nuova opera. 

Ma oltre all'approfondimento storico-critico, Subrizi propone anche degli utilissimi «criteri di lettura». Chiarisce innanzitutto che la Psicoenciclopediaè un archivio soltanto se lo si intende non come esito, ma come «metodo di lavoro» e «punto di partenza»: essa infatti intende «sottrarre parole e immagini dai contesti di appartenenza per riproporle, una volta azzerate le concatenazioni che determinavano il loro senso, a un montaggio in grado di stabilire nuovi nessi e forme del senso». La «forma-enciclopedia» mira quindi non a raccogliere, ma a «disperdere», a distribuire «la complessità del reale, del pensiero e dell’immaginazione nell’orizzontalità di un flusso ininterrotto: i testi e le tavole». La netta separazione dei primi dalle seconde nel volume è infatti solo «un espediente per eliminare la possibilità di pensare le immagini come illustrazioni di una voce». 

 

E se le immagini non illustrano le voci, nemmeno le voci descrivono le immagini, dato che anch'esse, in un certo senso, funzionano come immagini. Questo si vede soprattutto nella parola che dà nome alla singola voce, che va intesa, suggerisce Subrizi, «come quella che Baruchello altrove ha chiamato “parola-guida”, ovvero una parola considerata come il punto da cui parte la linea e il disegno»: quel «punto di un’articolazione ancora inesistente e che pian piano andrà formandosi nel corso della lettura della voce, attraverso i rimandi interni al volume e i riferimenti alle immagini». 

Insomma, le parole e immagini non si illustrano a vicenda, ma vivono intrecciate in quel “tra” che costituisce il territorio pericoloso ma affascinante dell'arte-come-possibile (sul quale aleggia il profumo indefinibile dell'infrasottile duchampiano). Ed è proprio «il gioco dei rimandi tra le immagini e le voci», costruito attraverso il «sistema aperto e combinatorio dell’opera» a costituire il vero «motore» della Psicoenciclopedia.

 

Illuminante, a questo proposito il confronto con i «grandi quadri bianchi con tante piccole cose che bisogna guardare da vicino» (come Duchamp descriveva i dipinti di Baruchello): «Come dinanzi a un’opera di Baruchello il lettore avverte la necessità di avvicinarsi e poi allontanarsi per vedere prima il dettaglio e poi la totalità in cui è compreso», scrive Subrizi, «nella Psicoenciclopedia l’andamento in avanti e indietro all’interno del testo (con la lettura) e tra le immagini (nelle tavole), saltando anche tra le pagine, senza continuità, produce nel lettore la sensazione di una ricerca interminabile, che quando arriva a qualcosa subito dopo se ne distacca». E ancora «per ricongiungere i frammenti di cui sono fatte le tavole e le voci non serve o non basta un colpo d’occhio che le rimetta tutte insieme; è necessario un esercizio dello sguardo che sappia cogliere il particolare lasciandolo tale. È necessario, inoltre, che lo sguardo diventi affettivo, per poter condividere quelle storie, per sentire e vedere e, mentre si osserva, capire che qualcosa del nostro sapere sta cambiando».

 

 

Ciò significa che per entrare nel gioco profondo della Psicoenciclopedia«visione d’insieme e visione ravvicinata sono entrambe necessarie» e devono prendere «la forma di una circolarità infinita tra voci, sottovoci, rinvii, immagini». Ma attenzione! Questa circolarità infinita non è una confusione mistica in cui tutte le vacche sono nere, è la «confusione benefica che sollecita l'immaginazione»; quella confusione a cui si riferisce la citazione lapidaria di Paul Valéry che – guarda caso – Baruchello mette nella voce →Psicoenciclopedia e Subrizi, all'inizio del suo saggio: «Conoscere è confondere».

 

Anche la confusione nella mia esperienza con questo libro sfuggente a affascinante alla fine è stata benefica, perché mi ha portato a una piccola, “confusa” epifania, che riguarda il motivo per cui sono stato attratto dall'idea di una “psicoenciclopedia” d'artista e che ha scatenato la mia passione ermeneutica: l'idea che l'artista non solo secerna le proprie opere come le api il miele (metafora amata da Baruchello: →Miele della pittura), ma che secerna anche la propria aura come le api la cera; e che quest'opera dell'estrema maturità possa essere una ricostruzione del grande favo in cui è stato prodotto e da cui è stato prelevato il miele di una vita: cioè la sua aura, complemento e rovescio dell'oeuvre di cui parlavo all'inizio. Questa non è l'aura com'è spesso intesa nel mondo dell'arte contemporaneo, cioè brillante packaging che avvolge l'autore e di riflesso le sue opere; ma l'aura critico-ermeneutica, ovvero, per dirla in termini un po' sbrigativi: lo spessore del frammento di semiosi che è andato a condensarsi, come un meraviglioso groviglio, attorno alla sua vita e al suo lavoro. Credo che la Psicoenciclopedia possa essere interpretata (anche) come un modo straordinariamente efficace di incarnare in un'opera l'aura-favo di Baruchello.

 

Dunque, mentre esploravo il rizoma con questa idea in mente, mi è venuta la curiosità di vedere come fosse l'ultima tavola e mi sono trovato di fronte a quattro immagini, due grandi e due piccole, che si incrociano in un chiasma visivo. Nella grande foto a sinistra, la testa di uno scheletro androide sembra il focus del gruppo di fotoreporter assiepati dietro un tavolo, che si vede nella grande foto a destra. Le due foto piccole si attraggono tra di loro contrapponendosi alle grandi: a sinistra, un cervello sezionato; a destra, una lince. 

Cercando le voci a cui rimandano queste due immagini si intuiscono nessi curiosi e interessanti, da pensare e rielaborare. Ma quelle più sorprendenti sono due voci collegate alla lince, →Arte e →Psicoenciclopedia, che coincidono paradossalmente col tutto di cui sono parte. La prima, brevissima, termina con un riferimento bibliografico a dir poco anomalo: «la vita vissuta alla ricerca di un linguaggio». La seconda concentra in un poetico elenco di poche righe le ottocento pagine di questo lavoro e inizia con la citazione di Valéry citata prima: «Conoscere è confondere». 

 

Alla fine (altra voce collegata alla lince, nella quale si scopre che l'archivio in realtà non può essere finito) si ritrovano l'arte e la Psicoenciclopedia, riunite e condensate in quest'ultima immagine: una piccola lince, scontornata e inserita all'interno di un un testo che la circonda di parole. È vista da dietro, ma la testa è girata verso di noi e ci punta gli occhi addosso, acuminati come le orecchie, in gesto di sfida.

Non ho potuto fare a meno di vedere Gianfranco Baruchello in quell'animale libero, solitario e sfuggente. La sua lunga vita d'artista →outsideracrobatacascatoresaltimbanco, iniziata come poeta e vissuta alla ricerca di un linguaggio visivo nel quale la parola si faccia immagine e l'immagine, parola. Il linguaggio dell'arte, nel quale conoscere è confondere. Come una lince che si allontana in un bosco di parole, lanciando un'indomita occhiata da →Sfinge.

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La summa dell'artista novantaseienne
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Fotografia visionaria

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Fino al 26 marzo 2021 Palazzo Magnani di Reggio Emilia ospita la mostra “TRUE FICTIONS – Fotografia visionaria dagli anni ‘70 ad oggi”, a cura di Walter Guadagnini, temporaneamente chiusa al pubblico a causa dell’emergenza sanitaria in corso.

L’occasione è imperdibile: si tratta infatti della prima retrospettiva italiana sul fenomeno della staged photography, che comprende tutte quelle esperienze che a partire dalla fine degli anni Settanta hanno inaugurato e rivelato un nuovo modo di pensare la fotografia, destinato a cambiare radicalmente l’evoluzione di questo linguaggio.

Le opere dei 32 artisti presenti in mostra, seppur eterogenee, muovono da una sfida comune, forse una delle più grandi con la quale la fotografia si è confrontata nel corso della sua storia: quella all’inconfutabilità dello statuto di oggettività e veridicità che da sempre viene associato a questo tipo di immagini. 

 

Gli autori di TRUE FICTIONS, per la prima volta nella storia, rivendicano e ostentano senza timore l’artificiosità, la finzione e la messa in scena in quanto modalità operative specifiche e possibili del medium fotografico, e non come pratiche linguistiche volte a compensare il senso di inferiorità nei confronti delle cosiddette arti maggiori (come era avvenuto con il pittorialismo, che pure non era estraneo ad espedienti stilistici quali fotomontaggi, manipolazioni, e simili).

La macchina fotografica diventa incubatrice di sogni, incubi, allucinazioni, genera realtà parallele e nuovi universi e fa luce sull’eclatante ambiguità della realtà (e delle immagini); il fotografo diventa regista, costruttore, performer, scultore, creatore.

Sulla scia di quella lotta per il riconoscimento che aveva appena visto l’accettazione del colore nell’ambito della fotografia artistica, i limiti concettuali del linguaggio fotografico esplodono, dando vita ad esperienze fantastiche e inimmaginabili.

 

SANDY SKOGLUND, Revenge of the Goldfish 1981 archival color photograph cm 88.9 x 69.2 ca. Courtesy: Paci contemporary gallery (Brescia – Porto Cervo, IT)


La mostra propone un percorso cronologicamente e geograficamente variegato, che affianca le figure storiche, ormai quasi mitiche, di questo genere fotografico ad esponenti delle ultime generazioni di artisti che si sono confrontati con queste modalità poetiche.

 

“Per me, l’arte fotografica era troppo intimamente limitata dal suo stesso discorso. I termini erano stati stabiliti negli anni ’20 e ’30: l’essenziale erano qualità e tenore documentale. È all’incirca in questo modo che, intorno al 1966, la mia generazione vedeva la fotografia. Per diversi motivi, quest’idea mi sembrava inadeguata a quelle che io, invece, ritenevo essere le potenzialità del mezzo. Nei discorsi allora in voga sulla fotografia, queste possibilità mi sembravano male definite. Erano assai meglio suggerite dal cinema, dai mezzi di comunicazione e dalla storia della pittura. Così, al principio del mio secondo approccio alla fotografia, negli anni ’70, ho tentato di lavorare contro l’arte fotografica, incanalando l’energia proveniente da altre pratiche.”

 

Con queste parole l’artista canadese Jeff Wall, intervistato nel 1998 da Jean-François Chevrier, delinea una cornice concettuale all’interno della quale collocare non solo la sua pionieristica ricerca nell’ambito della fotografia tableau, ma anche molte delle altre vicende della staged photography. Per realizzare le sue opere, di grande impatto visivo, Wall veste i panni del regista, costruendo dei veri e propri set dove mette in scena quella che sarà poi l’immagine finale, un modus operandi che rimanda all’estetica cinematografica e televisiva. Il suo lavoro ha anche un evidente richiamo alla pittura, nei termini rinnovati di un confronto alla pari, che consente alla fotografia di (finalmente!) adottare formati, cromie e iconografie fino ad allora ad essa precluse.

La contaminazione con altri linguaggi ed altri immaginari e il ricorso alla citazione sono infatti alcune delle pratiche tipiche di quella cultura post-moderna nella quale questi artisti vivono e lavorano, e dalla quale sono influenzati. 

 

Eileen Cowin, Family Docudrama 1980-1983 © Eileen Cowin, courtesy of the artist.


Sandy Skoglund costruisce e fotografa meticolosamente complessi mondi onirici, nei quali presenze umane solitarie coesistono con i veri protagonisti degli scatti, animali sgargianti che altro non sono che sculture in resina o in ceramica realizzate dall’artista stessa e installate fisicamente nello spazio, mentre Thomas Demand, scultore di formazione, realizza e fotografa sculture effimere di carta in scala 1:1 di luoghi significativi, distruggendo sistematicamente i modellini dopo lo scatto (con l’unica eccezione di Blue Grotto, esposto in maniera permanente alla Fondazione Prada di Milano). Paolo Ventura, invece, ha elaborato negli anni un linguaggio poetico e raffinato, che coinvolge, in un continuo gioco di rimandi e inversioni di ruoli, fotografia, pittura, scultura e scenografia, raccontandoci storie misteriose e nostalgiche, come quelle delle serie Winter Stories e War Souvenir

 

La performance basata sul travestimento e sul reenactmentè la modalità che molti artisti hanno utilizzato per avventurarsi in sofisticate, a tratti inquietanti, e sempre complesse indagini sul concetto di identità (personale e culturale) e rappresentazione, come nel caso della leggendaria Cindy Sherman, che a partire dai celebri Untitled Film Still del 1977 ancora oggi porta avanti una riflessione approfondita su queste tematiche. L’artista è la protagonista dei suoi scatti, ma sempre nelle vesti di qualcun altro, che sia un personaggio cinematografico, storico, pop, o di altro genere, dando vita ad immagini suggestive ed enigmatiche. La storica dell’arte e critica Rachel Wetzler, in un articolo pubblicato nel 2019 su Apollo, ha scritto che “c’è qualcosa di profondamente perturbante nel vedere Cindy Sherman in persona per la prima volta”. L’autrice infatti si identifica completamente con il ruolo che sta interpretando per la macchina fotografica, senza lasciar trapelare nulla della sua persona, se non i tratti somatici camuffati.

Anche Gillian Wearing prende se stessa come modello in Me as Eva Hesse, ma con intenti differenti: nella serie di cui questa opera fa parte, l’artista inglese posa indossando di volta in volta una maschera da lei stessa realizzata recante le fattezze di un suo familiare o di un esponente di quella che definisce la sua famiglia spirituale, che comprende quelle figure che sono state un punto di riferimento fondamentale nella sua vita personale e professionale.

Nell’ambito di questo tipo di ricerche rientrano anche i lavori di artisti come il giapponese Yasumasa Morimura, il fotografo camerunense Samuel Fosso e Chan-Yo Bae, nato in Sud Corea e trasferitosi presto a Londra, solo per citarne alcuni.

 

Eileen Cowin, Family Docudrama 1980-1983 © Eileen Cowin, courtesy of the artist.


“Everyone loves a story”, ha dichiarato in un’intervista James Casebere, artista celebre per le sue suggestive fotografie di modelli basati sull’architettura, ed è proprio questa una delle qualità di molte delle opere esposte in mostra: la capacità di condensare in un’immagine delle storie, spesso ambigue, sconclusionate, misteriose e perturbanti, esplicitamente finte, lontane da quelle raccontate dai grandi fotogiornalisti, ma ugualmente potenti ed evocative nella loro capacità di rappresentare l’altro lato della fotografia, nel rivelare l’innata complessità e le molteplici possibilità semantiche di questo linguaggio, tutt’altro che monolitico.

Percorrendo le sale di Palazzo Magnani si incontrano allora i docudrama di Eileen Cowin, messe in scena di comuni situazioni interpersonali (interpretate dall’artista stessa e dai suoi familiari), “immagini reali di un mondo illusorio”, come scrive Mark Johnstone, che ammiccano all’estetica del fotoromanzo, e le enigmatiche e affascinanti immagini di Bruce Charlesworth, uno dei primi esponenti di quello che viene chiamato il directorial mode. Nic Nicosia, invece, realizza immagini pervase da una sottile e amara ironia, mostrando l’ipocrisia e la falsità nascoste dietro la facciata della perfezione borghese, fino ad arrivare alla critica di uno dei generi più fortunati della storia della fotografia nell’opera Like Photojournalism.

 

Quale che sia la strategia operativa scelta per costruire le immagini, il fulcro di queste ricerche rimane sempre l’indagine del rapporto tra verità e finzione, tra realtà e fantasia, con risultati sempre sorprendenti.

“L’idea di costruire finzioni, l’idea di una possibile equazione tra fotografia e manichini mi colpì come un fulmine a ciel sereno”: a partire dalla metà degli anni Settanta Bernard Faucon decide di trasformare dei manichini di giovani ragazzi in protagonisti dei suoi scatti, allestendoli e fotografandoli in luoghi significativi della sua infanzia; immagini oniriche e stranianti, che confluiscono nella celebre e affascinante serie Summer Camp. Il mondo e l’immaginario delle bambole e dei giocattoli, tra cui spicca un pupazzo ventriloquo, hanno un’influenza fondamentale per il lavoro di Laurie Simmons, di cui possiamo vedere in mostra anche dei photocollage provenienti dalla più recente serie The Instant decorator. Il lavoro di David Levinthal affonda le sue radici in una reminescenza infantile, quella del gioco dei soldatini, protagonisti della serie del 1977 Hitler Moves East, composta da immagini volutamente ravvicinate, sfocate e ambigue, in grado di rendere il confine tra realtà e finzione problematico, se non indistinguibile. Un esempio rappresentativo in tal senso è la serie Fauna, dell’artista spagnolo Joan Fontcuberta, un catalogo reale di animali mai esistiti, se non per la macchina fotografica, che ha la capacità di creare non poca confusione nell’osservatore e stimolare riflessioni sulla credibilità della fotografia e sul suo valore documentario.

 

Cindy Sherman "Untitled #127/A" 1983 cm 88/58 cibachrome print ed. 5/18 Courtesy Collezione Ettore Molinario, © Cindy Sherman.


Una sensazione di disorientamento che aumenta se rapportata al panorama mediatico che ci circonda e alla crescente complessità e opacità della nostra relazione con le immagini. L’artista inglese Alison Jackson lavora con i sosia di personaggi famosi, ritraendoli in situazioni inverosimili (Lady D che mostra al fotografo il dito medio, ad esempio) e credibili nello stesso tempo (come può non essere davvero Lady D quella che vediamo in fotografia? È così somigliante!). D’altronde, come scrive William Ewing “Il fenomeno della celebrità, così come lo conosciamo oggi, con le sue star affascinanti ed onnipresenti, è inconcepibile senza la fotografia. Noi viviamo nell’immagine.” 

In questo caso le fotografie si collocano nella zona grigia della simulazione, creando volutamente una sensazione di smarrimento nell’osservatore e sollevando interrogativi circa l’ambiguo rapporto che intratteniamo con le icone dei nostri tempi, e con la loro presenza mediatica.

 

La rivoluzione digitale, iniziata negli anni Ottanta, ed esplosa nel 1990 con la messa in commercio di Photoshop, costituisce un importante spartiacque per quanto riguarda la storia specifica della staged photography.

La celebre Photography’s New Bag of Tricks di cui parla Fred Ritchin nell’omonimo articolo del 1984 mette infatti a disposizione degli artisti nuovi (e in continua evoluzione) strumenti di elaborazione e manipolazione dell’immagine. 

Emily Allchurch, ad esempio, utilizza il photocollage digitale per dare forma a luoghi immaginari e impossibili a partire da fotografie realmente scattate e riferimenti artistici illustri, mentre Hiroyuki Masuyama ricrea grazie ad interventi digitali le atmosfere dei dipinti dei grandi maestri della storia dell’arte occidentale, in particolare quelli romantici. 

 

Joan Fontcuberta Solenoglypha Polipodida 1985 from the Fauna series.


Questi e gli altri artisti esposti in mostra (tra cui figurano, tra gli altri, Hiroshi Sugimoto, David Lachapelle, Andres Serrano e Tracey Moffatt) ci consegnano, attraverso le loro opere, una chiave di lettura alternativa dell’immagine fotografica, che non esclude bensì allarga e problematizza quella tradizionale, scuotendo certezze radicate e sconfinando in territori inesplorati.

E non è forse vero che una volta accettato l’artificio come una delle possibilità dell’immagine fotografica, non proviamo amarezza ma piuttosto sollievo per le infinite possibilità di senso che questa svolta epocale apre davanti ai nostri occhi?

 

“In tutti questi casi, la fotografia è riconosciuta bugiarda come tutte le altre pratiche e non più meritevole di una fiducia cieca”, scrive Quentin Bajac in Dopo la fotografia, e forse è questa la vera conquista.

 

TRUE FICTIONS – Fotografia visionaria dagli anni ’70 ad oggi

a cura di Walter Guadagnini

Palazzo Magnani – Reggio Emilia

dal 17 ottobre 2020 al 26 marzo 2021

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Un meraviglioso equivoco
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Ai confini del mondo: Odessa

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Spalare fango. Ho visto (virtualmente) Gian Maria Tosatti (Roma, 1980) spalare fango per giorni. Insieme ai suoi collaboratori ha installato nel mese di dicembre Моє серце пусте, як дзеркало одеський епізод (“Il mio cuore è vuoto come uno specchio – Episodio di Odessa”): otto lampioni accesi, piantati sulla riva limacciosa e cupa del lago Kuyalnik a Odessa. La fatica fisica, il corpo a corpo con la materia sono l’antefatto indispensabile di quest’opera dove cielo e terra si fondono nel medesimo, indistinto colore, l’aria sembra rarefatta e il tempo immobilizzato. Il progetto è uno degli episodi di un romanzo visivo iniziato da Tosatti a Catania nel 2018 e di cui l’episodio di Odessa compone il Dittico del Trauma, la cui seconda parte sarà allestita a Instanbul nel maggio prossimo. È presentato da The Blank Contemporary Art (Bergamo) e Izolyatsia Platform for Cultural Initiatives (Kiev), a cura di Kateryna Filyuk e Alessandra Troncone, e ha vinto la settima edizione (2019) del premio Italian Council

 

Si è parlato della capacità di Tosatti di dare forma a “immagini inquiete” (Viola, 2016). Immagini dissidenti non solo per la loro capacità di porsi nella frattura interstiziale tra tempo e spazio, un tratto che caratterizza molte sue installazioni site specific, ma anche per la loro predisposizione allo straniamento, un effetto che nasce dal dislocamento di elementi ordinari in contesti inaspettati. Una esperienza perturbante, di dissonanza cognitiva in cui oggetti, spazi e situazioni ci appaiono al contempo familiari e alieni (Pfeiffer, 2016).  Una dialettica di correlazione di poli opposti, binomi ossimorici: luce/assenza di luce, bellezza/degrado, fondamenta/terreno paludoso, trauma/ricostruzione. Pure ambivalente appare in questa luce il senso del lavoro: il declino, la lenta decomposizione della democrazia occidentale vengono metaforicamente rappresentate tramite il simbolo del suo fondamento, il secolo dei Lumi. Ma l’apparizione della luce in un luogo ai confini del mondo è al tempo stesso anche una celebrazione dell’Illuminismo, di quella stessa civiltà di cui invece si tenta di svelare le debolezze.

 

 

Come fine tessitore, Tosatti sembra voler ricucire il trauma di una terra segnata dal disastro di Chernobyl del 1986. Inspirandosi alla tecnica giapponese del kintsugi, letteralmente “riparare con l’oro”, Tosatti usa la luce per mostrare le ferite della storia. L’oro che nella cultura cristiana è assimilato alla luce come simbolo della manifestazione del divino, del trascendente, è un materiale caro alla storia dell’arte e all’artista stesso; compare infatti significativamente in quello che è un suo lavoro fondamentale, Sette Stagioni dello Spirito (2013-16), e in Historie et Destin – New Men’s Land (2016), in cui la vernice dorata magnifica le rovine ai confini della jungle di Calais. Ma soprattutto, tra gli altri, accomuna Tosatti a uno dei suoi padri artistici, Jannis Kounellis. Nel fondale dorato di Tragedia Civile (1975) è possibile individuare una eterogeneità di modelli, contemporanei e storici: i mosaici bizantini, i fondi oro trecenteschi, le icone ortodosse, in quel periodo oggetto di un rinnovato interesse grazie al film dedicato da Andrej Tarkovskij al pittore quattrocentesco Andrej Rublëv (Di Domenico, 2018). E proprio Tarkovskij, in particolare il Tarkovskij di Stalker (1979), della fine dell’utopia, è un riferimento importante per i paesaggi post-apocalittici e insidiosi, le atmosfere purgatoriali di Tosatti. Con Kounellis e Tarkovskij, Tosatti non condivide soltanto la passione per l’installazione di dispositivi e situazioni in cui feticci del passato dal disperato simbolismo e oggetti esasperatamente banali corrodono la nostra comprensione del presente, ma anche l’attitudine a interpretare il ruolo di vate e provocateur

 

 

Il riferimento implicito al mito del progresso illuminista tramite il dispositivo del lampione è da inserire in una tendenza decostruttiva dell’utopia stessa propria del post-strutturalismo filosofico occidentale e delle sue radici. Già Adorno e Horkheimer in La dialettica dell’Illuminismo e Benjamin prima di loro utilizzano il passato nel tentativo di ‘demitologizzare il mito’ illuminista e mettere in luce come il processo di civilizzazione contemporaneo presenti, invece, caratteri di barbarie – “non esiste documento di civiltà che non sia, al contempo, documento di barbarie” (Sul concetto di storia). Anche in termini marxisti, il mito del progresso illuminista viene visto come rinforzare e sistematicamente replicare l’egemonia di classe, piuttosto che affermare un nuovo ordine. Questo svela non solo che il soggetto filosofico auto-determinato non sia altro che un virtuoso razionalista al servizio di forze estranee ma che la struttura interna della concezione illuminista, che Adorno chiama ‘identità logica’, si basi su un desiderio di padronanza e controllo.  

 

 

Ancora una volta ci troviamo di fronte a un dualismo, quello tra cultura e barbarie, che non sfugge alla narrativa di Tosatti, anzi diventa il leitmotiv dell’opera stessa. Al di là della relazione con filosofia, l’immagine del lampione acceso se è un oggetto estraneo alle rive del lago di Odessa non lo è alla storia dell’arte. Nel 2008 Chris Burden in occasione della inaugurazione del nuovo edificio del LACMA (Los Angeles County Museum of Art), installa Urban Light, duecentodue lampioni stradali d’epoca in ghisa che un tempo illuminavano le strade della città californiana. L’artista li restaura e li ridipinge di grigio neutro per dargli un aspetto omogeneo. Arrogante tripudio di luce – come tracotante è il bisogno americano di trovare una identità inesistente, per cui l’identità e non-identità si sovrappongono fino a coincidere – e disperato desiderio di una monumentalità altresì proibita, per citare Reyner Banham, l’assembramento di lampioni non è solo la creazione fittizia di una icona di quella che è la città aniconica per eccellenza, ma viene anche descritto significativamente dall’artista stesso come ‘la dichiarazione di una società civilizzata e sofisticata’ che dà sicurezza nelle ore di buio ed è bella da vedere. Già negli anni venti infatti i lampioni indicavano “la qualità del quartiere in via di costruzione”. C’è un altro dato importante: Urban Light sorge di fronte al museo, in uno spazio pubblico; è sempre visitabile e a nessun costo.

 

La serie Untitled (dal 1995) di Félix González-Torres – installazioni minimali di lampadine accese e unite tra loro da uno o più fili, pendenti dal soffitto o disposte lungo un muro – sposta la riflessione su una narrativa tangente, in cui il discorso identitario si affianca alla ricerca di un compromesso tra la bellezza e la fragilità della luce stessa, la cui fonte di energia è esauribile ma anche facilmente sostituibile. È un lavoro che offre diversi livelli di lettura: da un punto di vista socio-politico, una istanza cardine della poetica dell’artista, il binomio potenza(elettrica)/materia effimera va a simboleggiare, nuovamente, le fondamenta della democrazia, in biblico tra forze opposte – una tensione che costituisce l’essenza stessa della società contemporanea. Non a caso la più grande installazione di fili di lampadine, Untitled (America) (1994), compare nel padiglione della 52esima Biennale di Venezia (2007) intitolato Félix González-Torres: America. In questa occasione la curatrice Nancy Spector ricorda l’artista come attento critico di una eventuale compromissione del sistema democratico, che tramite il fascino e la potenza dell’estetica della sua arte raffinatamente minimalistica inscena attacchi sovversivi a tutto ciò che potrebbe essere percepito come il fallimento della cosa pubblica e del contratto sociale. Da un punto di vista biografico, la prima installazione della serie Untitled (March 5th) risale al 1991, l’anno in cui Ross Laylock, compagno dell’artista, muore per complicazioni dovute all’AIDS. In questa istanza, Untitled diventa un monumento alla memoria e memento mori del trauma e dell’assenza; allo stesso tempo mostra una forte componente identitaria.

 

 

L’inaspettata associazione tra luce (elettrica) e dramma e caducità della vita umana, avviene anche in quella che è l’opera simbolo della ferocia novecentesca: Guernica (1937). Nel celeberrimo dipinto del pittore spagnolo da decenni stabilitosi a Parigi, la luce proviene da due fonti artificiali: la lampada/occhio posta al centro della scena e il lume retto dalla donna dentro la casa. Per la sua struttura compositiva e il simbolismo, l’opera da sempre si presta ad interpretazioni ardite, scatenando, sin dal suo concepimento, l’interesse dei critici. Se Winter interpreta la presenza dell’occhio/lampadina al centro della composizione nel contesto dell’Esposizione Universale di Parigi del 1937, per il quale l’opera viene commissionata, e quindi in linea con i diktat di un evento volto a celebrare “le scienze applicate della visione e della luce” (Winter, 2006), Brummer la legge in riferimento alla lampada ad arco che compare nel saggio di Bataille Sole putrido (Soleil pourri, 1930) – associazione già notata dal critico surrealista inglese Roland Penrose – in cui il sole viene associato ai culti mitraici, a un uomo che sgozza se stesso, a un essere antropomorfo sprovvisto di testa. La lampada ad arco era inoltre uno degli elementi principali dell’arredo dello studio di Picasso in Rue des Grands-Augustines, comparendo anche in una serie di schizzi realizzati poco prima di Guernica (Brunner, 2001). Altre interpretazioni giocano sulla associazione linguistica bombillo (lampadina in spagnolo)/bomba, una identificazione avvalorata anche da una analisi formale: inscrivendo l’opera in una struttura triangolare, la composizione sembra metaforicamente esplodere dalla lampada ad arco posta al centro. Qualsiasi livello di lettura si prediliga, la lampada in Guernicaè un sole nero che illumina una rappresentazione di morte; la luce elettrica diventa protagonista di uno scenario post-apocalittico.

 

 

Un ulteriore filone interpretativo vede la presenza di lampade/luci elettriche nella storia della cultura visiva contemporanea come celebrazione non solo del progresso tecnologico ma anche del design, entrambi aspetti importanti del dopoguerra italiano. In un saggio (Golan, 2012) Romy Golan assimila la presenza di lampade e lampadine in varie opere di Michelangelo Pistoletto, come Lampadina (varie versioni, 1962-1966), Donna nuda che avvita una lampadina (1968), Quadro di fili elettrici – tenda di lampadine (1967) – quest’ultima un’installazione molto simile a quelle già citate di González-Torres – alla stessa oggettualità esasperata che caratterizza L’Eclisse (1962) di Antonioni. Nel film, scena dopo scena si compone di una carrellata di lampade, da quelle di Gio Ponti, Marco Zanuso, Joe Colombo, a quelle firmate da Arredoluce, Floss, Artemide, tra le altre, tanto da arrivare a una vera ossessione per questo tipo di arredo.

 

Gli esempi appena citati suscitano diverse considerazioni, la prima in relazione allo spazio. Abbiamo appena passato in rassegna infatti, diverse situazioni spaziali: i lampioni di Burden installati in uno spazio pubblico, mentre nei casi di González-Torres e Pistoletto in uno spazio museale e quindi di diversa connotazione. In Antonioni le lampade sono una parte importante dell’arredo domestico; ci troviamo quindi in una dimensione, in uno spazio privato. Viene dunque da chiedersi, che tipo di spazio è quello di Tosatti? Che relazione hanno l’artista e Il mio cuore è vuoto come uno specchio con lo spazio circostante? L’opera è un’installazione temporanea in situ. Inaugurata a metà dicembre, verrà smontata a fine marzo. Come già detto, il lago Kuyalnik è stato scelto per le sue caratteristiche fisiche. È uno spazio pubblico, in cui per definizione ciascuno ha il diritto di circolare, e storico, dal momento che Tosatti lo lega a uno dei momenti più infausti della storia del Novecento non solo dell’Ucraina, ma dell’Europa tutta, il disastro di Chernobyl. Allo stesso tempo è un luogo ai confini del mondo: impervio, non accogliente. Il terreno delle sue rive è composto di sabbie mobili; l’installazione non prevede la presenza dell’uomo. È quindi uno spazio pubblico nel senso metaforico di “arena politica” (Castelli, 2019): invita infatti a una riflessione di tipo storico-politico ma non la presenza stessa, fisica e tangibile, di un pubblico. Anche per questo aspetto, l’istallazione si caratterizza per spinte eterogenee che ne complicano la natura stessa, il significato, l’intellegibilità.

 

La seconda considerazione, chiave, è di natura identitaria. Burden, González-Torres, ma anche Picasso, Pistoletto e Antonioni assimilano la presenza della luce elettrica con un discorso identitario, sia esso collettivo o privato, monumento pubblico o memento mori, celebrazione di progresso o allusione al dramma, cultura o barbarie. Tosatti compie una operazione analoga; restituisce, o meglio costruisce, una narrativa per cui l’identità di una nazione e l’evento storico traumatico che ha segnato la sua storia contemporanea vengono a coincidere in un simulacro: il lampione. Nella narrazione dell’artista l’identità si identifica con il trauma.

 

 

Ed ecco che l’opera da monumento funebre simbolo di una democrazia ormai compromessa, assume, secondo una dialettica costruttiva di risemantizzazione, una declinazione spaziale e sociale specifica, nonché molteplici immaginari e paradossi. Come Adorno – dopo averne svelato il lato oscuro basato su una dialettica di controllo e dominazione – rimane un figlio dell’Illuminismo, anche Tosatti non sfugge a una dimensione utopica, ultimo baluardo delle rovine dell’avanguardia.

 

Bibliografia

T.W. Adorno e M. Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo (Torino, inaudi, 2010)

Waltr Benjamin, Sul conetto di storia (Toino, Einaudi, 1997)

Eugenio Viola, "L'irriducibile dispositivo performativo di Gian Maria Tosatti," in G. M. Tosatti, Sette Stagioni dello Spirito (Milano: Electa, 2017).

Paul Pfeiffer, "Verità e Destino," in G. M. Tosatti, Sette Stagioni dello Spirito, cit.

Giorgio Di Domenico, “«Una partecipazione che va trovata»: Jannis Kounellis, Tragedia civile, 1975”, in Studi di Memofonte, 21(2018)

Jay Winter, “1937: Illuminations”, in Dreams of Peace and Freedom. Utopian Moments in the Twentieth Century (New Haven, Conn.: Yale University Press, 2006)

Kathleen Brunner, “‘Guernica’: the Apocalypse of Representation”, The Burlington Magazine, 143 (2001).  

Romy Golan, “Flashbacks and Eclipses in Italian Art in the 1960s”, Grey Room, 49 (2012).

Federica Castelli, Lo spazio pubblico (Roma: Ediesse, 2019)

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Un'installazione di Gian Maria Tosatti
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Le parole come incontro di boxe

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Da qualche tempo penso alla latenza delle immagini. Subito dopo aver sostato nel senso latente di una figurazione vista direttamente con gli occhi provo anche il processo inverso, ovvero cerco di immaginare qualcosa che è detto o evocato da una parola o da una frase. Per esempio, mi sovviene il titolo di un’opera di Marcello Maloberti: “Le formiche fanno fatica sulla neve”. Cosa sta tra l’immaginare ciò che viene nominato e vedere direttamente le formiche che si muovono sulla superficie di un luogo innevato? Come indaghiamo il senso latente di un’immagine nominata, ciò che agisce accanto o dentro la correlazione tra significante e significato? Da qualche anno Maloberti scrive – a pennarello nero su fogli bianchi A4 – frasi sotto forma di slogan, frammenti impulsivi, aforismi umorali, con vari registri, visioni, parole/immagini dirette, frontali, sfacciate, intese come un sipario che si apre. Queste frasi tridimensionali scritte a voce sono “martellate”, ovvero qualcosa che ha il fine di permanere nella testa e di martellare ulteriori immagini, idee, dubbi, spostamenti. Una raccolta dei pensieri scritti come l'urgenza di un titolo è stata pubblicata in un libro edito da Flash Art nel 2019, MARTELLATE (SCRITTI FIGHI 1990-2019), da leggere come fosse un autoritratto che riassume in forma frammentata e poetica le ossessioni che nutrono il suo lavoro. 

 

A voce scritta, Martellate, Scritti fighi, 1990-2020, courtesy dell'artista e Galleria Raffaella Cortese, Milano.


Ad Hannover, dal 22 dicembre 2020 al 4 aprile 2021, Maloberti ha attivato la facciata della Kestner Gesellschaft con la scritta "Das Publikum ist mein Körper" (Il pubblico è il mio corpo), che si erge sopra l'ingresso come una potente dichiarazione in lettere nere scritte a mano su sfondo bianco e rappresenta un messaggio centrale in questi tempi di pandemia e di isolamento. L'installazione di grande formato fa parte del progetto "Martellate" e indica il rapporto con il pubblico, sottolineando il ruolo sociale dell'arte. Il lavoro di Maloberti è il preludio a un nuovo formato della Kestner Gesellschaft, il cui scopo è quello di rimanere in contatto con il pubblico durante la chiusura e di estendere la visibilità del luogo istituzionale nello spazio pubblico. Le sue performance e installazioni, messe in azione sia in spazi privati sia in luoghi pubblici, prediligono l'interazione del pubblico e innescano un dialogo aperto. Indagano gli aspetti sottili dell'esperienza urbana emarginata e prestano particolare attenzione all'informe e all'incertezza della vita quotidiana. Il progetto della facciata è accompagnato da una campagna che include manifesti nello spazio urbano, cartoline e schermi televisivi.

Alla luce dell’indagine sul doppio registro nel rapporto tra parola e immagine, pongo alcune domande a Maloberti, artista visivo che in questo momento utilizza il linguaggio verbale per mettere in azione la sua ricerca.   

 

Il mio lavoro nasce da uno spavento, Martellate, Scritti fighi, 1990-2020, courtesy dell'artista e Galleria Raffaella Cortese, Milano.


Mauro Zanchi: Vi sono diversi linguaggi e mezzi per riferirsi alla medesima ‘cosa’, utilizzando strumenti sia verbali sia visuali. Come mai in questo momento della tua ricerca hai scelto di esprimere le tue intuizioni o idee per via aforistica, attraverso brevi frasi icastiche che chiami “martellate”? Martellate nel senso e nella pratica secondo il punto di vista di uno scultore, che agisce per levare materia, per sottrarre un “di più”? O l’azione del martellare ha altre connotazioni, magari anche iconoclaste?
Marcello Maloberti: Ho iniziato questo lavoro nel 2008, con la mostra Marcello— nome che deriva dal latino martello— presso la Galleria Raffaella Cortese. La parola per me è il corpo della poesia, che è qualcosa di impalpabile, quando la tocchi scompare. Ciò che non si può toccare è la poesia. Martellate porta le parole alla loro chiarità. È una pratica che si muove in parallelo con il mio lavoro installativo, visivo e performativo. FARE MARTELLATE è un progetto vivo, perché è ATTO NELL’ATTO, si identifica nell’azione di scrivere, che è la cosa più semplice. Si configura come la parte più libera e disarticolata. Mi piace che le parole scritte conducano al sorriso, perché il sorriso è la vera disobbedienza. Scrivere è lasciarmi dire la voce come specchio della voce, è così che risento i miei pensieri a voce sola.
Martellate conserva anche un certo senso fisico dell’azione. C’è un libro di Nietzsche che s’intitola “Crepuscolo degli idoli, ovvero come si filosofa con il martello”. Quello che faccio è martellare con il linguaggio. La parola è dove finisce la misura.

MZ: Ti servi del linguaggio verbale o scritto intendendolo come strumento per risalire dalla fisicità del reale ai procedimenti mentali che sottendono a esso, per arrivare a comprendere ciò che sta a monte della creazione artistica? 

 

L'arte è dove finisce la misura, Martellate, Scritti fighi, 1990-2020, courtesy dell'artista e Galleria Raffaella Cortese, Milano.


MM: L’artista è come San Paolo: è sulla strada di Damasco, ha continue illuminazioni E CADE.
In tal senso la parola scritta e orale è forse in questo momento il grado massimo di innalzamento della realtà. La parola è un’intrusione nel reale puro, non si riferisce né al simbolico né all’immaginario: con lei si manifesta proprio il reale, che è lì da indagare.
La prima forma di parola scritta con cui gli artisti si confrontano sono i titoli delle proprie opere, che si amplificano, si strutturano, si studiano. Ad esempio, “La vertigine della signora Emilia” è uno dei miei primi titoli (1992), che considero anche la mia prima martellata; un buon titolo può anche salvare un lavoro.
I titoli come i suoni sono immagini assenti, ma che hanno un peso, alcune volte anche più grande dell’immagine stessa. Considero le parole come il mio stare soprappensiero. Ricordo una frase di Paul Valery che recitava “La poesia è un’esitazione prolungata tra il senso e il suono”. Non era più né senso né suono. È una cosa che vive nell’essere tra le cose. È importante saper sostare nell’ESITAZIONE.

MZ: Hai messo in atto anche percorsi di traduzione in immagine delle tue martellate? Hai trasmutato l’iconico in verbale e operato successivamente il percorso inverso? 

 

La pittura rallenta il muro, Martellate, Scritti fighi, 1990-2020, courtesy dell'artista e Galleria Raffaella Cortese, Milano.


MM: Le parole scritte sono visioni, come essere perennemente al cinema; una volta che le fotografi ritornano ad essere immagini digitali. Le Martellate sono libri contratti in un titolo, le parole si sbriciolano tra le mani, sono titoli di racconti mancati, di romanzi possibili-impossibili, dove tutto ha luogo nella brevità della lettura. Sono parole che possono essere lette ovunque, sui social, per strada, sui mezzi di trasporto. Sono frasi a voce scritta, perché sono parole sentite più che lette.
Nella parola ritrovo i tre presenti che racconta S. Agostino: il presente del passato, il presente del presente e il presente del futuro. Ed io in tutto questo, mi trovo visitato dalla parola, sono quasi un filtro, che si dimentica, si volatilizza nel momento stesso in cui ascolta. Davanti alla parola io faccio sempre un passo indietro, perché lei possa esistere. Le Martellate sono un oracolo timido e balbettante.

MZ: A volte l’immagine possiede una sorta di deriva di senso, che si rivela alla percezione ma sfugge a ogni formulazione linguistica. Quando il soggetto in un’opera d’arte è una parola o una frase o un periodo ogni presunta trasparenza del significato evoca invece altre questioni? 

MM: Nella parola c’è una deriva di senso, non lavoro mai pensando che le parole debbano avere un senso compiuto e meccanico. Parto dal significante, da quella parola “barbarica”. La mia parola è una performance, un incontro di boxe, è farsi evento stesso della parola. Non parto mai nei miei lavori pensando al significato o a cosa dovrebbero dire. Il mio occhio e la mia sensibilità devono essere già carichi di un potenziale che abita il reale sempre un po’ di traverso.

 

L'arte dive finisce la misura, Martellate, Scritti fighi, 1990-2020, courtesy dell'artista e Galleria Raffaella Cortese, Milano.

 

L’oralità conserva un aspetto enigmatico. Nell’oralità tutto cambia. Martellate sono frasi mai finite, sono solo abbandonate, sono appunti che si ricongiungono ai pensieri e che così non vanno persi nel nulla. Mi serve scrivere perché non possiedo un modo lineare di pensare, tutto si costituisce sempre come un intreccio di fili che compongono un tessuto, dove non si ha né un inizio né una fine e non si può sapere in anticipo che filo si incrocerà.

MZ: La parola scritta riferita a qualcosa che riguarda il visivo (e poi fotografata e divulgata in rete o su riviste o libri) diventa anch’essa una rappresentazione? Approfondiresti questa catena di passaggi di consegne o di estensioni semantiche?

MM: La fotografia è carta stampata, che ricalca la realtà, la parola è rifotografata e ristampata, ridiventa immagine. La mia forma di scrittura non è narrativa ma è una sospensione, è un fare parentesi. Il mio lavoro si sintetizza in un pensiero visivo e successivamente ognuno nella propria testa creerà da solista un’immagine dalle parole. Martellate sono per me degli slogan filosofici-poetici, che conservano una certa ingenuità, restituendo quello che si vede e si sente in modo veloce e diretto; una martellata che mescola il colto con l’incolto, il volo con il rasoterra, la stupidità stupida.
Mi piace che le parole possano creare una sorta di gioco, come un bambino che cerca il suo spavento, il suo nascondiglio. Martellate è quello che non diresti mai, quello che diresti sottovoce. È un tilt visivo.
L’omologazione o meglio ancora l’omogenizzato, il comfort che deriva dal diventare digitali nasce come divertimento e finisce trasformandosi in un lavoro giornaliero per ogni persona. Il mostrare, il mettere in mostra, va rinnovato. Martellate sono come degli affreschi di una sala che cercano dimora. Anche con il provvisorio si fa dimora.

 

L'estasi non si progetta, Martellate, Scritti fighi, 1990-2020, courtesy dell'artista e Galleria Raffaella Cortese, Milano.


MZ: Le tue martellate inglobano l’assunto: l’arte e il discorso sull’arte sono la stessa cosa?

MM: Diceva Carmelo Bene che non c’è racconto senza raccontare, è un passaggio del pensiero che non ha l’obbligo del concetto. L’arte è espandere la vita e l’insegnamento che è parte integrante della mia pratica, è forse quella più politica. Parlando con gli studenti le parole fuggono dalla bocca, per creare altre parole e altre bocche che vanno per la loro strada, e io mi sento attraversato. Forse anticipano anche il pensare stesso nella loro connotazione di essere istantanee, come se la parola fosse una materia notturna da scolpire. La parola è il mio artigianato tra le mani.
In questo periodo forse non c’è cosa più bella di vivere questo duro silenzio e farsi vuoto, farsi un nulla di un battito sgraziato di una farfalla ferita al davanzale di una delle solite finestre, e che la vita torni più di prima.

 

Marcello Maloberti, La vertigine della signora Emilia, 1992.


MZ: In questo momento della tua ricerca intendi l’arte come qualcosa che assume senso solo quando si pone come riflessione sulla sua stessa natura?
MM: Pensavo al periodo che stiamo vivendo e mi rendo conto di quanto si siano disegnati più profondamente i tratti del corpo del mio lavoro, che ha sempre guardato il vicino come lontano e straniero, come direbbe Gilles Deleuze in una sua frase su Kafka: sentirsi Straniero nella propria lingua. Il bagliore e il comfort del globale non mi hanno mai molto attratto e toccato da vicino, rimango invece affascinato dal riuscire a mantenere una sacralità delle cose, IEROFANIA, è qualcosa che PERMANE nella continuità dei tempi. Forse il mondo è questo tuono di silenzio senza le apparenze del moderno vivere. ESTASI DEL NEGATIVO.
In questi anni la formalizzazione di vedere l’arte attraverso la lente del Design ha creato una noia dello sguardo. L’arte non si progetta, L’ESTASI NON SI PROGETTA. Il linguaggio si può rinnovare nell’imprecisione, ma per trovare la propria strada bisogna uscire da essa, sbandare e risbandare. Il linguaggio si increspa come un’onda. Mi piace questa frase di Martin Heidegger che guardando a tutto il suo lavoro dice: “Sentieri e non opere”.

 

L'icona si sbriciola di narrazioni, Martellate, Scritti fighi, 1990-2020, courtesy dell'artista e Galleria Raffaella Cortese, Milano.


MZ: Il filosofo analitico John Langshaw Austin, in Sense and sensibilia (1962), sostiene che per dimostrare quello che qualcosa è bisogna prima dimostrare ciò che non è. Le tue martellate sono vicine a questa visione?

MM: Sì, perché anche a me piace molto questa negatività. Per affermare qualcosa si parte sempre da quello che non è. Una teologia negativa. Un’apparizione. Il negativo per me è cercare di lavorare su quello che non è visibile, le frasi più belle sono quelle notturne che vengono poi dimenticate, perché sono troppo veloci per essere fissate sulla carta. Lavoro le voci della mia testa, la scrittura è come lo specchio della lingua. I lavori che mi piacciono sono sgambetti, come le cadute sui marciapiedi.

 

MZ: Quando le tue martellate entrano come opere d’arte nei musei o sono affisse nel tessuto architettonico delle città cosa mettono in azione ulteriormente?

MM: In questo periodo siamo più voce che corpo e un corpo di voci. Le parole sono come dei boomerang, il presente eterno del pensiero. Ogni frase ha un suo sapore, un suo aroma, un suo luogo. Le mie frasi si ritagliano nella pagina vuota attorno a questo bianco desertico che si sospende. Forse è il momento di non esporre oggetti ma parole, per uscire dal silenzio di esporre un oggetto; bisogna invece abitare la parola che diventa una dimora. C’è una caratteristica AURORALE. L’arte è per sua traduzione nobile. Bisognerebbe ritrovare l’aura descritta da Walter Benjamin, rinnovare il linguaggio e il modo di vedere il mondo, come se le cose avessero uno sguardo, per creare cose che ti guardano con il loro occhio. Le parole più interessanti ti guardano, sono anch’esse persone. Nella parola c’è questo sguardo che ti guarda. La parola è l’immaterialità più vicina allo spirito.

 

La fotografia è una provocazione interrotta, Martellate, Scritti fighi, 1990-2020, courtesy dell'artista e Galleria Raffaella Cortese, Milano.


MZ: Ci parleresti dei più recenti interventi a Ortisei e ad Hannover? Cosa hai innescato in queste due azioni “verbali”?
MM: Il progetto ad Hannover, a cura di Adam Budak presso il museo Kestner Gesellschaft che è attualmente chiuso, è rivolto al pubblico assente del museo, cuore pulsante di ogni attività espositiva. DAS PUBLIKUM IST MEIN KÖRPER (IL PUBBLICO È IL MIO CORPO) è la frase che si legge sulla facciata esterna dell’edificio, parola scritta su una linea come se fosse la pagina di un libro e sui manifesti in giro per la città. I manifesti sono come parole dette che saranno diffuse in giro da altri, come un passaparola. Il pubblico è quello della vita di tutti i giorni. Il corpo dell’altro diventa interessante non come sublimazione dell’artista ma come teatro degli scenari inquietanti di questo momento storico. Il museo esterno si trasforma nel museo interno. Il corpo dell’altro è il corpo del caso, del possibile farsi incontro con l’altro. E questa frase è una sorta di mantra, poiché attraverso i manifesti entra nello spazio urbano e cittadino.


A Ortisei, alla Biennale Gherdëina, curata sempre da Adam Budak, ho frammentato il mio libro MARTELLATE SCRITTI FIGHI 1990-2019 edito da Flash Art, scegliendo di seminare all’interno della città e degli spazi pubblici frasi tra le tante, che potevano incontrarsi con il luogo. Ad esempio LE MONTAGNE SONO I DENTI DI DIO, AMEN, NON FAR FARE ALLA ROSA QUELLO CHE LA ROSA NON VUOLE FARE, LE FORMICHE FANNO FATICA SULLA NEVE. In questo senso, il luogo modificava lo scenario delle parole. Le frasi sono scritte in italiano, inglese, tedesco e ladino, perché la regione è trilingue e si sottolinea così la fluidità di passaggio tra le diverse culture.

 

La performance è l'eterna giovinezza, Martellate, Scritti fighi, 1990-2020, courtesy dell'artista e Galleria Raffaella Cortese, Milano.


MZ: Giordano Bruno ipotizzava la possibilità di parlare e pensare per immagini. Probabilmente, in altre epoche ma forse anche in tempi recenti, qualche sciamano ha trasmesso immagini e messaggi per via telepatica. Attraverso le MARTELLATE tu vuoi immaginare per parole?
MM: Dipende molto dalle frasi. Alcune sono immagini presenti, altre filosofiche. Penso ad esempio al quadro Paesaggio fantasma di Magritte, dove ha scritto montagne sul volto di una donna. Lei vede le montagne. Non è una parola di stampo concettuale né di poesia visiva. Piuttosto è la notte che pesa sul giorno di Luciano Fabro. La parola mi permette di avere più verbi in un verbo unico. È il mio straparlare, è la dislessia. Anche il mio lavoro nasce da uno spavento, all’inizio non riuscivo a parlare. I lavori che mi piacciono sono tutti dei traumi.
La parola non è per forza la realtà di tutti i giorni, è una realtà. PERMANE. Forse la parola è vedere con le orecchie non solo con le immagini, un accadere fonetico. 

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Arte astratta: una storia da riscrivere?

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Lo spirito di Vasilij Vasil'evič Kandinskij esala dal suo corpo steso sul letto di morte. Sale in alto ondeggiando come le linee sinuose dell’opera Movimento 1 collocata alle spalle del cadavere.

 

Vasilij Vasil'evič Kandinskij sul letto di morte. Fotografia scattata da André Rogi il 13 dicembre 1944 / Kandinskij, Movimento 1, 1935, Galleria Tret'jakov, Mosca.

 

Nella poetica di Kandinskij confluirono il misticismo russo, il suo interesse per la teosofia e l’idea che gli “scienziati di professione [avessero posto] in dubbio l’esistenza della materia” (Lo spirituale nell’arte, De Donato, Bari, 1968, p. 57). Negli anni in cui elaborava il testo, pubblicato nel 1912 con il titolo Ueber das Geistige in der KunstDello spirituale nell’arte, Kandinskij scoprì il dissolversi dell’oggetto dipinto in una composizione astratta: “Si avvicinava l’ora del crepuscolo, e io rientravo con la scatola dei colori dopo uno studio, ancora tutto immerso nel mio sogno, perduto nel ricordo del lavoro compiuto, quando scorsi all’improvviso alla parete un quadro di straordinaria bellezza, che brillava di un raggio interiore. Restai interdetto, poi mi accostai a questo quadro rebus in cui non vedevo che forme e colori e il cui contenuto mi era incomprensibile. Trovai presto la chiave del rebus: era un mio quadro appeso erroneamente su un lato” (Sguardi sul passato, Edizioni del Cavallino, Venezia, 1962, pp. 37-38). Nella versione francese Regard sur le Passé (Drouin, Parigi, 1946) il quadro è posato di traverso sul cavalletto e nell’appendice della versione pubblicata nel 2006 da SE, la moglie Nina Andreevski Kandinskij ricorda che la tela non era appesa ma appoggiata al muro, al quale poi il marito la fissò senza raddrizzarla (Kandinsky pittore poeta, Milena Milani, pp. 27-28). 

L’arte astratta nasce dallo sbalordimento nel vedere un quadro capovolto? Modificando l’orientamento di un’immagine viene destrutturata la sua visione. Per il sistema visivo, quella capovolta non è la stessa immagine. Capovolgendola cambia la sua configurazione, che diventa totalmente estranea. Lo sbalordimento di Kandinskij è dovuto a questo sguardo “altro” che stravolge l’abitudine visiva.

 

Kandinskij, Primo acquarello astratto, 1910, Centre Pompidou, Parigi / Kandinskij nel suo studio, fotografia scattata da Boris Lipnitzki nel 1936.


Tuttavia, se proprio dovessimo attribuire a Kandinskij l’origine dell’arte “non-oggettiva” in relazione a uno sguardo “altro”, questa non sarebbe nata nel 1910 davanti al quadro capovolto (lo stesso anno del suo Primo acquerello astratto), ma ancor prima davanti al Covoni di Claude Monet esposti nel 1895 a Mosca: “all’improvviso mi trovavo per la prima volta di fronte a un Dipinto rappresentante un pagliaio, come diceva il catalogo, ma che io non riconoscevo come tale […] La pittura mi apparve come dotata di una potenza favolosa, ma inconsciamente l’Oggetto trattato nell’opera perdette per me la sua importanza” (Sguardi sul passato, Edizioni il Cavallino, pp. 23-24 / SE, p. 19 ). 

Sette anni prima dell’incontro di Kandinskij con il Covone di Monet,  Paul Gauguin dichiarava “l’arte è un’astrazione” (lettera inviata a Vincent van Gogh, Pont-Aven, c. 24-25 luglio 1888). L’astrazione come concetto, non ancora come linguaggio, era nell’aria. La pittrice svedese Hilma af Klint già nel 1906 realizzava delle opere astratte, mettendole in relazione con le esperienze spirituali da lei ricercate attraverso preghiere, meditazioni e sedute spiritiche. Nella pittura di Klint e in quella di Kandinskij la forma e il colore suscitano “risonanze interiori”.

 

Hilma af Klint, Il cigno, n. 17, Gruppo IX/SUW, 1915, Stiftelsen Hilma af Klint Verk, Stoccolma.


L’Astrattismo sorge da premesse espressioniste e simboliste da cui si emancipa attraverso le ricerche delle avanguardie russe. Il punto d’arrivo di questa emancipazione è il Quadrilatero di Kazimir Severinovič Malevič, che la critica rinominò Quadrato nero (su fondo bianco), una singolarità che merita particolare attenzione per la discontinuità introdotta nel sistema delle arti visive. Nel progetto di sipario per la 5ª scena, 2ª parte dell’opera Vittoria sul Sole, andata in scena nel 1913 e replicata nel 1915, compare per la prima volta l’idea del Quadrilatero. È la svolta verso il grado zero della pittura, inteso come punto di partenza per un rinnovo radicale della società in rapporto alla costruzione di un uomo nuovo. È l’utopia di una sua rifondazione materiale e spirituale, nata nel corso degli anni in cui si susseguirono gli eventi che portarono la Russia a diventare il primo Stato socialista della storia. 

 

Kazimir Severinovič Malevič, Quadrilatero / Quadrato nero (su fondo bianco), 1915. Galleria Tret'jakov, Mosca.


Sono gli stessi anni in cui Konstantin Ėduardovič Ciolkovskij pose le basi filosofiche e tecnologiche dei viaggi interplanetari. Il suo articolo L’investigazione dello spazio cosmico per mezzo dei razzi del 1903 non ebbe la risonanza che invece ebbero il successivo articolo del 1911 e quello del 1914, in cui viene discusso il tema della comunicazione interplanetaria e quello del sistema di propulsione dei razzi. Ciolkovskij credeva che il futuro dell’umanità fosse nello spazio cosmico e che la sua colonizzazione avrebbe portato l’umanità alla perfezione. Sua fonte d’ispirazione fu l’opera di Nikolaj Fёdorov Abbozzo dell’immagine di un compito universale di resurrezione, scritta intorno al 1900, con la quale l’autore sosteneva la necessità di una radicale espansione della vita umana per mezzo di metodi scientifici e anche della resurrezione. Mescolando scienza e spiritualismo, il Cosmismo russo di cui Fёdorov fu il fondatore, dette il via all’esplorazione spaziale sovietica. Tutti i documenti di questa straordinaria avventura sono stati presentati al pubblico in occasione della mostra Cosmonauts: birth of the space age, organizzata dal Science Museum di Londra (dal 17/09/2015 al 12/03/2016), di cui si può reperire il catalogo. Impressiona molto l’idea che la recente esplorazione di Marte sia una conseguenza di una visione escatologica in cui i morti resuscitano. Si può così comprendere come sia sorta l’utopia di una rifondazione spirituale oltre che politica e sociale dell’uomo nella Russia trasformata dagli eventi che si susseguirono dal 1905 al 1917. 

 

Konstantin Ėduardovič Ciolkovskij, foglio dall’album Viaggi Cosmici, 1933, Accademia Nazionale delle Scienze della Federazione Russa, Mosca / Ciolkovskij con un apparecchio acustico (all’età di 10 anni si ammalò di scarlattina e divenne sordo).


Se Fёdorov immagina una resurrezione, Malevič immagina una trasfigurazione da raggiungere in un vuoto, forse simile a quello cosmico. In questa dimensione, rappresentata da una sconcertante eguaglianza di cui uno dei due termini è Zero, pubblicata nella rivista Jizn IskusstvaVita dell’arte (22 maggio 1923), Malevič trova la radice dell’arte contadina, che comprende attraverso l’icona, come racconta nella sua autobiografia. Egli cammina verso lo Zero mentre le ossa dei morti scricchiolano sotto i suoi piedi. Questa strana concezione dell’esistenza potrebbe trovare senso nel rapporto con la terra coltivata, con la cultura dell’uomo stanziale, che scopre la resurrezione del seme. Il bellissimo film Zimna Wojna (Cold War), scritto e diretto nel 2018 da Paweł Pawlikowski, comunica molto bene lo smarrimento dell’uomo che ha perso le sue radici contadine. Le ritrova sotto forma di piccoli semi allineati su una tavola d’altare, come in un solco preparato per la semina. Sono dei barbiturici.

 

Zimna Wojna (Cold War), 2018, manifesto del film scritto e diretto da Paweł Pawlikowski.


Quadrato bianco su fondo bianco dipinto da Malevič nell’estate del 1918 segna una cesura. Nel 1919 abbandona il “pennello arruffato” per la “penna più affilata” allo scopo di raggiungere l’immaterialità del “concetto puro”, anche per rispondere alle critiche dei costruttivisti e di alcuni suoi allievi sconcertati dal radicalismo della sua ricerca. Anche se successivamente si orienterà verso l’architettura e dal ’28 si dedicherà alla produzione di opere post-suprematiste, il ’19 segna una svolta. La teoria diventa per lui la conseguenza necessaria dell’attività creativa e forse questa è l’eredità che lascia a coloro che oggi sono impegnati nel chiarire quale sia il ruolo che il discorso sull’arte deve assumere rispetto alla pratica curatoriale e anche a quella artistica (visiva e letteraria), nella quale il discorso s’innesta, già a partire dalla Dichiarazione pubblicata nel 1920 dove la scrittura assume un carattere sperimentale (mancano la punteggiatura e le maiuscole). La scrittura è il mezzo attraverso il quale trasferire nel “pensiero puro” e “alogico” la stessa “eccitazione” che è anche nella pittura, come in ogni altra cosa: “il pensiero è solo un certo stato di eccitazione” (Dio non è stato detronizzato. L’Arte. La Chiesa. La Fabbrica, paragrafo 24, edizione dell’Unovis, Vitebsk, 1922). Non si può afferrare il senso di un Quadrato nero (su fondo bianco) e quello di un Quadrato bianco su fondo bianco, senza tener presente che in questo Zero della pittura vibra qualcosa, così come vibra nell’immaterialità di un “pensiero puro” dotato di una forza vitale, creativa e rivoluzionaria. Il Suprematismo è sostanzialmente un modello di pensiero, che trova nell’utopia rivoluzionaria un campo di applicazione. È il mezzo attraverso il quale attuare una trasformazione dell’uomo sul piano spirituale e di conseguenza anche sul piano materiale: egli crede in “una vita fisica nuova nel campo spirituale” (Dio non è stato detronizzato. L’Arte. La Chiesa. La Fabbrica, paragrafo 19), forse analoga a quella teorizzata da Fёdorov. Forse la stessa in cui credono Wiktor e Zula, i protagonisti del film di Pawlikowski. L’ultima battuta è di Zula: “Andiamo dall’altra parte. Lì la vista è migliore” e i due escono dall’inquadratura, ma non dal paesaggio che osservano da un altro lato. 

 

Piet Mondrian nel suo studio, 1942, fotografia di Arnold Newman / Mondrian, Composizione in Blu, 1926, Museo della Arti, Filadelfia.

 

L’astrattismo di Malevič è molto diverso sia da quello lirico di Kandinskij, sia da quello geometrico di Piet Mondrian. L’arte astratta è un fenomeno complesso e rizomatico. Sulla traccia di Paul Gauguin, i Nabis giunsero all’arabesco mentre i Neoimpressionisti esaltarono il valore espressivo del colore. I Fauves superarono consapevolmente il naturalismo e gli Espressionisti utilizzarono la forma e il colore per destare “risonanze interiori”. Possiamo forse considerarli i primi tentativi di liberare le arti plastiche dall’oggetto, che trovò poi il suo compimento nell’arte “non-oggettiva” di Mondrian, di Kandinskij e delle avanguardie russe.

L’arte astratta include le sperimentazioni di Mikalojus Konstantinas Čiurlionis, che dal 1904 tradusse il linguaggio musicale in linguaggio pittorico astratto. Include anche l’interesse per l’ornamentazione grafica e gli studi di Alois Riegl sulle arti minori che tracciarono l’ipotesi di una linea naturalistica e di una astratta, studi ripresi da Wilhelm Worringer, che nel 1908 pubblicò il saggio Abstraktion und Einfühlung (Astrazione e Empatia). La nascita ufficiale dell’arte astratta come concetto, anziché come linguaggio (cosa più difficile da determinare), è sicuramente da riferire alla pubblicazione del testo di Worringer, in rapporto all’aspetto espressivo dell’astrazione.

Secondo lo storico dell’arte Pepe Karmel il fenomeno dell’astrazione in arte include molto altro, che gli studi precedenti hanno marginalizzato. Per esempio la pittura di Hilma af Klint. Quello dell’artista svedese è uno sguardo sbalordito davanti all’ignoto, quanto quello di Kandinskij davanti al quadro di Monet, divenuto improvvisamente enigmatico.

 

Hilma af Klint, La colomba n. 2, Gruppo IX serie SUW/UW, 1915, Museo d’Arte Moderna (MoMA), New York / Klint nel suo studio, fotografia scattata da anonimo.


Allo sguardo “altro”, con il quale nasce l’arte astratta, Pepe Karmel affianca lo sguardo “altro” della critica d’arte per interpretare l’esperienza dell’arte astratta attraverso una serrata critica alle culture orientate, che hanno marginalizzato figure come quella della pittrice svedese Klint. Nell’approccio di Karmel pesano gli studi di cultura visuale, che analizzano la produzione e la ricezione delle immagini in rapporto al loro essere situate in un contesto culturale e sociale. Nel saggio L’arte astratta. Una storia globale (Einaudi, Torino, 2021) Karmel ricostruisce le origini e lo sviluppo dell’arte astratta. A suo parere gli studi tradizionali si sono concentrati sui problemi formali perdendo di vista le connessioni di questa esperienza artistica con la realtà, intesa in senso sociale, politico e culturale. Nel suo libro rileva come anche le donne e gli artisti di colore abbiano partecipato all’esperienza dell’astrazione visiva per dare risposta ai problemi posti dai mutamenti sociali, politici e culturali. 

 

Pepe Karmel, L’arte astratta. Una storia globale, Einaudi, 2021, copertina.


Con lo scopo di “incoraggiare i lettori a confrontarsi con una gamma più ampia di opere astratte”, Karmel organizza la storia dell’arte astratta intorno a cinque categorie tematiche: il corpo, il paesaggio, il cosmo, l’architettura e il repertorio artificiale dei segni e dei motivi decorativi. Il libro ha il pregio di far conoscere al pubblico una vasta gamma di astrazioni visive: carte nautiche composte da bastoncelli, coperte chilkat in lana di capra, xilografie, oggetti tribali, tessuti in gabardine, acquerelli su carta retinata, tele e installazioni di artisti contemporanei. 

 

Pepe Karmel, L’arte astratta. Una storia globale, Einaudi, 2021, pp. 222-223.

 

Lo scopo del saggio di Karmel è ricondurre l’arte astratta “alle circostanze sociali, culturali e politiche in cui è nata”, ignorate dagli studi, che si sono concentrati sui problemi formali. Egli li fa risalire ai saggi pubblicati dal critico americano Clement Greenberg tra il 1939 e il 1944 (p. 24). Con la nascita della cultura di massa, secondo Greenberg, le opere d’arte potevano salvarsi dall’appiattimento solo dimostrando “che il tipo di esperienza che fornivano aveva un valore proprio”. Questa indipendenza dell’opera è rivendicata dall’arte suprematista per ragioni del tutto diverse. 

Nel corso degli anni Venti i produttivisti russi criticarono le opere suprematiste, che trovavano svincolate dalle necessità pratiche della neonata Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (il Produttivismo e l’Arte Produttiva costituivano due schieramenti interni al Gruppo dei Costruttivisti – Marco Elia, VChUTEMAS. Design e avanguardie nella Russia dei Soviet, Lupetti, Milano, 2008, p. 35). Per Malevič, le “finalità tecnico-utilitaristiche” potevano essere estratte dalle “leggi nascoste nei fenomeni pittorici”, ma queste stesse leggi non potevano essere ridotte allo scopo utilitaristico. Della critica produttivista e del dibattito che seguì si trova una traccia nelle attività svolte pressi i VChUTEMAS, Laboratori Tecnico-Artistici Superiori di Stato fondati nel 1920. I produttivisti e i costruttivisti (in particolare Vladimir Evgrafovič Tatlin) non riconobbero la forza rivoluzionaria del suprematismo di Malevič, considerato “la somma di tutti gli errori del passato”, anziché una forma autonoma di pensiero creativo indispensabile alla costruzione di un nuovo uomo. È comprensibile che l’idea suprematista di una rifondazione spirituale dell’uomo venisse intesa come una “metafisica di sinistra” da avversare. L’idea di “una vita fisica nuova nel campo spirituale” è anche quella di Fёdorov e Ciolkovskij, una visione che trasporta il mito della resurrezione dal mondo agricolo stanziale a quello dei viaggi interplanetari alla ricerca di una nuova vita. Lo scopo del progetto spaziale di Elon Musk non è appunto quello di salvare l’umanità colonizzando Marte?

 

Negli stessi VChUTEMAS, dal 1921 al 1924, il teologo, fisico, matematico, filosofo e poeta Pavel Aleksandrovič Florenskij tenne dei corsi di Analisi dello Spazio nelle opere d’arte figurativa e di Analisi della prospettiva. Florenskij e Malevič associarono l’utopia positiva e razionale della rivoluzione socialista a una rifondazione spirituale dell’uomo, in entrambi i casi assegnando alla rappresentazione dello spazio nell’icona un ruolo importante (Pavel Florenskij: la prospettiva rovesciata e altri scritti, a cura di Nicoletta Misler, Gangemi, Roma, 2005 / Pavel Florenskij, La prospettiva rovesciata, Adelphi, Milano, 2020).  

 

Nella mostra Ultima esposizione futurista di quadri 0.10, organizzata nel 1915 presso la galleria di Nadežda Dobyčina a Pietrogrado (oggi San Pietroburgo), Malevič appende il Quadrato nero (su fondo bianco) in un angolo della sala principale, come nelle case russe venivano appese le icone. È la prima volta che l’opera è mostrata al pubblico. Secondo Andréi Nakov è una risposta ai “rilievi d’angolo” che Tatlin espone nella stessa mostra (Kazimir Malevič. Scritti, Mimesis, Milano – Udine, 2013, p. 26 – tutti i testi di Malevič qui citati sono contenuti nell’antologia curata da Nakov, pubblicata da Feltrinelli nel 1977 e ristampata da Mimesis a cura di Francesca Lazzarini). Opponendo alla materialità dei “rilievi d’angolo” l’idealità piana della pittura suprematista, la sconcertante “nuova icona” di Malevič è una finestra che apre su un nuovo mondo, quello della pittura liberata dall’asservimento alla “Chiesa” così come dall’asservimento allo “Stato” e alla “Fabbrica” (in chiave utilitaristica o produttivista), liberata anche dagli aspetti espressivi, estetici ed emozionali che invece caratterizzano l’altra faccia dell’arte astratta rappresentata da Kandinskij. “Occorre costruire un sistema nel tempo e nello spazio che sia indipendente da qualunque bellezza estetica, emozione, stato d’animo, ma che piuttosto sia un sistema filosofico” (Suprematismo. Catalogo della 10ª mostra di Stato Creazione non oggettiva e suprematismo, Mosca 1919).

 

Malevič si dirige verso una pittura pura e concettuale anziché “retinica”, già teorizzata da Albert Gleizes e Jean Metzinger (Du “Cubisme”, Parigi, 1912), seguendo la via del “piano libero”. Nella sua interessante analisi di questo aspetto, Nakov osserva come il concetto di “piano libero” nell’arte e nella scienza del XX secolo sia stato promosso alla comunicazione digitale per immagini, di cui ancora ignoriamo le conseguenze sul piano percettivo e cognitivo (Il quadrato nero: affermazione della superficie-piano al livello di concetto strumentale, in Kazimir Malevič. Scritti, p. 98). Nakov pone indirettamente un problema di indubbia attualità, quello del sapere scientifico, umanistico e artistico che ogni prodotto incorpora nell’economia della conoscenza. 

 

NeXTcube presentato da Steve Jobs il 12 ottobre 1988.


Vale per tutti l’esempio del sapere incorporato nel minimalista NeXTcube presentato da Steve Jobs il 12 ottobre 1988 e nei prodotti Apple, (si è detto molto dell’influenza esercitata dai quadrati suprematisti sulla Minimal Art e sulle derive del minimalismo inteso come stile. Se la forza creatrice umana dovesse essere totalmente libera o asservita all’industria, per svolgere al meglio la sua funzione rivoluzionaria, è una questione che ha animato il dibattito artistico degli anni Venti, prima che lo stalinismo degli anni Trenta ponesse termine a tutto. Con Stalin finisce la grande epopea rivoluzionaria e con essa l’utopia di costruire un uomo nuovo e libero. Molti artisti e intellettuali furono reclusi nei campi di lavoro con la falsa accusa di propaganda trozkista controrivoluzionaria e molti altri eliminati fisicamente. L’8 agosto 1933, Florenskij viene recluso nel gulag di Svobodnyj in Siberia, due anni prima della morte di Malevič. 

 

In una foto della camera ardente, allestita alla sua morte, si nota la bara suprematista posta in verticale, dipinta dal suo allievo Nikolaj Suetin, e Quadrato nero (su fondo bianco) al capezzale. Simmetrica alla fotografia della camera ardente di Kandinskij, quella di Malevič indica una via diversa all’astrazione, che si radicalizza dal 1919. Dopo questa data si dedicò alla scrittura e all’insegnamento, da lui considerato un mezzo per costruire l’uomo nuovo liberato dalle schiavitù della “Chiesa”, dello “Stato” e della “Fabbrica”.

Ora che l’attenzione della politica italiana sembra stia tornando ad occuparsi di educazione, sarà necessario affrontare i problemi posti dall’economia della conoscenza, facendo tesoro del dibattito avvenuto nel corso degli anni in cui nacquero le prime scuole di progettazione industriale, ma servono visioni potenti come quelle di Fёdorov e Ciolkovskij, in grado di penetrare in profondità la realtà sociale, economica, politica e culturale trasformandola. Non abbiamo bisogno di immagini e vedute, abbiamo bisogno di visioni. Il Quadrilatero ha posto questo problema alle arti visive con una radicalità sconcertante e con una forza che nessun’altra opera astratta ha saputo eguagliare.

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Thomas Ruff. Tableaux Chinois

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Se la fotografia è un linguaggio, l’esercizio di Thomas Ruff è glossolalico, come quello di uno sciamano che conosce e riattiva idiomi oscuri, mettendoci in comunicazione con una realtà destinata a rimanere inapparente senza il suo intervento. Se la fotografia è un linguaggio, Ruff è però anche un grammatico metodico, che conosce e articola per noi la lingua delle immagini, per sondare l’irriducibile iato tra il mondo e le sue rappresentazioni. Allievo di Bernd e Hilla Becher all’accademia di Belle Arti di Düsseldorf (“era considerata la classe più noiosa, ricorda Ruff, perché si facevano fotografie noiose”), Ruff è anche forse il meno devoto – tra tutti quelli che diventeranno poi gli esponenti della “scuola” che da quella città prenderà il nome – agli insegnamenti e al metodo dei maestri. Il rigore e la serialità dello sguardo, caratteristiche di quell’esperienza, vengono presto piegate da Ruff all’esigenza di comprendere che cosa può, tanto tecnicamente quanto epistemologicamente, un’immagine.

 

Dopo aver fotografato gli Interni(1979-1983) vuoti di case e appartamenti abitati da parenti e amici, usando solo la luce naturale e senza nessun intervento sulla disposizione di mobili e oggetti, Ruff si accorge che anche quelle immagini in apparenza neutre e fattuali erano in realtà costruite, messe in scena dal suo sguardo. Alla fine degli anni ’80, si misura con il genere classico del ritratto, tanto della pittura che della fotografia, in particolare documentaria. Ispirandosi liberamente al lavoro archetipico di August Sanders, Antlitz der Zeit (1929), e apertamente alle fotografie d’identità, alle fototessere, il lavoro Portraits ritrae amici e conoscenti di Ruff secondo un metodo rigoroso: in serie omogenea, in studio, frontalmente e senza alcun indizio emotivo o psicologico, realizzando così un singolare ritratto collettivo, quello di una generazione, a Düsseldorf, alla fine degli anni ’80. Inizialmente stampate in piccolo formato 18x24, i ritratti assumeranno a partire dal 1986 i formati monumentali con cui sono diventati famosi, misurando più di due metri per lato e determinando così la vera grande novità dell’opera di Ruff e di tutto il suo approccio alla fotografia: lavorare sui confini e sugli sconfinamenti di generi e tecniche. Per condurre una tale impresa, Ruff fotografo si decide per un gesto radicale.

 

 

Dagli anni ’90, egli abbandona, infatti, la macchina fotografica e fa delle immagini già esistenti lo strumento del suo lavoro, se ne appropria facendo di esse il suo campo d’indagine, intuendo precocemente che la storia e la vita delle immagini si svolgevano già significativamente entro gli spazi ancora poco esplorati degli immensi archivi visuali del mondo e dell’universo. Non solo fotografo quindi, ma anche storico, teorico e tecnico delle immagini, Ruff è interessato a indagarne lo statuto di oggettività e di verità, il grado di menzogna, e a sperimentarne la materialità. Nel corso della sua attività, l’astrazione diventa così il rovescio della medaglia di fotografie scientifiche e astronomiche (Sterne-1989/1992; ma.r.s.-2010; Substrate-2001; zycles-2008); l’accessibilità delle immagini conservate nell’inesauribile archivio del web si esibisce in tutta la sua ambivalenza, oscillando tra alta e bassa definizione (jpeg-2004; nudes-1999). Come altri – e penso in particolare al fotografo canadese Stan Douglas – Ruff s’interessa alla grammatica del linguaggio fotografico e mediale, ne sonda i confini, ne interroga la tecnicità.

 

 

In questa prospettiva, il pixel occupa un ruolo centrale, assumendo la duplice valenza di unità di misura della fedeltà al reale, in termini di risoluzione e legame col mondo, e di unità minimale di questa nuova grammatica visuale. È stato già osservato come la scelta tra alta e bassa risoluzione, che passa per un controllo della pixelatura delle immagini, determini delle soglie di visibilità e quindi di controllo etico, estetico, epistemologico del visibile; è stato sottolineato come, in particolare riguardo al lavoro di Ruff, l’estetica del pixel si sostituisca a quella della grana fotografica e che attraverso la sua maggiore o minore evidenza è possibile prendere le misure e il polso del nostro rapporto con le immagini del mondo. Il suo ultimo lavoro Tableaux Chinois (2019-ongoing), realizzato per una retrospettiva ora conclusa al K20 - Kunstsammlung NRW a Düsseldorf e esposto nella sede parigina di David Zwirner fino al 20 marzo, riprende proprio il tema del pixel già esplorato in passato, rinnovandone la portata. La serie consiste in riproduzioni in grande formato d’immagini di propaganda della Cina di Mao Zedong, che Ruff ha selezionato, scansionato e manipolato da La Chine, una pubblicazione del partito comunista cinese, destinata all’Europa e alla Francia tra gli anni ’50 e ’60 per promuovere l’immagine del comunismo e di Mao in occidente.

 

 

Questa figura, già icona dell’arte contemporanea, si mostra qui sorridente lì meditabonda, o ancora impegnata e assorta, e accompagna immagini di contesto: parate militari, danzatrici e fiori di loto, soldati sorridenti, caccia militari in volo, contribuiscono a restituire l’ambigua atmosfera di una realtà anch’essa manipolata, “truccata”, opaca. Il lavoro di Ruff si è svolto, anche in questo caso, senza macchina fotografica, fuori dalla classica camera oscura e secondo un lungo processo di stratificazione, digitalizzazione e pixelizzazione. La scansione delle immagini scelte è realizzata in alta definizione, così da conservare il dettaglio della retinatura delle stampe originali, che viene esasperata poi con l’ingrandimento. L’immagine viene duplicata e la retinatura originale delle stampe in offset convertita in una struttura digitale fatta di pixel di grandi dimensioni. Questa nuova immagine con la sua struttura digitale viene poi sovrapposta una o due volte alla scansione e parti di essa sono selettivamente rimosse, così da lasciar emergere, per sottrazione, tanto la struttura analogica originale quanto la manipolazione digitale operata da Ruff. Nel clash delle tecniche, Ruff crea in tal modo un virtuoso anacronismo: come osserva Susanne Holschbach a proposito di questa serie, “Ruff ha fuso visivamente, sullo stesso piano pittorico, il processo tecnologico di preparazione delle fotografie per la distribuzione di massa di due diverse epoche fotografiche”. Alcuni critici hanno visto in questa serie una pedante autocitazione. È probabilmente vero che molta parte del lavoro di Ruff consista spesso nel tornare sui propri passi. Ma, del resto, repetita iuvant e il suo vasto progetto di indagine e riflessione critica sulle immagini non teme la ridondanza, laddove essa rilancia la posta in gioco.

 

 

Come nella serie .jpeg, la qualità pittorica del pixel viene esaltata nel suo spessore materico, alla stregua di una pennellata che diventa sempre più apparente man mano che ci si avvicina all’opera. Ma, se in .jpeg era la scala di controllabilità del visibile ad essere indagata per il tramite dell’aumento o della diminuzione della risoluzione, così da formare una sorta di enciclopedia critica delle immagini mediali e dei loro poteri, in Tableaux Chinois la controllabilità del visibile e dell’enunciabile è assunta come punto di partenza e l’interesse sulle possibilità tecniche delle immagini si accompagna qui a quello circa i possibili usi di esse. La manipolazione digitale serve in questo caso a evidenziare il potenziale di falsificazione o di veridizione, di enunciazione, legato agli usi propagandistici delle immagini e alle loro tecniche di realizzazione e diffusione. Il pixel ingrandito disturba la percezione dell’immagine, contrasta con i dettagli lasciati in alta definizione e crea delle fessure attraverso cui interrogarsi sull’offuscamento mediatico di cui le immagini possono essere vittime e colpevoli a un tempo. In .jpeg, cui Tableaux Chinois somiglia e certamente si richiama, l’interesse era rivolto espressamente alla struttura geometrica e digitale dell’omonimo formato: le immagini compresse e ingrandite, il pixel, come elemento strutturale, tecnico ed estetico, esaltato.

 

 

Nei Tableaux Chinois, Ruff esplora e sperimenta in più, secondo quanto intrapreso a partire dai primi anni 2000, un particolare tema che potremmo chiamare l’anacronismo delle tecniche. Un primo accenno risale già al 1996, con Plakate, un lavoro con cui Ruff esplorava il tema della propaganda in una serie di poster-collage realizzati a partire da immagini contemporanee e ispirati ai lavori di Heartfield. È del 2012 la serie Photograms, ispirata a Man Ray e Moholy-Nagy, in cui Ruff dichiara di voler sviluppare un nuovo tipo di fotogramma per una nuova epoca. La camera oscura in cui, in epoca analogica, la carta fotografica veniva esposta alla luce e impressionata secondo le forme degli oggetti posizionati sopra di essa, viene sostituita da una camera chiara, digitale, fatta di programmi di computer grafica 3D che permettono di posizionare liberamente oggetti virtuali e aggiustare “luce” e colori. La serie Negatives, del 2014, manipolava digitalmente cianotipi e negativi. Per tutte queste serie, così come per le altre che sono seguite, Ruff ha dunque applicato una “pratica controllata dell’anacronismo”. L’espressione è di Nicole Loraux, che difendeva le virtù dell’anacronismo proprio per quell’ambito, la storiografia, ove rappresenta, da un punto di vista metodologico, “il peccato dei peccati”. Aprendosi alla molteplicità delle linee temporali, questa trasgressione controllata rappresenta, anche in ambito fotografico, un esperimento che può sembrare ingenuo, ma che si rivela subito fondamentale: esso, infatti, permette di operare nella molteplicità dei segni che caratterizzano la nostra epoca, di pensare nella sua produttività e in maniera non essenzialistica il passaggio tra analogico e digitale, di ripensare le continuità e le ri-mediazioni sempre in atto tra vecchi e nuovi regimi mediali. 

 

Thomas Ruff, Tableaux Chinois. David Zwirner Paris, fino al 20 marzo 2021.

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L’ancipite Levi

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Inaugurata a inizio dicembre come segno di resistenza culturale, c’è una mostra a Milano che merita d’essere visitata, sperando in una tregua d’apertura di musei e gallerie. Ha al centro lo scrittore italiano che più ha saputo testimoniare l’inferno realizzato della violenza e dell’odio, ma che ci ha anche insegnato a far durare e dare spazio, per dirla con Calvino, a ciò che inferno non è. Stiamo parlando di Primo Levi e della mostra Figure, una selezione delle sculture al filo di rame che lo scrittore ha intrecciato nel corso di tutta sua esistenza. Dei lari inquieti, potremmo definirli, dato che Levi li teneva nel proprio appartamento, abitanti di librerie, mobili o appesi alle pareti di casa.

 

Tartaruga

 

Dopo una prima assoluta a Torino, queste enigmatiche figure trovano ora ospitalità negli ambienti impregnati di memoria industriale della Centrale dell'Acqua di Milano, grazie al sapiente allestimento di Giancarlo Cavaglià e la cura di Fabio Levi e Guido Vaglio. Il museo ha anche raccolto un ricco apparato di video, che permettono di approfondire ogni figura esposta con le parole di un commentatore di vaglia – da Marco Belpoliti a Ernesto Ferrero, da Elena Loewenthal a Alberto Cavaglion, da Mario Barenghi a Sonia Bergamasco, per citarne solo alcuni.

Tra le sculture che si possono ammirare nella mostra milanese c’è anche un magnifico Centauro, figura ancipite al quale Primo Levi ha dedicato forse il suo racconto più bello, Quaestio de Centauris, che tutti dovrebbero leggere almeno una volta nella vita.

 

Centauro


Ancipite è una parola rara. Di origine latina – da “anceps”, composto di "am(bi)"«da due parti» e “caput"«capo» – indica la doppia natura propria di un animale con due teste. Come il rarissimo Tira-molla, che il Dottor Dolittle riceve in dono dalle scimmie nel capolavoro di Huge Lofting. Senza coda, il Tira-molla (Pushmi-Pullyu in originale) presenta a ciascuna estremità del corpo una testa dotata di corna appuntite. È una creatura timida e difficilissima da cacciare. Gli uomini sorprendono la maggior parte degli animali strisciando di nascosto alle loro spalle, ma con il Tira-molla questa strategia è del tutto inefficace. Da qualsiasi parte si arrivi, l’animale ancipite è sempre in grado di guardarti in faccia. La difficoltà di cattura spiega perché nessuno zoo, o museo di storia naturale, possa vantarne un esemplare nella propria collezione. In più il Tira-molla dorme solo una metà alla volta: una delle sue due teste è sempre sveglia e allerta. Come i delfini, che riposano con metà cervello, e un occhio aperto e l’altro chiuso dormono nuotando, spesso in sincrono con un compagno.

 

 

Chissà se Primo Levi conosceva le avventure di Dolittle. Di certo non gli sarebbe dispiaciuto poter apprendere l’incredibile facoltà del dottore inglese, che consente di parlar da pari con gli animali. In alcuni racconti ha persino esplorato questa possibilità: in Pieno impiego, ad esempio, il protagonista scopre come comunicare con gli insetti e li usa per svolgere dei compiti, mentre in L’amico dell’uomo un assiriologo riesce a decifrare la stele di Rosetta della tenia, per scoprire che nelle cellule epiteliali del verme solitario si nasconde una vera e propria letteratura.

In più occasioni Levi si è divertito a dare voce letteraria ad animali non umani, intessendo un dialogo diretto con loro e proponendo un proficuo e spesso spiazzante confronto di punti di vista. Anzi si può dire che gli animali, come ha notato per primo Marco Belpoliti, siano una componente essenziale e irrinunciabile della sua opera.

 

Lombrico


Limitandosi alle sole poesie troviamo la talpa che rivendica la propria vita solitaria e buia, il ragno (femmina) dalla pazienza lunga e la mente corta, il topo arrogante e bombastico che cita Franklin per rammentare che il tempo è denaro, l’elefante della schiera di Annibale che grida, o meglio barrisce, l’assurdità della Storia, che lo porta a morire tra le nevi delle Alpi. Fino ad arrivare a una delle poesie più belle di Levi, “Meleagrina”, dedicata all'ostrica dell'Oceano Indiano “condannata a secernere secernere/ Lacrime sperma madreperla e perla./ Come te, se una scheggia mi ferisce il mantello,/ Giorno su giorno la rivesto in silenzio.”

E non vanno trascurate le incredibili interviste immaginarie, nelle quali lo scrittore si mette addirittura nei panni di un batterio escherichia coli. “Abbia pazienza un momento”, dice a un certo punto l’abitante del nostro intestino, “sono in mitosi, voglio dire che mi sto sdoppiando: ma è una faccenda di pochi minuti, poi una delle mie metà sarà di nuovo a sua disposizione.” 

 

L’interesse di Levi per la biologia e l’etologia non si esaurisce comunque nel dialogo con animali reali. “Inventare dal nulla un animale che possa esistere (intendendo dire che possa esistere fisiologicamente, crescere, nutrirsi, resistere all’ambiente ed ai predatori, riprodursi) è un compito pressoché impossibile”. A confronto con l'inesauribile ricchezza di soluzioni innovative e sorprendenti squadernata dall’evoluzione, i tentativi dell’uomo di dare corpo ad animali immaginari risultano inevitabilmente difettosi e poveri. Eppure Levi non sfugge a questo richiamo demiurgico, punteggiando i suoi racconti di creature inesistenti, descritte meticolosamente (e ironicamente) con piglio da naturalista.

 

Lanciere


Basti pensare al Vilmy, al centro di uno suoi più riusciti racconti “fanta-biologici” (la definizione è di Italo Calvino). Un animale enigmatico e seducente, dalle movenze feline e il lucido pelame, che nasconde un segreto assai ricercato dagli umani. Il Vilmy è infatti in grado di secernere (si noti bene, senza bisogno di esser fecondato, caso unico tra i mammiferi) un latte che avviluppa chi lo assaggia in un infinito struggimento, un desiderio senza fondo e soddisfazione. Dietro a questa dipendenza c’è una limpida ragione chimica – il latte di Vilmy presenta un’alta concentrazione di N-feniltocina, la sostanza che stimola nei neonati la fissazione affettiva – che spiega, ma non esaurisce, la natura inquietante di questo legame. 

 

Un altro esempio emblematico è il finto rapporto scientifico sugli atoùla e le nacunu (I figli del vento), una singolarissima specie di roditori della Polinesia in cui il maschio e la femmina vengono designati con nomi diversi. Una bizzarria linguistica che trova spiegazione in un carattere unico tra i mammiferi (un’altra volta!): il loro netto dimorfismo sessuale. Le femmine di atoùla sono lunghe e robuste e portano una vistosa livrea di pelo lucido, solcata da quattro striature fulve, che si congiungono in prossimità della coda. I maschi non superano invece il mezzo metro e pesano dai cinque agli otto chili (notare la precisione statistica), e presentano coda tozza e ventre glabro. Poiché nulla è lasciato alla fantasia capricciosa del demiurgo, questa mancanza di peli ha dietro una precisa ragione evolutiva. Tra atoùla e nacunu non esiste infatti accoppiamento e copula: la singolarissima strategia riproduttiva, come nota senza alcuna malizia l’estensore del rapporto, consiste in una disseminazione a distanza. È il vento a trasportare per evaporazione lo spermio dei maschi – simile ai granelli dei pollini delle piante – e raggiunge così le femmine, che in preda ad una inquieta danza si lasciano avvolgere dall’invisibile pioggia fecondatrice.

 

Gufo


La stessa meticolosità naturalistica nel descrivere animali inesistenti la troviamo anche nel dottor Dolittle, quando Huge Lofting si pone il problema di spiegare come le scimmie riescano infine ad acchiappare l'incatturabile creatura ancipite, dalla quale siamo partiti. Avvicinatesi nell’erba alta, le scimmie formano un grande cerchio intorno al Tira-molla, chiudendogli tutte le vie di fuga. Una soluzione di eleganza evoluzionistica: le scimmie usano l’arma della cooperazione sociale per fregare il rarissimo animale a due teste.

 

Gabbiano


Ancipte: in Levi si trovano almeno due occorrenze di questa parola rara. La prima è un uso simbolico, in un passo significativo di Il sistema periodico. All’inizio del racconto “Nichel”, dedicato al suo primo lavoro di chimico in un laboratorio annesso a una miniera, Levi definisce la propria laurea un “documento ancipite, mezzo gloria e mezzo scherno”. L’innocua ed elegante pergamena che conferisce a Primo Levi, di razza ebraica, la laurea in Chimica col massimo dei voti è un essere misterioso e incomprensibile. Ancipite, nel senso di intrinsecamente contraddittorio: un capo sembra accogliere e riconoscere, come un’assoluzione, l’altro invece separa e mistifica, e crudelmente condanna alla persecuzione razziale, e quindi al vortice della distruzione e del Lager.

Lo stesso aggettivo lo ritroviamo nella poesia dedicata a un altro mollusco, terricolo questa volta, e a tutti familiare: la chiocciola. Si tratta di un animale ermafrodita insufficiente; possiede cioè sia l'apparato riproduttore maschile sia quello femminile, ma non è in grado di autofecondarsi (da qui l’insufficienza). Durante l'accoppiamento i due individui fecondano e rimangono fecondati contemporaneamente. Per cogliere questa doppia natura sessuale, che permette alla chiocciola di essere sempre compatibile con il consimile, Levi scrive un bellissimo verso, tutto giocato sulla combinazione reiterata degli stessi suoni fonetici.

 

Ecco ha trovato il compagno-compagna,

Ed assapora trepida

Tesa e pulsante fuori del suo guscio

Timidi incanti di ancipiti amori.

 

Ancipite significa doppio, persino opposto, ma non scisso. In altre parole, l'essere è unico non univoco. Coerentemente, nell'universo di Levi non esistono mostri, creature aberranti a una dimensione, che proprio per la loro univocità si collocano fuori, e quindi lacerano, l'ordito naturale e della Storia. Come ci ammonisce in conclusione del suo ultimo libro-testamento, persino gli aguzzini che operano nell'abisso amorale del Lager non possono essere liquidati come mostri:

 

Ci viene chiesto dai giovani, tanto più spesso insistentemente quanto più quel tempo si allontana chi erano, come erano fatti i nostri” aguzzini”. Il termine allude ai nostri ex custodi, alle S.S. e, a mio parere, è improprio. Fa pensare ad individui distorti, nati male, sadici, affetti da un vizio d’origine. Invece erano fatti della nostra stessa stoffa, erano esseri umani medi, mediamente intelligenti, mediamente malvagi: salvo eccezioni, non erano mostri, avevano il nostro viso, ma erano stati educati male."

 

A forzare un po’ la mano, ma in fondo neanche troppo, possiamo dire che è Levi stesso ad avere una natura ancipite. È così che lo coglie Peppe Sini in un acuto ritratto scritto su A-rivista anarchica a pochi mesi dal suicidio. Creatura ancipite, testimone veritiero e profondo di situazioni scisse, nonché felice creatore di figure poetiche lacerate. “Di questa condizione degli uomini scissa, anfibia” – argomenta Sini –“Levi è testimone e poeta grandissimo. Perché in sé l'ha vissuta intensamente per molteplici scomposizioni e crisi, infinite catene di contraddizioni e dialettiche: perché tecnico e poeta, scienziato e scrittore, manipolatore di elementi chimici e di elementi linguistici, perché testimone di una condizione di totale alterità dall'umano, testimone del lager [..], perché perseguitato razziale.”

 

Flauto


Potremmo aggiungere altre apparenti antinomie alla lista di Sini: il Levi razionale e il Levi che secerne, quasi suo malgrado, materia poetica; il Levi illuminista ma anche il Levi attratto dall’imbrunire, dai confini incerti, i vizi di forma, le ore incerte; il Levi severo moralista e il Levi fulminante parodista. E se tutti conosciamo il Levi apollineo, dobbiamo riconoscere che esiste anche un Levi dionisiaco, il quale non si manifesta tanto nei romanzi, ad eccezione forse di Se non oraquando, ma che, come abbiamo visto, trova piena cittadinanza nei racconti. È qui che sentiamo soffiare un desiderio panico di amore e fecondità primigenia, delirante e furibonda, che infonde vita alle sue innumerevoli creature.

 

Per rendersi conto una volta di più dell’irriducibilità di Primo Levi a qualsiasi incasellamento e cogliere la profonda simpatia con cui guardava al mondo animale, non resta che accostarsi alle sculture di rame esposte alla Centrale dell'Acqua. Incredibilmente aderenti all’anatomia e alla fisiologia degli animali ritratti, ma con un qualche particolare che sfugge al realismo come un vizio di forma, sono figure tridimensionali impastate nel vuoto grazie ad

 un sottile strato di metallo. Alla rapidità del movimento, simile a schizzi a carboncino, affiancano una meticolosa cura progettuale, ancor più sorprendente considerato che Levi non si appoggiava a bozzetti o disegni preparatori. Ma in fondo si tratta di un’altra espressione della curiosità senza confini e della geniale capacità di controllo della materia (e delle parole) di quest’uomo apparentemente ordinario, indissolubilmente chimico e artista.

 

 

Inaugurata alla Centrale dell’Acqua di Milano il 3 dicembre 2020 dopo la prima alla GAM di Torino nel 2019, la mostra – nel suo allestimento fisico quando possibile, e nella sua versione virtuale – sarà ancora visitabile per tutto il mese di aprile 2021.

La mostra è a cura di Fabio Levi e Guido Vaglio; progetto di allestimento di Gianfranco Cavaglià con la collaborazione di Anna Rita Bertorello.

 

Dromedario


Nota di lettura

Hugh Lofting, Le avventure del dottor Dolittle, Feltrinelli Kids (2020)

Le poesie e i racconti di Primo Levi sugli animali sono raccolti in Primo Levi, Ranocchi sulla luna e altri animali, a cura di Ernesto Ferrero, Einaudi (2014).

Sulla visione etologica di Levi si veda la prefazione di Ferrero al volume citato e Marco Belpoliti, Primo Levi di fronte e di profilo, Guanda (2015).

Peppe Sini, Primo: ricordare in A rivista anarchica, anno 17 nr. 148, estate 1987

 

Tutte le immagini sono di Daniele Mascolo.

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Una mostra a Milano
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Marina Ballo Charmet: l’immagine latente

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Le fotografie di Marina Ballo Charmet registrano il vedere qualcosa per la prima volta. Danno spazio alla possibilità dello sguardo piuttosto che all’oggettivazione dello stesso. Sono pensiero laterale. Nelle immagini c’è il rifiuto di una visione definitiva. Lo sguardo è piuttosto partecipe della visione stessa e rende imprevisto il “sempre visto”, lasciando emergere “il rumore di fondo della nostra mente”. Le fotografie sono seducenti ma senza effetti. Quasi corporali più che neutrali. Si presentano così come è lo sguardo che le ha determinate: sperimentale e periferico. Mentre l’artista attraversa spazi quotidiani, accompagnata dalla sua macchina fotografica, registra esperienze incerte, lasciando fuori la retorica a cui ci hanno abituati i resoconti di percorsi che raramente sono stati derive.

 

Rumore di fondo, #24, 1999.


Le presentazioni visive, muovendosi al confine tra sensazione e immaginazione, sono antieroiche se confrontate con la fotografia di informazione e quella di rappresentazione. Esse rendono superflua la didascalia e il commento all’immagine. Leggiamo il metodo sperimentale di Marina Ballo Charmet sulla scia della sperimentazione fotografica italiana che si è mossa nella direzione di disimparare la fotografia, e con essa la sua storia passata e sovente maschile, ampiamente orientata verso una tensione verticale, il deep focus e un tecnicistico controllo della e sulla visione. Consideriamo una modalità che segna una direzione inaspettata, in cui il fuori fuoco e l’orientamento della macchina fotografica verso il basso, all’altezza dello sguardo di un bambino, o ai margini, sono il derivato anche di un’opposizione linguistica femminista, che cerca di decostruire la visione dal suo interno, disorientando gli assi principali su cui è stata impostata la sua disciplina.

 

Centotrentuno minuti di cielo, ore 06.22, 2018-2019.


Mauro Zanchi e Sara Benaglia:Ci interessa la dimensione perturbante nei tuoi lavori. In cosa consiste la latenza delle tue immagini?

Marina Ballo Charmet: Ricordo quando ho fatto le fotografie della serie Il limite nelle Landes – il cielo, la terra e l’acqua – quello stato delle cose (del mondo) con cui ero in relazione, all’interno rimandava a qualcosa di latente: un’immagine di luce, in qualche modo ‘mitica’, che viene da lontano ma che appartiene al nostro immaginario e rimanda all’oggetto intuito.

 

Il limite. Mimizam (Landes), 1989.


Cosa hai trovato ai margini della percezione?

Le immagini del nostro rapporto con il mondo viste con la coda dell’occhio (e con il preconscio), l’ambiguo e l’incerto.

 

Primo campo, #4, 2001.


Come sei approdata all’uso della visione “periferica e distratta”?

Già nella mia prima serie Il limite stavo lavorando sulla visione periferica, l’aspetto della distrazione è stato messo a punto con i lavori successivi Con la coda dell’occhio e Rumore di fondo, e in quelli seguenti, quando ho deciso di riprendere le fotografie dall’altezza del bambino piccolo e usando il fuoco e il fuori fuoco non sempre nella stessa zona.

La distrazione ha a che fare con il nostro preconscio e con l’attenzione fluttuante.

 

Cosa significa per te “dare il senso dell’esperienza” e stare dentro il luogo?

Sia con la fotografia che con il video lavoro non con l’intenzione di rendere una descrizione analitica dell’oggetto-luogo ma cercando un’immagine che rimandi allo stare ‘lì, in quel luogo’, non di fronte e a distanza come avviene, per esempio, nella veduta. Nella mia immagine è importante anche l’aspetto del margine e del fuori campo. 

 

Con la coda dell'occhio, #17, 1993-1994.


Ci parleresti dell’esperienza come rapporto empatico con il senso di un luogo e anche di come utilizzi il mezzo fotografico in questa modalità?

Prima di fare le fotografie progetto il lavoro, scelgo il tipo di luce, il momento del giorno e i tempi, ma quando faccio le riprese mi pongo in quello che chiamo un ‘rapporto empatico con l’oggetto-luogo’. Succede qualcosa: una comprensione particolare. Nel caso di Con la coda dell’occhio, per esempio, sicuramente con quella luce c’era anche l’esigenza di accovacciarmi, di mettermi ad altezza di bambino, magari anche con il cavalletto a causa della luce (al mattino presto o la sera tardi). Anche se penso molto prima di realizzare le fotografie, nel momento delle riprese è come se la macchina non fosse tra me e l’oggetto ma sentissi direttamente il rapporto tra me e l’oggetto-luogo. È successo qualcosa di simile quando ho fatto le riprese in piazza Duomo per il progetto L’alba.

 

Primo campo, #13, 2001.


Come si può entrare con lo sguardo nella dimensione che rimane enigmatica, nella sospensione di ogni giudizio?

Cercando la presenza della cosa e non rappresentandola. Questo è quello che cerco di fare svuotando la mente. E ovviamente, come si è detto, con una relazione empatica.

 

Esistono veramente le immagini archetipiche? Come si riconoscono rispetto alle immagini del mondo?

Sono quelle immagini che vengono da lontano e che si ‘presentano’.

 

Con la coda dell'occhio, #28, 1993-1994.


Che cosa è il linguaggio oggettivo e neutrale che stai indagando da anni?

È un linguaggio senza effetti drammatici o estetizzanti, come se la cosa si presentasse nella sua neutralità, senza ombre, per esempio.

 

Al di là dell’indagine filosofica e psicanalitica quali aspetti altri hai colto con l’indagine fotografica e artistica?

Credo soprattutto la ricerca sull’immagine che si sta formando. 

 

Il parco, Paris, Les Buttes Chaumont, trittico, 2006. Installation view. Sguardo terrestre, a cura di   Stefano Chiodi, MACRO, Roma, 2013.


Quale oggettività si coglie nelle tue opere?

Penso alla cosa che è ‘lì così’, semplicemente come presenza.

 

Abbiamo letto in un libro a te dedicato che le tue opere sono intese come “immagini distaccate, oggettive e come assenti, prossime a un non senso originario”. Come ti avvicini alla realtà con il tuo sguardo o percezione?

È proprio così come dice bene Stefano Chiodi. Mi avvicino alla realtà con lo sguardo empatico dell’infante.

 

Con la coda dell'occhio, #49, 1993-1994.


Senza titolo (2003) #17 (dalla serie Primo Campo) ci appare come una scultura che fluttua nel non a fuoco. Quando lasciamo depositare il nostro sguardo sul mento e il collo, l’unico punto a fuoco esalta la sostanza della pelle, che è resa come una descrizione lenticolare. Che rapporto intercorre tra la prossimità visiva con la superficie del soggetto attraverso il mezzo fotografico e il tuo sguardo prima che si realizzi l’immagine nella fotografia?

La macchina per me è come un prolungamento dell’occhio e non deve essere fra me e l’oggetto da riprendere.

 

L'alba, milanopiazzaduomo, video, 2015. Installation view. Agir, contempler, a cura di Jean- François Chevrier Musée Unterlinden, Colmar, 2016.


Che cosa rappresentano nella tua ricerca il fuori fuoco, lo spostamento dal soggetto principale, la distrazione, la dispersione, il rimando ad altro, che forse non manifesta la sua presenza nella immagine?

Credo che parlino del fuori campo che è centrale nel mio lavoro, insieme all’attenzione fluttuante, che è quella distratta, periferica.

 

Giudecca, Le ore blu, ore 20.38, 2017.


Ci parleresti delle immagini che stanno al confine tra proiezione mentale e percezione, quelle immagini che precedono la percezione definita, prima della coscienza?

Sono le immagini del preconscio che emergono quando lasciamo vagare la mente. È l’altro intuito, il non visto attentamente in modo definito o il non descritto analiticamente come si può vedere nelle fotografie dei muri, degli angoli e delle porte della mia casa-studio nella serie Rumore di fondo

 

-Le ore blu-Giudecca ore 5,35 - 16 agosto 2017_ESTRATTO 1 MIN.

 

Con la coda dell'occhio, #57, 1993-1994.


Quali componenti politiche sono presenti nelle tue immagini?

Ci sono dei lavori che hanno una componente più direttamente politica come i video Agente apri sui bambini in carcere o quello realizzato in ospedale Frammenti di una notte. Tutto il mio lavoro è indirettamente sicuramente trasgressivo e anticonvenzionale. C’è l’aspetto dello sguardo del bambino, lo sguardo periferico, che è il contrario di quello antropocentrico del potere e del controllo sull’oggetto-luogo.

 

Giudecca, Le ore blu, ore 20.29, 2017.


La tua vicinanza alle lotte femministe ha contribuito (e se sì come) ad andare al di là della messa a distanza, del punto di vista elevato, per allentare e mettere in crisi l’elemento del controllo?

Certamente, insieme al percorso per fare la psicoterapeuta dei bambini, la lotta femminista è stata fondamentale. Ha comportato la critica all’antropocentrismo, che ha implicato l’abolizione della visione verticale e l’adozione di un punto di vista ribassato, all’altezza dello sguardo di bambino.

 

Rumore di fondo, #11, 1996.


Nel ruolo di artista, come hai criticato i modelli visivi dominanti?

Credo proprio nelle scelte linguistiche che ho fatto, oltre che nei soggetti ritratti.

 

Come ti sei distaccata dai tuoi punti di riferimento o maestri?

Non c’è stato bisogno di distaccarmi perché dall’inizio facevo immagini già diverse da loro, ma i riferimenti e i maestri sono rimasti tali nel tempo.

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Il potere delle immagini

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Dopo mesi di chiusura e una breve riapertura il museo è di nuovo sbarrato. Zona rossa. Durante la visita a Palazzo Barberini, qualche settimana fa, in una delle rare intermissioni normali in un anno per nulla normale, penso al convalescente, l’uomo della folla di cui parlano Poe e Baudelaire, che torna a uscire dopo la malattia rimanendo abbagliato di fronte allo spettacolo della vita nelle strade. Tutto gli sembra nuovo, tutto lo impressiona. Aggirarsi in un museo, mascherina e “distanziamento”, certo, ma poter insomma finalmente guardare, e insieme ad altri. Guariti. Guariti. Ma poi, una ricaduta. L’ironia è cruda: scrivo de L’ora dello spettatore. Come le immagini ci usano (a cura di Michele Di Monte, Gallerie Nazionali di Arte Antica, fino al 5 aprile), una mostra che appunto interroga lo sguardo dello spettatore come componente insieme interna ed esterna delle immagini dipinte, mentre questo medesimo sguardo è di fatto annullato, ridotto alla misura delle riproduzioni, insomma senza un’esperienza da condividere o con un’esperienza solo vissuta a memoria e suggerita a parole.

 

Il tema della mostra è dichiarato ne Il Mondo Novo (1765) di Giandomenico Tiepolo, la piccola tela che ne apre, o chiude, il percorso. In prestito dal Prado, è un quadro a prima vista tipico del gusto di Giandomenico per l’osservazione piccante del quotidiano: in un campo veneziano una folla di spettatori, alcuni in tabarro e tricorno, altri mascherati, si assiepa per assistere a un’attrazione. Ma è proprio quel pubblico visto di schiena, e non lo spettacolo, invisibile, il soggetto del quadro, l’agente che mette in moto la macchina dell’illusione. Il dipinto rimanda insomma allo spazio posto al di qua della sua superficie, mette in crisi la sua apparente trasparenza. “Lo spettatore è già sempre all’opera, perché è già nell’opera” dice giustamente la didascalia.

 

Giandomenico Tiepolo, Il Mondo Novo, 1765 ca


Ecco dunque riuniti gli attori di un circuito da cui scaturisce quella speciale forma di esperienza che chiamiamo il mondo dell’arte o “arte” tout-court. Lo spiega bene Wolfgang Kemp nel bello ed esauriente catalogo (Campisano Editore, gli altri saggi sono del curatore, Giovanni Careri, Claudia Cieri Via, Sebastian Schütze). Da un lato l’artista e l’opera, dall’altro lo spettatore e il contesto in cui opera e osservatore stesso sono riuniti. Un rapporto che non si forma solo nel momento dell’osservazione diretta nell’ambiente reale, ma preesiste, è un “orizzonte di attesa” che orienta implicitamente percezioni e pensieri: istituzione artistica e spettatore “sono ‘previsti’, anticipati nell’opera”, e quest’ultima non esercirebbe il suo potere senza l’attiva collaborazione, la capacità di anticipazione e proiezione del secondo.

 

Il punto cruciale, come argomenta con finezza Michele Di Monte nel suo testo, è che noi effettivamente vediamo nelle immagini mimetiche – basate cioè su una somiglianza iconica col mondo visibile – più e diversamente di quel che vi è raffigurato. La percezione di un dipinto è sempre basata insomma su un processo di selezione, integrazione e proiezione, su una interazione profonda tra la facoltà visiva, la coscienza e la dimensione inconscia, in cui si fondono dati sinestetici, adesione affettiva, memoria individuale e messa a fuoco morale.

 

L'ora dello spettatore, vista dell'allestimento a Palazzo Barberini


Sono temi che risuonano nella teoria estetica, nella storia dell’arte (Gombrich, Belting, Bredekamp, Stoichita, ne sono stati tra gli interpreti più efficaci) e nella pratica dell’arte novecentesca, almeno da quando Pablo Picasso e soprattutto Marcel Duchamp, con i suoi ready-made, ne hanno fatto un nodo imprescindibile di ogni creazione artistica moderna. È precisamente questa interrogazione insieme storica e teorica del dispositivo pittorico – che illumina a ritroso l’intera concezione della mimesis nella tradizione occidentale – il punto focale di questa mostra rara e coraggiosa: mostrare attraverso una serie di esempi storici eloquenti (venticinque le opere selezionate) come la consapevolezza della connessione attiva artista-opera-contesto-spettatore sia inscindibile dalla storia degli stili e delle personalità artistiche e come sia impossibile separare il “fare” dal “pensare” l’arte, con tutte le cautele, le complicazioni e le ambiguità che tale disposizione comporta.

 

Siamo di fronte alla indubbia vedette della mostra: la Ragazza in una cornice (1641, l'immagine è in fondo alla pagina) di Rembrandt. La posa è frontale, assente ogni indicazione di movimento: le mani della fanciulla posano sulla cornice nera in basso, lo sguardo è diretto, franco. Una serie di sottili artifici dinamici anima però la figura, anzitutto le mani, che “sporgono” illusionisticamente nello spazio in cui ci troviamo. Sono stratagemmi che amplificano la suggestione dell’immagine, l’effetto di reale di cui ha parlato Roland Barthes, e al tempo stesso amplificano il paradosso di un’effige posta al confine tra materia e vita, tra presenza e assenza.

 

Jacob van Oost, Davanti al cavalletto, 1645, particolare


Un discorso analogo si può fare per il sorprendente Davanti al cavalletto (1645 ca.) del fiammingo Jacob van Oost, in cui il taglio ravvicinato dell’inquadratura, l’asimmmetria e l’immediatezza del soggetto ricordano qualità tipiche della fotografia. La figura in primo piano (forse un giovane apprendista) appare sorpresa, a disagio sotto lo sguardo indiscreto dello “spettatore implicito” che si avvicina al quadro, visualizzato così come agente essenziale della dinamica interna dell’immagine oltre che suo destinatario.

 

Giovanni Girolamo Savoldo, Maddalena, 1535-1540


La relazione tra rappresentazione e osservatore è articolata ancor più sottilmente nella magistrale Maddalena (1533 ca.) di Giovanni Girolamo Savoldo, in mostra nella versione dagli Uffizi, una delle quattro oggi note. La figura femminile – individuata dal solo vasetto di unguenti che costituisce l’emblema della santa – si volge verso chi guarda, sullo sfondo di un cielo che si illumina e trascolora all’alba; una seconda fonte di luce illumina la stoffa del suo manto, animandolo di riflessi cangianti. È la luce che emana dal corpo del Cristo appena risorto che Maddalena non ha ancora riconosciuto e che rimane invisibile, esterno alla scena che pure colma dell’elemento più direttamente connesso nella tradizione cristiana alla simbologia della Grazia. Allo spettatore è offerta così la possibilità di assistere al miracolo nella forma di un’esperienza vissuta interamente coi sensi e nella posizione straordinaria e privilegiata del testimone-credente.

 

Crucialmente, “guardare” non può essere separato da volere e desiderare. La messa in scena della seduzione erotica è il tema in effetti di molti dei quadri esposti: in forme complici e raffinate, come nel caso della trasparente favola mitologica e cortigiana Marte e Amore (1633-34) di Guercino. Il soggetto è un’invenzione originale: Venere è sorpresa da Marte in elmo e corazza nell’intimità della sua alcova mentre gioca nuda con Cupido. La ragione dell’agitazione dell’amante geloso sta tutta nei gesti degli altri due personaggi: Venere indica col dito e lo sguardo lo spettatore che implicitamente assiste alla scena, mentre Cupido lo fissa maliziosamente mentre prende la mira prima di scoccare il suo dardo. Il tema del dipinto è dunque quello classico e barocco dell’irresistibile sguardo d’amore, metaforizzato nella freccia che sta per colpire al cuore lo spettatore, punto focale e destinatario di tutta la scena. Il fatto che il committente e primo destinatario del quadro fosse il duca Francesco I d’Este aggiunge una patina di licenziosità mondana alla scena.

 

Pierre Subleyras, Nudo femminile di schiena, 1735-40


Più scoperto e più conturbante è il gioco della seduzione nel Nudo femminile di schiena (1735-40) di Pierre Subleyras, in cui il soggetto è privato dei consueti travestimenti mitologici attraverso i quali si era secolarmente veicolato in pittura il corpo muliebre, oggetto di fascinazione estetica almeno quanto di attrazione erotica da parte dello spettatore-voyeur. La donna appare spogliata non in senso letterale ma soprattutto perché dal suo corpo sono ormai caduti gli appigli, i riferimenti, le giustificazioni letterarie che ne avevano resa accettabile la presenza in quanto significante disponibile a ogni trattamento allegorico. Di più, qui la figura ha il volto nascosto ed espone allo sguardo indiscreto di chi la osserva letteralmente solo il tuo retro, il suo rovescio. Il nudo di Subleyras è il verso di un recto che resta invisibile, ed è per questo del tutto privo di ammiccamenti e malizia. Al contrario, impone allo spettatore il ruolo del testimone indiscreto e del voyeur di fronte al corpo di una donna che resiste alla sua trasformazione in odalisca.

 

Questa metamorfosi, che sarà riproposta ancor più radicalmente un secolo più tardi da Courbet e Manet, non smette di interrogarci, specialmente nel clima di sospetto, di facile indignazione e di soffocante moralismo nei confronti delle immagini che pervade il nostro presente. In che modo guardiamo? In cosa la rappresentazione si differenzia dalla realtà? Qual è la sua legittimità, il suo margine di libertà? Cosa può fare un’immagine? Le risposte, suggerisce L’ora dello spettatore, vanno cercate proprio nelle opere d’arte. Il museo è chiuso, viva il museo.

 

Una versione più breve di questo articolo è uscita il 28 marzo su “il manifesto” – “Alias”

 

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L’iper hype contemporaneo

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Tra i privilegi di condividere una piccola casa con altri coinquilini per destreggiarsi economicamente nell’archeologia stratificata della vita romana, c’è quello di condividere spazi con persone più giovani. «Cosa significa hype?», chiedo al mio coinquilino venticinquenne. «Non so come spiegarlo bene, è come quando esce un nuovo videogioco o una nuova canzone e tutti wow, anche se magari è una merda e dopo due giorni non se la caga più nessuno». Hypeè andare su di giri, perlopiù per droghe, ma è anche una montatura, un processo di marketing per lanciare fortemente un prodotto, qualunque sia il contenuto. Uno dei privilegi di convivere con persone più giovani è quello di scoprire mondi che altrimenti sarebbero restati sepolti: quello che ti fa Roma ogni giorno. «Siamo giovani affamati, siamo schiavi dell’hype», canta Willie Peyote a Sanremo, perculando Sanremo, le sue logiche, le nostre illogiche. Il brano festivaliero di Peyote l’ho ascoltato per la prima volta grazie al mio giovane coinquilino: «non so se mi spiego, dipende dal prezzo / lo chiami futuro ma è solo progresso / sembra il Medioevo più smart e più fashion /se è vero che il fine giustifica il mezzo / non dico il buongusto ma almeno il buonsenso / ho visto di meglio, ho fatto di peggio». Non si potrebbe dirlo meglio, e con più ritmo.

 

Il rischio della Quadriennale d’arte a Palazzo delle Esposizioni di Roma, “Fuori”, è di avere tratti hype. Il rischio dell’arte contemporanea è che a tratti “sembra il Medioevo più smart e più fashion”. Ma non “è vero che il fine giustifica il mezzo”, è vero il contrario: il mezzo giustifica il fine. Sono infarcito di McLuhan – lo ammetto preliminarmente –, ma quest’uomo ci aveva avvertito. “Il mezzo è il messaggio” l’avevamo tutti scambiato per lo slogan di una pubblicità di un’automobile. Sembrava troppo hype per rivelarsi un concetto sul quale riflettere lungamente. Solo che poi il contenuto è finito veramente, il contenuto è superato, i contenuti li abbiamo sviscerati tutti, li abbiamo esauriti. E quindi ci stiamo concentrando, e dobbiamo concentrarci, sulla forma. Sanremo non è forse interessante – c’è qualcosa di interessante in Sanremo (?) – per la sua forma, per la confezione, il packaging melodico? Adesso nell’analisi siamo passati, come la scienza da decenni, al subatomico. La forma festivaliera è passata dalla sfera di Sanremo che avvolgeva i “contenuti” alla sfera degli artisti in gara che nelle loro forme incamerano come un guscio i “contenuti”. Allo stesso modo nell’arte contemporanea il passaggio alla forma è divenuto sostanziale da qualche decennio. Esemplare è Salvo, uno degli artisti della Quadriennale che letteralmente illumina l’esposizione. Il suo contenuto è la forma, il suo contenuto è la luce, e la luce è contenuto.

 

Scrive McLuhan in Gli strumenti del comunicare che la luce (elettrica) «è un medium, per così dire, senza messaggio, a meno che non lo si impieghi per formulare qualche annuncio verbale o qualche nome». O qualche annuncio visuale. «Che la si usi per un’operazione al cervello o per una partita di calcio notturna non ha alcuna importanza. Si potrebbe sostenere che queste attività sono in un certo senso il “contenuto” della luce elettrica, perché senza di essa non potrebbero esistere. Ma questo non fa che confermare la tesi secondo la quale “il medium è il messaggio”, perché è il medium che controlla e plasma le proporzioni e la forma dell’associazione e dell’azione umana». Salvo prende il colore e lo fa luce, poi plasma la luce e ne fa contenuto. È la luce l’opera. Gli scorci raffigurati sono angoli di una metropoli plastica, fori romani fermi nella luce, come se fosse la luce a dare forma all’altare della Patria, e difatti nel catalogo della mostra si fa riferimento a Huxley e alle porte della percezione. Salvo parla una luce allucinata, disegna notti verdi e rosa, tramonti da “fenomeno intellettuale”, per dirla con Pessoa. Cosa ci direbbero altrimenti quei fiori giganti di Petrit Halilaj e Alvaro Urbano se non la loro colossale forma, il loro gigantismo, la loro elefantiaca grandezza? I peni di Lydia Silvestri – che peraltro ricordano la statua fallica con cui il protagonista di Arancia meccanica colpisce a morte la donna in tuta verde – di cosa ci informano se non della loro morfologia? Curvi, abbracciati, auricolari.

 

Cosa cerchiamo anche in una prosa, in un romanzo contemporanei? Che diano forma, attraverso il linguaggio, al caos, all’informe, all’informazione del mondo. Le fotografie di Lisetta Carmi potrebbero chiederci: e qui allora? Il contenuto non conta? È ancora la luce il contenuto, specie negli scatti che ritraggono le statue del cimitero di Genova. E la forma: il parto, la gravidanza, la forma che annuncia il contenuto. 

Visitare la Quadriennale è una esperienza formale, e tutto possiamo fare tranne che toccare la forma; niente desidereremmo di più se non toccare le forme nel loro atto di seduzione. «Quando si apre la Quadriennale molte signore si aggirano sulle guide rosse dei vari saloni. La maggior parte si fermano accanto ai ritratti di donne e bambini, alle nature morte di frutta e cacciagione e ammirano sinceramente, esclamando, a brevi intervalli: “molto carino! Guarda quella conchiglia, sembra vera! Guarda quelle spighe come sono fatte bene! Quel fagiano è fatto benissimo! Quel broccato!”». Ercole Patti così descriveva i visitatori della Quadriennale nel libro del 1940 Quartieri alti. E invece oggi alla Quadriennale le signore non ci sono più, non le vedi queste signore che si fermano davanti alle nature morte. Piuttosto s’incontrano giovani, giovanissimi. Una coppia in particolare – lui in polo a righe orizzontali verdi, lei in minigonna di jeans – si posizionava sempre al centro esatto delle opere, nel vertice dello sguardo, nel vortice del senso: in due avranno avuto quarant’anni, e forse non fanno l’età di una di quelle signore. Non hanno la disponibilità economica di quelle signore.

 

 

Ma stanno sviluppando un gusto, un gusto che – parafrasando il saggio di Zygmunt Bauman Per tutti i gusti. La cultura nell’età dei consumi (Laterza, 2016) - magari li porta ad ascoltare Peyote mentre scrutano le opere mash-up della loro coetanea Caterina De Nicola e controllano il feed di instagram cui aggiungono una storia di quanto live stanno vedendo e appoggiano al senso delle opere “in presenza” il senso di altre opere che giungono da un luogo imprecisato della rete. Come ho fatto anch’io, ficcandomi spesso nella forma di opere che, più che riflettere sull’ambiente, riflettono l’ambiente. L’arte si fa tutta selfabile, pronta a farci entrare come Alice attraverso lo specchio. «Puoi dare una sbirciatina al corridoio nella Casa dello Specchio se lasci la porta del nostro salotto ben aperta; è un corridoio somigliantissimo al nostro, per quanto se ne può vedere, soltanto che potrebbe essere completamente diverso più in là. Oh, Kitty, come sarebbe bello se potessimo penetrare nella Casa dello Specchio! Sono sicura che ci sono un mucchio di belle cose! Facciamo finta che ci sia un modo per entrarci, Kitty.

 

Facciamo finta che il vetro sia morbido come una garza, così che si possa attraversarlo. Diamine, sta mutandosi in una specie di foschia adesso, ti dico! Sarà abbastanza facile attraversarlo…». Nel formidabile volume dell’editrice Ippocampo la Casa dello Specchio somiglia ai corridoi di Palazzo delle Esposizioni, e ognuno di noi è l’Alice di Carroll, uno che avrebbe dovuto avere a che fare con numeri, con dati, e invece intuiva la forma.

Qualcosa di contiguo ai vetri e alla foschia di Alice e a questo concetto del passaggio dal contenuto alla forma, dell’ingresso nella forma, dell’attraversamento dello specchio è espressa anche da alcune opere di Leandro Erlich. Erano esposte fino a dicembre 2020 nella mostra “Soprattutto” alla sede romana della Galleria Continua presso il Grand Hotel St. Regis, a pochi passi dal Palazzo delle Esposizioni in cui è ancora in corso la Quadriennale d’arte. L’opera “The clouds” dell’artista argentino, ad esempio, è la “riproduzione” della “forma” di alcune nuvole catturate attraverso lastre di vetro parallele verticali esposte in una teca simile ad un acquario. Fermi, ancora: il contenuto di ogni opera è la forma. La forma di una nuvola che ricorda una lupa, omaggio a Roma. Erlich dedica alle nuvole praticamente l’intera retrospettiva. In una intervista per Exibart egli stesso spiega questa forma di “pareidolia”: «Gli esseri umani sono gli unici animali in grado di fare associazioni, visualizzare e costruire un’immagine e forse è la prima azione nella costruzione di qualcosa: creiamo un bozzetto prima di realizzare qualsiasi cosa, di fatto visualizziamo un’immagine». Come appuntava Roland Barthes nel 1975, «Insomma, niente di più culturale dell’atmosfera, niente di più ideologico del tempo che fa».

 

Lo riporta Riccardo Venturi in uno splendido intervento sul catalogo della Quadriennale dal titolo “Il tempo delle meteore” in cui si ragiona sull’irragionato, ciò su qualche cosa su cui non abbiamo mai ragionato abbastanza: i fenomeni atmosferici, che si fanno fenomeni artistici, “arte meteorologica”, proprio per la loro ineffabilità. Il vento non si tocca, l’aria non si pizzica, la nuvola non si afferra. Scrive il poeta Nicola Bultrini nel libro “La forma di tutti”: «Così dobbiamo vivere/ consapevoli nel paesaggio/ un mondo di sostanze/ in disordine apparente». E quando iniziamo a mettere ordine, cominciamo col toccare forme per collocarle altrove, generando un nuovo spazio.

Una medesima esposizione del contenuto della forma era, fino a pochi giorni fa, anche alla Galleria Alessandra Bonomo nei pressi di largo Argentina, nelle opere di Chung Eun Mo, artista coreana ormai in Italia da un trentennio. Virtuosismi della linea e del colore, percezioni da cogliere come stringendo gli occhi la sera di fronte al traffico per farne un insieme di punti e linee che ci ridiano un senso al senso perduto. Pittura formale, lego di colori che costruiscono l’immagine che ogni spettatore può creare. Una composizione ricorda, come in assemblaggio di palette di colori, il Cristo deposto di Masaccio, quella angolatura dei piedi da vertigine, da verticalizzazione, ma magari l’ho vista soltanto io, l’ha vista solo la mia vista, la forma della mia mente. Un’altra opera sembra ridurre a solidi che s’incastrano come nel famoso videogame Tetris (altro elogio della forma che origina il contenuto) l’immagine di un bambino che entra letteralmente nello schermo non piatto di un televisore. Ma probabile anche questo l’abbia visto solo io, in fondo noi formiamo la forma, vediamo quello che percepiamo. È come se il contenuto si esteriorizzasse, se il cervello si mostrasse sottopelle a guisa d’un foruncolo, se la voce, pura forma, fosse anche nei capelli o sul dorso dei piedi.

 

A proposito di forma come spazio, nel suo intervento sul catalogo della Quadriennale il critico d’arte Stefano Chiodi parla, in riferimento a un volume di Edward Soja, Third space, di «un continuo processo di produzione di spazio, sempre aperto e inesauribile, un terrain vague situato al confine tra proprio e altrui»: un terzo spazio che somiglia proprio a questa incessante produzione (in)formale.

«Se torniamo ora a proporci la domanda: che ne è dell'arte? Che significa che l'arte rimanda oltre se stessa? - possiamo forse rispondere: l'arte non muore, ma, divenuta un auto-annientantesi nulla, sopravvive eternamente a se stessa. Illimitata, priva di contenuto, doppia nel suo principio, essa vaga nel nulla della terra aesthetica». Lo sostiene ne “L’uomo senza contenuto” il filosofo Giorgio Agamben, secondo il quale «La ricerca di un significato assoluto ha divorato ogni significato per lasciar sopravvivere soltanto dei segni, delle forme prive di senso. Ma, allora, il capolavoro sconosciuto non è, piuttosto, il capolavoro della Retorica? È il senso che ha cancellato il segno, o è il segno che ha abolito il senso? Ed ecco il Terrorista messo a confronto col paradosso del Terrore. Per uscire dal mondo evanescente delle forme, egli non ha altro mezzo che la forma stessa; e quanto più vuole cancellarla, tanto più deve concentrarsi su di essa per renderla permeabile all'indicibile che vuole esprimere». Il saggio di Agamben percorre questo confine tra contenuto e forma, tra prodotto e processo: «L'esperienza centrale della poiesis, la pro-duzione nella presenza, cede ora il posto alla considerazione del "come", cioè del processo attraverso il quale l'oggetto è stato prodotto. Per quel che concerne l'opera d'arte, ciò significa che l'accento viene spostato da quella che per i greci era l'essenza dell'opera, e, cioè, il fatto che in essa qualcosa venisse in essere dal non-essere, aprendo così lo spazio della verità (“a-letheia”) e edificando un mondo per l'abitazione dell'uomo sulla terra, all'operari dell'artista, cioè al genio creativo e alle particolari caratteristiche del processo arti stico in cui esso trova espressione».

 

Nel catalogo della mostra della Quadriennale d’arte “Fuori” c’è la memoria. C’è un riferimento ad un’esperienza artistica imprescindibile della Roma a ridosso del secondo conflitto mondiale: l’almanacco delle lettere e delle arti “Beltempo” di de Libero e Falqui. Il primo, soprattutto, poeta e formidabile svelatore della scuola romana di pittura e animatore della galleria “La Cometa” della Contessa Pecci Blunt entre deux guerres. In un volumetto per i “Quaderni di Piazza Navona” stampato a Roma nel 1978 Libero de Libero fotografa la “Roma fatta a scale”: «Le scale di Roma sono semplicemente tre e indicano all’uomo tre modi di salire al cielo: un modo medievale, la scala dell’Aracoeli; un modo rinascimentale, le scale del Campidoglio; un modo barocco, le scale della Trinità dei Monti. Come atto devoto, come atto eroico, come atto musicale». A queste tre scale potremmo aggiungere quelle di Palazzo delle Esposizioni perché oggi assumono un significato nuovo. Come testimoniano anche le ultime due foto che chiudono l’apertura del catalogo di “Fuori”, il Pontefice e il Presidente della Repubblica su scale vuote che danno su piazze vuote. La scala di Palazzo delle Esposizioni è un modo elettrico di salire, un atto mitico: salendole è difficile abbracciare una visione d’insieme, è un’ascesa piatta eppure veloce, orizzontale, una progressione di cui non ci siamo accorti ma da cui siamo avvolti. Come questo iper hype contemporaneo. Dobbiamo smontare questa montatura, come togliendo degli occhiali o guardando una facciata senza l’impalcatura. È nato prima il nuovo o il prima?

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‘Fuori’, La Quadriennale d’arte di Roma
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Più vicino agli dei | Enzo Cucchi

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Questo ex voto qualcuno lo ha fatto, una mano di uomo lo ha tracciato, ed è arrivato fino a noi, a porci le sue domande. È arrivato su una tavola di grandi dimensioni, olio su tela, ha attraversato più di tre decenni, è arrivato tutto blu emerso dal nero, trafitto e gocciolante di fiammelle e argentei bagliori. Malgrado la nostra incredulità, si sente chiaro il boato che lo ha germinato, assumendo la forma di mandorla di luce spiccata dal cuore. Cosa ci mostra? Una “selva oscura”, una notte in cui ardono decine di fiammelle disposte a corona, e al centro, sospesa su un monte, una fortezza dalle mura orlate di cuspidi. Oppure è l’ombra di una città, con le sue case e le sue torri svettanti, ora dormiente, o abbandonata, o stregata. La selva però potrebbe anche essere un cielo, e quelle onde bianche nuvole che segnano il manto notturno, e le vampate stelle vorticanti. Un tuono ha fatto scaturire dal suo fragore questa mandorla, sospesa chissà dove, e ha guidato la mano del pittore.

 

Si impone e si sottrae alla vista, e per questo ci seduce, ci trascina all’inseguimento del senso sepolto, ci chiede il perché di quel risuonare così intenso dentro di noi. Il titolo dell’opera, Più vicino agli dei, potrebbe far pensare a un orizzonte pagano: ma qui non c’è nessun Olimpo, nessuna traccia di capricciose divinità antropomorfe. C’è tremore nel tratto, e il tremore è TREMENDUM, è tutto ciò che è celato nel mistero. Per questo lo sentiamo nostro, perché appartiene al nostro essere fragili creature dal destino incerto. E se fosse invece un exvoto di purificazione? Un inno per la città paralizzata, dove gli abitanti si sono trasformati in lingue di fuoco che seguono il ritmo sconosciuto di una danza vorticosa. Proviamo a entrare in questo diaspro, e cerchiamo di non ferirci: procediamo in ginocchio, non ci è concessa altra postura. A un certo punto sarà necessario trasformare il faticoso andare in un salto, un volo della mente. A questo inno, forse, non si accede che così, in una forma di invasamento. Qui non c’è ordinamento umano che possa convincerci di aver trovato la formula infallibile, “organizzata” e “rassicurante”.

 

Qui la sicumera non funziona, e proprio il non riuscire a risolvere l’enigma, è il segno che l’enigma stesso è a fondamento della nostra vita. E allora non rimane che confidare nei colori di questa rivelazione, il blu che fa da manto, il bianco che è la polvere diafana del suono da cui si è originato il tutto, il rosso danzante, e il nero del perdono. L’enigma continua a interrogarci, ci osserva mentre lo osserviamo. “Venga il tuo regno?”: dice così? Che forse tutti noi possiamo affondare e risalire? E che le tenebre non avranno la meglio, perché la luce di quelle fiammelle è invincibile? Ci viene in soccorso la discesa di Dante nel “cieco mondo” del IV canto dell’Inferno: il poeta si trova in una “valle d’abisso”, talmente “oscura e nebulosa” che nonostante il suo tentativo di vedere, il suo “ficcar lo viso a fondo”, non vede nulla, come in una notte antica senza luci elettriche, dove le nuvole coprono ogni bagliore di luna e di astri, dove si è tutti ciechi. Poi, a un tratto, appare “un foco/ch’emisperio di tenebre vincea”.

 

I dantisti si sono accaniti per secoli, a tentare di spiegare la forma immaginata da Dante. L’ex voto che abbiamo davanti agli occhi sembra restituircela con limpidezza: anche in fondo agli inferi, la luce vince. La luce è sempre nuova, nonostante il peso della tenebra che c’è semprestata.  Nel fondo della prigione infernale, la luce è un barbaglio salvifico, e circonda il buio con la sua ghirlanda di fiamme rotanti. Dante ha forse già in mente la danza del Paradiso, il sentimento di un grande Padre della Chiesa, Origene, quando immagina che “i beati resusciteranno a forma di sfera ed entreranno rotando nell’eternità.” 

  

Legge Ermanna Montanari del Teatro delle Albe.

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Più vicino agli dei | Enzo Cucchi

Caspar David Friedrich | Claudio Parmiggiani

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L’opera di Parmiggiani ci permette di distinguere due forme del sentimento religioso. La prima forma definisce il sentimento religioso come una fuga dal mondo, aspirazione a un mondo al di là del mondo, a un mondo trascendente il mondo, più vero del mondo in cui noi viviamo, a un “mondo dietro al mondo”, come direbbe Nietzsche. Esiste, cioè, una forma del sentimento religioso che ha come suo presupposto la miseria di questo mondo, la povertà di mondo di questo mondo e che manifesterebbe l’aspirazione a un mondo non corrotto dal tempo, eterno, beato, a un mondo, paradossalmente, libero dal mondo; un mondo che non conosce più la morte, il tempo, la vita, il divenire; un mondo, dunque, al di là di questo mondo. In questo senso la prima forma del sentimento religioso concepisce la spiritualità come un rifugio trascendente rispetto all’atrocità dell’immanenza del mondo. Da questa prima forma del sentimento religioso deriva un certo modo di intendere la spiritualità nell’arte. Si pensi, per esempio alla stagione storica dell’astrattismo come viene codificata teoricamente in Lo spirituale nell’arte di Kandinsky: l’opera d’arte si realizza come emancipazione dalle strettoie della materia, come smaterializzazione spiritualistica della materia. 

 

Ma esiste una seconda declinazione del sentimento religioso che non ha affatto il suo presupposto nella povertà, nel deficit, nell’assenza di mondo di questo mondo che sarebbe un mondo falso rispetto al mondo vero, un mondo di ombre rispetto alla luce della verità eterna del mondo trascendente, al di là del mondo. Esiste una forma del sentimento religioso che non nega il mondo, che non è una fuga dal mondo poiché non ha come suo presupposto ontologico la povertà di questo mondo intaccato dal tempo, destinato alla corruzione e alla polvere. Questo secondo modo di intendere il sentimento religioso scaturisce dalla ricchezza e dallo splendore del mondo, dalla sua eccedenza che non ha la necessità di essere riscattata in un altro mondo. La trascendenza non viene esclusa o opposta all’immanenza, ma diventa una piega dell’immanenza. Si tratta di un’altra forma di spiritualità che non disgiunge idealisticamente la luce dalle ombre, l’al di qua dall’al di là, l’immanenza del mondo dalla trascendenza, ma che sa ritrovare l’una nell’altra.

 

Allora la trascendenza non è più “un mondo dietro al mondo”, ma accade solo nell’immanenza della presenza del mondo. Dal punto di vista teologico, è il grande tema cristiano dell’incarnazione, della kenosis, del Dio che si fa uomo. Dal punto di vista estetico è il grande tema romantico del sublime. L’esperienza del sacro in questo caso non accade sul presupposto di una liberazione dal mondo, ma coincide con l’evento stesso del mondo. Ed è precisamente questo l’evento che tutta l’opera di Parmiggiani glorifica: la trascendenza come piega dell’immanenza. Il numinoso è infatti, per il pittore, dappertutto. L’infinito, scrive, “è dentro una mano”. Non è rappresentato gnosticamente come l’al di là del mondo, ma accade solo nell’orizzonte finito di questo mondo. È, se si vuole, il francescanesimo fondamentale di Parmiggiani: pensare l’assoluto come incarnazione nella presenza immanente del mondo. La sua spiritualità non segue, dunque, la via della fuga dal mondo ma quella dell’incontro con l’eccedenza del mondo, con il suo splendore e la sua atrocità. 

 

Nella scultura titolata Caspar David Friederich, oltre a un omaggio a uno degli autori avvertiti più prossimi alla propria opera, viene ripresa con un grande effetto anche drammaturgico questa tensione che coniuga immanenza e trascendenza. Lo sfondo è quello “romantico” del viaggio, della navigazione lungo terre lontanissime – uno dei temi più ricorrenti del pittore tedesco – che viene però ripreso da Parmiggiani attraverso l’accentuazione originale di una presenza nera sospesa nell’aria e carica di mistero. Sarebbe però un errore leggere quest’opera evocando lo spirituale come innalzamento, aspirazione verso un altrove trascendente, separazione dal mondo. La barca è una presenza molto cara a Parmiggiani, non solo pittore ma anche scrittore; una sorta di impronta indelebile della vita dei fiumi che ha caratterizzato la sua infanzia nella pianura padana. Essa diviene qui cifra che eleva il mondo in quanto tale – nella sua radicale immanenza – alla dignità dell’enigma. Quello della vita e della morte innanzitutto. È il contrasto tra la barca come esperienza del viaggio della vita e il nero profondo come evocazione della nostra destinazione mortale.

 

Come nella pittura di David Friedrich, anche in Parmiggiani la pratica dell’arte costeggia insistentemente ciò che non possiamo sapere, il reale al centro del linguaggio, il limite della rappresentazione, l’assoluto della vita e della morte. È la radice romantica, se si vuole, della pittura del maestro italiano: il paesaggio del mondo – come ha mostrato a suo modo lo stesso David Friedrich – non è lo sfondo inerte di una trascendenza, il secondo piano insignificante di un primo piano infinito e disincarnato, ma è esso stesso il luogo dove la trascendenza accade. 

 

Legge Laura Redaelli del Teatro delle Albe.

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Caspar David Friedrich | Claudio Parmiggiani

Nero con Punti Rossi | Alberto Burri

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Da secoli, la parola “tela” è sinonimo di “quadro”, tanto è radicato nella storia dell’arte il suo uso come supporto di dipinti di formato vario, di diversa destinazione. Accade insomma che quello che non si vede – la base materiale – serva a dare un nome anche all’immagine che la ricopre. 

In Nero con punti rossi di Alberto Burri (1956), invece, la tela è il davanti e il dietro, il sopra e il sotto. Verso la fine del Seicento, il pittore fiammingo Cornelis Gysbrechts riprodusse alla perfezione proprio la parte posteriore di un quadro, in un’illusoria inversione. Ma qui, in Nero con punti rossi, le due tele – quella che vediamo e quella che solo intuiamo – sono reali. 

Da alcuni anni Burri aveva inserito nelle sue opere frammenti ricavati da sacchi di juta, senza nasconderne il logorìo, le macchie, le sfrangiature. Non era la prima volta che materiali della vita quotidiana venivano applicati direttamente a un quadro (lo aveva fatto Picasso, ad esempio, con un’impagliatura di sedia). Lo spazio della vita e lo spazio dell’arte sperimentavano così – attraverso quella che solo in apparenza era una trovata tecnica – uno scambio imprevisto: un crossing-over che innerva gran parte dell’arte del Novecento, fino alla contemporaneità.

 

Gli oggetti trascinano con sé un alone di forme passate, di gesti di altri uomini. Scegliendo la ruvida tela di juta, Burri apriva un’altra strada, perché nel sacco – un recipiente scomparso dal nostro orizzonte visivo – si intrecciavano ricordi distanti: la contrizione e la penitenza (“vestirsi di sacco” si diceva nel medioevo), ma anche la fatica del lavoro manuale: sollevare, trasportare, riempire e svuotare. Nelle stoffe disadorne di Nero con punti rossi c’è altro ancora.

Le piegature della tela dividono il quadro in due zone orizzontali, una sopra l’altra; in quella inferiore, la tela è stata tagliata cinque volte: aperture tondeggianti con un profilo ora netto, ora slabbrato. Tra due di esse, un foro profondo crea un vuoto nero e improvviso. Tutto è coperto da una vernice nerastra, che solo in alto a destra ha rifiutato di stendersi sulla tela, lasciandone scoperto la superficie grezza e il colore della fibra. Si trova qui un’incerta rappezzatura che tiene assieme due margini delle stoffe, e prosegue verso sinistra percorrendo il quadro come una faglia. Più in alto, sul confine tra la zona inferiore e quella superiore, Burri ha aperto una grande fenditura oblunga, dagli orli irregolari; un filo rossastro cerca di ricongiungere questi bordi, che pure non riescono a combaciare di nuovo, e lascia intravvedere il fondo del supporto, su cui sono impresse piccole macchie rosse. 

 

Le operazioni della piegatura, della cucitura e della colorazione lasciano l’eco della mano dell’artista, ma non c’è altra traccia di presenza vitale. Eppure, la grande lacerazione centrale e la sua provvisoria rammendatura orientano il nostro sguardo verso un corpo, umano o animale che sia. Già negli anni Cinquanta del Novecento, gli squarci e gli strappi inferti da Burri ai suoi Sacchi erano stati letti come metafore di abrasioni, di ferite aperte, ed erano stati collegati ai suoi studi di medicina (James Johnson Sweeney, allora direttore del Guggenheim di New York, aveva paragonato l’artista a un chirurgo). 

Ben prima di Burri, del resto, l’immagine del sacco era stata usata per descrivere la consunzione dei corpi, il loro afflosciarsi e cedere. Uno scrittore del tardo medioevo, meditando sulla fugacità dell’esistere, aveva scritto che “siamo orditi e tessuti e tagliati come fa il tessitore della tela”. 

 

Gli studiosi usano la parola “catàcresi” (che vuol dire “abuso”) per indicare la figura retorica con cui estendiamo il nostro esistere alle cose e diciamo “i piedi della montagna”, la “gamba della sedia”, il “labbro del vaso”. Ma è un abuso del tutto naturale, perché – tutti i giorni, e senza avvertirlo – guardiamo la realtà sotto la specie dei nostri corpi: cerchiamo di ritrovare la nostra immagine nelle forme che incontriamo nella realtà. Mantegna vide dei volti tra le nuvole di un suo dipinto, e Dürer ne scorse altri tra le rocce sopra Arco di Trento. In Nero con punti rossi osserviamo materie inerti, ma siamo quasi costretti a scorgervi cicatrici e graffi, traumi e rughe.

Ma l’artista non è un chirurgo. Scagliate sul quadro, le ferite non sanguinano, e si offrono a noi per una contemplazione da giusta distanza, occasione di riflessione e non di spavento: non è ciò che chiamiamo “opera d’arte”?   

 

Legge Roberto Magnani del Teatro delle Albe.

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Nero con Punti Rossi | Alberto Burri

The Farewell Painting | David Salle

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La scena ospita un dramma minuto. Una voce sussurra e noi rimaniamo in ascolto, in attesa di una rivelazione che non arriverà. Lo spazio è ripartito in un trittico, forma che dall’altare attraversa i secoli e arriva qui nuda, dissanguata, senza più traccia del sacro: due danzatori colti in un gesto coreografico, la riproduzione di un dipinto di Thomas Jones, A Wall in Naples,  del 1782 – dettaglio prelevato dalla carne pittorica di un paesaggista gallese inebriato dalla luce del Grand Tour –, i corpi degli stessi ballerini quasi solarizzati; piccole, piccolissime, come note a piè di pagina, le donne di una tribù africana, un appunto fotografico repentino che dice del corpo e di altro. 

 

Farewell, arrivederci. La pittura di David Salle è priva di malinconia, ma in questa tela, più che in altri capitoli della sua vicenda pittorica, s’insinua una corrente appena intiepidita da un afflato emotivo. La rêverie si dispiega: una porzione di superficie senape inquadra i due danzatori, infilzati da una lama di giallo che s’incunea nel fianco delle figure – l’uno tocca l’altra, le mani di lui le coprono le orecchie con un gesto che anticipa un’intera enciclopedia di oscuramenti che popoleranno le tele a venire; quelle di lei indirizzate alla propria bocca, gesto del pensiero e di rivolgimento a sé, mentre a sinistra, un viola-blu che costeggia la monocromia delinea i corpi impegnati nella danza e inabissa lo sguardo dello spettatore; incoronata da un dettaglio luminoso, la parte alta della tela possiede quel carattere consolatorio che è proprio del mimetismo pittorico, e sembra riaffermare per un istante la realtà, malgrado i fantasmi e i soggetti squadernati di una pittura crudele.

 

La lezione del Minimalismo è qui tradotta attraverso un rigore e una distanza che rendono impossibile l’immersione emotiva nell’opera. Nel recupero di una figurazione che solo in apparenza si appropria del flusso di immagini dei mass media, colui che guarda è mesmerizzato, costretto all’interno dello spazio di una pittura gelida e magnificata da un carattere di eloquenza. La tentazione formale della giustapposizione, la riproduzione, la mescolanza di materiale fotografico scattato e trovato nascondono trappole profonde da cui si levano punte acuminate: lo sguardo non trova punti di ristoro e si sposta nella composizione, spinto qua e là lungo linee di tensione. La scena è un teatro di assenze e la mancanza di principi gerarchici accresce la necessità di interrogare ciò che alberga negli spazi tra un soggetto e l’altro. Eppure, una ragnatela di relazioni si stende tra le immagini, consegnando lo spettatore a un sottile, pervasivo disagio.

 

Le stanze pittoriche di Salle, con i loro surrealismi, i concettualismi e ogni altro ordine e grado di tassidermia dell’arte preludono alla rinuncia al significato univoco, alla risposta che si cerca affannosamente saccheggiando la superficie del dipinto. La disponibilità del repertorio del visibile e la possibilità postmoderna di maneggiarlo spregiudicatamente hanno un esito fatale.

Le sue opere, come stazioni, sono monumenti all’elusività e gli anni ‘80 a cui The Farewell Painting appartiene sono l’inizio della caduta lunghissima che è ancora in essere, una fine che non smette di finire, dove il grado zero della narrazione anticipa e profetizza la superfetazione delle storie che impregna oggi, 2021 d.C., un mondo governato dal caos.

 

Legge: Roberto Magnani del Teatro delle Albe.

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The Farewell Painting | David Salle

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Agnès Geoffray (1973) è un’artista francese che lavora principalmente con la fotografia. La sua ricerca è in equilibrio tra realtà e finzione, e spesso origina da notizie angoscianti poco conosciute o trascurate. Le immagini di Geoffray spesso lasciano emergere un ‘doppio’ visivo, in cui il perturbante si insinua tra forze distruttive addomesticate e quasi addormentate sulla scena. In un certo senso sono le associazioni visive innumerevoli in chi guarda a completare questi lavori, presentendo una intensità drammatica nel materiale, modellato in scena come pedine. Questa intensità è una corrente caotica che attraversa il confine sottile tra immaginazione e finzione; genera una variabile sinistra che, inafferrabile, produce un coinvolgente impatto visivo.

 

Agnès Geoffray, Night III, 2005 photograph, 22x30 cm © Agnès Geoffray.


Sara Benaglia e Mauro Zanchi: La serie fotografica Night (2007) è formata da immagini molto intense e ambigue, che suggeriscono associazioni oscure e orrorifiche. Fuori fuoco, immagini di occhi aperti nella notte, bambini soli e un’ambientazione gotica sono gli elementi attraverso cui hai costruito una tensione narrativa. Com’è nata questa serie? Quali sono i suoi riferimenti storico-artistici?

Agnès Geoffray: Night è una delle prime serie fotografiche attraverso le quali mi interrogavo sulle paure arcaiche, che fossero ispirate da racconti, fatti di cronaca, fatti storici o paure più intime, quasi inconsce. Gli scatti sono stati realizzati nella totale oscurità, con un dispositivo a infrarossi. Un alone circonda i soggetti e immerge i contorni nell'oscurità, come una strana apparizione, e con l'effetto degli occhi luminescenti. Sembra che gli esseri siano illuminati dall'interno. La stranezza di queste immagini è risultata così forte, così pervasiva, che ho fatto una serie di fotografie, da scene molto semplici, quasi ordinarie, ma che, attraverso questo filtro, hanno preso una dimensione eminentemente drammatica. Le fotografie sono piccole, sembrano imperfette, un po' sfocate, come immagini persistenti, immagini mentali. Quando ho creato la serie, non avevo un particolare riferimento contemporaneo. Sono venuta a conoscenza della serie Nacht di Thomas Ruff solo molto più tardi. All'epoca ero per lo più imbevuta di fotografie di spiriti, con quegli aloni di luce e figure spettrali che avvolgono i soggetti fotografati. 

 

Agnès Geoffray, Les suspendus, 2010 Installation view, Frac Alsace, Sélestat, F. © Agnès Geoffray.


In Les Suspendus (2010) assembli e associ immagini tue e preesistenti, ricombinando le aspettative visive e testuali circa sospensione e ascensione. Il processo interpretativo nel tuo lavoro abbatte i confini della fotografia classica e mette in discussione le attese riguardo all’autorialità. Che peso ha il testo nella tua ricerca e in che modo hai lavorato su te stessa come autrice rispetto a ciò che la fotografia poteva aspettarsi da te?

Mi piace creare immagini, ma sono interessata anche a ripensarle. Sono quindi costantemente in bilico tra le mie idee di messa in scena e le immagini preesistenti. Ciò che permea il mio lavoro è la questione del potere evocativo delle immagini. Un'immagine è sempre prigioniera di altre immagini. Penso ad esse come a prigionieri, con un potere proprio ma che riecheggia sempre altri riferimenti. Ed è proprio così che mi interessano, attraverso la loro instabilità e il loro significato fugace. Le immagini circolano malgrado loro stesse. Mi piace ripensare la circolazione delle immagini, tra i loro diversi status: come immagini, soggetti, immagini oggetto e immagini mentali. 

 

Agnès Geoffray, Libération, 2011 dyptich, photographs, 22x34 cm © Agnès Geoffray.

 

Agnès Geoffray, Libération, 2011 dyptich, photographs, 22x34 cm © Agnès Geoffray.

 

Nel 2017 avevamo visto a Fotografia Europea la tua serie Incidental Gestures. Libération, in particolare, aveva colpito la nostra attenzione: in questa opera una donna trascinata da una folla di uomini è presentata in un dittico composto dalla medesima immagine con l’unica differenza che in una fotografia la donna è nuda, mentre nell’altra indossa un vestito corto estivo. In Sans titre (2012), una donna incurva la schiena richiamando alla mente Arch of Hysteria (1993) di Louise Bourgeois. E in Laura Nelson (2011) una donna nera impiccata a un albero viene presentata come se volasse, come i fantasmi degli antenati in Song of Salomon (1977) di Toni Morrison. Il femminismo ha influenzato la tua pratica? 

Direi che il femminismo ha influenzato il mio lavoro, di fatto o per difetto. Lo irradia senza affrontarlo veramente. Le figure femminili hanno accompagnato il mio lavoro e la mia ricerca, rivisito rappresentazioni anteriori, le sposto, le trasformo, a volte le trascendo. Per le tre figure femminili della serie Incidental Gestures, ho voluto curare e prestare attenzione a queste rappresentazioni vittimizzate (Libération, Laura Nelson), o rivisitare posture femminili, quasi iconiche e confinanti, come quella isterica (Sans titre). Ma sono tutte figure fugaci, trasformate in altre più ambivalenti, che si possono ripensare, lontane dalle rappresentazioni rinchiuse. 

 

Agnès Geoffray, Les Gisants, 2015 Installation with photographs on glass, silk paper, 13x18 cm, 100x220 cm © Agnès Geoffray.


La serie Sans Titre (2014) è composta da 13 fotografie presentate in otto cornici. In che modo e dove hai cercato queste immagini e come ti relazioni rispetto alla poetica della photo trouvée?

La serie Sans Titreè stata costruita intorno a questioni di montaggio e allestimento. Come convivono e dialogano due immagini? Come i sensi e le letture interferiscono, si alterano, si muovono e si trasformano a vicenda, per la loro semplice vicinanza? La serie si è costruita come un gioco, un'immagine tira l'altra, e ho scelto ognuna insieme al suo doppio, con cui avrebbe dialogato. Ma ogni fotografia scruta e interroga le molteplici possibilità intorno alla sospensione. Tutte provengono da fotografie trovate, alcune sono ritoccate, altre sono scannerizzate e ristampate, quindi possono essere tutte appuntate nello spazio della cornice, galleggiando in questo spazio definito. Le fotografie riacquistano così la loro capacità di essere oggetti. Le fotografie trovate mi toccano particolarmente nella loro capacità di oggetti, oggetti fotografici che hanno già vissuto, che sono graffiati, piegati, strappati, che portano una memoria spesso anonima e dimenticata. Mi piace riattivare queste immagini, ripensarle, reinventarle, spostarle in una nuova realtà. Sono immagini forti, do loro la stessa importanza che do alle mie creazioni. Non c'è una gerarchia tra queste immagini trovate e le mie immagini. Diventano in parte mie attraverso la loro manipolazione e trasformazione: attraverso l'atto del ritocco e attraverso il dialogo messo in scena con altre immagini.

 

Agnès Geoffray, Les Captives, 2020 vintage photograph, blown glass photo credit : Ludovic Combe.


Le associazioni narrative nel tuo lavoro sono cariche di suspence e danno un taglio drammatico alla tua opera. Se pensiamo per esempio a Flying Man (2015), che cos’è l’emozione nella rilettura del materiale d’archivio?

La questione della suspense ha ossessionato il mio lavoro per molto tempo. Preferisco ciò che accade prima o dopo l'atto, rispetto all'atto stesso – questo tempo di latenza all'interno delle immagini, che diventa uno spazio di proiezione per gli spettatori, un luogo dove possono reinventare, portare, spostare le mie immagini verso la loro propria storia. Questo tempo di sospensione sembra sempre tendere verso il tragico, eppure io vedo questa sospensione come un tempo in cui tutto è possibile, dove tutto può ancora svolgersi, dove la fatalità non è ancora avvenuta.

Il pezzo Flying Man implica esattamente questo. La trasformazione di un film del 1912 – raffigurante la caduta di un uomo che vola dalla cima della Torre Eiffel – in un carosello di 80 scivoli, estende e ritarda il tragico finale, ma implica anche un costante rinnovamento. Questo archivio cinematografico è così forte e violento che mettere in sequenza e rallentare le immagini permette allo spettatore di prendere le distanze da questa violenza, per riconsiderare tutta la bellezza di questa tragica utopia.

 

Agnès Geoffray, Métamorphoses II, 2015 photograph, 50x70 cm © Agnès Geoffray.


In Métamorphoses (2015) ritornano elementi costanti della tua ricerca: il gesto, la sospensione, l’assenza. Ma gli scatti da te realizzati si distinguono rispetto ad altre serie per la presenza di immagini nelle immagini. Quali assenze sono evocate? Perché hai scelto proprio questo titolo?

Mi piace credere che un'immagine non sia mai fissa, che agisca su di noi e che noi agiamo su di essa. Il titolo Métamorphose evoca questo. Tutti gli elementi di un'immagine la rendono instabile, proprio come i nostri occhi, che oscillano costantemente da un elemento all'altro. Siamo sempre catturati da un dettaglio, ci allontaniamo da esso e ci ritorniamo. Un'immagine trasmette sempre molte altre immagini, immagini subliminali, immagini mentali. L'assenza permette questo, permette di riattivare immagini dimenticate, sepolte, permette di riempire i vuoti.

 

Agnès Geoffray, Intervalle, 2019 Book, fine binding, 25x19 cm, 88 pages, 22 photographs on japanese paper, 7,5x5 cm © Agnès Geoffray.


In Intervalle (2018?) e nella tua opera in generale: che cos’è per te la magia?

Che domanda difficile. Penso che tutta l'arte sia una forma di finzione, navigando tra il fascino della menzogna e l'arte dell'illusione. Ma sempre più nel corso della mia ricerca ho associato la magia alla nozione di fuga – il potere di fuggire dalla realtà.

 

Agnès Geoffray, Les impassibles, 2018 photograph, 20x30 cm © Agnès Geoffray


Qual è la storia di Les Impassibles (2018)? Che linguaggio appartiene alle mani che hai fotografato?

Per molto tempo sono stata affascinata dalle rappresentazioni di mani – mani scolpite, disegnate, incise. Questo riecheggia come una ricorrenza nel mio lavoro: il corpo frammentato. Ma il potere della mano sta nel fatto che è uno dei limiti del nostro corpo, che, dopo la vista, ci permette di comprendere la realtà, attraverso il tatto così come il linguaggio. PerLes Impassibles, ho voluto esaminare varie categorie di immagini con le mani, ma dal punto di vista della costrizione. Mani legate, mani che tengono, mani che mostrano, mani segnate, mani che misurano, mani che agiscono. Mani che tracciano e lasciano tracce.

 

Agnès Geoffray, PLIURES, 2019 digital print on silk, 45x63 cm, Fonds de dotation Centre Pompidou "Accélérations", Neuflize OBC © Agnès Geoffray


Negli ultimi anni il modo in cui presenti le tue fotografie è sempre più installativo. Pensiamo al rigore di Contraintes (2019) o alla bellezza delle pieghe nella seta in Pliures (2019). Come è avvenuto questo cambiamento? Ci sono confini della fotografia che sono venuti meno per te e il tuo lavoro?

Sfido la questione dell'oggetto fotografico di cui sopra. Da queste fotografie anonime, piegate e strappate, sposto lo status di oggetto fotografico verso una forma più presente di materialità. Ma sia nei pezzi Contraintes, Pliures sia in Les Captives la vista è sempre ostacolata, impedita, filtrata – l'immagine rimane da ricomporre. Questi oggetti fotografici impegnano anche i nostri corpi: dobbiamo muoverci per aggiustare la nostra vista, a volte abbassandoci in una posizione di raccoglimento, come nel pezzo Les Gisants. Tutto il nostro corpo agisce di fronte alle immagini. A volte metto lo spettatore in una posizione ingannevole, dove la vista è troncata. Ma questo è perché credo profondamente nel potere d'azione dello spettatore e nella sua capacità di inventare immagini.

 

Agnès Geoffray, Contraintes, 2019 vintage photographs reprinted, tape © Agnès Geoffray.

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Salvatore Settis: Incursioni

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Se si vuole sapere che cosa è la storia della cultura (e si vuole anzi ripassare il concetto stesso di cultura), si deve leggere l’ultimo libro di Salvatore Settis: Incursioni. Arte contemporanea e tradizione (Feltrinelli) parla appunto di arte, ma si apre continuamente verso aree ora adiacenti, ora lontane da essa. C’è la fotografia, il cinema, c’è l’archeologia, c’è il teatro, c’è anche – come vedremo – la politica. Settis ha raccolto in questo libro una serie di saggi già apparsi in altre sedi negli ultimi anni, ma ha ripreso anche lavori inediti. Li ha rivisti e arricchiti, infine vi ha premesso una lunga introduzione che ha un impegnativo taglio teorico, e un assunto quanto mai chiaro: “il filo della tradizione non si è spezzato ma si è consolidato, travestendosi in nuove forme e modalità che chiedono di essere riconosciute e chiamate per nome”. In altre parole, siamo abituati all’idea che l’arte contemporanea abbia spazzato via il passato, abbia reciso ogni legame con la storia e con la storia dell’arte ma – secondo Settis – non è così: il “paradigma della frattura” va insomma rimesso in discussione. L’irrompere delle avanguardie nel primo Novecento, le sperimentazioni della seconda metà del secolo e gli stessi sviluppi artistici contemporanei avrebbero lacerato solo in apparenza i legami con l’arte e con la cultura del passato. 

Seguendo questo filo conduttore, Settis si sofferma su singoli artisti (Tullio Pericoli, Mimmo Jodice, Grisha Bruskin, Giuseppe Penone, Bill Viola), ma affronta anche temi specifici (il motivo della testa tagliata come autoritratto del pittore, quello del “braccio della morte”); uno dei testi è dedicato a un film (Riten di Bergman), un altro a un quadro di pochi anni fa (The Visible World di Dana Schutz).

 

The Greeting di Bill Viola e la Visitazione di Pontormo (Bill Viola. Rinascimento elettronico, Palazzo Strozzi, 2017).


L’insieme è quanto mai mosso e variegato, tanto che possiamo incontrare Dürer e Duchamp, Mantegna e Jeff Koons, Bernini e August Sander, e tanti altri; per non parlare del repertorio di immagini, che compongono un impressionante, vivacissimo caleidoscopio. Ricorrono argomenti che Settis ha studiato nella sua ormai lunga carriera: l’archeologia e la cultura materiale, la Colonna Traiana e l’arte classica, la gestualità nelle arti figurative, l’arte rinascimentale e Giorgione, i meccanismi della narrazione per immagini e, naturalmente, Warburg. 

È sotto questo nume tutelare che lo studioso colloca il proprio itinerario. Nell’introduzione si riprende infatti la storia della ricezione di Warburg dal secondo Novecento a oggi, e si mettono in evidenza quegli aspetti dell’opera dello studioso amburghese “che promettono nuovi sviluppi nel nostro tempo”. Eccoli: “la storia dell’arte come comparazione antropologica, la mescolanza di ‘alto’ e ‘basso’ nella storia delle immagini, e infine lo scambio (nei due sensi) fra il lavoro degli artisti e quello degli storici dell’arte.” Insomma, la persistente attualità di Warburg. Settis ne rilegge l’intera ricerca (e la biografia), soffermandosi sul progetto più ambizioso e purtroppo incompleto: l’atlante delle immagini intitolato a Mnemosyne, per i Greci la madre delle Muse, la personificazione della memoria. 

Alla fine, la figura dello studioso tedesco acquista una fisionomia se possibile ancora più rilevante di quella assegnatagli dagli studi degli ultimi decenni: Warburg tracciò “un profilo autoriflessivo dello studioso di storia dell’arte (intesa come storia della cultura). Rispettando le regole del gioco accademico (la filologia), egli offriva il proprio censimento delle emozioni, dei gesti e delle ragioni dello stile come strumento efficace (e se stesso come interprete e mediatore) per diagnosticare la crisi che attanaglia(va) l’Europa e il mondo. Giocava sul piano della filologia, ma anche dell’intuizione diagnostica, fondata sull’analisi della memoria culturale ma anche di sé”.

 

 

Si può applicare la filologia al contemporaneo? Settis lo dimostra con grande maestria in ciascuno dei diversi saggi, ma soprattutto in quello dedicato a Triumphs and Laments di William Kentridge, il lungo fregio realizzato sul muraglione di contenimento del Tevere, a Roma. Lo studioso analizza T&L allo stesso modo con cui gli archeologi hanno indagato (e indagano anche oggi) le sculture di un fregio classico scena per scena, mettiamo, quelli del Partenone o della Colonna Traiana. Settis ci offre qui una minuziosa analisi di una parte delle 51 immagini che compongono il fregio di Kentridge, degli schemi, delle relative fonti, delle combinazioni, delle sequenze narrative, dei voluti anacronismi, dei nessi narrativi; un “repertorio iconografico che usa, dall’arco di Tito alle foto di migranti a Lampedusa, da opere di Michelangelo e Bernini ad affreschi poco noti, da stampe popolari a manoscritti medievali, a fotogrammi da Roma città aperta o da La dolce vita”. Possiamo così osservare come la monumentalità del fregio – esplicito rimando alle forme dell’arte imperiale romana – conviva con la fragilità delle tecniche volutamente adottate; come la severità dei modelli antichi dialoghi con la giocosità di alcuni rinvii al nostro presente quotidiano (la caffettiera Bialetti in mano a una delle figure). Una leggerezza che dura poco, perché i lamenti vanno a conficcarsi tra i trionfi, e momenti drammatici della storia italiana recente – la morte di Pasolini, il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro ... – si accostano alla Santa Teresa di Bernini e la sconfitta dei barbari da parte degli eserciti romani: un montaggio che colora di antico il dolore presente e ci fa sentire attuale quello di millenni fa.

La storia recente riappare, anche se in tutt’altra veste, nel saggio su Riten di Ingmar Bergman, (1968); il film, secondo Settis, ha al centro il dio più sfuggente e inquietante del pantheon greco, Dioniso; la stessa organizzazione dell’opera sarebbe basata sul fregio della Villa dei Misteri a Pompei (un affresco peraltro di difficile interpretazione). 

 

 

Il film, spiega lo studioso, va inquadrato nell’“improvviso insorgere (o risorgere) di un’ondata di dionisismo nella cultura del Novecento”, un’ondata che sembra raggiungere il suo apice proprio negli anni Sessanta, come dimostra il rinnovato successo sulle scene di allora del teatro greco, in particolare delle Baccanti di Euripide, ma anche l’uscita di Teorema di Pasolini (anch’esso del 1968). Il fenomeno andò oltre cinema e teatro, poiché in quegli anni “il ‘ritorno di Dioniso’ fu scelta autenticamente trasgressiva, dello stesso segno dei movimenti hippie, dell’uso di allucinogeni, della liberazione sessuale e dei movimenti femministi, degli happenings all’insegna di un teatro della crudeltà, della fama di Artaud e di Bataille (e di Sade)”.

 

Dal documentario Guttuso e ... il “Marat morto” di David (1972), dalla serie “Io e...” a cura di Anna Zanoli.


Anni di poco successivi sono quelli al centro di un altro saggio, Arte e delitto. Guttuso sulla morte di Neruda. Settis riflette qui su una delle Pathosformeln (formule del pathos) che punteggiano l’atlante Mnemosyne, il gesto del morente il cui braccio cade verso terra, il “braccio della morte”; è l’occasione per osservarne una delle più celebri apparizioni in epoca moderna, la Morte di Marat di Jacques-Louis David (1793) e per notare il forte interesse dimostrato per questo dipinto (e lo schema antico che lo innerva) da Renato Guttuso. Il pittore siciliano si è confrontato almeno sette volte con il quadro che celebrava il martire della Rivoluzione francese: una volta ne ha riusato l’idea per raffigurare Don Rodrigo morente (1960); due anni dopo, un disegno riprende il dipinto del 1793, e così fanno due tele (A Marat, a David, Dal Marat di David). Nel 1973, l’anno del golpe in Cile, Guttuso celebra la morte di Pablo Neruda, avvenuta a pochi giorni di distanza dalla presa del potere da parte di Pinochet, con un disegno che è al centro del saggio di Settis; lo studioso dimostra come il pittore abbia adattato, in nome dell’amicizia che lo legava al poeta, e della comune militanza comunista, la formula antica del “braccio della morte” proprio nella versione del Marat di David. Nel 1983, infine, Guttuso ripropone il Marat in altre due tele (Il lenzuolo di Marat, Liberté Marat David), in entrambi i casi con la presenza – seppure in atteggiamenti diversi – di Charlotte Corday, l’assassina, e di una personificazione della Libertà prelevata, per così dire, dal celebre quadro di Delacroix.

Obbedendo all’insegnamento di Warburg (tener conto dell’“alto” come del “basso”), Settis insegue anche le successive riprese del Marat di David: una rock band lo adotta per una copertina (2008); nello stesso anno Vik Muniz sostituisce al volto del capo rivoluzionario quello di un cercatore di spazzatura nell’enorme discarica di Rio de Janeiro, che diviene a sua volta sfondo della scena (Marat [Sebastião] Picture of Garbage); nel 2013, invece, Robert Wilson lo usa per un video con Lady Gaga come protagonista.

 

 


Quest’ultimo caso viene presentato da Settis come “estetizzazione pop del quadro di David”, un episodio in cui l’antica formula iconografica viene “re-inscenata come una scatola vuota”; è l’occasione per ricordare anche “un precedente ... di marca surrealista”, il quadro in cui Félix Labisse immagina che nella tinozza non ci sia Marat, ma l’assassina stessa. È a questo punto che Settis cita anche il violentissimo attacco con cui, nel 1954, fu proprio Guttuso a prendersela con Labisse, “il pornografo ... autore di una glorificazione dell’assassina di Marat, Charlotte Corday, collocata nuda in una bagnarola slabbrata con il grembo ingombro di pesci sfuggenti e circonfusa di un serto di fiori fallici». 

 

Verrebbe da chiedersi: Guttuso se la prende con Labisse semplicemente perché il quadro gli sembrava brutto, oppure perché il pittore francese si prendeva gioco in maniera troppo irriverente di un episodio della Rivoluzione? C’è modo e modo di dialogare con le opere del passato, ma non è per niente facile definire i criteri con cui giudichiamo gli esiti di questo colloquio a distanza. 

Torniamo a Robert Wilson e Lady Gaga: siamo sicuri che si tratti solo di una “scatola vuota”? La protagonista ripete per una decina di minuti la stessa serie di parole e si conclude con un breve testo che, a dire dei produttori (Dissident Industries), deriverebbe da Sade, come del resto la sequenza ad libitum. Ma consideriamo anche la possibilità che le parole della cantante e attrice non significhino proprio nulla, e siano solo una affabulazione priva di senso: se la scatola è vuota, l’opera si riduce comunque a una scadente “estetizzazione”?

Nello stesso tempo, infatti, ci si può chiedere come mai la ripresa di David da parte di Robert Wilson sia una “estetizzazione” e quella di Pontormo da parte di Bill Viola non lo sia. È forse il circuito in cui l’opera viene immessa a fare la differenza e a determinarne senso e valore? Potremmo porre lo stesso problema anche in altro modo: la qualità artistica (l’“alto” e il “basso”) dipende – per così dire – dai contenuti della scatola? Ci sono complicatissime allegorie medioevali o elaborate caricature moderne che sollecitano percorsi culturali (e possibili contributi scientifici) molto più ampi di quelli suggeriti da una Madonna di Raffaello. 

Il fatto è che, anche se si affrontano le opere d’arte attraverso la strada della storia della cultura, prima o poi il problema della qualità artistica si ripresenta, e allora che fare? Troppo facile scagliare l’accusa di estetismo, come – dalla parte opposta – quella di intellettualismo. 

Il rischio, insomma, è che il valore dell’opera e la sua stessa ragion d’essere provengano dall’esterno, non anche dal corpo dell’opera stessa, che finisce per apparire solo come pre-testo, occasione per un discorso sull’arte che – alla fine – può anche farne a meno. (Quanto a me, per quello che conta, preferisco – pur senza entusiasmarmi troppo – il video di Wilson ai pesanti e stanchi Marat di Guttuso).

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Diario di un tempo sospeso

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Quale traccia lascia un ricordo?” si è domandata Beatrice Pediconi (Roma, 1972). E da questo interrogativo ha preso le mosse per i suoi recenti lavori, ora in mostra nella Galleria z2o | Sara Zanin. Domanda elaborata dopo un’importante perdita, che è stata la spinta a sperimentare, provare, forzare, ancora e ulteriormente, la propria espressione artistica. Che, sin dalle primissime creazioni, ha immediatamente attraversato discipline differenti. Una sperimentazione, quella di Beatrice Pediconi, che la pone nella zona di confine tra un linguaggio e l’altro. Area liminale che le permette di muoversi liberamente pure tra media diversi. Sfuggendo, in questo modo, dalle strette categorizzazioni che la vedono, infatti, variabilmente definita e altrettanto mutevolmente accolta addirittura in mostre di sola fotografia. In questa no man’sland Beatrice Pediconi ha realizzato la serie che rappresenta l’inizio di una nuova fase, un’ulteriore evoluzione di quanto finora realizzato. Seppur qualche piccolo cenno è stato esposto a New York, dove vive ormai da molti anni, tuttavia è proprio a Roma, nella sua città natale, che ha voluto presentare il corpus di lavori Nude, a cura di Cecilia Canziani. Nella costante della linea, del segno, di nuovo l’artista ci pone di fronte a qualcosa che non è come appare.

 

E, di nuovo, nella coerenza della sua prassi e della sua ricerca, fondamentalmente basata sulla decostruzione del media individuato e indagato, ci mette davanti a un racconto intimo, personale, fatto di emozioni, di sguardi, di quesiti. Come per le precedenti mostre (Dimensioni Variabili del 2017 e Red del 2012), anche il titolo è qualcosa da manipolare, modificare, cambiare. Nel 2012 dall’iniziale Untitled approdò a Red, creando altresì uno spiazzante cortocircuito visivo, dal momento che la tinta predominante dei lavori era il giallo. E anche nel 2017 da Untitled giunse a Dimensioni Variabili, dove espose delle opere realizzate con tutte le tecniche da lei esplorate, dalla pittura alla fotografia, al video e all’installazione, attestando, in maniera inconfutabile, la sua pratica interdisciplinare che sin dagli inizi la contraddistingue. Un’interdisciplinarità che in 9’/Unlimited del 2013 da Collezioni Maramotti, ha dimostrato di saper padroneggiare con assoluta disinvoltura, attraverso una videoinstallazione ambientale immersiva di notevoli dimensioni, che avvolgeva il visitatore in una calda atmosfera leggera e ovattata. Allora, ad essere decostruita fu la pittura, il cui tratto, non più rigorosamente steso su un supporto rigido, era (illusoriamente) lasciato libero su una superficie in movimento e in balia dell’acqua stessa, che ne determinava forme, scie, grazie, evoluzioni.

 

Beatrice Pediconi, Installation view, ph Giorgio Benni.


In realtà, ogni “lancio” di colore (effettuato con pennelli, spatole, siringhe) era preceduto da un’accurata ricerca dei materiali (tempera nera o bianca, olii, pigmenti di argento, di bronzo e tante altre sostanze), lungamente studiati e calibrati in base alla densità del fluido colorato e del liquido cristallino che doveva accoglierli. Fotografie e video ogni volta registravano la mutevolezza della “pittura nell’acqua”, l’attimo della fulminea e transitoria visione. E all’acqua era affidata l’attività di dare vita e essenza non soltanto all’idea del movimento, ma anche al concetto del divenire e dell’imprevisto. Stavolta, con Untitled Nude, è la fotografia stessa ad essere esaminata, indagata, decostruita, sondata fino alle viscere, nella sua valenza di tecnica, di medium e di immagine. Riprendendo il suo vecchio amore per le polaroid (che l’aneddotistica vuole creata su impulso del figlio dell’inventore Edwin H. Land che chiese al padre perché non potesse vedere subito la foto scattata), adoperate dall’artista anche per documentare le evoluzioni della propria pittura mobile e mutante, l’emulsione delle fotografie istantanee diventa medium per i suoi lievi e sinuosi segni. Mantenendo fissi alcuni elementi, quale l’acqua (elemento primario e simbolo di vita e rigenerazione, evocativo del liquido amniotico), e alcune modalità, quale l’azione fisica, ha dato corpo a un inedito “processo di sviluppo”.

 

Beatrice Pediconi, Diario di un tempo sospeso, 2020.


Non più in una camera oscura, con vaschette e liquidi rivelatori e fissaggio dell’immagine latente su carta sensibile, ugualmente ha “sviluppato” dei segni. Anziché carta sensibile, si è servita di fogli di carta Arches da acquerello cotone 100% da 365 gr da lei stessa ritagliati a mano; al posto delle vaschette, ha impiegato una vasca e, invece dei liquidi rilevatori e fissaggio, ha usato taniche e taniche di acqua distillata per catturare le immagini-segno. Facendo propria una tecnica variamente adottata da John Reuter, Sergio Tornaghi, Peggy Hartzel e Anna Tomczak, Beatrice Pediconi, anche in questo caso, ha dato una personale interpretazione al procedimento dell’emulsion lift. Sostanzialmente consiste nel distacco dell’emulsione esclusivamente delle fotografie istantanee, attraverso la quale si separano gli strati della pellicola autosviluppante, per riposizionarli su un cartoncino e ottenere così degli effetti artistici. Ma, anziché mettere in atto una trasposizione tal quale dell’immagine prelevata, Beatrice Pediconi, interessata ai momenti di transizione, al passaggio da uno stato a un altro, con la stessa gestualità dello sviluppo manuale delle fotografie, riduce lo strato dell’emulsione a una linea. E mediante movimenti flessuosi e ondulatori, variamente la dispone sul foglio di carta.

 

Una linea, un segno, un’esile traccia, un’impronta che leggera si libra nel foglio, a volte pressoché impercettibile, che però occupa una decisa posizione nell’ampia distesa bianca della carta e assume una propria definizione filiforme, peculiare nella sua unicità. Un segno intorno al quale è lasciato un ampio vuoto o un ampio respiro. Emulsioni prelevate da polaroid di precedenti lavori che tramuta in qualcos’altro, di inedito, nella forma quanto nelle soluzioni espressive. Impossibile non registrare l’ossimoro esistente tra la restituzione visiva di questa serie, tutta impostata sull’apparente leggerezza e ariosità, e la sua causa generatrice, strettamente correlata a un lutto, a un dolore, a un’assenza. Ogni elemento è investito, così, di nuove e ulteriori valenze. L'assenza e il degrado della memoria, come l’oblio, sono concretizzati col grande foglio bianco; l’azione di separazione accenna al distacco personale; la linea è la traccia di una storia, di un’esistenza, di un passaggio. Invero le linee, osservate da una distanza ravvicinata, perdono la loro assoluta astrazione perché racchiudono, al loro interno, dei piccoli universi, minuscoli elementi di significato compiuto quale un lampione o un pupazzo, evocazione di una situazione, di un momento. 

 

Beatrice Pediconi, Nude, Installation view, First room, ph Giorgio Benni.


Il tema del passaggio tra distruzione e creazione, che riflette la condizione transitoria dell’essere umano, centrale nella ricerca di Beatrice Pediconi, ha acquistato un nuovo senso nei mesi del lockdown, mesi che, improvvisamente, come tutti, l’hanno relegata nelle mura domestiche. Ma, trovandosi a Roma, quelle non erano le mura familiari della sua casa, e la pandemia ha maggiormente accentuato la valenza del concetto della precarietà dell’essere umano. Da tali premesse è nato “Diario di un tempo sospeso”, composto da 43 emulsioni. Seppur non è cronologicamente il primo lavoro della serie in mostra, per il significato e il valore assunti, ancor più per la pandemia, per essere il “recupero di qualcosa che faceva parte del mio passato e trasformato”, la memoria di qualcosa, è quello che accoglie il visitatore al suo ingresso nella galleria. 43 pagine, quanti sono stati i giorni di chiusura totale. 43 giorni di pensieri, angosce, riflessioni, domande. Anche questa è un’ulteriore costante dell’artista: la creazione di un diario (già con Something Alien, 2016), ogni volta in forme diverse, ma che, comunque, attestano una storia, uno scorrere del tempo, un fissare un momento.

 

Sara Zanin e Beatrice Pediconi, Nude, Installation view, Third room, ph Giorgio Benni.


Nelle altre due sale della galleria si dispiegano gli altri lavori, di diverse dimensioni (ognuna con un dispendio di energie e sforzo notevole), con o senza cornice, tra cui anche quello che ha dato avvio a questa nuova serie che, seppur nata da un momento triste e difficile, riesce a mantenere e trasmettere un senso di leggerezza e serenità, scrollandosi di qualsiasi residuo di malinconia. E di contro alla domanda iniziale che si è posta Beatrice Pediconi che è all’origine di questi lavori, davanti al risultato finale non possiamo che domandarci: è fotografia?

 

Beatrice Pediconi – Nude, a cura di Cecilia Canziani, dal 5 febbraio al 15 aprile 2021, z2o Gallery | Sara Zanin, via della Vetrina 21 - Roma

orari: lunedì - sabato 13-19 (o su appuntamento) nel rispetto delle vigenti norme anti covid

info: t. 06-70452261 - www.z2ogalleria.it - info@z2ogalleria.it

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John Hilliard: fotografia aniconica

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Che cosa può cogliere – e cosa fa – la fotografia? Se potessimo guardare un’immagine oltre il campo visivo riportato in una fotografia cambierebbe la nostra idea di ciò che è rappresentato? Come sono costruite le immagini fotografiche? Sono queste alcune delle domande cruciali che si è posto l’artista John Hilliard (1945, Lancaster) agli albori della sua carriera. Lo status e l’affidabilità delle fotografie come rappresentazione sono il focus progettuale dell’autore o ci si può spingere oltre? Le componenti essenziali della fotografia – il tempo, la luce e il movimento – nelle sue opere sono presentati attraverso un’indagine tanto analitica quanto iconica che porta gli oggetti d’analisi a essere i soggetti stessi della fotografia. Negli anni '70, ha prodotto pezzi modulari che usavano la velocità dell'otturatore e la dimensione del diaframma e nel 1975-1976 ha lavorato con la messa a fuoco differenziale. Poi si è interessato alla differenza di densità nella pellicola in bianco e nero. L’uso della fotografia allo scopo di costruire un qualche tipo di somiglianza è qui fortemente messo in crisi. Piuttosto il lavoro metodico di Hilliard è un elogio delle qualità specifiche del mezzo fotografico: una delle sue opere più riuscite consiste proprio in una macchina fotografica che registra la sua stessa condizione (Camera Recording Its Own Condition, 1971).

 

La posizione di questo autore è ambivalente: da un lato c’è il problema dell'immagine, ma dall’altro essa è anche qualcosa di molto seducente. In alcune sue opere la seduzione è stata contrastata attraverso l’astrazione, "zone evacuate" in cui la registrazione fotografica è interrotta dando allo spettatore l'illusione di entrare nello spazio puro dell'immagine. Ma si aprono qui anche parentesi verso altri mezzi, pittura e cinema soprattutto. Nel 1975, in Depression /Jealosy /Aggression, Hilliard indaga le convenzioni del fotogramma cinematografico impiegato però come se fosse pensato alla stessa stregua delle immagini da fotoromanzo. L’inquadratura della medesima scena, con tre soluzioni differenti dovute a diversi punti di fuoco tra primo e secondo piano e sfondo, suggerisce tre possibili letture narrative. Partendo da aspetti presi in considerazione dal cinema strutturalista dei tardi anni Sessanta, ovvero con la convinzione che la macchina da presa o quella fotografica potesse solo apparentemente fungere da strumento neutro, comincia a indagare il processo mediante il quale il fruitore percepisce un’immagine come risultato di un apparato tecnico. E l’indagine prosegue da oltre quarant’anni, con varie declinazioni e passaggi da un approccio analitico a uno stile più espressionista, in termini di colore, con porzioni monocrome, prelevate da dipinti o da immagini figurative per sondare anche la presenza dell’aniconismo, preparato pure ad accogliere aspetti non necessari, errori, irruzioni del caso, altre aperture del possibile.

 

Mauro Zanchi e Sara Benaglia:  In Cause of Death? (1974) vi sono quattro tagli della stessa fotografia, che ha come soggetto un corpo coperto da un lenzuolo funebre. Lo stesso corpo fotografato viene proposto con quattro titoli diversi: “Drowned” (Annegato), “Fell” (Precipitato), “Crushed” (Investito), “Burnt” (Bruciato). Riveli così la dipendenza di un’immagine da un testo. Cosa emerge dal rapporto tra i due linguaggi paralleli dell’immagine e della parola?

John Hilliard:È molto comune incontrare una fotografia accompagnata da qualche tipo di testo. Anche una singola parola ha la capacità di influenzare la nostra interpretazione dell'immagine, e in questo caso ho voluto esaminare gli effetti paralleli sia del ritaglio dell'immagine sia dell’accostamento di versioni diversamente modificate di una medesima fotografia in combinazione con parole diverse. Le parole stesse e le direzioni dei ritagli si riferiscono a un ideale platonico di terra, aria, fuoco e acqua, e sono state selezionate di conseguenza. Naturalmente, per quanto predeterminata sia la scelta, ciò che accade quando immagini e parole si scontrano sarà anche altamente soggettivo, e quindi eccede il controllo restrittivo del 'linguaggio'.

 

John Hiliard, Cause of death, 1974, courtesy of the artist and galleria Massimo Minini.


Nel 1996, realizzi Debate (18% Reflectance). Poni una superficie rettangolare grigia davanti a dipinti figurativi appesi alle pareti di una galleria, dove non si capisce se si stia ancora allestendo la mostra o se si stia già visitando l’esposizione. Il grande rettangolo rimanda al contempo sia alla pittura monocromatica sia al cartoncino neutro che i fotografi mettono davanti alla macchina per calcolare i tempi dell’esposizione. La monocromia aniconica ha avuto fortuna in pittura ma non è stata presa molto in considerazione dalla fotografia. Tu sei stato il primo a porre la questione. Come avrebbe potuto la fotografia rendere visivamente l’astrazione che precede ogni tipo di rappresentazione? 

Nel 1974 ho prodotto tre opere: Black Depths, White Expanse e Grey Extent, realizzate poco prima di Cause Of Death?. Anch'esse comportavano il ritaglio di stampe, l'uso di didascalie e la stessa struttura platonica, e furono esposte per la prima volta in quell'anno alla Galleria Toselli di Milano. Includevano, rispettivamente, quadrati di nero puro, bianco puro e un grigio medio – i punti zero della fotografia in bianco e nero, riducendo la sua capacità di rappresentazione e mettendo in evidenza la sua presenza materiale. Questo uso della monocromia è apparso periodicamente nei miei lavori dalla fine degli anni Sessanta a oggi, riflettendo una certa appartenenza minimalista e riduttiva. Debate (18% Reflectance) fa parte di un gruppo di opere realizzate tra il 1994 e il 2001, in cui un dispositivo opaco, rettangolare e monocromatico, occupa l'area più grande e centrale dell'immagine, impedendo deliberatamente allo spettatore di entrare nella normale "finestra" della fotografia (tranne che sul bordo), e scontrandosi invece con la sua realtà bidimensionale. C'è anche uno spostamento degli elementi dell'immagine, così che una zona vuota o priva di caratteristiche è il centro dell'attenzione, e le componenti più movimentate sono relegate alla periferia. Ma può il monocromo fotografico da solo, con meno presenza materiale della sua controparte in pittura, sopravvivere all'esame di uno sguardo prolungato? Per ora, ho eluso questa domanda ponendo i miei monocromi come componenti all'interno di un insieme più grande.

 

John Hiliard, Black depths, 1974, courtesy of the artist.

 

John Hiliard, Debate 18 reflectance, 1994, courtesy of the artist.


Con Off Screen (5), nel 1999, ti sei spinto ulteriormente verso la soluzione aniconica: una stampa a pigmento su manifesto di museo, un rettangolo bianco su rettangolo nero più grande. Qui lo sguardo collega all’istante questa stampa (con l’inversione del nero col bianco) al dipinto emblematico di Kazimir Malevič, il Quadrato nero (1915), manifesto del suprematismo russo. Secondo le intenzioni di Malevič il suo dipinto vuole «evocare l’esperienza della pura non-oggettività nel bianco vuoto di un nulla libero». Non pare molto distante dalle intenzioni di Robert Fludd, che ha immaginato il nulla che è stato prima dell’universo come un quadrato nero che si espande all’infinito. Cosa c’è in Off Screen (5), rispetto ai precedenti aniconici? 

Off Screenè, infatti, un esempio di uno di quei lavori legati a Debate (18% Reflectance), ma non è totalmente riduttivo. Lo schermo di proiezione bianco al centro fa effettivamente riferimento alla pittura monocromatica, ed è effettivamente fatto di tela, ma oltre al suo bordo nero c'è un bordo secondario: la serie di figure sta intorno e oltre lo schermo stesso, come se l'immagine che potremmo aspettarci di vedere sullo schermo sia stata ora spazzata via dallo schermo, lasciando un vuoto enfatico come nostro soggetto centrale. Qui c'è un ibrido voluto, tra l'astratto e il figurativo, l'opaco e il trasparente, il centro e il bordo, e tra pittura e fotografia (con un riferimento aggiunto al cinema). Così ancora una volta ho fatto un passo indietro dal presentare solo un vuoto bianco puro, contestualizzandolo invece all'interno di un'immagine strutturata in modo più vario.

 

John Hiliard, Off screen 3 large study, 1999, courtesy of the artist.


Quali altri svolgimenti hai condotto nei lavori più recenti? Ci riferiamo a Cover Stories (2014), Text And Image (Eighteen Abstracts) (2014), Colour Palette (2015), Restricted Palette, (2015) e Mixed Palette (2015). 

C'è, ancora una volta, un riferimento alla pittura in queste opere. Alcune usano immagini di vecchi dipinti di maestri in interni di musei, ma più in generale una tavolozza selettiva di colori è tratta da ogni fotografia e ricollocata al suo interno come un equivalente astratto del quadro sottostante. I rettangoli colorati sono infatti piccoli dettagli di quelle immagini, molto ingranditi in modo da avere una consistenza quasi pittorica e anche la struttura della grana fotografica.

 

John Hiliard, Cover stories, 2014, courtesy of the artist.

 

John Hiliard, Text and image 18 abstracts, 2014, courtesy of the artist.

 

John Hiliard, Colour palette, 2015, courtesy of the artist.

 

John Hiliard, Restricted palette.


John Hiliard, Restricted palette, 2015, courtesy of the artist.


Ci parleresti di Seascape In Two Whites And Three Greys (2015)?

Le tre zone fotografiche che caratterizzano questa immagine in bianco e nero (sabbia; acqua; cielo) sono ridotte ai loro tre grigi medi, e ulteriormente ridotte a una rappresentazione schematica di un paesaggio marino – tre rettangoli allungati orizzontalmente. C'è anche una confluenza di riprese alla luce del giorno e del tramonto, da cui il titolo. La vista è in Cumbria, nel nord dell'Inghilterra, dove ho realizzato numerosi lavori di paesaggio.

 

John Hiliard, Seascape in 2 light and 3 greys, 2015, courtesy of the artist.


Che opere sono esposte ora alla Galleria Massimo Minini?

Plundered/Dug/Prepared/Dry (1975) condivide molti dei suoi attributi con Cause Of Death?, un'immagine fissa che cambia il suo significato a seconda del modo in cui viene modificata attraverso il ritaglio e l'influenza delle didascalie adiacenti. Ranging Near And Far e Twice, entrambe realizzate nel 2013, esaminano l'uso della scala nel controllare la nostra percezione di particolari immagini. In ogni caso lo stesso oggetto (un pony selvatico; un albero morto) è stato semplicemente fotografato da due distanze diverse ("vicino e lontano"), entrambe le immagini sono state poi affiancate per creare una "terza immagine", suggerendo una coppia di oggetti di dimensioni diverse all'interno di un unico spazio. Lakeland Palette e August Sorts Out The Details, entrambe del 2016, utilizzano ancora una volta una tavolozza di colori selettivi dello sfondo per formare una versione altamente riduttiva, geometrica e astratta della fonte sottostante.

 

John Hiliard, Plundered dug prepared dry, 1975, courtesy of the artist and Galleria Massimo Minini.

 

John Hiliard,Ranging near and far, 2013, courtesy of the artist and Galleria Massimo Minini.

 

John Hiliard, Twice, 2013, courtesy of the artist and Galleria Massimo Minini.

 

John Hiliard, Twice, 2013, courtesy of the artist and Galleria Massimo Minini.

 

John Hiliard, Lakeland palette 1, 2016 , courtesy of the artist and Galleria Massimo Minini.


Ogni fotografia richiede delle decisioni, la presa di coscienza di quale sia la posizione dell’artista in relazione a ciò che viene fotografato. Negli anni '70, hai preso in considerazione questioni legate alla velocità dell'otturatore, alla dimensione del diaframma, a lavori che avevano a che fare con il modo in cui le immagini venivano ritagliate o con la messa a fuoco differenziale, alla differenza di densità nella pellicola in bianco e nero. Come sei giunto a fotografare stanze in cui lo spazio è costruito come una scultura e la macchina fotografica è intesa come un mezzo che registra la propria condizione?

Il mio background è quello di scultore, e i lavori che ho realizzato alla fine degli anni Sessanta, che si sono evoluti nelle prime opere destinate a essere mostrate solo come fotografie, hanno spesso utilizzato un interno completo come sito, quindi non è forse sorprendente che io abbia continuato a fare un uso controllato delle stanze come 'set' per le opere fotografiche. È stato, infatti, l'uso della fotografia come documento per sostituire le sculture site-specific che registrava a portarmi a sollevare domande sull'affidabilità di quella sostituzione, e a esaminare i risultati molto diversi ottenuti selezionando diversi tempi di posa, tipi di pellicola, punti di vista, e così via. Un modo piuttosto prosaico di guardare a tutto il mio lavoro sarebbe un catalogo in continua crescita di queste molte variabili.

 

Cosa rappresenta per te un disegno prescrittivo? Come utilizzi il disegno o un breve pezzo di scrittura in relazione alla fotografia e a una nuova idea da tradurre in opera?

Di solito ho un particolare insieme di idee da cui produrre un'opera o una serie di opere. Per chiarire come questo potrebbe essere realizzato, abbozzo alcune possibilità su carta, forse sotto forma di schizzi e diagrammi, o come note scritte, o come un misto di entrambi. Posso arrivare a fare un disegno prescrittivo che traccia una fotografia completa prima che sia mai stata fatta, o posso realizzare solo uno scarabocchio rudimentale. A volte il mio schizzo originale è sorprendentemente simile alla fotografia finita e a volte no. Per quanto le due cose siano vicine, tutti i tipi di incidenti e sviluppi imprevisti separano il lavoro finito dalle sue origini e gli permettono di avere una vita propria.

 

Come prevedi un tipo di immagine che non ha un'esistenza precedente, un'idea su qualcosa che non ha preso corpo o che non esiste ancora nel mondo?

Quando ero ancora uno studente, un'immagine completamente formata di un'opera mi saltava in mente, e a volte succede ancora. Ma quelle immagini non vengono dal nulla, sono il prodotto di un treno di pensieri in corso: sono ordinate, non disordinate. Il mio modo più abituale di pre-visualizzazione è un processo razionale: considerare gli elementi dell'immagine per svolgere una particolare funzione, considerare possibili luoghi, possibili modelli, eccetera. Anche le fotografie di paesaggio, dove i luoghi stessi non possono essere realisticamente controllati, possono in qualche misura essere predeterminati consultando le mappe e tenendo d'occhio il tempo.

 

E invece cosa sposta ulteriormente un disegno da una fotografia, ovvero ciò che tu chiami post-scrizione? Cosa accade nel processo che si innesca da “una fotografia di un disegno di una fotografia da un disegno”?

Una linea su carta ha una presenza materiale e un livello di definizione unico che le fotografie, con la loro struttura omogenea e l'enfasi sullo spazio illusorio, non possono facilmente eguagliare. Alcuni dei lavori che ho fatto hanno cercato di affrontare questo problema, introducendo caratteristiche enfaticamente grafiche in un prodotto fotografico. Ma alla fine una fotografia non è un disegno, né in senso fisico né in un confronto pittorico, e bisogna abbracciarla nei suoi termini.

 

Come si compensa una mancanza percepita che tu vedi nella fotografia, ovvero la mancanza per esempio di un particolare tipo di definizione che si ottiene nella pittura e nel disegno?

Adottando qualcosa di simile a un approccio modernista, dove la specificità materiale del mezzo stesso è incoraggiata, non soppressa. Così, grana nettamente definita, dense pozze di sottoesposizione scura o aridi spazi vuoti di sovraesposizione, strisce lineari di motion-blur o nebbie fuori fuoco – tutti insistono nel presentare la fotografia stessa come un oggetto e non semplicemente come un veicolo per la sua immagine. Entrambe le funzioni sono importanti, naturalmente, proprio come nella pittura figurativa le pennellate e i segni lasciati dalla spatola danno vitalità ai loro soggetti. La fotografia rende un grande servizio al regno dell'immagine, ma può anche rivendicare il suo posto nel mondo degli oggetti.

 

Come si è spostata la tua ricerca da un approccio analitico a una modalità più incline ad accettare che le cose non andranno esattamente come avevi previsto? E il fatto stesso che non lo facciano potrebbe essere un aspetto interessante o una pista da seguire? Un fallimento o un errore presentano un ingrediente che, alla fine, può essere considerato estremamente importante? 

Quando Roland Barthes ha pubblicato Camera Chiara (1980), all'inizio ho sentito che era un tradimento della sua precedente insistenza nel trattare la fotografia in termini di linguaggio. Col tempo ho cominciato ad apprezzare il suo riconoscimento della soggettività del percipiente, e in modo parallelo sono arrivato a capire le deviazioni delle mie immagini fotografiche dal mio intento originale come potenziali benefici piuttosto che come errori deplorevoli. Non c'è una regola su questo. L'involontario o l'accidentale può effettivamente essere un danno, ma può anche fornire un bonus inaspettato, qualcosa che non avremmo mai pensato, ma che si rivela essere cruciale. Il trucco è sapere quando questo accade, e rivendicarne la responsabilità.

 

Seguendo perlopiù artisti che utilizzano il mezzo fotografico con un approccio concettuale, quando ci rapportiamo con fotografi documentaristi, o di moda, di architettura o di pubblicità o di belle arti (John Szarkowski li definisce fotografi nel Museo d'Arte Moderna), ci viene chiesto spesso quale sia la differenza tra fotografie di fotografi e fotografie di artisti. Di solito rispondiamo: davvero non riesci a vedere la differenza? Qualche volta abbiamo risposto che le opere fotografiche degli artisti si offrono a una forma di decostruzione che fa parte del piacere di guardare. Altre volte abbiamo provato a entrare nelle questioni concettuali, cercando di spostare in secondo piano gli aspetti estetici o espressivi. Tu cosa risponderesti a questa domanda ricorrente?

I pittori italiani del primo Rinascimento erano per lo più artigiani, che facevano solo un lavoro ordinato da un mecenate, ma alcuni di loro riuscivano a farlo con un alto livello di abilità e originalità, nello stesso modo in cui un fotografo commerciale assunto per servire i bisogni di un cliente potrebbe superare il brief e produrre qualcosa di straordinario. A differenza della pittura, un metodo usato normalmente solo dall'artista o dal decoratore, la fotografia viene impiegata in molti campi diversi. Viene usata per registrare scene del crimine, condizioni mediche, le star, ritratti di passaporti ed eventi sportivi. È usata nella pubblicità, nel reportage, nella moda e per le istantanee familiari. Da tutti questi contesti (e altri ancora) possiamo trovare esempi di immagini così avvincenti, così insolite, che gli attribuiamo un valore speciale e le consideriamo come una forma d'arte. Gli artisti hanno dato il loro contributo, naturalmente, e direi che dagli anni Sessanta la caratteristica prevalente del loro lavoro fotografico è un impegno con il regno delle idee. In questo senso è diverso dai tipi dominanti di fotografia il cui scopo primario è il documentario. Questo non vuol dire che le fotografie degli artisti siano per definizione migliori o più preziose o più interessanti di altre – solo diverse. La mia preferenza è per un lavoro che prima cattura la mia attenzione attraverso un'immagine convincente, poi ricompensa questa attenzione coinvolgendo il mio intelletto.

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Jannis Kounellis, Senza titolo, 1961

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Cantare la pittura

 

Di questo dipinto a olio di Jannis Kounellis ci manca il titolo, come accade per la maggior parte delle sue opere: Senza titolo, distinte solo dall’anno di realizzazione. Ma se non possiamo nominarlo, possiamo sempre leggere le lettere e i numeri che sono riportati sulla sua superficie: Z, 3, 3, S nella banda superiore, e E, S, S, 3 nella banda inferiore. Alcune lettere e alcuni numeri sono rovesciati, rendendo così difficile dire se quella che somiglia a una S sia veramente una lettera e non il numero 2. L’ambiguità non è sciolta. Non si tratta insomma di un esercizio di calligrafia, su questo Kounellis è chiaro, ma di una scrittura, di un esperimento verbo-visivo, del tentativo di scrivere su una tela in verticale e non sulla pagina di un taccuino.

 

Tuttavia, che si tratti di una S o di un 2, che tentiamo di leggere numeri e lettere in ordine inverso o, ancora – come una scrittura dell’Estremo oriente – dall’alto verso il basso, la sequenza alfanumerica non genera alcuna parola e il suo senso resta segreto – oggi diremmo criptato. Un segreto però che, anziché nascondersi, anziché sottrarsi, è esposto in bella mostra su una superficie lunga oltre un metro e mezzo e alta un metro e trenta, grande come una lavagna. Un segreto pubblico, visibile da ciascuno di noi spettatori che, oltre a recitare quanto è scritto sulla tela, riconosciamo nella fattura delle lettere e dei numeri un’estetica urbana: è quella dei cartelloni stradali, delle pubblicità, delle insegne dei negozi, della segnaletica stradale, della tipografia della stampa. Forse riconosciamo anche un’estetica archeologica, se pensiamo alle iscrizioni latine scolpite sulle facciate dei palazzi o sui basamenti, quei resti archeologici in cui s’inciampa ovunque a Roma e con cui l’artista greco aveva imparato a familiarizzare anche attraverso la mediazione delle stampe dell’amato Piranesi. 

 

Che siano vestigia del passato o frammenti del contemporaneo poco importa, in entrambi i casi il mondo esterno fa irruzione nello spazio dell’atelier dell’artista al centro di Roma e, di rimbalzo, sulla superficie bidimensionale della tela di lino bianca. 

Eppure questi segni, costretti all’interno di un medium classico quale la pittura, si spogliano di ogni necessità comunicativa e non significano nulla, non rinviano ad altro da sé, non danno accesso a uno spazio che si spalanca oltre, come il paesaggio attraverso una finestra. Che questi segni provengano dalla realtà metropolitana è evidente ma qui, stampati sulla tela dall’artista, si sono fatti pittura, e in quanto tale affermano la loro presenza. Una presenza così forte, così magnetica che resiste a sciogliersi in un senso compiuto. Kounellis è troppo legato a una visione dialettica della storia per risolvere l’immagine in modo univoco.

Come ci accorgiamo presto, complici di questa presenza sono i colori verde, giallo, rosso e blu, slavati come pastelli. Un uso cromatico raro nel giovane Kounellis che, in un primo momento, realizza una serie di dipinti usando solo il nero, colore dell’inchiostro. Il nostro Senza titolo risale al 1961, un periodo cruciale in cui nella capitale gravitano artisti che, cercando una via al di là di Fautrier, Burri e Fontana, diventeranno presto i protagonisti della stagione pop italiana.

 

A Kounellis non piaceva spiegare le sue opere. Ciononostante, sui suoi primi dipinti, ha lasciato alcune dichiarazioni in cui tiene a precisare che lettere, numeri e segni non vanno semplicemente osservati come qualsiasi figura che si staglia sullo sfondo di un dipinto ma vanno cantati, cantati ad alta voce. Così nella pittura s’insinua la temporalità, quella durata negata dal modernismo. La pittura diventa una cosa che si legge, un rituale se non una performance o un happening, e non è un caso l’interesse che mostrerà presto Kounellis per lo spazio della scena teatrale e per l’elemento drammaturgico.

In questo dipinto, la teatralità prende la forma di un canto. Un canto non melodico, che suona come una poesia dada di Kurt Schwitters, di quelle registrate dall’artista tedesco mentre s’impegna – e si diverte a morte – a disarticolare il linguaggio con cui commerciamo col mondo ogni giorno. Un canto che intona il giovane Kounellis quando, nel suo studio e alla galleria La Tartaruga, realizza quadri da indossare, recitare e suonare. Se abbandonerà presto la pittura, Kounellis si ostinerà per tutta la vita a voler essere considerato un pittore, uno sui generis, la cui pittura richiama, oltre alla vista, anche la parola e l’ascolto.

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Jannis Kounellis, Senza titolo, 1961

I novant'anni in maglia rosa

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Il rosa è il colore del Giro d’Italia. Ma non da sempre. Passarono ventidue anni e diciannove edizioni prima che un fiocco, per l’appunto, rosa tenesse a battesimo la maglia rosa. 

È il 10 maggio 1931 quando al termine della prima tappa, la Milano-Mantova, il primo a tagliare il traguardo indossava sul palco la maglia rosa, che da quel giorno avrebbe contraddistinto il primo in classifica generale. A vestire quell’inedito simbolo del primato fu guarda caso un campione mantovano, un campione emergente sulla scena ciclistica nazionale e, di lì a poco, anche internazionale: Learco Guerra.

 

Erano gli anni in cui il ciclismo italiano aveva un solo dominatore, anzi, una specie di tiranno. Da cinque anni vinceva sempre, o quasi sempre, Alfredo Binda, un ex stuccatore varesino che aveva trovato la strada del successo dopo essere emigrato in Francia e aver esordito, per passatempo, nelle corse per dilettanti in Costa Azzurra. Ci volle poco per capire che il Binda la sua fortuna l’avrebbe fatta stringendo un manubrio e spingendo sui pedali e non con pennelli e trabattelli a pitturare i soffitti di qualche villa di Antibes o Nizza. Tornato a correre in Italia, rapidamente sbaragliò la concorrenza e in particolare quella del Campionissimo, il “vecchio” Costante Girardengo, protagonista dei primi anni del dopoguerra. Binda trionfava con facilità disarmante nelle classiche di un giorno, dal Giro di Lombardia alla Milano-Sanremo, passando per la prima edizione del Campionato mondiale su strada del 1927, ma soprattutto non aveva rivali nel Giro d’Italia. Nel quinquennio tra il 1925 e il 1929 ne vinse ben quattro, facendo incetta di tappe e, di conseguenza, di premi. E mortificando quasi tutti gli avversari. 

Nel 1930 gli organizzatori del Giro, preoccupati per quell’assoluta egemonia che stava togliendo interesse alla competizione, gli offrirono il premio del vincitore, 22.500 lire, purché non prendesse il via. Binda, ovviamente, accettò.

 

Alfredo Binda

 

Scriveva Mario Fossati, il più lucido e documentato dei cantori del ciclismo: «Binda era un campionissimo che incantava i raffinati. Non era un freddo, un ingrato, un avaro come i fans di Girardengo sostenevano… Certo, con lo stile superiore delle sue imprese sapeva convincere i tecnici; certo, diceva una parola nuova; certo, mascherava lo sforzo con tanta eleganza da portare il primo pubblico femminile al ciclismo. Ma la corsa rimaneva sempre dentro di lui. Poi arrivò Guerra. Un volto aperto, i capelli nerissimi, la risata pronta, la generosità oltre ogni limite. Guerra osa perché non tramonta mai l’ora di osare. Osa per il bel gesto in sé».

 

Per far tornare a vibrare i tifosi del ciclismo, che vivono e si appassionano ai più accesi dualismi, Learco Guerra era quello che ci voleva. Ed era quello che, in fondo, voleva anche il regime che mirava a fondare sulla passione sportiva buona parte del suo consenso popolare. 

Rispetto ad altre discipline, nella mitografia fascista della nazione che ambiva a modernizzarsi, a velocizzarsi, a librarsi nei cieli di una nuova gloria patria, il ciclismo era visto in modo un po’ sospetto: troppo arcaico, contadino, troppo abbruttito dallo sforzo massacrante della fatica impolverata o fangosa delle strade. Si sarebbe potuto salvare solo se avesse espresso una potenza muscolare che lo avvicinasse a un dinamismo rombante e futurista. 

Binda non era nulla di tutto questo: freddo, razionale, calcolatore non incendiava l’entusiasmo dei tifosi. Al contrario, Learco Guerra, il nuovo campione, fin dal nome esprimeva quella baldanza aggressiva, quella generosità di gesti e azioni compiute per esaltare il connubio tra il muscolo e la macchina che sarebbe stata condensata nel soprannome che l’immaginifico mondo della cronaca ciclistica gli assegnò al suo apparire: la Locomotiva umana.

 

Learco Guerra

 

Il colore rosa fu scelto dalla “Gazzetta dello Sport”, in omaggio al colore sul quale, dal 1899, a soli tre anni della sua fondazione (1896) il quotidiano sportivo milanese veniva stampato. Il modello era quello del Tour de France che aveva adottato una maglia gialla, a contrassegnare il primo in classifica, fin dal 1919 (gialla, appunto, come il giornale “L’Auto”, che organizzava la corsa francese). Non era propriamente un colore che, nell’immaginario popolare, esaltasse le imprese dei “forzati della strada”, né tanto meno corrispondesse alla virile idealizzazione eroica dei campioni dello sport da parte del fascismo. Ma si provvide ben presto a fascistizzare la maglia apponendole ricamato al centro del petto un fascio littorio. Da novant’anni a questa parte le maglie di lana grossa e spessa hanno cambiato decine di volte forma e anche tonalità di colore: dal tenue rosa antico alle sfolgoranti e tecnicissime tenute acriliche simil-fucsia degli ultimi anni. Soprattutto dalla tinta unita delle origini al caleidoscopio di inserti di colori e scritte dettate dal mondo della sponsorizzazione sportiva.

 

Nella storia del Giro d’Italia il più grande collezionista di “maglie rosa”, ovvero il corridore che ha indossato più volte il rosa, in quanto leader della classifica generale della corsa, è stato Eddy Merckx, in rosa in 78 occasioni. Del resto il Cannibale – così era chiamato Merckx dagli avversari per la sua famelicità di vittorie – detiene, in coabitazione proprio con Alfredo Binda e con Fausto Coppi, il record di Giri d’Italia vinti: 5. Spesso  tuttavia il numero di maglie rosa indossate durante la corsa non corrisponde al numero dei successi finali: ne è la dimostrazione un altro grande campione, come Francesco Moser, che si è vestito di rosa sul podio per ben 50 volte, ma che, nella sua lunga carriera, ha conquistato la vittoria finale al Giro solamente in un’occasione, nel 1984. 

A Merckx spetta un altro primato: quello di avere indossato la maglia rosa dalla prima all’ultima tappa al Giro del 1973, imitato da Gianni Bugno nell’edizione del 1990 (a dire il vero anche Girardengo, nel 1919, e Binda, nel 1927, dominarono la corsa per tutte le tappe, ma in edizioni in cui il “rosa” non era stato ancora propriamente inaugurato). 

 

Al contrario, la scorsa edizione, quella del 2020, ha fatto registrare l’inedita particolarità di un vincitore finale, il britannico dal nome gaelico Tao Geoghegan Hart, che non ha mai indossato la maglia rosa durante la corsa, ma soltanto nella tappa conclusiva, e decisiva per la classifica.

La maglia rosa ha assunto negli anni un valore simbolico così pervasivo da estendere il suo cromatismo all’intero Giro che viene denominato “la Corsa rosa”. 

 

Sfide sconfinate. Lo sport che cambia il mondoè un progetto del Polo del '900 coordinato dall'Unione culturale Franco Antonicelli che si propone di riflettere sul cambiamento sociale nel Novecento e nella contemporaneità attraverso il fenomeno sportivo. Il progetto si svolgerà con una serie di appuntamenti pubblici a Torino e online per tutto il 2021. Sul canale YouTube del Polo del '900 è disponibile il video dell'incontro In un secolo di Giro... 90 anni di Maglia Rosa, realizzato in collaborazione con Museo del ciclismo del Ghisallo e Museo AcdB della bicicletta di Alessandria, gemellati nel progetto Archivio Digitale che ha presentato una mostra virtuale per i 90 anni della Maglia Rosa. Il prossimo appuntamento, previsto per il 21 maggio, sarà dedicato invece ai rapporti tra mondo dello sport contemporaneo e contrasto alle discriminazioni di genere e razziali.

 

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