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Milano bombardata

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Nella notte tra il 7 e l'8 agosto 1943 l'aviazione alleata sgancia le sue bombe sulla città di Milano. Replicherà con altrettanta violenza nelle notti tra il 12 e 13 e tra il 14 e 15 agosto.

La Stampa del 14 agosto, scrive: “Milano ha subito un nuovo violento bombardamento. Si può dire che nessun rione, nessuna zona, nessuna strada centrale o periferica di Milano sia stata esente dal suo doloroso e sanguinoso contributo. Il centro ha avuto deturpazioni che rimarranno a testimonianza dello scarso spirito di civiltà dei nostri nemici. La periferia e i sobborghi, dal canto loro, hanno sofferto mutilazioni tali da meritare agli anglosassoni l’appellativo di gente inumana.”

Milano è stata per tutto il primo novecento una città cantiere. Per sua scelta ideologica, economica, artistica. È la città dell'Esposizione Universale del 1906, del Futurismo di Marinetti, Sant'Elia e Boccioni, dei nuovi quartieri operai affidati alle migliori menti dell'architettura razionalista, dei piani regolatori “fascistissimi” degli anni trenta. Demolire e ricostruire non la spaventava, sentendosi parte di un progetto di trasformazione talmente radicale da accettare la perdita – in una sorta di partita doppia – con la conquista della modernità. Ma la cesura violenta, smisurata, esorbitante, causata dall'indiscriminata violenza dei bombardamenti del '43 la sconvolge nell'intimo.

 

Non che non ne avesse già subiti dall'inizio del conflitto mondiale, ma erano bombardamenti mirati e contenuti. Abbastanza rovinosi, comunque, da far sfollare decine di migliaia di abitanti nelle campagne del milanese. Scelta, a posteriori, oculatissima che ha contenuto il numero delle morti civili dopo le notti brutali dell'agosto del '43.

La ferita per la città è devastante. L'ermetismo degli anni trenta di Salvatore Quasimodo non ha più voce. Il poeta cambierà lingua per poter esprimere lo sgomento:

 

Invano cerchi tra la polvere,
povera mano, la città è morta.
È morta: s’è udito l’ultimo rombo
sul cuore del Naviglio. E l’usignolo
è caduto dall’antenna, alta sul convento,
dove cantava prima del tramonto.
Non scavate pozzi nei cortili:
i vivi non hanno più sete.
Non toccate i morti, così rossi, così gonfi:
lasciateli nella terra delle loro case:
la città è morta, è morta. 

 

(Milano, agosto 1943)

 

Da pochi mesi il greco/romano Alberto Savinio, pittore, scrittore, compositore, intimamente milanese come lo fu Stendhal, ha dato alle stampe per Bompiani un libro omaggio a Milano, Ascolto il tuo cuore, città, che per ironia della sorte (una sorte beffarda) diventa l'ultima testimonianza di come fosse la città prima delle perdite ingenti – sconvolgenti, anzi – causate dai bombardamenti. In un articolo sul Corriere della Sera del 7 settembre di quell'anno, girando per le macerie del centro storico il suo sguardo vaga, amaro e a ciglio asciutto: 

 

“E quando nel meriggio del 26 agosto in una luce smagliante mi affacciai sotto la volta della stazione Centrale, anche Milano mi apparve come colta in istantanea dall’occhio spietato della macchina fotografica, ritta ma traballante, gli innumerabili occhi delle sue case fissi in uno sguardo vitreo, gli arti contorti in movimenti da città manichino, impillaccherata dalla testa ai piedi, «insudiciata» dalla morte. (…) La morte «insudicia». Insudicia quello che era pulito, intorbida quello che era limpido, inlaidisce quello che era bello, intenebra quello che era luminoso, istupidisce quello che era intelligente, immiserisce quello che era ricco.”

 

Insomma, la morte, come scriverà in tutt'altro contesto Roberto Saviano in Gomorra, “La morte fa schifo”. In quegli stessi giorni si sta concludendo la collaborazione di Giorgio Scerbanenco con il Corriere. Una breve parabola, proprio negli anni della guerra, che produrrà un paio di romanzi a puntate e un corposo numero di racconti. L'ultimo pubblicato, prima della fuga in Svizzera nel settembre del 1943, è del 27 agosto. S'intitola La casa in piedi e racconta di uno sfollato che dopo ogni bombardamento inforca la bicicletta, fa ottanta chilometri per giungere in città a vedere le condizioni del suo quartiere, per poi tornare in campagna e raccontare agli altri vicini sfollati quali case si sono salvate, quali invece sono irrimediabilmente perdute: 

 

“Arrivò a Milano, discese in piazzale Loreto e continuò a piedi attraversando tutta la città. Le case bruciavano, fumo, polvere, soldati, quelli dell'Unpa col bracciale rosso, un vecchio teneva in mano la catena della sua bicicletta e la guardava, stupito che si fosse rotta proprio quando più ne aveva bisogno. Vezzari arrivò a fatica nei paraggi di casa sua. Quasi non si orientava più. I crolli e gli sventramenti avevano cambiato la fisionomia del paesaggio. Ma la vide subito, laggiù, la sua casa: era ancora in piedi. Intorno montagne di macerie, mozziconi di mura maestre.” 

 

Non perdiamo di vista le date: il 25 luglio Mussolini rassegna le sue dimissioni al Re. I milanesi, gli italiani tutti, scendono in piazza e festeggiano la fine del regime, la guerra sembra davvero finita. Ma non è così, a detta del nuovo capo del governo. La guerra continua (Badoglio cerca di temporeggiare in realtà, nel tentativo di contenere l'eventuale reazione spropositata del sospettoso alleato tedesco). I bombardamenti su Milano di agosto sembrano insensati. Gli inglesi, nei raid degli anni precedenti, s'erano dimostrati capaci di fare bombardamenti mirati, su obiettivi strategici: caserme, stazioni, fabbriche.

 

 

Nel '43 è l'intero centro storico, strategicamente ininfluente, ad essere preso di mira. Milano come la conosciamo oggi è il risultato di quei devastamenti. Nessuna città italiana ha subito un fuoco di fila di tali proporzioni, il 60% del suo cuore antico subirà danni irreversibili, cambiandogli il volto irrimediabilmente. Solo Dresda avrà un destino più tragico: città dal punto di vista militare irrilevante, gioiello del barocco europeo, rasa al suolo, come tragicamente e straordinariamente raccontato da Kurt Vonnegut in Mattatoio n. 5

Arturo Tofanelli, in Memorie imperfette, ricorderà quei bombardamenti con queste parole: 

 

“I bombardamenti su Milano dell’agosto 1943, ebbero effetti materiali e psicologici disastrosi. Dopo la terza incursione in meno di una settimana, la città restò paralizzata e mezzo vuota. Rimaneva acuta in tutti noi l’incomprensione di quella barbara impresa; anche i più decisi sostenitori della causa alleata erano incapaci di trovare una giustificazione a lume di logica.”

 

La storiografia a venire e l'immaginario collettivo hanno sempre in qualche modo glissato sull'argomento. La teoria militare mirava con queste azioni di guerra a “infiacchire” il morale della popolazione nemica, cercando di indebolire l'appoggio al regime fascista. Che in realtà era già di suo scemato, come raccontano i festeggiamenti alla caduta di Mussolini appena tre settimane prima. Un bombardamento indiscriminato come quello prodotto dagli alleati, invece, per chi le bombe le vedeva cadere sulla propria testa, creava solo ripugnanza e disperazione. Gli inglesi lo sapevano, ad essere sinceri: Londra fu a lungo teatro di bombardamenti a tappeto da parte delle forze dell'Asse. Ma questo più che infiacchire, saldò gli anglosassoni attorno a Churchill. Eppure tanto quanto la cinematografia del dopoguerra ha fatto dei bombardamenti sulla popolazione inerme di Londra la prova della malvagità di Hitler, nessuno ha mai giudicato come insensati, se non addirittura, terroristici, i bombardamenti degli alleati sul cielo di Milano. 

Le forze aeree degli alleati sapevano come e dove colpire. Lo hanno dimostrato in più e più bombardamenti mirati. Persino l'aver fatto terra bruciata attorno al Duomo, evitando però la cattedrale (forse per non entrare in rotta di collisione con le autorità ecclesiastiche) lo dimostra. Ma nessun dubbio, finito il conflitto, poteva sorgere sui liberatori. La storia, lo sappiamo, la scrivono i vincitori. Parlare di crimini di guerra è ancora oggi argomento da toccare con i guanti parlando di quei fatti lontani quasi ottant'anni. E nessuna autorità americana ha mai chiesto scusa per la più dolorosa ed evitabile delle carneficine causate da un bombardamento: la tragedia dei “piccoli martiri di Gorla” del 1944 (ma questa è un'altra storia).

 

Il novecento è un secolo colmo di testimonianze. Non solo fogli scritti, soprattutto immagini. In quei tragici giorni, con la sede del Corriere in fiamme, Vincenzo Carrese, che aveva da qualche anno fondato la sua agenzia fotografica, quella che diverrà la gloriosa Pubblifoto, girò per la città assieme ai suoi colleghi per testimoniare la tragedia. 3300 fotografie, documenti preziosissimi che ora, selezionati e organizzati, sono diventati una bella mostra alle Gallerie d'Italia voluta da Mario Calabresi: “MA NOI RICOSTRUIREMO. La Milano bombardata del 1943 nell'Archivio Publifoto Intesa Sanpaolo”. Essendo Calabresi un giornalista “naturale” ha trovato ovvio attualizzare un patrimonio documentario di tali dimensioni facendo rifotografare da Daniele Ratti alcuni di quei luoghi bombardati oggi, nei giorni della pandemia (come fosse una nuova battaglia da combattere per i milanesi). Operazione didascalica eppure efficace. Anche per mostrare come quella guerra nulla c'entri con questa pandemia. La Milano delle macerie è abitata da un popolo che opera, cammina, gira in bicicletta, si fa la barba per strada. La Milano confinata dal coronavirus è intonsa, a colori e vuota. All'apparenza più morta della città morta dei versi di Quasimodo. Eppure c'è qualcosa di intimamente meneghino in questa idea del confronto di quella Milano con questa Milano. 

 

Nell'ultima pagina del racconto di Scerbanenco si legge: “La sua casa era rimasta in piedi ma senza dirselo sentì che era caduta con le altre, perché la nostra casa è fatta anche delle altre case; e se le mura, materialmente, non erano state colpite, il focolare era stato straziato.” Palazzo Marino, Piazza San Fedele, L'Ospedale filaretiano, la Galleria, la Scala, Palazzo Reale, Piazza Fontana, Sant'Ambrogio, Santa Maria delle Grazie, l'identità profonda della città deturpata. La morte, per dirla con Savinio aveva insudiciato tutto. Ma l'indole milanese non si ferma alla constatazione della tragedia: “Il primo giorno vidi Milano «insudiciata» dalla morte. Poi la notte calò e uno spettrale silenzio. L’indomani, già Milano s’illimpidiva.” Non a caso il racconto di Scerbanenco (pensate a quanto siano distanti i due autori per stile e quanto vicini nelle conclusioni) termina così: “Guardò poi il ritratto del figlio, appeso alla parete. Era un po' inclinato. Lo rimise dritto.”

 

Antonio Greppi, primo sindaco di Milano dopo la Liberazione (scrittore e commediografo, non dimentichiamolo) prometterà ai suoi cittadini: “Molto si è distrutto, ma noi tutto ricostruiremo con pazienza e con la più fiduciosa volontà”. Fu un lavoro immane che cambiò ancora una volta il volto della città. L'immensa mole di macerie fu trasferita dalla città abitata verso nord ovest, in una zona ancora agreste dove Piero Bottoni, negli anni della ricostruzione, sognerà e realizzerà proprio con quelle macerie uno dei “fatti urbani” (così lo chiamò Aldo Rossi) più importanti della città: il Monte Stella. Opera estrema di land art, sogno di una montagna nel cuore della pianura, tumulo della guerra, sacrario civile di un popolo mai domo, pronto ad ogni ripartenza.

 

 

INFORMAZIONI UTILI

Mostra MA NOI RICOSTRUIREMO. La Milano bombardata del 1943 nell'Archivio Publifoto Intesa Sanpaolo

9 ottobre – 22 novembre 2020

Gallerie d’Italia – Piazza Scala, Piazza della Scala 6, Milano 

Dal 9 al 29 ottobre ingresso da Via Manzoni 10, dal 30 ottobre in poi ingresso da Piazza della Scala 6

 

Orari

Da martedì a domenica 11.00 –19.00 (ultimo ingresso ore 17.30)

Lunedì chiuso

 

Ingresso

Dal 9 al 29 ottobre 2020 intero 5 euro, ridotto 3 euro, gratuito per clienti del gruppo Intesa Sanpaolo, convenzionati, scuole e minori di 18 anni;

dal 30 ottobre al 22 novembre intero 10 euro, ridotto 8 euro, ridotto speciale 5 euro per clienti del gruppo Intesa Sanpaolo e under 26, gratuito per convenzionati, scuole e minori di 18 anni

 

Informazioni

Modalità di visita in sicurezza, informazioni e prenotazioni su www.gallerieditalia.com, info@gallerieditalia.com, Numero Verde 800.167619

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Franco Vimercati. Tête à tête con la zuppiera

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Una zuppiera è una zuppiera è una zuppiera potrebbe essere il titolo di una delle più famose serie fotografiche di Franco Vimercati. Il fotografo ed artista milanese la realizza dal 1983 al 1992. Per dieci anni non fa altro che inquadrare questo oggetto e riprenderlo in molti modi diversi: a fuoco, sfuocata, grande quanto il formato della foto, più piccola, che emerge da un uniforme sfondo nero, ruotata sul proprio asse a differenti gradazioni, riassorbita dal bianco dello sfondo. È una piccola zuppiera sbrecciata e consunta dall’uso; la forma arrotondata e la patina opaca la rendono un oggetto immediatamente familiare, quasi legato alla terra, alla civiltà agricola, ricorda il fotografo. 


La serie di circa cento scatti scatena immagini ipnotiche la cui potenza attrattiva non è affatto facile da spiegare. Sono semplici, consuete, ordinarie, eppure l’intelligenza visiva di Vimercati riesce a farne un racconto adatto per tutti gli sguardi, anche per quelli più distratti e incapaci di concentrazione. È come se dicesse: “io so chi si nasconde dietro il tuo volto, conosco la tua frenesia; so come sei frettoloso, come pretendi di comprendere ogni cosa e come sei insofferente all’attesa. Io ti dimostrerò che ciò che ti sembra un inutile spreco di tempo può dischiuderti una possibilità, che potrebbe non essere semplice, né tantomeno confortante”. 

 

Un primo aspetto da considerare è la precisione. Il campo dell’inquadratura si restringe in modo che l’assoluta pulizia dei dettagli restituisca la composizione dei materiali, il sapiente uso delle linee e delle geometrie. Ma l’esattezza non coincide con la verità. Sembra che questi oggetti non possano essere attraversati dallo sguardo, concedono solo di essere osservati. Sono pura esteriorità, significativi in quanto espressione di puro segno, ipotetici ed incerti inneschi per altre ipotesi di pensiero. Il fotografo esalta l’esattezza come una qualità da ammirare e non come veicolo di una verità alla quale non ambisce. 

 

Un altro aspetto è la frontalità. Zuppiere, vasi, orologi sono ripresi frontalmente. Come suggerisce Olivier Lugon, la frontalità si dimostra un segno, più che uno strumento per documentare: “veicola meno informazioni di altri tipi di inquadratura, ma tende ad assumere lo statuto di immagine-tipo, che renderebbe superflue le altre; restituirebbe l’immagine indicativa dell’oggetto, che le riassume e le annulla tutte”. Perché allora in Vimercati la frontalità e la precisione non sono sinonimi di chiarezza e leggibilità? 

I suoi oggetti sono come segni di un alfabeto non ancora decifrato. Viene quindi da chiedersi per quale ragione la forma fotografica di Vimercati, quasi uno strumento d’archivio, un approccio il più possibile meccanico, riesca ad assumere una forma d’arte.

 

Franco Vimercati, Senza titolo (Zuppiera), 1991 gelatin silver print 17.7 x 22.5 Ed. 6 + 3 AP Courtesy Archivio Franco Vimercati, Milano e Galleria Raffaella Cortese, Milano; © Eredi Franco Vimercati.


La risposta forse sta in un terzo elemento, la serialità. Marco Scotini, il curatore della mostra in corso alla galleria di Raffaella Cortese a Milano, nel saggio introduttivo al catalogo riporta un appunto a penna di Vimercati dell’agosto 1991: “il vero ‘contenuto’ del mio lavoro è la ripetizione. La ripetizione ostinata, cattiva o assente, malinconica o violenta, ma solo e sempre ripetizione. In ogni caso, il non voler dare spettacolo, il non essere accomodante, grazioso, ragionevole. Il non voler proporre quesiti intelligenti, raffinati esercizi di stile. Cerco di essere il più semplice possibile proprio perché la protesta sia il più efficace possibile. Deve essere secca e penetrante come un chiodo senza dispersione di nessun genere”. 

Questo appunto autografo spiega come la serialità sia divenuta una qualità autonoma, qualcosa di più e di diverso della sommatoria dei singoli oggetti. Se l’oggetto è sinonimo di concentrazione, la serie rimanda all’idea di accumulo, dà forma a una struttura, un ordine, una direzione, oltrepassa peso e volume, è metafisica. 

 

L’attenzione si sposta dal risultato per focalizzarsi sul processo. La ripetizione rende lo stesso oggetto via via più misterioso e più denso di significati; l’immagine interroga se stessa e lo stesso mezzo espressivo. La coazione a ripetere induce una tensione: cosa vuole dire Vimercati? E l’identità dell’oggetto, inoltre, la famosa zuppiera, ad esempio, è così dettagliatamente zuppiera che davvero dev’essere una zuppiera? Cosa vuol dire, poi, davvero

 

La risposta si può trovare in un’altra sua serie intitolata Un minuto di fotografia, realizzata nel 1974. Le lancette di una sveglia segnano le 2:46. Vimercati ripropone lo stesso scatto ogni cinque secondi, tredici volte, per un minuto di tempo. 

Se nella serie delle Trentasei bottiglie d’acqua minerale del 1975 c’era una traccia del mondo esterno, riflesso sul vetro, nel caso della sveglia tutto è condotto all’estremo. Vimercati giunge per sottrazione all’essenza del suo lavoro: la forma del tempo. E se un orologio fermo suscita una storia, nel senso che spinge a chiedersi perché si è fermato, cosa è accaduto prima che si fermasse, cosa potrebbe accadere se dovesse ripartire, un semplice minuto di tempo nega la possibilità del racconto, perché costringe alla meccanica osservazione della pura dimensione temporale. 

 

Ma il tempo non è sinonimo di storia. Non può esistere una fotografia di documento perché non esiste una realtà che valga la pena di essere documentata. Vimercati ha visto abbastanza del vecchio ordine. In una intervista a Elio Grazioli, la sua visione della storia trasmuta in un minimale programma politico-esistenziale: “bisogna resistere ad Auschwitz, al nucleare e alla Nike: questo è il problema. Tenere il motore acceso anche se al minimo. A questo punto cosa racconti è nettamente secondario, ciò che conta è esserci, cioè fare. Faccio una fotografia solo per poterci “lavorare” per dire “ci sono”.” 

A suo modo, ha rimesso tutto in discussione, ha ricominciato di nuovo. Le sole persone che Vimercati ha fotografato nel 1973 sono coloro che abitavano in un paesino della Langa dove andava in vacanza con la famiglia. La figura umana scompare completamente dal suo orizzonte.

 

Franco Vimercati, Vaso (o Le Temps retrouvé), 1982 Series of 6 photographs, gelatin silver prints 26 x 26 cm (each) Ed. 12 + 3 AP Courtesy Archivio Franco Vimercati, Milano e Galleria Raffaella Cortese, Milano; © Eredi Franco Vimercati.


La casa diviene l’unico luogo abitabile, uno spazio chiuso colmo di forme senza alcun contenuto introspettivo, commemorativo o esortativo. Uno spazio chiuso in cui anche il tempo è denso e sospeso, incombente e ingombrante, proprio come lo spazio, che ha la forma seriale degli oggetti domestici. 

 

Si può solo contemplare, immergersi in un tempo che ha perduto insieme alla linearità qualsiasi forma di trascendenza. Un minuto di fotografia equivale a dieci anni in cui ci si può concedere di fotografare una zuppiera. 

Il fotografo non va in cerca di imprevisti o rivelazioni. I suoi oggetti stanno fra il ready-made e l’object trouvé. Egli sta di fronte al proprio mondo domestico e il mondo sta di fronte a lui, si tratta solo di verificare la consistenza visiva dell’oggetto. Né esperienza, né memoria storica. Il passato e il futuro sono coniugati al presente, affinché all’orizzonte non possa comparire mai alcuna delusione.


Solo la continuità disinteressata della contemplazione restituisce il senso dell’apparente immobilità del tempo e insieme del suo trascorrere. “La contemplazione è dare attenzione a qualche cosa, nel lavoro tu devi dare attenzione a quello che fai, devi misurare la temperatura dello sviluppo, l’intensità della luce, l’annerimento di una superficie, eccetera. Non è semplice stampare una fotografia. Se sviluppi un minuto di più, cambia… il sapore, cambia di senso. Occorre un’attenzione, una contemplazione anche nell’operare”, afferma Vimercati.

 

Una serie di gesti che coincidono con il tempo dell’esecuzione, che è l’unica cosa che conta, come in 4’33’’ di John Cage. E per Vimercati il tempo dell’esecuzione è quello della fotografia. Contemplare il tempo significa esplorare le potenzialità del medium, poiché la fotografia non è rappresentazione del mondo, ma riflessione sul proprio linguaggio, come accade con le Capovolte (1995-1997). Si tratta di oggetti che nel fotogramma appaiono rovesciati: un frullatore, una moka, una bottiglia, una grattugia.

Le immagini si proiettano sul fondo della macchina fotografica esattamente come si proiettano capovolte sulla retina dell’occhio umano. Vimercati arresta il processo prima di farle apparire dritte e mostra il puro fenomeno del formarsi dell’immagine. 

 

Franco Vimercati, Senza titolo (Piastrelle), 1975-2020 Series of 6 photographs, gelatin silver prints 27.5 x 27.5 cm (each) Ed. 6 Courtesy Archivio Franco Vimercati, Milano e Galleria Raffaella Cortese, Milano; © Eredi Franco Vimercati.


La traiettoria creativa di Vimercati, scrive Stefano Chiodi, “ha coinciso con l’affermazione della fotografia come mezzo artistico, in particolare nelle pratiche dell’arte concettuale tra anni ’60 e ’70 del secolo scorso. In quel contesto la fotografia diviene uno strumento essenziale per scandagliare il rapporto tra rappresentazione e mondo visibile, per evidenziare caratteri, potenziali latenti”. 

 

Così avviene anche per gli artisti amati dal fotografo: Robert Ryman, Sol LeWitt, Enrico Castellani. In loro Vimercati ammira il saper ridurre la pittura al far pittura, la precisione di un’idea acuita al massimo, perfetta, che può essere ripetuta all’infinito senza correre il rischio di trasformarla in banalità. 

 

Anche la passione per l’arte islamica, afigurativa, è un modo per celebrare la forma che da sempre predilige: “un lavoro che ormai non ha più connotazioni temporali, ma si estende all’eterno, all’infinito; questi disegni sono limitati per forza dallo spazio, ma tendenzialmente vanno verso l’infinito, non hanno la finitezza”, afferma Vimercati. Sembra l’eco montaliano di Quasi una fantasia

 

Penso ad un giorno d’incantesimo 

e delle giostre d’ore troppo uguali 

mi ripago.

 

Mostra: Franco Vimercati, Un minuto, a cura di Marco Scotini. Galleria Raffaella Cortese, Milano dal 30 settembre al 5 dicembre.

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Robert Capa a colori

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L’immagine raffigura un gruppo di soldati francesi che avanza in ordine sparso lungo la diga di una risaia. Sono colti di schiena e in fondo s’intravede un blindato, poi le case di un villaggio. Siamo sulla strada per Thai Binh in Indocina e la fotografia è l’ultimo scatto di Robert Capa. È il 25 maggio 1954 e sono le ore 15. Tra poco Capa metterà il piede su una mina antiuomo e salterà in aria. Con lui voleranno la Nikon S e la Contax, i due apparecchi con cui sta ritraendo la guerra che la Francia conduce contro il generale Giap. Dien Bien Phu è caduta ed è in corso l’evacuazione dei feriti dell’esercito francese. Capa non doveva essere lì. A metà aprile si trova a Tokyo e sta fotografando. Accolto come un eroe dai suoi amici giapponesi, deve trascorrere tre settimane in quel paese. Perché è andato in Indocina a seguire questo conflitto che non è il suo, come gli ha detto John G. Morrison da New York al telefono: “Bob non fare questo lavoro, non è la nostra guerra!”? Life gli ha chiesto di sostituire il suo fotografo, Howard Sochurek, che ha chiesto un congedo di un mese per la malattia della madre. Capa ha risposto di sì, pensa che sia una buona proposta, ben pagata, e poi il conflitto, dice a John nella conversazione, merita un servizio, perciò parte da Tokyo e arriva nel Laos con la Contax al collo. Le immagini che scatta nella prima settimana al fronte sono a colori. Per anni sono state riprodotte in bianco e nero come tutta l’opera precedente di Capa, quella che ora è raccolta a cura del fratello Cornell Capa, anche lui fotografo, e Richard Whelan in un libro mastodontico: Robert Capa (Phaidon 2001).

 

La fotografia di Capa è indubitabilmente in bianco e nero e fa una certa impressione vedere allineate nelle sale Chiablese (ora purtroppo chiuse) dei Musei Reali di Torino una serie innumerevole di sue fotografie a colori: Capa a colori (catalogo Electa). La mostra proviene dall’International Center of Photography di New York e le immagini sono state scelte da Cynthia Young, che firma anche la prefazione al catalogo. È stato a partire dal luglio del 1938, durante la sua permanenza di otto mesi in Cina, che Endre Friedmann, alias Robert Capa, ha usato i primi rullini a colori della Kodachrome. Quattro foto sono state pubblicate su Life nel numero del 17 ottobre: la città in fiamme, le rovine, i soldati. Dal 1941 al 1954 ha usato spesso il colore, così fino al giorno della morte in quel campo indocinese. Il primo servizio a colori appare sul “Saturday Evening Post” nel 1941: la traversata dell’Atlantico a bordo di una nave che trasporta “Sette aerei, due motosiluranti, dodici passeggeri”, come s’intitola l’articolo di Capa. Ha cominciato a scrivere i testi che accompagnano le foto; anzi, nel giornale è stampato: testo di Robert Capa con fotografie dell’autore. Quasi un rovesciamento. A Capa piace scrivere. Il suo stile è quello dell’inviato, sempre in prima persona; qualcosa che ricorda, per iscritto, lo stile di Weegee: colorito, baldanzoso, ricco di dettagli, avventuroso. Le fotografie hanno invece un altro stile, e questo vale per gli altri servizi colorati esposti nella mostra torinese, tranne l’ultimo. Hanno tutti qualcosa di glamour, di posato, come se Capa pensasse più a dei servizi di moda che non alle fotografie scattate in Spagna durante la guerra civile.

 

 

Rinviano a qualche stereotipo, che evidentemente è nella sua testa, come mostra il ritratto del commodoro Magee – il comandante di nave – o il marinaio che fa segnali luminosi alle altre navi – esempio tecnico. Anche il pezzo del 30 agosto, pubblicato sul medesimo giornale, “Un bombardiere di meno”, è accompagnato da fotografie di maniera: il meccanico che di schiena e a torso nudo dà istruzioni a un aereo che decolla dall’Inghilterra per effettuare un raid in Francia, o il gruppo di uomini dell’Aereonautica che osservano la partenza del veicolo. Non posseggono nulla dell’immagine colta al volo, in cui Capa è maestro, nulla di quella icasticità che fa sì che molte delle sue immagini, anche le meno viste e meno note, e meno citate, s’imprimano nella testa di chi le vede ancora oggi, fosse anche solo per una volta. Che sia il colore a dare questa sensazione, oppure invece è proprio Capa che fotografa in un modo diverso con il colore? Entrambe le cose. Intanto c’è da dire che fino a metà degli anni Settanta, come ricorda Cynthia Young nel suo testo, il bianco e nero era dominante. Ci vollero quasi vent’anni prima che il colore conquistasse la credibilità di un medium serio. Non esistevano modelli per questa fotografia che, nonostante quello che oggi possiamo credere, non aveva un retroterra cui ispirarsi. Un po’ come quando il cinema passò dal muto al sonoro: un salto mediatico improvviso. Nel 1935 apparvero i procedimenti sottrattivi a sviluppo cromogeno come Kodachrome e Agfacolor; quest’ultima nel 1939 mise in circolazione una pellicola negativa-positiva che permetteva la stampa su carta di negativi a colori. Capa è un pioniere e si avvia su una strada che non è ancora stata tracciata. Sino a quel punto ha prevalso l’uso del colore in senso documentario e artistico, e il fotografo ungherese è a metà strada tra le due: documenta ed è anche un artista. Basta guardare i ritratti di bambini che costellano la sua opera in bianco e nero, a partire dal 1933, come nel volume curato dal fratello.

 

È solo nel 1959 con Ektachrome che la fotografia a colori assume quella sensibilità che ha il bianco e nero, con le sue sfumature di grigi e con i neri di varia caratura. Le foto della mostra poi sono state recuperate e lavorate al computer per cercare di ritrovare il colore originale. Cornell Capa le aveva lasciate in buste con su scritto: “colore sbiadito”, “solo valore documentale”, “solo valore di ricordo”. L’esposizione torinese ci mostra una vasta gamma di situazioni e scenari, il periodo trascorso in Nord Africa con le truppe americane nel 1943, il viaggio in Urss compiuto insieme a John Steinbeck nel 1948, il ritorno in Ungheria a Budapest dopo la fine del conflitto mondiale, e quindi il reportage in Israele, e ancora le fotografie nelle località sciistiche delle Alpi, in Norvegia, a Roma e a Parigi. Young osserva che le foto militari a colori risentono di una visione teatrale dello spazio e delle persone ritratte. Capa sembra scattare pensando a un set, e questo appare evidente a noi oggi, ma non è detto che lo fosse all’epoca in cui sono state scattate. Le aveva di certo pensate per le riviste stampate in rotocalco, per un pubblico più generico rispetto a quello per cui aveva lavorato negli anni Trenta, che è poi l’epoca d’oro di Capa, il momento in cui il talento naturale, la capacità di cogliere l’istante giusto, gli avvenimenti rilevanti e le situazioni eccezionali congiurano tutte insieme per far fare dell’allievo di André Kertész l’uomo giusto nel posto giusto. C’è una empatia incredibile tra l’occhio che guarda dentro l’obiettivo della macchina e le persone che egli ritrae, un’empatia a doppia direzione, perché in tante foto in bianco e nero di quell’epoca, in cui il mondo andò gambe all’aria e cadde a terra sfracellato, si sente che non è solo Capa a provare un sentimento verso l’oggetto della sua immagine, ma anche il soggetto-oggetto prova qualcosa verso il fotografo che lo sta ritranedo. Che la donna, il bambino o l’uomo ritratto guardino in macchina o no – cosa che spesso accade –, che siano sdraiati a terra e stiano sparando, oppure camminino dentro un corteo operaio, o scappino reggendo qualcosa di prezioso tra le mani, tutti provano qualcosa di molto umano verso chi li guarda e fotografa. 

 

Ogni attimo è prezioso e Capa scatta per afferrare quel quid che è la quintessenza delle sue immagini, anche delle meno riuscite, che poi sono davvero poche. Il quidè iscritto nella sua stessa personalità, nella sua storia così incredibile, quella di un giovanotto ungherese simpatizzante comunista, figlio di una sarta di Budapest, costretto ad andarsene dalla sua città a 17 anni per non essere tenuto in prigione dalla polizia politica di un governo antisemita e reazionario. Bandi, questo il suo soprannome da bambino, era così comunicativo che la gente lo fermava per strada, in un’epoca in cui la relazione tra le persone era qualcosa d’immediatamente affettivo, diretto, senza le mediazioni sociali e culturali poi diventate così decisive dopo gli anni Trenta del XX secolo, quando l’agitazione nervosa delle metropoli europee finì per selezionare una popolazione nevrotica e diffidente.

 

 

Bandi era immediatamente espressivo e di questa espressività se ne è servito per gran parte della sua carriera, che è stata tra le più prodigiose del fotogiornalismo, genere che ha contribuito a creare. In queste immagini a colori emerge invece quell’ironia che spesso è tenuta a freno negli scatti in bianco e nero, che sono per lo più drammatici. C’è nel colore di Capa una sorta di piacere di secondo livello, che non è quello de voyeurismo tout court, ma quello di chi, mentre guarda e preme l’otturatore, pensa: So ben io come va il mondo. Capa lo sapeva fin dalla nascita. C’è in lui qualcosa di manieristico tipico di quelli che sono nati fortunati, che possiedono senza sforzo il tocco giusto, qualsiasi cosa facciano. Quando nel 1911 esce dall’utero di Julia Friedman, Endre ha la testa ancora avvolta nell’amnio, la membrana che circonda il feto, e sotto a questa ci sono tanti capelli scuri: un bambino più vecchio di dieci o undici mesi; aveva anche un mignolo in più, che gli fu rimosso qualche tempo dopo.

 

Capa, l’uomo che si è sempre arrangiato e ce l’ha sempre fatta alla grande, prima di saltare in modo totalmente inatteso e improvvido su quella mina in Indocina, soffriva probabilmente del complesso di Mosè, quello del bambino salvato dalle acque, per quanto il salvataggio se l’era procurato quasi sempre da solo attraverso la simpatia che emanava da lui, quella che sentì Ingrid Bergman appena lo conobbe, e che la fece innamorare di questo ebreo spiritoso, brillante, mediamente bello e dotato di un fascino calamitoso. Ora con queste immagini, alcune delle quali veramente molto belle, il canone di Capa in bianco e nero è senza dubbio da rivedere, anche contro quelli che lo rifiutano in questa veste, come è capitato a Gianni Berengo Gardin in una sua visita all’esposizione di Torino: no il vero Capa è in bianco e nero! Come scrive Young il colore non rientrava, e in parte non rientra nell’idea del fotogiornalismo dominante sino alla seconda metà del Novecento. Neppure il talentuoso Capa l’aveva completamente a fuoco. Non aveva infatti ancora trovato gli stilemi immediati e spontanei che si colgono in tutte le sue fotografie in bianco e nero: naturalità, immediatezza, curiosità, icasticità, esemplarità, unicità. Nel colore c’è sempre qualcosa di oleografico, di pittorico, come se l’immagine fosse più ferma rispetto a quelle scattate con la pellicola in bianco e nero, che sembrano sempre in movimento.

 

Il viaggio a colori nella Russia sovietica in compagnia di Steinbeck, ad esempio, reca con sé l’effetto-cartolina. Capa vuol far vedere al pubblico americano che la vita quotidiana nel regno del comunismo non si differenzia così tanto da quella di chi abita nell’America rurale, che la vita è uguale dappertutto, anche se i costumi indossati, i visi, le fisionomie appaiono differenti. Di sicuro sta muovendo i primi passi col colore come si vede su “Illustrated” del 1° maggio 1948. La guerra fredda è già cominciata da un anno, ma sia lo scrittore che il fotografo cercano di ritardarne gli effetti sulle pagine di quella rivista. Il viaggio in Israele del 1950, apparso sempre sulle medesime pagine di giornale, possiede un tono più antropologico: fotografa i tipi umani, in cui riconosce i contadini degli Shtetl ebraici del Centro Europa: visi antichi e la nascita di una nazione. Antropologia, ma anche lo sguardo del turista. Nel suo testo Cynthia Young parla degli scatti fatti usando una Kodachrome 35 mm a Piccadilly Circus nel 1953 come anticipazione della Street photography di Garry Winogrand degli anni Sessanta. Vi predomina un senso di distacco. La curatrice, parlando delle immagini prese nella capitale giapponese le definisce “istantanee da turista”; è indubbio che il colore intensifica questa impressione. Forse a quell’altezza lo stesso sguardo anni-Trenta di Capa era cambiato; era diventato più cinematografico, più colorato, come mostrano le stesse fotografie prese in Indocina prima di calpestare quella bomba antiuomo.

 

 

Le foto a colori dell’ultima guerra che ha seguito sembrano scattate dieci anni dopo; anticipano quelle della successiva guerra in Vietnam prese dai fotoreporter americani, dove il colore è la componente essenziale, quando già la televisione sta documentando quel conflitto. Il lato glamour di Capa si vede molto bene nei servizi su “Holiday” del 1951 con immagini riprese nelle località sciistiche della Svizzera. Questa è l’altra faccia di Capa, quella che ha come corrispettivo l’epica della vita quotidiana delle sue foto degli anni Trenta. Al fotografo ungherese piaceva tutto ciò che emana fascino, charme e bellezza. Le donne, il buon cibo, gli abiti, il poker, o passatempi come lo sci e le corse dei cavalli. Un viveur che ama la vita mondana, non nella forma del jet set, che pure fotografa a colori, ma in quella della seduzione e della malia, quella che promana dalle foto dei suoi amici attori, dei registi, dai ritratti di Picasso e di Hemingway. Si stenta a riconoscere in queste immagini delle Alpi in inverno con donne che prendono il sole in costume sulla neve o sorseggiano una coppa di vino, nel ritratto del principe Bernardo d’Olanda e delle sue figlie, l’occhio dell’uomo che ha colto il miliziano colpito a morte in Spagna. Invece è proprio lui. L’euforia del dopoguerra, il benessere improvviso, la piacevolezza del vivere ritrovata di colpo con l’incipiente boom economico contagiano in qualche modo Capa, che tuttavia non cessa di essere attratto dai gruppi umani come gli accade negli scatti sulle spiagge francesi.

 

Poi viene la moda a Parigi per “Holiday”, e i ritratti di Roma con gli interni delle case di moda, le serate mondane e quel ritratto di Capucine, la modella e attrice francese, che funge da copertina del catalogo. Mano sotto il mento, sguardo perso nel vuoto, Capucine, già avviata alla dolce vita, s’affaccia da un terrazzo, o finestra, di un palazzo romano; un braccialetto pende al suo braccio sinistro e indossa un maglioncino rosso. Il ritratto della bellezza eterna nella città eterna, che si scorge nel fondo. Messa a confronto con le fotografie che chiudono la mostra, anch’esse a colori, il ritratto della ragazza è un momento di pace e di bellezza in un mondo in eterno divenire segnato dal caos, come mostrano le foto in bianco e nero dei due decenni precedenti. La stessa bellezza, e forse la medesima pace, la si trova anche nella penultima foto di Capa: un interminabile campo su cui camminano i soldati francesi. Sparpagliati, sono in parte coperti dalla vegetazione come dentro un mare d’erba verdegialla, eternamente in movimento ed eternamente fermi. Devono arrivare dall’altra parte, ma tra poco la mina esploderà. La fotografia, questo eterno istante, un momento prima. 

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Ustica, Stragedia per immagini

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Il 27 giugno 1980, l’aereo di linea DC9 Itavia, partito dall’aeroporto di Bologna con destinazione Palermo, precipitò nelle acque del Mar Tirreno, vicino l’isola di Ustica, con tutti i suoi 81 passeggeri. Io non ero ancora nata – sarebbe passato un altro anno e qualche settimana – ma chiare e ben distinte nella mia mente risuonano le figure dei corpi delle vittime che il mare, giorni dopo, ricominciò a restituire ai propri famigliari. “Il primo incontro di un individuo con l’inventario fotografico dell’orrore estremo è una sorta di rivelazione, il prototipo della rivelazione moderna: un’epifania negativa”, scrive Susan Sontag. 

Quando un paio di anni fa andai per la prima volta a visitare il Museo della Memoria di Ustica, dove nel 2007 fu trasferita la carcassa del DC9 Itavia e resa installazione ad opera di Christian Boltanski, ne fui emozionata, scossa, empaticamente coinvolta. Una passerella attorno al relitto dell’aereo scandisce il tempo, il tempo di riflettere e di elaborare anche quello che pensavi di aver già elaborato, ogni passo è il pensiero intimo di ciascuna delle 81 vittime. Questa installazione fa entrare nelle loro vite, in quelli che potevano essere i loro desideri quotidiani, memorandum tra sé e sé, storie private, preoccupazioni di tutti i giorni, pensieri vivi.

 

Nino Migliori Stragedia, 2007-2020 © Fondazione Nino Migliori.


L’installazione di Boltanski lascia lo spettatore con una verità emotiva sull’accaduto: lo fa sentire impotente. La stessa sensazione, ma diversamente vissuta, la si prova immersi in un’altra installazione che ricorda la strage di Ustica, quella di Nino Migliori (Bologna, 1926) intitolata Nino Migliori. Stragedia, allestita all’ex Chiesa di San Mattia di Bologna fino al 7 febbraio 2021. Per il titolo del suo progetto l’artista bolognese sceglie un neologismo, Stragedia– congiungendo l’idea della tragedia a quella di una volontà stragista – in linea con il suo modus operandi di contaminazioni e nuovi processi creativi.

Migliori si indirizza ad una fruizione performativa dello spettatore, usando il suo corpo come elemento dell’installazione stessa e facendo convergere su di esso la tragica e immane violenza di quella catastrofe nazionale, con un impatto fisico oltre che emotivo. 

 

Nino Migliori Stragedia, 2007-2020 © Fondazione Nino Migliori.


Lo spettatore è posizionato sotto un cono di luce che ne limita idealmente l’azione perché oltre i suoi confini regna il buio, attorno a lui sette mega schermi ricoprono una superficie non solo orizzontale ma anche verticale ed inoltre avvolgente, stringendolo, facendogli percepire la propria vulnerabilità, riversandogli sopra la loro totemica presenza, ergendosi su di lui per non farlo respirare, per destabilizzarlo. Quando le immagini di Stragedia – Ustica 1980, prodotte da Migliori nel 2007, emergono dall’oscurità degli schermi sono dei proiettili, arrivano all’occhio dello spettatore con la stessa forza d’urto di un missile. Ad essere sparati sono i particolari della carcassa del DC9, intrisi della loro ruggine, delle loro deformazioni, delle loro rovine, ma anche della loro storia. Ma la loro elaborazione può essere fatta solo a posteriori, quando le luci della chiesa sconsacrata ti riportano alla realtà, perché quello che l’occhio riesce a trattenere da quella raffica visiva sono solo dei flash, delle forme scomposte che scuotono il corpo attraverso la loro scia tragica.

 

Nino Migliori Stragedia, 2007-2020 © Fondazione Nino Migliori.


Le 81 immagini vengono proiettate casualmente sugli schermi, contemporaneamente, ogni tanto ritornano, ogni tanto con una prospettiva differente, è un flusso senza sosta, per 15 minuti senza un respiro. L’impatto delle fotografie – montante come una macchina per diapositive impazzita – viene ancora più enfatizzato dai suoni dispersi nell’ambiente: acqua, voci, sussurri, brusii, qualcosa di indefinibile, qualcosa di catastrofico.
La sequenza di ciascuno schermo non è una narrazione lineare e a cercare di seguirli tutti si perde l’equilibrio, ma penso che sia proprio questa sensazione di stordimento e spaesamento il fulcro dell’installazione. 

 

In minima parte evoca le sensazioni che si possono immaginare mentre un aereo cade: le urla si accavallano, cadono i bagagli dalle stive sopra le teste, tutto quello che hai attorno prende le forme di flash a sequenza rapida e dopo l’impatto tutto tace e il tuo corpo viene ritrovato, dopo un paio di giorni, a pelo d’acqua nel Mar Tirreno.
Quando nel 2007 il relitto del DC9 trova finalmente dimora in quello che sarebbe stato il Museo della Memoria di Ustica a Bologna, in procinto di essere allestito come parte dell’installazione di Boltanski, Nino Migliori trascorre quattro notti a fotografare il riassemblaggio del velivolo, utilizzando la sola luce della fiammella di una candela (tecnica già usata dall’artista bolognese per una sua precedente serie Lumen). Le 81 immagini, come 81 furono le vittime, di Stragedia. Ustica 1980 si soffermano sui dettagli del velivolo, dissezionano ciò che ne rimane.

 

Nino Migliori Stragedia, 2007-2020 © Fondazione Nino Migliori.


Anche se l’approccio, così descritto, può apparire metodico e scientifico il risultato finale non è una semplice rappresentazioni di “reperti”, ma la testimonianza del pathos emotivo e tragico di un evento che ha toccato un’intera collettività, un intero Paese. I particolari che sono stati ritratti perdono la loro apparente nitidezza per tramutarsi in sculture astratte, dalle volumetrie drammatiche, dall’essenza funesta. Un oblò ripiegato su sé stesso dall’urto, diventa una bocca urlante, non solo per una semplice analogia antropomorfa, ma per una sorta di ereditarietà tragica, per un patrimonio del dolore condiviso e rappresentato. Quello che Migliori riesce a riportare alla luce va oltre al piano iconografico e visivo, la sua fotografia risulta multisensoriale e collocata in una quarta dimensione.


Con l’ausilio di una luce che può facilmente e manualmente dirigere a suo piacere, riesce a rappresentare un sentimento realmente vissuto, il senso catastrofico dell’evento in una collettività nazionale e nella Storia. Al di là della resa emozionale dei suoi bianchi e neri che si abitano di ombre e di sussurri la sua azione performativa attraverso la luce della candela trova dimora anche nella volontà di dare una visione sfaccettata del reale, di portare alla luce le diverse prospettive di cui sono parte, di testimoniarne le profondità. Per questo motivo si può sostenere che anche nelle immagini di Stragedia. Ustica 1980– apparentemente influenzate da un approccio più concettuale, performativo e scultoreo del dato visivo – si affacciano le radici del Nino Migliori neorealista e sperimentatore.

 

Nino Migliori Stragedia, 2007-2020 © Fondazione Nino Migliori.


Artista poliedrico e dalle veloci metamorfosi, il focus artistico di Migliori, alla fine degli anni ’40, era indirizzato allo spaccato sociale, antropologico ed identitario di un paese in costruzione, ma contemporaneamente era teso a inventare ossidazioni, pirogrammi e cliché-verre. 

Di questi stessi anni infatti sono sia le serie “del reale” Gente dell’Emilia, Gente del Sud, Gente del Nord e Gente del Delta sia le sperimentazioni Ossidazioni, Pirogrammi, Cellogrammi, Lucigrammi e Idrogrammi. In un unico artista coesistono, quindi, più anime stilistiche, senza che debbano per forza essere classificate in specifiche produzioni o immagini. Negli anni ’60 entra nel suo repertorio anche l’elemento concettuale (Antimemoria, 1968) e in seguito anche quello performativo (Controtempo blu, 1977).

 

L’arte di Nino Migliori torna su se stessa in un continuo alternarsi tra auto-influenzamenti, influenzamenti esterni e nuovi processi di produzione. Del 2006 è Zooforo del Battistero di Parma, prima rappresentazione della serie Lumen che prevede l’utilizzo della luce di una candela come unica fonte luminosa.
Nella produzione di Stragedia. Ustica 1980 Migliori torna a servirsene e particolarmente nell’installazione Nino Milgiori. Stragedia esposta all’ex chiesa di San Mattia questa tecnica risulta utile per condurre lo spettatore, con devozione e silenzio, davanti ai testimoni muti di questa stragedia e per guidarlo tra le luci e ombre dei propri pensieri, senza mezzi termini. 

 

NINO MIGLIORI. STRAGEDIA, 27 giugno 2020 – 7 febbraio 2021, Ex Chiesa di San Mattia, Via Sant'Isaia 14/a Bologna

Orari di apertura: -sabato e domenica ore 16.00 – 19.00

Ingresso libero - Prenotazione: tel. 051 6496611 

Per approfondimenti: https://www.stragi80.it/

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Erik Kessels, found photography

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Erik Kessels (Roermond, 1966) è un artista e curatore olandese. Ha pubblicato oltre 50 libri di immagini trovate, perse, non reclamate o scarti fotografici di cui si è ri-appropriato. Kessels ha espanso il concetto di found photography da una condizione analogica a una digitale, passando dalle ricerche di fotografie nei mercatini delle pulci ai prelievi di immagini dal web. Nel 2011 insieme a Martin Parr, Joachim Schmid, Clement Cheroux e Joan Fontuberta ha co-curato una mostra dal titolo From Here On (A partire da adesso) per Les Rescontres Internationales de la Photographie di Arles, una mostra che ha incluso più di ottanta autori e che ha fatto il punto sulla creazione postfotografica realizzata sino a quel momento. Photography in Abundance di Erik Kessels, una installazione con riversato a terra il volume di fotografie caricate in Flickr in 24 ore, presentata alla fine del 2011 nel museo FOAM di Amsterdam, è una icona della condizione postfotografica in cui nuotiamo ormai da più di un decennio.

 

Sara Benaglia e Mauro Zanchi:"Dato che gli strumenti determinano ciò che è possibile fare, essi determinano anche, in una certa misura, ciò che può essere pensato" (Albert van Helden e Thomas Hankins , 1994). Quali sono i limiti di pensiero generati dallo scattare con una macchina fotografica?

Erik Kessels: Anche se non scatto con una macchina fotografica, guardo le persone che lo fanno. L'unico limite secondo me è la produzione di un'immagine congelata. A parte questo, non ci sono limiti. Si vede attraverso la massa di persone che caricano le immagini online che improvvisamente il mondo è reso trasparente da ciò che si può guardare. Ma possono essere mostrati anche il buono, il cattivo, il brutto, l'osceno, il ridicolo: è in corso un'esplosione, viviamo quasi in un Rinascimento dell'immaginario. Dobbiamo incanalare questo flusso e decidere dove guardare. Altrimenti implodiamo perché ci sono così tante informazioni, ma i confini sono stati erosi. Questo processo è totalmente nudo, non lo si può fermare. Le immagini ci raggiungono, non importa come. Per limitarle dovremmo chiudere tutti i nostri account e concentrarci molto su altre cose. Ma trovandoci costantemente online, con le nostre applicazioni e le nostre reti, siamo raggiunti sempre e costantemente da queste immagini.

 

Erik Kessels, Destroy my face, 2020.


Organizzi fotografie secondo logiche di categorizzazione umane. Il risultato sono schemi mnemonici complessi, ma che differenza c'è tra la tua logica e una algoritmica? Sei un algoritmo di carne?

Lavorare a mano e con un cervello è una cosa totalmente diversa dal lavoro di un algoritmo. La rarità e l'eccezione possono essere testimoniate solo da un umano. Un computer può trovare l'insolito, ma non può apprezzarlo come un umano, non lo riconoscerà mai come farebbe un umano. Apprezzo molto il lavoro I'm Google (2011) dell'artista tedesca Dina Kelberman. Google aveva implementato un sistema di riconoscimento delle immagini, in modo da poter ottenere immagini visivamente simili. Su https://dinakelberman.tumblr.com/ Dina ha caricato tutte le immagini che è riuscita a trovare attraverso una certa ricerca, fino a quando non si è fermata e ha usato una di esse per ricominciare una nuova ricerca. È un lavoro costante, quasi come una catena cinese. Dietro le quinte di questo lavoro c'è naturalmente un algoritmo di apprendimento automatico, ma c'è ancora un intervento umano che lo ha messo in funzione.

 

Le tue immagini sono prodotte per umani? Che tipo di umani?

Ho curato una mostra in cui ho esposto il lavoro dell'artista olandese Batia Suter. Lei aveva installato una stampante Epson. Aveva scattato una fotografia della stampante aperta con il foglio in uscita. Stampò quella foto nel formato di dieci per cinque metri di altezza, usando la stessa macchina fotocopiatrice per stampare degli A3, che poi ha montato per ricostituire l’immagine della fotografia. Insomma, l'A3 riproduceva la propria immagine. Le macchine non hanno idee. Le idee che esse hanno sono messe dentro di loro dall'uomo. E anche l'intelligenza che è nelle macchine è creata dall'uomo.

 

Riproporre immagini trovate secondo una catalogazione /distribuzione /allestimento personali è una forma di revisione? Come cambia la nostra relazione con il tempo?

Chi lavora con l’appropriazione crea una sorta di pausa. Già le fotografie la producono naturalmente, ma estrarre immagini dalle masse a cui appartengono, selezionarle e mostrarle determina qualcosa di diverso. Con queste immagini si può creare una pausa temporale.

 

Sei un collezionista o un fotografo amatoriale?

Nessuno dei due. A volte la gente dice che sono un collezionista, ma non lo sono affatto. Suona abbastanza strano, perché colleziono collezioni, ma per me il collezionismo è un fatto anale. L'atto di collezionare è fatto solo per il feticcio di riunire così tante cose insieme. Nel mio caso raccolgo materiale di lavoro. Per esempio, per un certo periodo di tempo ho raccolto molti vinili musicali con alcune immagini sopra. Li ho usati per un lavoro, ma ora non riesco più a guardarli. L'attenzione che ho dato a quegli oggetti era molto concentrata: li ho usati per un lavoro solo per mostrarli e per chiedere alla gente di guardarli in modo diverso.

D'altra parte, non sono nemmeno un dilettante, sebbene nel mio modo di guardare io sia affascinato dai dilettanti. Penso che molti professionisti possano imparare molto dai dilettanti. Più dilettanti si è meglio è. Ho molto rispetto per i dilettanti anche perché sono totalmente aperti, molto capaci di sbagliare, non hanno paura perché sono ciechi per la loro passione. A volte inietto nel mio lavoro un sacco di dilettantismo, solo per costringermi ad avere un approccio dilettantistico attraverso di esso.

 

La bassa risoluzione è un valore in sé?

Certo. Non c'è alcun valore nella risoluzione. Ogni risoluzione ha un valore. Bassa risoluzione equivale a un'immagine totale sbiadita del passato, come una fotografia analogica graffiata e scolorita. Ma questa bassa risoluzione è anche tattile. È correlata ad una certa estetica, un look e una matericità che significano qualcosa anche a livello concettuale.

 

Erik Kessels, In almost every picture #1, 2001.


In almost every picture #1 è un percorso fotografico che attraversa la vita di una coppia in un arco temporale di dodici anni. Hai trovato queste immagini in un flea market di Barcellona, e l'identità dei due è andata perduta. Com'è cambiato l'approccio alla found photography con Internet, anche in termini legali relativi alla persona e al suo privato?

Innanzitutto l'uso di immagini esistenti da parte degli artisti è molto vecchio: se ripensiamo agli anni Cinquanta e Sessanta molte persone hanno usato immagini esistenti. Nel mio caso, quando l'ho fatto per la prima volta, avevo 400 immagini di una donna spagnola già da tre anni. Nel mio studio a volte le mostravo a chi passava e a un certo punto mi hanno detto che dovevo farci qualcosa perché era una serie così bella, di cui tutti avrebbero dovuto godere. All'epoca cercavo anche di sapere se la donna nelle fotografie era ancora viva e alla fine ho scoperto che era morta e che anche suo marito era morto. Ma so il suo nome. Ho saputo il suo nome da una sua collega, che è una donna sui 70 anni ancora viva. Molte volte, quando si trovano delle foto o degli album al mercato delle pulci, i loro proprietari sono morti. Penso che sia una buona cosa quando riesci a scoprirlo, ma lavoro anche con persone che sono ancora vive e ho molti contatti con loro. Per esempio, vedo una volta ogni uno o due mesi la donna che spara in uno dei miei libri. È olandese, compirà 100 anni quest’anno, siamo amici. Ho anche contatti con altre persone mostrate nelle mie opere.

Penso di avere delle responsabilità nell'uso delle fotografie altrui. Per esempio, ho trovato molte fotografie amatoriali erotiche e non le userò, perché potrebbe esserci ancora un bambino o una qualche situazione che potrebbe arrecare danno a terzi.

In almost every picture #16è un libro che contiene immagini erotiche scattate da un marito a sua moglie. In quel caso ho avuto il permesso di pubblicazione da parte delle due figlie, che ora hanno compiuto sessant'anni. Mi hanno anche chiamato per sapere se potevo fare qualcosa con queste immagini.

E quando si producono opere con molte immagini, come la serie dei cazzi (quella in cui molte persone mostrano il loro pene accanto a un oggetto comune per mostrare online quanto misuri), non c'è bisogno di chiedere il permesso, perché questa è una metafora di qualcosa. 

 

Erik Kessels, In almost every picture #16, 2001.

 

Erik Kessels, In almost every picture #16, 2001.


Models (2005) raccoglie 132 immagini di uomini che indossano uniformi. Si tratta di immagini scattate negli anni Settanta in Germania per istruire i militari circa il modo in cui avrebbero dovuto indossarle. La fotografia, realtà, verità o finzione che sia, come ci influenza?

In questo caso era stato chiesto a diverse regioni di polizia di fotografare la propria uniforme in modo indipendente. Tutte le regioni di polizia hanno adottato approcci diversi nel modo in cui hanno fotografato le loro uniformi. 

Probabilmente non c'erano modelli, ma è stato chiesto agli agenti di polizia stessi di posare per questo servizio fotografico. Quindi per me queste foto sono di per sé finzione, ma il fatto che questi siano modelli scontrosi e non speciali che recitano sé stessi dà un tocco umano a queste fotografie, e le rende interessanti.

È qualcosa di molto speciale quando verità e finzione si sovrappongono in un mix confuso. Quando si ha solo finzione o solo verità esse sono mere categorie, ma quando si incrociano e si toccano diventano interessanti.

 

Erik Kessels, Models, 2008, Arles.


My family (2000 – in corso) è un album di famiglia i cui soggetti sono i tuoi tre figli, a cui hai scattato una foto ogni volta che si facevano male giocando. I genitori con Smartphone fotografano i figli costantemente, obbligandoli a sorridere, mostrando le loro doti d'ingegno e intelligenza (?). Questi bambini un giorno come fotograferanno i propri figli?

Non è mia intenzione manipolarli, ma sono manipolati, ovviamente. Per esempio, quando scatto loro una foto normale, chiedo loro di non ridere perché è bizzarro che ogni bambino o adolescente, anche amici dei miei figli, quando gli chiedi se puoi scattargli una foto, si mettono a ridere. Ma questo è solo un modello, è solo un cliché. È un comportamento stereotipato. Così, quando si chiede loro di non ridere ma di mantenere un comportamento rigoroso, quando mostro loro l'immagine finale la trovano molto più interessante di quella in cui ridono. Si tratta di piccoli giochi: ecco l'immagine di te che ridi, ecco l'immagine di te che sei mortalmente serio. Quale ti piace di più? E a loro piace sempre molto di più quella in cui sono molto seri, perché è molto più intensa e vera. Così, a volte gioco con loro per mostrare queste metafore, quindi ne sono naturalmente influenzati.

 

Erik Kessels, My family, 2000.


Qual è la storia del Photo Cube? In Italia non ha mai preso piede.

Penso che il Photo Cube sia qualcosa che viene dall'America. Qui ne ho uno. È un cubo trasparente, apribile, con immagini stampate al suo interno, immagini di modelli. Queste immagini scelte ti insegnano quanto sia bello fare una foto a tua nonna o a te stesso o a tuo figlio su una bicicletta e ti mostrano anche un esempio o un modello per farlo prima di installare la foto nel cubo. L'immagine del modello scomparirà quando il nuovo scatto verrà inserito lì. Ma che tipo di modelli fotografici ci ha messo la fabbrica? Ci sono molti cubi fotografici diversi e tutti possono mostrare ciò che è buono e ciò che non lo è. È quasi come un tutorial di ripresa di ciò che si dovrebbe fare e ciò che non si dovrebbe fare.

 

Erik Kessels, Photo cubes, 2007.


Strangers in my Photo Album: hai mai ricevuto reclami circa la proprietà di immagine da uno sconosciuto nei tuoi lavori?

No. Una volta ho fatto un libro intitolato The Instant Man, dove ci sono uomini del Bangladesh che vendono foto scattate da loro attraverso Polaroid insieme a fiori. Per un certo periodo di tempo ho dato loro dei soldi per quelle foto, ma chiedendo in cambio "Posso farti una foto", dopo di che prendevo la macchina fotografica e scattavo loro una foto. Solo una volta uno di questi uomini si è rifiutato di farsi fotografare da me e di vendermi il suo ritratto. Quella è stata l'unica volta in cui è successa una cosa del genere. 

A Toronto una volta stavo mostrando 24hrs in Photos e un visitatore ha riconosciuto la sua ragazza in una delle immagini. Era come trovare un ago in un pagliaio, un evento del tutto eccezionale. Ma questa è una metafora sul fatto che quando uso le immagini è quasi impossibile che qualcuno vi riconosca chi è stato ritratto.

Strangers in my Photo Album era un progetto completamente diverso: in alcune immagini di me stesso ho visto sullo sfondo degli sconosciuti, ma questa è un'altra idea.

 

Erik Kessels, The Instant men, 1999.


Unfinished Fatherè un fotomontaggio?

Mio padre è stato in terapia intensiva per un periodo di tempo piuttosto lungo a causa di un'emorragia cerebrale. Mi hanno chiesto di portare un progetto a Reggio Emilia e mi hanno mostrato lo spazio che avrei avuto a disposizione. Mio padre aveva restaurato la sua Fiat Topolino ma non era riuscito a finire l'ultima parte del lavoro. Ho portato la macchina a Reggio Emilia e ho guardato le foto che mio padre aveva scattato della progressione del restauro della macchina. Quello che faccio spesso prima di una mostra è fotografare la mostra, dove si trova, e poi qualcuno con cui lavoro in Google Sketch disegna l'intero spazio. Poi si possono spostare le cose e ci si può giocare. Alla fine il fatto di tenere tutte le immagini sul pavimento è stata una decisione per mantenere un senso di incompiuto. Se hai una mostra sul pavimento è incompiuta, perché di solito vedi le immagini sul pavimento prima che siano appese al muro. L'opera era pre-prodotta, frutto di un progetto. Ma l’ho installata in modo che non sembrasse costruita.

 

Una tua opera è composta da una selezione di scatti che una donna vestita si è fatta fare mentre era immersa in una piscina. Perché?

È una cosa che ho trovato in Flickr. Si tratta di Fred e Valery, due sessantenni che vivono in Florida e hanno questo fetish per cui Fred fotografa Valery ogni giorno mentre legge in acqua (in piscina, in una fontana, nel fiume, nella doccia...). Ho trovato queste immagini e ho chiesto loro il permesso di pubblicarle. Ho fatto un libro con i loro scatti e le prime 100 copie sono state stampate su carta impermeabile. Ho inviato loro la prima copia del libro e gli ho chiesto se potevano fare nuove fotografie usando il libro inviato loro. Fred è stato molto felice di ricevere il libro e di scattare foto di Valery in acqua mentre lo leggeva.

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Giulio Paolini a Rivoli: una conversazione

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Giulio Paolini compie ottant'anni e festeggia la sua lunga carriera con una mostra di opere inedite al Castello di Rivoli, luogo intimamente intrecciato alle vicende dell'Arte Povera. Così è il lavoro dell’artista, si muove senza requie tra un’infinità di punti collocati nello spazio-tempo, oscillando tra la fine e l’inizio e sempre rinnovando un incessante dialogo tra sé e l’opera. Il titolo della mostra è un indizio certo dei temi che si dispiegano nelle tre sale allestite al secondo piano della residenza sabauda, frutto della stretta collaborazione con la curatrice Marcella Beccaria. Il tema cruciale della visione, la relazione tra supporto e immagine, la storia dell’arte come fonte inesauribile d’ispirazione, l’artista come spettatore sono alcuni dei topoi: molti dei temi che hanno puntellato la ricerca decennale del più borgesiano degli artisti italiani sono racchiusi in questa mostra ricca ma asciutta, che da un lato funziona da compendio a una parabola lunga e fertile, e dall’altra rinnova il desiderio di proseguire un’indagine potenzialmente senza fine.

 

Partendo da Disegno geometrico del 1960, il primo ambiente ospita la grande installazione composta da nove cavalletti disposti lungo la raggiera del reticolo prospettico, riprodotto sul pavimento della sala. Nove cavalletti che rimandano al numero delle Muse e che sorreggono lastre di plexiglas nel quale sono inseriti piccoli frammenti di carte, elemento ricorrente nella produzione paoliniana. Sospesa, al centro della sala, una cornice assemblata con delle lastre di plexiglass invita lo sguardo dello spettatore a elevarsi, mentre alcuni frammenti fotografici di un cielo sono disposti sotto il cavalletto centrale. L’universo di Paolini si irradia da quel primo gesto pittorico, quella tela concreta, rappresentazione apparentemente neutra che riporta lo schema di una prospettiva, giocando con seria levità in coincidentia oppositorum tra assenza e presenza, edificando un impero di immagini dove il vero lascia il posto alla dimensione squisitamente mentale dell’opera.

 

Giulio Paolini Disegno geometrico (Geometric Drawing), 1960 Courtesy Fondazione Giulio e Anna Paolini, Torino Foto / Photo © Mario Sarotto, Torino © Giulio Paolini.


Nella seconda sala, intitolata Vertigo, le opere, datate a partire dagli anni ‘90, rimandano ad altre ossessioni e a cicli tematici esplorati nel corso degli anni, come Promemoria (2017), nella quale i ritratti di numi tutelari dell’arte compongono un consesso ideale che si aggancia a quel più vasto “teatro metafisico” di cui scrive Andrea Cortellessa nella prefazione del volume Recital (idealmente collegato alla mostra e costituito dagli “appunti a capo” dell’artista che si affiancano alla già nota produzione poetica). Qui e là, nelle geometrie quasi esoteriche del modello di Dall’Aurora al Tramonto (del 2020), nella micro catastrofe delle fotografie affastellate di Vertigo (2020), si coglie quella passione lucida, tutta distillata dall’intelletto, che percorre la produzione “settecentesca” dell’antinaturalista Paolini. In Senza più titolo (2010) si palesano i numerosi echi dechirichiani, mentre Omega 1948 2018 (2019), allestito insieme a A occhio nudo (1998), appunta quell’oscillazione della presenza che si sostanzia in una immaterialità che non è mai negazione, bensì un vuoto dove il senso si coagula: in una teca di vetro, Paolini colloca l’orologio donatogli dal padre che ha indossato per buona parte della propria vita, e sopra la teca installa la fotografia di una stella dove la luce viene virata al nero, trasformandola in una sorta di buco nero. 

Fine senza fine, l’ultima sala, accoglie opere accomunate da un interrogativo, quel paradosso che le rende sostanzialmente indecifrabili ancorché all’apparenza limpide, evidenti. Ci sono  l’opera infranta, negli sguardi vicendevolmente intrappolati di “Fine”senza fine (Vis-à-vis) e L’immagine di un’immagine, due opere del 2020 nelle quali Paolini raffigura rispettivamente Narciso e Plotino, il giovane che si innamora fatalmente di sé stesso (mito che evoca l’inafferrabilità dell’immagine, l’impossibilità di raggiungere l’oggetto dello sguardo che è anche l’oggetto del desiderio) e il filosofo padre del neoplatonismo che rifiuta di farsi ritrarre, disprezzando il proprio corpo in quanto simulacro. 

 

I would prefer not to (2020) inscrive Paolini nel circolo dei bartlebyani, quegli artisti che si ritraggono, compresi come sono in un fare ostinato che è volto tutto alla pratica dell’arte e non del sé, che rifiuta il commento, il coinvolgimento con l’attuale, l'investitura. Vuoto, ancora, e in negazione è il set di Il modello in persona (2020), dove l’artista raffigura lo studio disabitato, così come in absentia agisce la valigia che galleggia in mezzo alla sala, sospesa a un filo, di Deposizione (2018-2020), che diverte e sgomenta per il richiamo cristologico che si sovrappone al tropo dell’attore. Non è possibile stabilire se si tratti di un’ascesa al cielo o una catabasi, e forse l’una non è che lo specchio dell’altra. L’artista non finisce di sparire eppure is present, riesce a farsi fantasma e a infestare le proprie stesse opere, ingaggia una lunga negoziazione con il tempo che nella dimensione del museo e nel dispositivo dell’opera si piega e si dilata, cristallizzandosi. Non c’è operazione di scavo, Paolini evita la tentazione dell’archeologia anche quando attinge all’archivio, al ready made o si avvale della citazione: nella ricerca di un ordine sempre transitorio, una messa in scena coerente ancorché percorsa da fratture e incidenti, si dispiega quel regno del visibile in cui egli è principio ordinatore ed esegeta silenzioso, attore e testimone di un’evidenza che non esaurisce il suo stesso enigma. 

 

Giulio Paolini L’immagine di un’immagine (Narciso) (The Image of an Image – Narcissus), 2020 Courtesy Fondazione Giulio e Anna Paolini, Torino Foto / Photo Luca Vianello © Giulio Paolini.

 

Giulio Paolini L’immagine di un’immagine (Plotino) (The Image of an Image – Plotinus), 2020 Courtesy Fondazione Giulio e Anna Paolini, Torino Foto / Photo Luca Vianello © Giulio Paolini.


Vorrei iniziare dalla fine, che nella sua ricerca è sempre stata una sorta di promessa felicemente tradita. In questa mostra, fatta soprattutto di inediti, l’ultimo spazio espositivo si intitola “Fine” senza fine. Anche in questa occasione lei sembra affermare la capacità specifica dell’arte di mettere in scacco il tempo e di riattualizzare questioni che si dimostrano inesauribili. C’è un piacere e un mistero in questa vertigine, e proprio in quel mistero insolubile mi pare si riveli un aspetto ermetico del suo lavoro, per altri versi così luminoso e organizzato. Esiste questa dialettica interna nella sua ricerca e quale ruolo ha giocato il tempo all’interno del progetto della mostra?

Vorrei finire dall’inizio, non solo per amor di simmetria a questa prima domanda, ma per applicare e confermare l’autorità suprema e indiscutibile del tempo, del “qui e ora” o del “mai più” come riferimenti complementari e intercambiabili.

Una vertigine – o un’immobilità – dettata dal voler possedere il senso – o la distanza – che ci unisce o separa dal tutto. Visibile o invisibile, ogni cosa è sempre qualcosa che è lì a interrogarci, più o meno sommessamente.

Dunque, questa mostra esplora la dimensione del Tempo (con la T maiuscola) come elemento primario della “messa in scena” espositiva. Una pura dimensione, dotata di coordinate, di dati… o meglio di date. Da sempre conservo l’innata predilezione per un tempo circolare, sempre più lento fino a sembrare immobile… 

 

 

La sua mostra si apre con la ripresa del suo primo lavoro, il celebre Disegno geometrico del 1960. Stavolta però lo spettatore entra letteralmente nello spazio prospettico e la griglia non è più solo una forma simbolica, ma un luogo reale. L’organizzazione dello spazio, in qualità di prodotto culturale, ha subito una profonda evoluzione nei secoli. Oggi per lei che valore ha assunto?

Possiamo trovarci in uno spazio definito come una “misura” oggettiva e conclusa oppure concepirlo in chiave soggettiva e ipotetica, dettata dalla dimensione virtuale della rappresentazione. 

Nel caso dell’installazione al Castello di Rivoli dal titolo Le Chef d’oeuvre inconnu ho voluto cercare di incrociare nello stesso luogo una dimensione fisica, addirittura praticabile ed esperibile concretamente con una dimensione puramente teorica e mentale. Ho voluto cioè delineare al suolo il tracciato virtuale e amplificato del mio primo (e ultimo) quadro, Disegno geometrico, datato 1960. Nove cavalletti sono disposti in corrispondenza dei nove punti della squadratura di quel disegno, ognuno di essi regge una teca trasparente di dimensione multipla del quadro originale, tracce, ritagli, frammenti indecifrabili di figure tratte da libri e manuali conservati nel mio studio sono trattenuti e visibili ai margini delle teche poste sui cavalletti. 

Al centro della sala, fulcro originario dell’intero tracciato, il cavalletto è il solo privo di teca, come in “attesa” dell’elemento sospeso in alto, fine (o inizio) di un istante incompiuto. 

Sulle quattro pareti della sala vengono inoltre delineate altrettante ipotetiche varianti di Disegno geometrico; le pareti diventano dunque proiezioni e ingrandimenti di quanto già annunciato a terra e sui cavalletti.

 

Il titolo della mostra e la prima installazione rimandano al racconto di Balzac Il capolavoro sconosciuto. Mentre il protagonista del racconto è ossessionato dall’idea della perfezione, nel suo caso lei sembra essere da sempre molto più interessato alla testimonianza del processo che spinge l’artista a proseguire inesorabilmente la propria ricerca, a questo lavoro senza fine che presuppone il fallimento come condizione implicita del fare artistico. 

Un fallimento trionfale – se così posso dire – che consente di riprendere voce di volta in volta, di “enunciare il silenzio” come premessa essenziale di un mondo “altro” depurato dall’incessante brusio quotidiano al quale desideriamo sottrarci.

 

Il suo lavoro è sempre stato contraddistinto da una mise en abyme, una vertigine dello sguardo che si sposta diacronicamente lungo il corso dell’intera storia dell’arte, trasportando lo spettatore in una casa degli specchi o, se vogliamo, in una biblioteca infinita. Oggi questa vertigine mi sembra appartenga al digitale, che è diventato lo sterminato archivio della storia umana. Come vede oggi la relazione tra il sapere storico-artistico e la dimensione digitale?

Tutto sta nella capacità di ridurre la potenzialità del digitale a “cosa”, a qualcosa di relativo e connaturato ai canali dell’informazione. Un pieno che apre – e non conclude – un vuoto destinato a perdurare al di là degli irraggiungibili confini dell’universo.

 

Giulio Paolini Courtesy Fondazione Giulio e Anna Paolini, Torino Foto / Photo © Luciano Romano, Napoli.


Sempre a proposito di teatro, le sue stanze mi fanno pensare agli spazi della mnemotecnica rinascimentale, vere e proprie architetture mentali dove lo studioso o il retore potevano organizzare il sapere e renderlo accessibile e funzionale. Mi chiedo se gli spazi della mostra in corso non abbiano una parentela con quei teatri, e in qualche modo attualizzino quella forma di pensiero visivo, traducendo i phantasmata in entità incarnate, o meglio, oggettificate. Cosa ne pensa?

In teatro lo spazio ben determinato del palcoscenico diviene il luogo fisico e mentale che ci apre e conduce ai limiti della “sacra rappresentazione”. Un’apoteosi, che ci colloca fuori tempo e fuori luogo come nessun altro artificio del linguaggio riesce a raggiungere. 

Il teatro, peraltro, è la dimensione perfetta, se così si può dire, di quel qualcosa che si propone come alternativa radicale alla nostra realtà corrente. Qualcosa di esauriente e convincente che si contrappone alla nostra esperienza di vita vissuta. Vorrei augurarmi che la sale di questa mostra riescano a produrre lo stesso effetto.

 

Nella mostra, vediamo intessuto un sottile gioco di rimandi tra spazio espositivo e spazio privato. Si tratta in entrambi i casi di due forme di teatro, in cui la messa in scena dell’opera in un caso e della vita intima nell’altro presuppongono una relazione imprescindibile con lo spettatore. In riferimento alla sua ricerca, mi sembra che la figura dello spettatore sia sempre stata coincidente quella dell’autore, testimone della propria stessa opera. Come è cambiato per lei questo rapporto dialettico tra lo sguardo esercitato dal sé autoriale e lo sguardo dell’estraneo, dell’altro?

Mi vedo tenuto a ripetere ancora una volta il mio ruolo di (primo) osservatore dell’opera della quale tutto concorre ad affermare di esserne stato (proprio io) l’autore. Credo cioè alla figura dell’autore come artefice visitato dall’ospite ignorato e sconosciuto (l’ispirazione) che gli detta il da farsi: ed è proprio il farsi stesso dell’opera a compiere il prodigio al quale assistiamo.

 

L’impossibilità di pervenire a una forma compiuta dell’opera d’arte, condannata a una verifica continua, a un incessante divenire destinato a non ripristinare mai il nucleo originario e assoluto da cui proviene. In questa circolarità dell’opera si delinea anche l’impossibilità di una retrospettiva canonicamente intesa. L’idea di questa “cacciata dal Paradiso” ha giocato un ruolo anche nella concezione di questa esposizione?

Proprio così: ancora una volta è il Tempo a fare e disfare le verità che ci sembrano incorruttibili. È proprio l’“Adamo” affidato a sé stesso che pur senza volerlo si trova così obbligato a rinnovare, resuscitare ogni volta il proprio ruolo, la controfigura che è destinato a impersonare.

 

Al centro della sua ricerca c’è lo sguardo inteso come strumento di conoscenza. La contemporaneità è caratterizzata da un surplus informativo causato da quella che Fontcuberta ha definito “la furia delle immagini”. Possiamo ancora ritenere l’atto del guardare uno strumento affidabile per relazionarci con il reale o la proliferazione incontrollata di immagini il cui statuto è difficilmente accertabile ci pone di fronte a uno scacco insormontabile?

Non c’è che ricordare, inchinarsi commossi davanti alla pagina scritta che, meglio di qualsiasi argomentazione, ci illumina sulla differenza tra guardare e vedere. Scrive Jorge Luis Borges nel racconto “Una rosa amarilla”:

“Né quella sera né la successiva morì l’illustre Giambattista Marino […], ma il fatto immobile e silenzioso che allora accadde fu veramente l’ultimo della sua vita. Carico d’anni e di gloria, l’uomo moriva in un vasto letto spagnolo a colonne intagliate. […] Una donna ha posto in un vaso una rosa gialla; […] Allora accadde la rivelazione. Marino vide la rosa, come poté vederla Adamo nel Paradiso, e sentì che essa stava nella propria eternità e non nelle sue parole e che noi possiamo menzionare o alludere ma non esprimere e che gli alti e superbi volumi che formavano in un angolo della sala una penombra d’oro non erano (come la sua vanità aveva sognato) uno specchio del mondo, ma una cosa aggiunta al mondo […].”

 

Giulio Paolini No Comment, 1991 Courtesy Fondazione Giulio e Anna Paolini, Torino Foto / Photo Paolo Pellion © Giulio Paolini 


Nel corso della sua carriera lei ha realizzato moltissime mostre. Il museo, ancora più che la galleria, si sta trasformando, sotto la pressione di un pubblico che ha nuove esigenze mostre più coinvolgenti, tempi di fruizione più rapidi, richieste di servizi aggiuntivi che non hanno a che vedere con l’arte ma anche maggior legame con i territori e le comunità locali. Sente che la dimensione museale ha ancora una sua valenza che le interessa indagare e quale tipo di forma/statuto si augura possa acquistare il museo del futuro prossimo?

Ebbene, è proprio il caso di dirlo, le deviazioni, i compromessi che l’accoglienza del museo è oggi tenuta ad offrire (quasi un ritrovo, una pausa per turisti e famiglie) non depone a onore né a vantaggio dell’istituzione. Concessioni che sembrano andare incontro a quei bisogni sottraggono in verità attrattiva e riservatezza al fascino di luoghi di elevato prestigio. Luogo di “clausura” piuttosto che di passaggio, sembra essere la vocazione ideale del Museo.

Oggi la politica ha messo radici nell’arena, risiede nella piazza (del popolo). L’arte è accolta nei confini di una località segreta, chiamata a volte esilio o rifugio. La politica gode della garanzia del numero (del grande numero), l’arte comunica in codice, i suoi sono segnali cifrati. La politica considera il mondo come un territorio governato, o governabile, da una armonia dove generalmente prorompe un cieco e dogmatico culto della Natura. L’arte osserva invece il mondo a dovuta distanza e ormai da tempo ha capito che non conviene neppure pensare di correggerlo.

 

Corsi e ricorsi storici fanno sì che oggi godano di grande attenzione tutti quegli autori che dichiarano di fare arte politica, che operano come cronisti del quotidiano e non temono di dichiarare il proprio impegno verso le cause civili. Lei è stato una delle figure di riferimento dell’Arte Povera, in un momento storico dove la politica era al centro degli interessi della collettività, eppure sappiamo che la costellazione che deve il nome a Germano Celant era composta da artisti eterogenei, che declinavano l’impegno politico in maniera ben più problematica di quanto una certa narrazione abbia poi scelto di raccontare. Il suo caso, per esempio, è quello di un artista che ha costantemente ragionato su un’arte che riflette su sé stessa e ha mantenuto una distanza programmatica da ciò che era il commento dell’attualità. Qual è la sua relazione con il contingente, con ciò che le è contemporaneo?

Troppi equivoci sono provocati dalla credenza, ampiamente condivisa, che individua l’artista come interprete del suo tempo. Il tempo che conta non è il suo, ma quello dell’opera, alla quale non corrisponde l’arco di esperienze della vita dell’autore. Al contrario, dalla vita – sua o non sua – l’artista prende distanza tale da consentirgli di orientare lo sguardo altrove.

Sullo slancio di questa domanda, eccomi incoraggiato a esporre una nuova invettiva. Alla mia età (ma già da molto prima, da sempre direi) ho maturato qualche convinzione. Tra queste, l’assoluta certezza dell’autonomia dell’arte rispetto alla realtà contingente. È questa una lunga, forse interminabile vicenda che l’arte e la sua storia rinnovano da sempre e sulla quale credo sia inutile schierarsi. Da parte mia ho sempre ritenuto l’esistenza dell’una e dell’altra assolutamente indipendenti, addirittura contrapposte.

Vorrei dire, a commento forse improprio ma sincero che l’arte (quando c’è) è cosa nobile; al contrario della realtà che (molto spesso) è ignobile.

 

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I marmi Torlonia

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Innanzi tutto, c’era una promessa. E poi c’è un racconto”. Con le due parole chiave “promessa” e “racconto”, Salvatore Settis, curatore della mostra insieme a Carlo Gasparri (l’archeologo che nel 1976 fu incaricato dal Pretore di Roma di verificare le condizioni delle sculture della collezione della famiglia Torlonia e, tuttora, uno fra i pochi ad aver visto la raccolta nella sua interezza), introduce l’attesissima mostra I marmi Torlonia, col significativo sottotitolo Collezionare capolavori. Sospirata non solo per l’opportunità di vedere finalmente le opere classiche di raffinata bellezza, ad oggi ammirate solo da pochissimi eletti, ma anche per il rinvio da aprile a ottobre, dovuto alla pandemia covid-19, e perché pianificata ben quattro anni fa, a conclusione di un duro percorso giudiziario, andato avanti senza esclusioni di colpi. Infatti, chi ha seguito fin dall’inizio la genesi di questa mostra, sa che essa parte da lontano, dagli anni Sessanta. Ma anche chi non la conosce, immediatamente intuisce che dietro c’è “qualcosa”. Una storia piuttosto complessa e intricata, che sembra giungere, con questa mostra, a quella che alcuni hanno giustamente chiamato una “win win situation”.

 

E, come in molte storie con i toni di un giallo, nonostante sembri facile individuare il “colpevole” in Alessandro Torlonia (1925-2017), in realtà ci sono diversi protagonisti altrettanto “responsabili”. Al punto che, per non continuare a portarla avanti per ulteriori decenni, nel 2016 si giunse alla “promessa”, come la chiama Settis. Per l’esattezza un accordo tra la nobile famiglia romana, nella persona di Alessandro Torlonia prima, e suo nipote Alessandro Poma Murialdo poi, e lo Stato – Ministero per i Beni Culturali, inizialmente col direttore generale della antichità Gino Famiglietti, in seguito col ministro Dario Franceschini. In sintesi, tutto ha inizio allorquando Alessandro Torlonia chiede e ottiene l’autorizzazione per effettuare dei lavori di sistemazione del tetto del palazzo di via della Lungara. Attenzione, lo stesso palazzo cha dal 1859 accoglieva le 620 sculture distribuite nelle 77 sale di quello che, nel 1875, diventerà il Museo di Scultura Antica della leggendaria collezione Torlonia. Leggendaria perché il principe si riservava la possibilità di concedere o meno l’opportunità di visitarla, a volte non autorizzando neanche celebri studiosi (è noto l’originale stratagemma messo in atto dal famoso archeologo Ranuccio Bianchi-Bandinelli per accedere alle sale). Lavori che poi si sono rivelati una vera e propria trasformazione del palazzo in 93 miniappartamenti, col conseguente smantellamento del Museo, e relativo accatastamento alla bene e meglio delle opere in tre stanzoni dei magazzini al piano terra del palazzo, e l’accusa, da parte dello Stato, di abuso edilizio (sul palazzo c’era un vincolo già dal 1948).

 

Fanciulla da Vulci, Marmo lunense. Alt. m. 0,70; testa m. 0,21 Inv. 489 DIDA: Collezione Torlonia, Fanciulla da Vulci, ©FondazioneTorlonia PH Lorenzo De Masi.


Iniziano a fioccare denunce (tra cui quella di aver trattenuto reperti archeologici rinvenuti durante campagne di scavo anziché consegnarli allo Stato, come previsto dalla normativa entrata in vigore nel 1909) e controdenunce, accuse (tra le tante, che alcuni pezzi fossero usciti dai confini italiani per approdare negli Stati Uniti, nonostante ci fosse un vincolo già dal 1910), recriminazioni (tra gli eredi di Alessandro Torlonia, che hanno contribuito non poco a complicare ulteriormente la situazione), fino ad arrivare alla disposizione, da parte della Pretura, del sequestro, ciò che spiega l’entrata in campo di Carlo Gasparri. Sotto il governo Berlusconi fu addirittura avanzata l’offerta di acquistare l’intera raccolta ad un prezzo (si può anche dire, giustamente) rifiutato dalla famiglia. Mentre, nel 2002, c’è stata perfino la proposta di una confisca preventiva della collezione che (ugualmente, si può dire giustamente) cadde in prescrizione come, alla fine, la causa stessa. Finché a suon di documenti e marche da bollo, si arriva al noto accordo del 2016, stipulato con la neonata Fondazione Torlonia, istituita da appena due anni. Cosa prevede l’accordo? Per sommi capi, impegna la Fondazione ad esporre la collezione, di proprietà dei Torlonia, in una mostra temporanea (prima a Roma e poi all’estero, con tappe ancora non individuate, soprattutto per le restrizioni dovute al covid-19); in seguito, l’esposizione permanente, in un edificio pubblico a Roma; di contro, impegna lo Stato ad individuare un edificio idoneo ad accogliere la collezione e la sua relativa custodia e salvaguardia. Da tempo si parla del palazzo Silvestri Rivaldi, che si affaccia su via dei Fori Imperiali, ben noto per la sua vivace storia passata, ma nulla è ancora stabilito. Di certo ci sono due cose: che lo Stato ha stanziato 40mln di euro per la ristrutturazione del palazzo, a prescindere dalla sua destinazione finale; e che qualsiasi edificio identificato quale possibile museo, sarà scelto sempre e solo in accordo con la Fondazione. 

 

Allestimento - sezione II. Scavi Torlonia (secolo XIX) (sala 2). Veduta d’insieme, ©Fondazione Torlonia/Electa/Bulgari PH Oliver Astrologo.

 

Piccolo salto indietro: chi sono i Torlonia? In generale, tutti conoscono questo nome e l’importanza del loro casato, soprattutto per le numerose tracce presenti nella capitale (tra cui villa Albani Torlonia; Romavecchia/villa dei Sette Bassi-villa dei Quintili-Statuario-villa di Massenzio; Porto; villa Albani, al cui allestimento aveva collaborato il noto studioso Johann Winckelmann e dove nel 1870 venne firmata la resa di Roma da parte dello Stato Pontificio; villa Torlonia, nel cui Casino dei Principi dimorò Benito Mussolini, dal 1925 al 1943), ma non guasta un breve excursus. Innanzi tutto l’origine della famiglia è francese. Il capostipite è Marin Tourlonias (1725-1785) che arriva a Roma al seguito dell’abate Charles Alexandre de Montgon; diventa poi cameriere particolare del card. Troiano Acquaviva. È grazie al cardinale che inizia la fortuna della famiglia, perché lascia, alla sua morte, una discreta rendita con la quale Marin Tourlonias apre una piccola bottega di sartoria in piazza di Spagna affiancata dall’attività di prestito di denaro, fino all’apertura di un Banco (un ramo della famiglia è, infatti, quella del Fucino, legati non solo al prosciugamento dell’omonimo lago, ma anche all’omonima Banca), divenendo successivamente banchieri di Papi e di Napoleone. Nel mentre Marin Tourlonias si sposa e italianizza il suo nome in Marino Torlonia e, quando muore, viene sepolto nella chiesa di San Luigi dei Francesi.

 

Rilievo con scena di porto Marmo greco, m. 1,22x0,75 Inv. 430 DIDA: Collezione Torlonia, Rilievo con scena di porto, ©FondazioneTorlonia PH Lorenzo De Masi.


È nel 1814, col papa Pio VII, grazie all’istituto di surrogazione, che Giovanni Raimondo Torlonia (1754-1829) acquisisce il titolo di Princeps, divenendo il vero e proprio iniziatore del casato. A questo punto, oltre ad accreditarsi con azioni caritatevoli (aperture di scuole, ospedali, conservatori, e così via), costruisce la propria reputazione nella borghesia romana con l’acquisto di palazzi, ville, possedimenti degni del livello nobiliare ormai raggiunto. I Torlonia diventano proprietari di un vecchio magazzino-mulino in via della Lungara, dove impiantano inizialmente un lanificio (principalmente erano mercanti di stoffe e sarti) e la residenza di famiglia; di un palazzo a piazza Venezia (palazzo Bolognetti-Torlonia, che ospitava la collezione fino ad allora costruita compreso il gruppo marmoreo Ercole e Lica di Canova e fu demolito nel 1903 per la sistemazione scenografica della piazza e una visione aperta sul Vittoriano); del palazzo Giraud, nell’odierna via della Conciliazione; del palazzo Nuñez-Torlonia; della distrutta villa Costaguti, nell’attuale via XX settembre, oggi sede dell’ambasciata Britannica, e delle sopra menzionate ville, solo per citare i possedimenti più conosciuti, e di cui raccontare  passaggi e modifiche, richiederebbe un saggio a parte. 

 

Tuttavia, il merito più grande di questo tortuoso percorso è stato, non solo quello di aver trasformato la collezione in un sorvegliato speciale ma, soprattutto, di averla sottoposta a un attento esame storico-scientifico che ha consentito di ricostruire passaggi, storie, modalità, prassi, sfatare leggende metropolitane e giungere, a volte, a delle conferme, altre volte, a delle interessanti scoperte. Ed ecco allora che inizia il “racconto”, la seconda parola chiave individuata da Salvatore Settis. Di fronte a quella che tuttora è designata come la più grande collezione privata di marmi antichi al mondo, composta ufficialmente da 620 pezzi (tra busti, rilievi, statue, sarcofagi ed elementi decorativi), lo sforzo scientifico è stato quello di collocare storicamente le sculture, pure alla luce dei diversi documenti, e di individuare in che modo sono entrate nella raccolta Torlonia. E, come nelle migliori tradizioni, si può redigere una lista di conferme e smentite. 

 

Ritratto virile c.d. Eutidemo di Bactriana, Marmo greco. Alt. m. 0,52; testa m. 0,29 Inv. 133 DIDA: Collezione Torlonia, c.d. Eutidemo, ©FondazioneTorlonia PH Lorenzo De Masi.


Nella colonna conferme vanno annoverati: il numero dei pezzi della collezione, come riportati nelle edizioni del catalogo redatto da Pietro Ercole Visconti (1876) e da I monumenti del Museo Torlonia di sculture antiche riprodotti con la fototipia (da notare come il principe fosse pienamente al passo coi tempi, utilizzando la nuova tecnica della fotografia anziché l’incisione) di Carlo Lodovico Visconti (1884, tradotto anche in francese e in inglese); il nucleo iniziale è formato dall’acquisto del lascito dello Studio Bartolomeo Cavaceppi (1800) e della collezione Giustiniani; diverse sculture furono acquistate sul mercato antiquario romano; molte furono quelle ritrovate nei loro possedimenti e durante l’intensa attività edilizia postunitaria; una buona parte dei pezzi proviene da altre collezioni, giunte ai Torlonia allorquando le famiglie aristocratiche romane, non potendo onorare i loro debiti, saldavano i prestiti con le opere antiche date come garanzia, andando così a formare una collezione di collezioni (Cavaceppi, Giustiniani, Orsini-Savelli, Cesarini, Albani). Nella colonna smentite: i pezzi della collezione non sono stati venduti all’estero (sconfessata la vendita al Getty Museum di Los Angeles); nella collezione non sono presenti reperti recuperati da indiscriminate campagne di scavo perpetrate nel Novecento. È attraverso questi elementi che il duo curatoriale Settis/Gasparri costruisce il racconto, selezionando 92 opere tra quelle che erano esposte nel Museo Torlonia, elencate nel catalogo del 1876. Quindi, il racconto è sì quello della collezione Torlonia ma, al tempo stesso, è il racconto di come si sia formata e di come si collezionava a Roma, già a partire dal Quattrocento; del confronto con le grandi collezioni del Vaticano e del Campidoglio, divenute un modello cui guardare; del gusto e delle mode delle famiglie patrizie romane nel corso dei secoli, di come arredassero le proprie residenze, il loro rapporto con l’antico, nonché il concetto che avevano dell’antico; il legame con le antichità della città.

 

Emblematiche sono le scoperte emerse durante i recenti restauri compiuti anche in vista della mostra. Innanzi tutto si è consolidata la prassi di restauro del passato, che non teneva conto delle diverse provenienze dei pezzi, ma, essenzialmente, considerava quello che il pezzo doveva rappresentare (è più che noto il caso della statua di Ercole, nella quale sono stati rinvenuti ben 125 pezzi diversi). Oppure con interventi di integrazioni, realizzati da artisti dell’epoca: è significativa la definitiva conferma dell’intervento di Gian Lorenzo Bernini nel cosiddetto Caprone Giustiniani, nel quale è intervenuto realizzando la testa. Oppure del cosiddetto Rilievo di Porto, dove sono state rinvenute tracce di colore. Mantenendo l’impianto innovativo di Alessandro Raffaele Torlonia, che aveva esposto le sculture in base ai soggetti e allo stile. Tenendo fede alla promessa di realizzare una mostra a Roma, in uno spazio pubblico, si è colta la palla al balzo per allestirla negli spazi appena ristrutturati della Villa Cafferelli al Campidoglio, riaperti dopo cinquant’anni. Ambienti con poco respiro, suddivisi in quattordici sale, raggruppate in cinque sezioni, che sviluppano un percorso a ritroso nel tempo. Un allestimento che ha voluto evocare, nelle diverse sezioni, i colori delle epoche a cui le sezioni afferiscono. Nella prima sezione, con un rosso pompeiano e una decisa evocazione del Museo Torlonia, trovano posto l’unico bronzo della raccolta (Germanico, I sec. d.C.), i famosi ritratti di Fanciulla (50-40 a.C.), quello sorprendente per il suo prepotente realismo di Eutidemo (fine III-inizi II sec. a.C.) e il cosiddetto Vecchio da Otricoli (50 a.C.), cui fanno da sfondo i venti busti di ritratti imperiali o creduti tali (tra cui Silla, Pompeo Magno, Livia, Vespasiano, Tito, Adriano, Marco Aurelio, Commodo, Caracalla, Plautina).

 

Allestimento - sezione I – il Museo Torlonia (sala 1) In primo piano statua di Germanico da Cures in Sabina, I secolo d.C., ©Fondazione Torlonia/Electa/Bulgari PH Oliver Astrologo.


La seconda sezione (XIX secolo) è dedicata a una selezione delle opere provenienti dagli Scavi Torlonia (col sopramenzionato Rilievo di Porto). La terza (XVIII secolo) presenta opere raccolte nel Settecento, principalmente da Villa Albani e dallo Studio Cavaceppi (con l’imponente Tazza con Fatiche di Ercole, 50-25 a.C.; la statua di Ulisse sotto il montone, I sec. d.C.). La quarta (XVII secolo) con pezzi provenienti dalla collezione Giustiniani (col citato Caprone, il Guerriero inginocchiato, II sec. d.C.; Afrodite accovacciata, I sec. d.C.; Satiro in riposo, replica di originale di Prassitele, II sec. d.C.). Ultima sezione (XV-XVI secolo), con pezzi che, di collezione in collezione, a partire dal Quattrocento, sono giunti in quella Torlonia (col bellissimo Sarcofago strigilato con leoni, 260-270 d.C.). E il percorso non poteva non concludersi con una copia del volume redatto da Carlo Lodovico Visconti, I monumenti del Museo Torlonia di sculture antiche riprodotti con la fototipia, del 1884, con l’eloquente prefazione: “Non è omai persona colta, la quale non conosca, o di vista di fama, il museo Torlonia, presso la porta Settimiana. Dopo circa 40 anni di larghissimi dispendi e di cure, il principe Alessandro Torlonia, seguendo le gloriose tradizioni di altri magnanimi patrizi romani dei secoli passati, è pervenuto a formare una sì vasta collezione di antiche sculture, che superando a gran pezza qualunque altra raccolta privata, può essere paragonata soltanto coi più nobili e celebrati musei pubblici che si ammirano a Roma, o in qualunque altra delle più cospicue e potenti metropoli di Europa”.

 

I marmi Torlonia– Collezionare capolavori

Roma, Villa Caffarelli – Musei Capitolini

dal 14 ottobre 2020 al 29 giugno 2021

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Editoria: dove è finita l'arte contemporanea?

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“La critica d’arte oggi è storia dell’arte, sebbene non necessariamente la storia dell’arte dello storico dell’arte”, scriveva in modo sibillino il critico americano Harold Rosenberg nel 1975. Ennesima prova che l’arte contemporanea segna uno scarto rispetto alla sua storia.

Tony Godfrey ne è consapevole sin dalle primissime pagine di L’arte contemporanea. Un panorama globale (traduzione di Chiara Stangalino, Einaudi 2020, 279 pp. riccamente illustrate, 40 euro). Prende come pietra di paragone un evergreen quale Storia dell’arte di Ernst Gombrich, con le sue innumerevoli edizioni dal 1950 al 1994. Ne condivide appieno il celebre incipit – “non esiste in realtà una cosa chiamata arte. Esistono solo gli artisti” – ma ne rileva alcune omissioni, a partire dalla disattenzione verso l’arte contemporanea (nel 1994 sono citati giusto David Hockney e Lucian Freud). Idem per le artiste donne (la prima, Käthe Kollwotz, spunta fuori solo nell’1989), per la parola degli artisti, per l’arte extra-europea (con rare eccezioni come le miniature moghul).

 

Sono cambiati i luoghi deputati dell’arte (dall’edificio sacro alla fiera, dallo studio al mondo intero), la funzione del mercato (nel 2018 si contavano oltre 260 fiere e 238 biennali), la mobilità degli artisti, le loro aspettative di carriera. È cambiato il rapporto con la storia dell’arte: “Una volta ho chiesto a una scultrice inglese quanto spesso visitasse il Victoria and Albert Museum, dov’è conservata la collezione nazionale di scultura. C’era stata una volta, mi rispose, con suo padre, per guardare i tappeti” (p. 14). Allo stesso modo, per interrogarsi oggi sull’arte e sugli artisti bisogna dotarsi di una cassetta degli attrezzi che non si limita più alla storia dell’arte.

L’intento di Godfrey è chiaro: “fornire un contesto all’interno del quale sia possibile comprendere ed esperire al meglio le opere d’arte di oggi, condividendo le mie stesse esperienze e opinioni” (p. 29). A tal fine, copre un vasto arco temporale che percorre a velocità variabile: comincia dal 1945 e dopo una ventina di pagine è già agli anni settanta quando, secondo una versione largamente condivisa negli Stati Uniti, comincerebbe l’arte contemporanea.

 

Alicja Kwade, Welenlinie 2017, Hayward Gallery, Londra, 2018, ph Mark Blower.


Godfrey mette in rilievo il ruolo di alcune mostre-chiave, come lo Skulptur Projekte di Münster o Magiciens de la Terre (Centre Pompidou, Parigi 1989) affiancata a China/Avant-Garde (Pechino 1989) che, vent’anni esatti dopo When Attitudes Become Form, apre una nuova fase, quella della globalizzazione. Un nodo decisivo: “All’inizio degli anni Ottanta c’era ancora un certo consenso su quali fossero gli artisti importanti […] Ma già all’inizio degli anni Novanta non era più così. Il 1989 non comportò solo l’avvento della globalizzazione, ma anche una più ampia diversità. Il mondo dell’arte diventò più vario e diffuso, frastagliato. Diventò più difficile delineare una mappa precisa della storia dell’arte: dopo gli anni Ottanta, con il neoespressionismo e il neoconcettualismo non ci sono più state scissioni o gruppi che possano essere definiti ‘movimenti’” (p. 128). 

 

Parallelamente alla diffusione dell’estetica relazionale, i curatori operano un’altra svolta: nella biennale del Whitney del 1993 la curatrice Elisabeth Sussman privilegia artisti neri, ispanici, gay o femministi. Godfrey la visita il giorno dopo il troppo affollato opening: “Rimasi sorpreso della sicurezza con cui una delle giovani curatrici affermava in modo categorico ‘Questo significa quello, e quell’altro questo!’”, per concludere: “Il museo era diventato la sede di una guerra di culture, non soltanto un deposito di oggetti” (p. 129). Nella prima Documenta del XXI secolo (2002) “curata per la prima volta da un non europeo” (p. 153), Okwui Enwezor allarga la scena e la politicizza. Non è più la storia dell’arte descritta da Gombrich, che lascia questo mondo pochi mesi prima.

 

Ann Hamilton, Indigo Blues, 1991.


Non cercate l’Italia

 

Attento a mettere in rilievo le singole opere piuttosto che le grandi linee generali, Godfrey non nasconde il suo spiazzamento da spettatore. A volte giudica ma la sua è un’opinione – l’ora dei giudizi di valore della critica modernista è tramontata: “altri artisti, le cui opere sono battute alle aste per milioni di euro, non mi convincono affatto. Il loro lavoro mi sembra prevedibile, senza complessità alcuna, e non aggiunge nulla alla storia dell’arte. Ma chi sono io per giudicare?” (p. 205). Con qualche stoccata, come davanti a Kiefer, “uno degli artisti più deludenti”: “Le sue opere sono diventate sempre più grandi, come se non avesse nessuna idea nuova, ma semplicemente ingigantisse quelle vecchie” (p. 233). 

Godfrey è attento alla circolazione delle opere d’arte e all’influsso del marketing: “L’arte è solo una massa di merci in vendita, o il suo scopo è cambiare il mondo? Oggi come mai prima d’ora si parla di ‘arte da asta’ e ‘arte da Biennale’, come se si trattasse di entità separate” (p. 200). È attento a rispettare la parità di genere: “Metà degli artisti discussi in questo capitolo sono donne, e nelle pagine seguenti il 50 per cento o più” (p. 144).

 

Con un penchant per la pittura (nel 2009 ha pubblicato con Phaidon Painting Today), Godfrey offre dell’arte contemporanea un panorama globale,  mantenendo la bussola anche quando si avvicina ai giorni nostri. Vivendo e lavorando nel sudest asiatico, fa dialogare celebri artisti occidentali con un contingente di artisti poco frequentato dall’Indonesia alla Cina. 

Chi cerca i nostri connazionali resterà deluso: l’unico italiano citato è, difficile sbagliarsi, Maurizio Cattelan. Un bel paradosso, visto che Godfrey lo introduce con queste sue parole: “Non mi considero un artista” (p. 133)! Unica consolazione: quella di Venezia è la biennale più citata.

L’Italia si trova in una posizione scalognata: poco cool per il canone internazionale e poco connessa al mercato, ma non così minore da essere rivalutata da uno sguardo post-coloniale. Né centrali né periferici, siamo anime purganti. Non ci resta che scegliere tra l’espiazione o la richiesta di suffragio al di là dei patrî confini e la caduta, ovvero il ripiego nel regionalismo ombelicale.

 

Annie Pootoogook, Bringing home foof, 2003-2004.


Inutile prendersela con Godfrey, il fenomeno è conclamato. The books that shaped art history, from Gombrich and Greenberg to Alpers and Kraussè un librone curato da Richard Shone e John-Paul Stonard (Thames and Hudson 2017), selezione raffinatissima di sedici titoli, apparsi precedentemente su “The Burlington Magazine” nella sezione Art History Reviewed. Una raccolta di “the most influential books of art history published during the twentieth century” o, tradotto, l’apoteosi giuliva del canone anglo-sassone, con zero italici tra i testi scelti come tra gli estensori delle riletture critiche. Del resto tra le infinite liste di saggi must-read di storia dell’arte che si trovano on line, quando si cita un italiano, potete scommetterci, si tratta di Cennini, Vasari o Leonardo; a volte fa capolino un Bruno Munari, la Storia della bellezza di Umberto Eco e poco altro.

 

I saggi non mancano

 

La pubblicazione del libro di Godfrey mi offre l’occasione per una riflessione più ampia. Da alcuni anni la saggistica Einaudi è impegnata nella traduzione di libri di divulgazione sull’arte contemporanea di matrice anglo-sassone. Se si eccettua il francese Denys Riout (L’arte del ventesimo secolo. Protagonisti, temi, correnti, uscito nel 2000 e prontamente tradotto nel 2002) ricordo, in ordine decrescente: Julian Bell, Che cos’è la pittura? (2018); David Scotto Kastan, Stephen Farthing, Sul colore (2018); David Bate, La fotografia d’arte (2018) e Il primo libro di fotografia (2017); Alastair Sooke, Pop Art. Una storia a colori (2016); Juliet Hacking, I grandi fotografi (2015); James Hall, L’autoritratto (2014); Sally O’Reilly, Il corpo nell’arte contemporanea (2011); Charlotte Cotton, La fotografia come arte contemporanea (2010); Larry Shiner, L’invenzione dell’arte. Una storia culturale (2010); Graham Clarke, La fotografia (2009); Mary Acton, Guardare l’arte contemporanea (2008); Nigel Warburton, La questione dell’arte (2004).

 

Edmund De Waal, Library of exile, British Museum, Londra.


Nel caso dei saggi critici – quelli, per intenderci, che hanno scombussolato la disciplina della storia dell’arte contemporanea e si trovano nei syllabus delle università anglo-sassoni – il contingente è assai risicato. Sempre in ordine decrescente, e includendo anche il XIX secolo: Timothy J. Clark, Addio a un’idea (pubblicato nel 1999 e tradotto nel 2005); Meyer Schapiro, L’impressionismo (pubblicato nel 1997 e tradotto nel 2008), Jonathan Crary, Le tecniche dell’osservatore (pubblicato nel 1990 e tradotto nel 2013).

Cosa è accaduto? Che la saggistica di arte contemporanea non sia ormai altro che mediazione culturale? Non proprio, perché non sono certo i titoli di critica a mancare. Per non restare nel vago, e per citarne alcuni a mio avviso decisivi, appartenenti a decenni diversi, anche qui in ordine decrescente: Suhail Malik, On the Necessity of Art’s Exit From Contemporary Art (di prossima pubblicazione); Christopher S. Wood, A History of Art History (2019); T.J. Demos, Decolonizing Nature. Contemporary Art and the Politics of Ecology (2016); Yates McKee, Strike Art. Contemporary Art and the Post-Occupy Condition (2016); Peter Osborne, Anywhere or Not at All: The Philosophy of Contemporary Art (2013); Pamela Lee, New Games. Postmodernism After Contemporary Art (2013) o Forgetting the Art World (2012); Richard Meyer, What Was Contemporary Art? (2013); Margaret Iversen, Stephen Melville, Writing Art History. Disciplinary Departures (2010); Terry Smith, What is Contemporary Art? (2009); Bruce Altshuler, Collecting the New: Museums and Contemporary Art (2005); Briony Fer, The Infinite Line: Re-making Art after Modernism (2004); Julian Stallabrass, Art Incorporated. The Story of Contemporary Art (2004); Martha Buskirk, The Contingent Object of Contemporary Art (2003); Alfred Gell, Art and Agency. An Anthropological Theory (1998, ma in traduzione presso un altro editore); Yve-Alain Bois, Painting as Model (1990); Griselda Pollock, Vision and Difference. Feminism, Femininity and Histories of Art (1988); Frederick Kittler, Grammophon Film Typewriter (1986); Leo Steinberg, Other Criteria. Confrontations with Twentieth-Century Art (1972).

 

E per ricordare altri autori decisivi che mancano all’appello, questa volta in ordine alfabetico: Mieke Bal, Norman Bryson, Mark Cheetham, Diarmuid Costello, Thom Crow, Whitney Davis, Thierry De Duve, James Elkins, Darby English, Michael Fried, Martin Jay, Amelia Jones, Lucy Lippard, Stephen Melville, Keith Moxey, Aleander Nemerov, Donald Preziosi, Jennifer Roberts, Irit Rogoff, Christine Ross, Richard Shiff, David Summers, Cornel West, Richard Wollheim. Tralascio, per non appesantire ulteriormente la lista della spesa, le antologie di testi, ricordandone giusto due: Charles Harrison, Paul Wood (a cura di), Art in Theory. 1900-2000 (1992 e rieditata fino ad oggi) e Alexander Dumbadze, Suzanne Hudson (a cura di), Contemporary Art: 1989 to the Present (2012).

 

Montien Boonma, Zodiac houses, 1998-1999.


Insomma, ce n’è abbastanza per impinguare per un decennio il catalogo di una nuova casa editrice o della stessa Einaudi, la più titolata per questa operazione culturale. Cosa è accaduto allora negli ultimi vent’anni, dal Bacon di Deleuze (1995) al Bacon di Jonathan Littell (Trittico. Tre studi da Francis Bacon, Einaudi 2014)? Sembra che, a un certo punto, si sia deciso di svecchiare il catalogo, molto fedele alla tradizione iconologica (in Italia sempre florida, con le ristampe o le traduzioni di Panofsky salutate come eventi editoriali), centellinando se non saltando a pie’ pari la migliore saggistica del XX secolo.

Certo, nel frattempo si sono moltiplicate le introduzioni, le inchieste, le panoramiche che veicolano l’idea di un’arte contemporanea in quanto fenomeno di mercato e di costume piuttosto che di esperienza, di contestazione e di ricerca. I recenti best-seller lo confermano: Sarah Thornton, Seven Days in the Art World; Don Thompson, The $12 Million Stuffed Shark; Kyung An, Jessica Cerasi, Who’s Afraid of Contemporary Art? (i primi due tradotti in italiano da, rispettivamente, Feltrinelli e Mondadori). Per non citare i “contemporary art for dummies” italici, che nessuno ha mai avuto l’ardire di tradurre in altre lingue. Tra le eccezioni, mi piace ricordare lo scrittore Mauro Covacich con L’arte contemporanea spiegata a tuo marito (Laterza 2013).

 

Overdose propedeutica

 

Non è facile capire dove va la saggistica d’arte prodotta in inglese. Quando una quindicina di anni fa giravo per gli Stati Uniti, il libro che trovavo più spesso nelle case dei miei amici contemporaneisti non era un saggio o il catalogo di una mostra ma un romanzo, I love Dick di Chris Kraus (uscito nel 1997 e tradotto da Neri Pozza nel 2017). 

Libri come quello di Tony Godfrey colmano il divario italiano tra, da una parte, l’erudizione attenta solo alla filologia, che schiaccia sotto un tritasassi la presenza delle arti visive nella cronologia storica, e, dall’altra, una saggistica spregiudicata di bassa lega. Ma i testi propedeutici hanno ormai soppiantato i saggi che scardinano i paradigmi della storia dell’arte, che in Italia non brilla per audacia metodologica e teorica. Da noi pullulano ampi sorvoli di decenni e movimenti, tediose compilazioni, spogli di fondi, valorizzazione di sfigatissimi artisti locali, come se la storia dell’arte fosse un’associazione pro loco. Approcci meno rischiosi ma mortalmente soporiferi, incapaci di appassionarsi e di appassionare alle arti visive. Come se, al di là del feticismo del documento e delle pseudo-influenze, la nostra storia dell’arte sia visceralmente acritica e a corto di idee, e delle altre scienze umane o delle humanities non sappia che farci, preferendo rintanarsi nel cantuccio del vecchio storicismo.

In conclusione, ben vengano introduzioni all’arte contemporanea di matrice anglo-sassone, come quella dignitosa di Tony Godfrey o spiegazioni dell’arte a tuo marito, a tuo cognato, a tua suocera, a tua figlia, ai tuoi nipoti, alla famiglia intera gatto incluso. Ma non basta. C’è da sperare che, storditi dall’overdose propedeutica, un giorno non lontano il marito, il cognato, la suocera, la figlia, i nipoti, la famiglia e il gatto reclamino con una sola voce un po’ di critica.

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José Barrias e i “senza terra” del Novecento

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Era uno degli ultimi vissuti nel destierro, l’esilio. Artista della memoria e del mondo, scomparso il 6 giugno scorso, José Barrias ha attraversato il nostro tempo con modestia e tenacia nell’affermare le sue idee, le sue creazioni. Creato, creature sono termini religiosi che lui, laico, ha tradotto in opere d’arte. Al centro ha posto la memoria. Come Proust, ha creduto che piccoli oggetti, la madeleine per Proust, l’uovo o la perla per Barrias, racchiudessero in sé una verità commovente che attraversa il tempo. Noi, i più caduchi, possiamo sopravvivere così. In questi oggetti raccolti, nel suo studio milanese, è depositata la sua memoria destinata a durare oltre lui stesso. Wunderkammer, la camera delle meraviglie presentata in mostra a Serralves nel 2011, riuniva oggetti, immagini, testi amati. Come tanti altri hanno fatto: tra cui lo scrittore Oran Pamuk nel suo bel Museo dell’innocenza del 2012. Lì era uno scrittore che raccoglieva oggetti di culto cui ha dedicato un intenso romanzo, qui un artista che fa degli oggetti e delle opere ereditati o solo trovati un “luogo del caos ordinato”. Le arti nei due casi, sconfinano. Non esistono dogane per il pensiero, ha annotato José Barrias in uno dei suoi appunti per quell’esposizione.

 

Rilke ha scritto: potremmo mai essere, noi, senza i morti? È così con il ricordo di questo artista. Col suo mundo, quella semisfera-collage densa di frammenti (immagini familiari come le scarpette della figlia Sara e la maternità della moglie Cecilia Herskovitz, oggetti, animali, grande attenzione al mondo dell’infanzia… come Benjamin) che insieme formano un mondo appunto: che abbiamo ammirato da una giusta distanza sulla scaletta di osservazione nelle sale della Fondazione Gubelkian a Lisbona 25 anni fa. E quella stessa sfera-mondo è stata riproposta nella mostra In itinere, a Serralves. Il mondo si guardava lì da un cannocchiale, altro oggetto magico della sua esperienza artistica, ed espediente visivo che permetteva di mettere a fuoco e osservare ogni particolare.

 

Senza titolo, 2017, tecnica mista su carta, 80x120 cm.


Nato a Lisbona nel 1944, cresciuto a Porto, figlio d’arte, José Barrias ha lasciato ventenne il Portogallo sotto la dittatura salazarista, prima per Parigi, e poi Milano. Qui ha trovato la grande storia dell’arte, e insieme il disegno delle arti applicate, mentre in Portogallo aveva lasciato una storia dell’arte minore, periferica, ma anche sognante. La solitudine cosmopolita in cui ha operato nasce da questa doppia appartenenza mai risolta, sempre incompiuta. Che ha dato il timbro alla sua poetica. Agli spazi vuoti che amava creare nelle sue opere e attorno ad esse. Le sue opere sono permanentemente “in itinere”, “etc.”, “passaggi”, per citare i titoli di altrettanti cicli della sua produzione artistica. Pensava che il suo lavoro d’artista riflettesse questa condizione di passeggero, ossia di prigioniero dei passaggi. Viveva la verità e la patria come delle istanze vaganti tra due terre alle quali non poteva interamente appartenere. In questa esperienza di passeggero sta la sua cifra e forse l’essenza della condizione novecentesca. Il Novecento è stato il secolo dei profughi, dei passeggeri. Prima – tra le due guerre – degli intellettuali, poi è stato il tempo delle diaspore di moltitudini, intere nazioni in movimento fino ai nostri anni Duemila.

Scrive Barrias che chi vuole raccontare come vivono gli uomini deve essere stato, in qualche modo, un esule. Come Benjamin esule da Berlino a Parigi. Come lui stesso esule da Lisbona a Milano. Come Hannah Arendt tra Germania e Stati Uniti d’America, Josè Ortega y Gasset e Maria Zambrano tra Spagna e Sud America…tutti pensatori “senza terra” che gli sono stati cari e di cui sentiva l’affinità. Per essi l’esilio è stata una condizione ontologica.

 

L’opera di Barrias è dichiaratamente letteraria, a volte scritta su pareti, più spesso pensata per simboli. Il tema dei passaggi è ispirato dal Walter Benjamin dei “Passages di Parigi”, le architetture commerciali-creature di sogno della collettività che qui sono tradotte in labirinti e percorsi. Nella mostra di Serralves un percorso di frontiera, la Camera Chiara, conduce all’Apertura. È un tema benjaminiano, come dimostra il testo di Barrias che accompagnava quella mostra: “Avanti viaggiatore, osserva, guarda le rovine che ti accerchiano. Senti nelle tue ali la tempesta che ti spinge inesorabilmente verso il futuro?... Apri le tue ali e avanza, viaggiatore! Tu non potrai più tornare. Tu non potrai evitare la grande tempesta che soffia dal paradiso”.

 

In itinere, Sala dos Mapas, Fundação de Serralves, Porto, 2011.


Milano è la città in cui l’artista portoghese incontra persone e ambienti. Anna Steiner, architetto designer e curatrice, figlia di Albe e Lica Covo Steiner. Gianni Sassi, redattore e art director di Alfabeta. Elisabetta Longari, critica e autrice di saggi, che ne curerà il volume José Barrias. Collezionista di echi (2017) in occasione della mostra alla Nuova Galleria Morone, a Milano.

Anche da questo incontro con le arti applicate forse deriva l’uomo artigiano che è stato José Barrias. Non solo disegnava o dipingeva ma costruiva gli oggetti, le installazioni, le soluzioni spaziali delle sue mostre.

 

La sua opera si è compiuta per cicli, aperti all’incrocio e mai finiti: come fossero dei testi joyciani, a volte originati da altri testi letterari a volta da altre immagini pittoriche. Eccone un elenco: Il libro dei frutti (1972/73), Quasi Romanzo (1973/86), Gli Ambasciatori (1978/87), Diga (1979), Nottiario (1984), Vestigia (dal 1987), Passages (dal 1989), Tempo (dal 1990), Il ritorno (1992-95), Nostalgia di passaggio (dal 1994), Camera Picta (dal 1995). Ciascuno di questi cicli ha un tema centrale, a volte si tratta di un quadro di Holbein o di Piero della Francesca, altre volte un codice di Leonardo, su cui si esercitano rimandi, citazioni, variazioni.

Non gli sono mancati i riconoscimenti. Alla Biennale di Venezia del 1984 Barrias rappresenta il Portogallo con “Nottiario”. Alla Triennale di Milano del 2014 presenta “Ombra delle cose future”, tema “teologico” paolino laicamente tradotto in un’arca che raccoglie e salva gli oggetti del paesaggio mediterraneo.

 

Catedral, Centro de Arte de São João da Madeira, 2016.


Tra le sue opere testuali, perché egli anche scriveva, vi è il libro d’artista del 1992, edito da Libri di Puck di Verona, con Antonio Tabucchi, dal titolo Tempo. “Di tutto resta un poco”, “il tempo invecchia in fretta” sono temi di Tabucchi e di Barrias, legati anche da amicizia tra di loro e insieme alla moglie di Tabucchi, Maria José de Lancastre, studiosa di letteratura portoghese e traduttrice e curatrice dell’opera di Pessoa.

Altro gigantesco riferimento obbligato dell’opera di José Barrias. Di Pessoa autore ortonimo egli seguiva l’invito a essere plurali come l’universo, a seguire la molteplicità, l’eterogeneità e la promiscuità dei mezzi espressivi. Un invito che ha tradotto in molteplici piccoli gesti che però compongono un universo. L’universo della modernità è fatto così.

 

E infine, ultima sua ossessione, il tema dell’ombra, inseguito a partire da un’enigmatica fotografia della propria ombra negli anni ’70 con Elisabeth Scerfigg, e poi sviluppato fino all’ultima sua mostra, nel 2019 in Portogallo. Altro grande tema letterario del Novecento, da Tanizaki a Borges, l’ombra acquisisce qui una propria esistenza autonoma, si emancipa dal personaggio e vive di vita propria, rur essendo di quel personaggio continuamente, pessoanamente il “doppio”.

Memoria, dall’Atlante Mnemosyne di Aby Warburg, completa la rassegna davvero ricca e significativa dei temi che attraversano il Novecento di José Barrias, che di sé diceva “siamo cittadini di lontano”.

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Milano bombardata

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Nella notte tra il 7 e l'8 agosto 1943 l'aviazione alleata sgancia le sue bombe sulla città di Milano. Replicherà con altrettanta violenza nelle notti tra il 12 e 13 e tra il 14 e 15 agosto.

La Stampa del 14 agosto, scrive: “Milano ha subito un nuovo violento bombardamento. Si può dire che nessun rione, nessuna zona, nessuna strada centrale o periferica di Milano sia stata esente dal suo doloroso e sanguinoso contributo. Il centro ha avuto deturpazioni che rimarranno a testimonianza dello scarso spirito di civiltà dei nostri nemici. La periferia e i sobborghi, dal canto loro, hanno sofferto mutilazioni tali da meritare agli anglosassoni l’appellativo di gente inumana.”

Milano è stata per tutto il primo novecento una città cantiere. Per sua scelta ideologica, economica, artistica. È la città dell'Esposizione Universale del 1906, del Futurismo di Marinetti, Sant'Elia e Boccioni, dei nuovi quartieri operai affidati alle migliori menti dell'architettura razionalista, dei piani regolatori “fascistissimi” degli anni trenta. Demolire e ricostruire non la spaventava, sentendosi parte di un progetto di trasformazione talmente radicale da accettare la perdita – in una sorta di partita doppia – con la conquista della modernità. Ma la cesura violenta, smisurata, esorbitante, causata dall'indiscriminata violenza dei bombardamenti del '43 la sconvolge nell'intimo.

 

Non che non ne avesse già subiti dall'inizio del conflitto mondiale, ma erano bombardamenti mirati e contenuti. Abbastanza rovinosi, comunque, da far sfollare decine di migliaia di abitanti nelle campagne del milanese. Scelta, a posteriori, oculatissima che ha contenuto il numero delle morti civili dopo le notti brutali dell'agosto del '43.

La ferita per la città è devastante. L'ermetismo degli anni trenta di Salvatore Quasimodo non ha più voce. Il poeta cambierà lingua per poter esprimere lo sgomento:

 

Invano cerchi tra la polvere,
povera mano, la città è morta.
È morta: s’è udito l’ultimo rombo
sul cuore del Naviglio. E l’usignolo
è caduto dall’antenna, alta sul convento,
dove cantava prima del tramonto.
Non scavate pozzi nei cortili:
i vivi non hanno più sete.
Non toccate i morti, così rossi, così gonfi:
lasciateli nella terra delle loro case:
la città è morta, è morta. 

 

(Milano, agosto 1943)

 

Da pochi mesi il greco/romano Alberto Savinio, pittore, scrittore, compositore, intimamente milanese come lo fu Stendhal, ha dato alle stampe per Bompiani un libro omaggio a Milano, Ascolto il tuo cuore, città, che per ironia della sorte (una sorte beffarda) diventa l'ultima testimonianza di come fosse la città prima delle perdite ingenti – sconvolgenti, anzi – causate dai bombardamenti. In un articolo sul Corriere della Sera del 7 settembre di quell'anno, girando per le macerie del centro storico il suo sguardo vaga, amaro e a ciglio asciutto: 

 

“E quando nel meriggio del 26 agosto in una luce smagliante mi affacciai sotto la volta della stazione Centrale, anche Milano mi apparve come colta in istantanea dall’occhio spietato della macchina fotografica, ritta ma traballante, gli innumerabili occhi delle sue case fissi in uno sguardo vitreo, gli arti contorti in movimenti da città manichino, impillaccherata dalla testa ai piedi, «insudiciata» dalla morte. (…) La morte «insudicia». Insudicia quello che era pulito, intorbida quello che era limpido, inlaidisce quello che era bello, intenebra quello che era luminoso, istupidisce quello che era intelligente, immiserisce quello che era ricco.”

 

Insomma, la morte, come scriverà in tutt'altro contesto Roberto Saviano in Gomorra, “La morte fa schifo”. In quegli stessi giorni si sta concludendo la collaborazione di Giorgio Scerbanenco con il Corriere. Una breve parabola, proprio negli anni della guerra, che produrrà un paio di romanzi a puntate e un corposo numero di racconti. L'ultimo pubblicato, prima della fuga in Svizzera nel settembre del 1943, è del 27 agosto. S'intitola La casa in piedi e racconta di uno sfollato che dopo ogni bombardamento inforca la bicicletta, fa ottanta chilometri per giungere in città a vedere le condizioni del suo quartiere, per poi tornare in campagna e raccontare agli altri vicini sfollati quali case si sono salvate, quali invece sono irrimediabilmente perdute: 

 

“Arrivò a Milano, discese in piazzale Loreto e continuò a piedi attraversando tutta la città. Le case bruciavano, fumo, polvere, soldati, quelli dell'Unpa col bracciale rosso, un vecchio teneva in mano la catena della sua bicicletta e la guardava, stupito che si fosse rotta proprio quando più ne aveva bisogno. Vezzari arrivò a fatica nei paraggi di casa sua. Quasi non si orientava più. I crolli e gli sventramenti avevano cambiato la fisionomia del paesaggio. Ma la vide subito, laggiù, la sua casa: era ancora in piedi. Intorno montagne di macerie, mozziconi di mura maestre.” 

 

Non perdiamo di vista le date: il 25 luglio Mussolini rassegna le sue dimissioni al Re. I milanesi, gli italiani tutti, scendono in piazza e festeggiano la fine del regime, la guerra sembra davvero finita. Ma non è così, a detta del nuovo capo del governo. La guerra continua (Badoglio cerca di temporeggiare in realtà, nel tentativo di contenere l'eventuale reazione spropositata del sospettoso alleato tedesco). I bombardamenti su Milano di agosto sembrano insensati. Gli inglesi, nei raid degli anni precedenti, s'erano dimostrati capaci di fare bombardamenti mirati, su obiettivi strategici: caserme, stazioni, fabbriche.

 

 

Nel '43 è l'intero centro storico, strategicamente ininfluente, ad essere preso di mira. Milano come la conosciamo oggi è il risultato di quei devastamenti. Nessuna città italiana ha subito un fuoco di fila di tali proporzioni, il 60% del suo cuore antico subirà danni irreversibili, cambiandogli il volto irrimediabilmente. Solo Dresda avrà un destino più tragico: città dal punto di vista militare irrilevante, gioiello del barocco europeo, rasa al suolo, come tragicamente e straordinariamente raccontato da Kurt Vonnegut in Mattatoio n. 5

Arturo Tofanelli, in Memorie imperfette, ricorderà quei bombardamenti con queste parole: 

 

“I bombardamenti su Milano dell’agosto 1943, ebbero effetti materiali e psicologici disastrosi. Dopo la terza incursione in meno di una settimana, la città restò paralizzata e mezzo vuota. Rimaneva acuta in tutti noi l’incomprensione di quella barbara impresa; anche i più decisi sostenitori della causa alleata erano incapaci di trovare una giustificazione a lume di logica.”

 

La storiografia a venire e l'immaginario collettivo hanno sempre in qualche modo glissato sull'argomento. La teoria militare mirava con queste azioni di guerra a “infiacchire” il morale della popolazione nemica, cercando di indebolire l'appoggio al regime fascista. Che in realtà era già di suo scemato, come raccontano i festeggiamenti alla caduta di Mussolini appena tre settimane prima. Un bombardamento indiscriminato come quello prodotto dagli alleati, invece, per chi le bombe le vedeva cadere sulla propria testa, creava solo ripugnanza e disperazione. Gli inglesi lo sapevano, ad essere sinceri: Londra fu a lungo teatro di bombardamenti a tappeto da parte delle forze dell'Asse. Ma questo più che infiacchire, saldò gli anglosassoni attorno a Churchill. Eppure tanto quanto la cinematografia del dopoguerra ha fatto dei bombardamenti sulla popolazione inerme di Londra la prova della malvagità di Hitler, nessuno ha mai giudicato come insensati, se non addirittura, terroristici, i bombardamenti degli alleati sul cielo di Milano. 

Le forze aeree degli alleati sapevano come e dove colpire. Lo hanno dimostrato in più e più bombardamenti mirati. Persino l'aver fatto terra bruciata attorno al Duomo, evitando però la cattedrale (forse per non entrare in rotta di collisione con le autorità ecclesiastiche) lo dimostra. Ma nessun dubbio, finito il conflitto, poteva sorgere sui liberatori. La storia, lo sappiamo, la scrivono i vincitori. Parlare di crimini di guerra è ancora oggi argomento da toccare con i guanti parlando di quei fatti lontani quasi ottant'anni. E nessuna autorità americana ha mai chiesto scusa per la più dolorosa ed evitabile delle carneficine causate da un bombardamento: la tragedia dei “piccoli martiri di Gorla” del 1944 (ma questa è un'altra storia).

 

Il novecento è un secolo colmo di testimonianze. Non solo fogli scritti, soprattutto immagini. In quei tragici giorni, con la sede del Corriere in fiamme, Vincenzo Carrese, che aveva da qualche anno fondato la sua agenzia fotografica, quella che diverrà la gloriosa Pubblifoto, girò per la città assieme ai suoi colleghi per testimoniare la tragedia. 3300 fotografie, documenti preziosissimi che ora, selezionati e organizzati, sono diventati una bella mostra alle Gallerie d'Italia voluta da Mario Calabresi: “MA NOI RICOSTRUIREMO. La Milano bombardata del 1943 nell'Archivio Publifoto Intesa Sanpaolo”. Essendo Calabresi un giornalista “naturale” ha trovato ovvio attualizzare un patrimonio documentario di tali dimensioni facendo rifotografare da Daniele Ratti alcuni di quei luoghi bombardati oggi, nei giorni della pandemia (come fosse una nuova battaglia da combattere per i milanesi). Operazione didascalica eppure efficace. Anche per mostrare come quella guerra nulla c'entri con questa pandemia. La Milano delle macerie è abitata da un popolo che opera, cammina, gira in bicicletta, si fa la barba per strada. La Milano confinata dal coronavirus è intonsa, a colori e vuota. All'apparenza più morta della città morta dei versi di Quasimodo. Eppure c'è qualcosa di intimamente meneghino in questa idea del confronto di quella Milano con questa Milano. 

 

Nell'ultima pagina del racconto di Scerbanenco si legge: “La sua casa era rimasta in piedi ma senza dirselo sentì che era caduta con le altre, perché la nostra casa è fatta anche delle altre case; e se le mura, materialmente, non erano state colpite, il focolare era stato straziato.” Palazzo Marino, Piazza San Fedele, L'Ospedale filaretiano, la Galleria, la Scala, Palazzo Reale, Piazza Fontana, Sant'Ambrogio, Santa Maria delle Grazie, l'identità profonda della città deturpata. La morte, per dirla con Savinio aveva insudiciato tutto. Ma l'indole milanese non si ferma alla constatazione della tragedia: “Il primo giorno vidi Milano «insudiciata» dalla morte. Poi la notte calò e uno spettrale silenzio. L’indomani, già Milano s’illimpidiva.” Non a caso il racconto di Scerbanenco (pensate a quanto siano distanti i due autori per stile e quanto vicini nelle conclusioni) termina così: “Guardò poi il ritratto del figlio, appeso alla parete. Era un po' inclinato. Lo rimise dritto.”

 

Antonio Greppi, primo sindaco di Milano dopo la Liberazione (scrittore e commediografo, non dimentichiamolo) prometterà ai suoi cittadini: “Molto si è distrutto, ma noi tutto ricostruiremo con pazienza e con la più fiduciosa volontà”. Fu un lavoro immane che cambiò ancora una volta il volto della città. L'immensa mole di macerie fu trasferita dalla città abitata verso nord ovest, in una zona ancora agreste dove Piero Bottoni, negli anni della ricostruzione, sognerà e realizzerà proprio con quelle macerie uno dei “fatti urbani” (così lo chiamò Aldo Rossi) più importanti della città: il Monte Stella. Opera estrema di land art, sogno di una montagna nel cuore della pianura, tumulo della guerra, sacrario civile di un popolo mai domo, pronto ad ogni ripartenza.

 

Ma noi ricostruiremo. La Milano bombardata del 1943 nell'Archivio Publifoto Intesa Sanpaolo. Gallerie d’Italia – Piazza Scala, Piazza della Scala 6, Milano.

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Cindy Sherman. Una, nessuna, centomila

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La grande retrospettiva dedicata all’opera di Cindy Sherman (1954) alla Fondation Louis Vuitton di Parigi non è al momento visibile. L’ho visitata poco prima del secondo lockdown; era periodo di vacanze scolastiche e le sale del museo erano piene: a malapena si riusciva a seguire il percorso obbligato, pensato per visitare la mostra senza rischi di contagio, ma che produceva al contrario piccoli assembramenti davanti alle opere più note. Gruppi di bambini immaginavano, con l’aiuto di una mediatrice, le mille possibili vite di Cindy, il personaggio di volta in volta messo in scena. Noi adulti con il volto coperto per metà, dissimulato dalle mascherine, vagavamo per le sale, colorate secondo la palette del make-up dell’artista, immersi nella bellissima scenografia che, per opera di Marco Palmieri, alternava colori, specchi e fotografie; un invito a partecipare alla mascarade, mettendoci ad ogni passo davanti alla nostra figura riflessa. Lo stratagemma, senza mascherine, avrebbe funzionato benissimo: i nostri volti di visitatori si sarebbero mescolati a quelli delle tante Cindy in mostra, come a sottolineare la performatività tanto dei suoi personaggi quanto di noi stessi, delle nostre scelte estetiche, dei nostri corpi.

 

 

 

L’opera di Cindy Sherman è infatti una performance, forse non radicale, non immediatamente contestataria ma costante e ripetitiva, che si traduce in un’unità formale e tematica, o una visione, come osservava Arthur Danto in occasione dell’altra importante retrospettiva francese sull’artista nel 2006 al Jeu de Paume, che si dispiega lungo tutta la sua produzione e che rivela in cosa e perché Cindy Sherman è artista. Studentessa alla Buffalo State College, NY, Sherman realizza una delle sue prime opere fotografiche negli anni ’70. In Untitled #479 (1975) troviamo già tutti gli ingredienti che faranno di lei una delle maggiori, influenti e note artiste contemporanee: gli autoritratti, multipli e presentati in serie, il make-up, i travestimenti, la fisionomia di Cindy che svanisce immagine dopo immagine, l’apparizione di un’altra da sé, l’affermazione della maschera. La fotografia sarà da allora il suo medium d’elezione, una forma d’arte scelta perché pop, mobile, riproducibile, fedele e ingannevole a un tempo e, afferma l’artista, a quell’epoca ancora poco parassitata dall’ingombrante presenza maschile. La fotografia sarà il medium che le permetterà di esplorare il tema dell’identità, di mostrare quanto i codici della rappresentazione dipendano da norme sociali e, viceversa, quanto tali norme siano supportate e rafforzate dai linguaggi figurativi. 

 

Quando de Beauvoir afferma che «donna» è una «situazione storica», enfatizza il fatto che il corpo è soggetto a una certa costruzione culturale, non solo attraverso le convenzioni che sanzionano e prescrivono i modi di attualizzare con il proprio corpo, l’«atto» o la performance che il proprio corpo è, ma anche attraverso le tacite convenzioni che strutturano il modo in cui il corpo è percepito culturalmente. (Judith Butler, “Atti performativi e costituzione di genere”)

 

Cindy Sherman, Untitled 584, 2017-18.


Sono 170 le opere di Sherman esposte, presentate secondo un criterio cronologico e tematico, che in questo caso spesso coincidono. I primi lavori, in bianco e nero, realizzati tra il 1975 e il 1977 e precedenti la famosa serie Untitled Film Stills (1977-1980), costituiscono la matrice della sua opera e forse sono, proprio alla luce dello sguardo d’insieme che la retrospettiva consente, le realizzazioni più interessanti. In mostra, infatti, era possibile ammirare alcune magnifiche rarità, lavori di gioventù che conservano la capacità di incarnare lo spirito del tempo in cui nascono, la forza della novità, la spontaneità dell’artista che esplora le proprie possibilità, che si mostra e lancia il suo messaggio al mondo. Come ad esempio Air Shutter Release Fashions (1975), una serie di 17 autoritratti in cui Cindy fotografa il suo busto annodato da un cavo che, oltre a mostrarla come une moderna Venere di Milo, le serve anche per attivare l’otturatore della macchina fotografica – metafora precoce delle costrizioni e costruzioni mediatiche del corpo femminile; il film Doll Clothes (1975), in cui Cindy interpreta la bambola da vestire e svestire a piacimento; o ancora il foto-romanzo A Play of Selves (1976), in cui Cindy interpreta ruoli stereotipati di donna e dove per la prima volta viene tematizzata l’idea di finzione sociale che si ritroverà poi in opere più mature, come i ritratti a fantomatiche signore dell’alta borghesia (Society Portraits, 2008).

 

Cindy Sherman, Untitled 466, 2008.


Il tema della persona, della maschera teatrale, inizia da subito a legarsi a doppio filo al tema del genere. In questo gioco dei sé, Cindy Sherman è immediatamente oggetto e soggetto delle sue messe in scena – fotografie, collage e film –, al tempo stesso davanti all’obiettivo e dietro la fotocamera, personaggio che sfida la nozione d’identità, tanto ricercata quanto interrogata, messa in questione o sotto scacco. Una persona, un individuo, un corpo. Un corpo di donna; uno, nessuno e centomila. 

 

L’atto che io compio, l’atto che io performo è, in un certo senso, un atto che era già iniziato prima del mio arrivo sulla scena. Il genere, quindi, è un atto che è già stato provato, proprio come un copione che sopravvive ai singoli attori che si avvalgono di esso, ma che necessita di loro per essere attualizzato e riprodotto ogni volta come realtà. (Judith Butler, ivi.)

 

La finzione sociale di essere “una donna”, Cindy Sherman la compie mettendosi in scena, realizzando copie senza originali, come scriveva Rosalind Krauss. La nota serie Untitled Film Stills (1977-1980) gioca, infatti, a smascherare “stili corporei” ed estetici, fingendo la finzione. “I wanted them to seem cheap and trashy, something you’d find in a novelty store and buy for a quarter – afferma Sherman – I didn’t want them to look like art”. 

 

Cindy Sherman, Untitled Film Stills 84, 1978.

 

Cindy Sherman, Untitled Film Stills 84, 1978.


Posture e drammi di immaginarie Brigitte Bardot, Anna Magnani, Kim Novak mettono allora in scena possibili film hollywoodiani, mescolando i codici della cultura popolare e vernacolare con i riferimenti al grande cinema: se quest’ultimo costituisce il riferimento cui ispirarsi, nessuna vera citazione è tuttavia da ricercare in questi scatti. Il cinema, la televisione – così come sarà per le riviste di moda – sono lo spunto per appropriarsi di un linguaggio e incarnarlo, inscenarlo. Con Rear Screen Projections (1980), omaggiando una tecnica cinematografica molto usata a partire dagli anni ’30, apprezzata in particolare da Hitchcock, Sherman passa dal bianco e nero al colore e inaugura un modus operandi – la posa a colori e in studio – che rimarrà centrale in tutta la sua produzione.

 

Cindy Sherman, Untitled 74, 1980.


Ecco che Cindy e i suoi doppi prendono poco a poco corpo, il metodo di lavoro si definisce. Regista e attrice, fotografa, costumista, truccatrice, protagonista di ogni scatto: la performance del genere si gioca a tutti i livelli della produzione dei cliché. Sherman domina quindi tali codici di rappresentazione e di comportamento, se ne appropria, per comprenderli li iscrive sul proprio corpo; per prenderne le distanze, li agisce. Il gioco del travestimento coltivato dall’infanzia, di sé e della bambola, diventa allora qualcosa di estremo.

 

Si consideri, ad esempio, la sedimentazione delle norme di genere che produce il peculiare fenomeno del sesso naturale, o della «vera donna», o un numero spropositato di finzioni sociali egemoniche e convincenti, e come questa sedimentazione abbia prodotto nel corso del tempo un insieme di stili corporei che, in modo reificato, appaiono come la naturale configurazione dei corpi in sessi, i quali esistono in una reciproca relazione binaria. (Judith Butler, ivi.)

 

Visioni e scene orrifiche, disturbanti, allucinatorie rappresentano la dimensione che Sherman esplora a cavallo tra gli anni ‘80 e ’90. Sex and Surrealist Pictures (1992-1996), assieme ad altre serie parallele, come Masks (1994-1996), Broken Dolls o ancora Horror and Surrealist Pictures (1994-1996), rappresentano un momento a parte, tanto nel percorso artistico quanto in quello espositivo. Una saletta isolata, infatti, ospita la serie al riparo da “sguardi innocenti”. Qui Cindy Sherman prende congedo dall’immagine, la bambola ritorna al centro della scena: il corpo dell’artista scompare del tutto lasciando spazio a manichini smembrati, protesi, frammenti di corpi di plastica, bambole scomposte e riprese in pose oscene, nell’atto di mimare gesti sessuali grotteschi e disumanizzati. L’influenza del surrealismo di Hans Bellmer e delle sue poupée disarticolate è evidente: l’inanimato, l’oggetto, il doppio perturbante rappresentato dalla bambola, diventano i motivi di un erotismo macabro, terreno d’indagine estremo attorno alla reificazione dei corpi, al confine tra l’organico e l’inerte. In questa incursione nella pornografia e nel sadismo non vi è un intento moralizzatore; l’assenza di figure umane in carne ed ossa, laddove produce un effetto straniante, permette anche di beneficiare della giusta distanza per evidenziare stigmi sociali che investono corpi e pratiche. Come del resto suggeriscono i curatori, queste serie furono realizzate sullo sfondo di un’epidemia di AIDS che faceva strage negli Stati Uniti e intervengono potenzialmente anche come un discorso critico, contro quello puritano e conformista diffuso tra l’opinione pubblica nell’America di quegli anni.

 

Dal mio punto di vista, non vi è nessuna essenza della femminilità che attende di essere espressa; vi è invece una gran quantità di esperienze femminili variegate, alcune già espresse e altre che ancora devono esserlo, sebbene sia necessaria cautela rispetto al linguaggio teorico, in quanto esso non si limita a riferire un’esperienza prelinguistica, ma costruisce quella stessa esperienza così come i limiti della sua analisi. (Judith Butler, ivi.)

 

Accanto al cinema e alla televisione, è la moda il milieu che forse più di tutti influenza e guida il lavoro di Sherman, almeno dalla metà degli anni ’90. La centralità dell’abito nelle sue messe in scene e nei suoi travestimenti fa dell’artista un’interlocutrice ideale per maison e stilisti: Jean Paul-Gautier o Comme des Garçons agli inizi (in Fashion, 1983 e 1994), Chanel di Karl Lagerfield, Balenciaga o Stella McCartney per i lavori più recenti (in Landscapes, 2010-2012; Fashion, 2007-2008/2016-2018 e Men 2019-2020), sono solo alcuni esempi. Lontano dai canoni delle foto di moda, qui abiti e accessori sono piegati alle esigenze della sua rappresentazione d’artista, una performance che non cede al glamour pur strizzandogli continuamente l’occhio.

 

Cindy Sherman, Untitled 122, 1983.


A essere scrutata è la norma culturale dell’abito, il dress code, il suo fare corpo con un corpo cui disegna linee e movimenti, cui attribuisce status e posizione sociale. Un altro dress code, che percorre epoche e stili, viene indagato nella serie History Portraits (1989-1990), in cui Sherman sovrappone il ritratto fotografico a quello della tradizione pittorica occidentale, giocando liberamente con codici, temi e scuole. Vestiti a buon mercato, scovati in qualche mercatino delle pulci, parrucche e protesi volutamente ridicole e male applicate, tessuti e materiali contemporanei forgiano madonne, vergini, dame aristocratiche, rappresentazioni variegate di molteplici esperienze per lo più femminili. L’artificio è evidente: Eva Respini, curatrice al MoMa della mostra dedicata alla fotografa nel 2012, nota giustamente come non si tratti di catalogare riferimenti ma di rimuoverli, di contestarli. Per realizzare questi ritratti, Sherman, infatti, non si riferisce a opere effettivamente esistenti – tranne che per qualche eccezione – e non lavora a partire dall’osservazione dal vero di opere rinascimentali o barocche. Le sue riproduzioni fotografiche sono elaborate dalle riproduzioni fotografiche delle opere cui trae ispirazione: riproduzioni di riproduzioni, in cui Sherman sapientemente glissa l’elemento della finzione. 

 

Cindy Sherman, Untitled film 216, 1989.


I generi, dunque, non sono né veri né falsi, né autentici né apparenti; eppure si è costretti a vivere in un mondo in cui i generi costituiscono significanti univoci, stabilizzati, polarizzati, resi distinti e intrattabili. Il genere, in effetti, viene costruito in ossequio ad un certo regime di verità e di falsità che non solo contraddice la sua stessa fluidità performativa, ma è asservito a una politica sociale di regolamentazione e di controllo di genere. (Judith Butler, ivi.)

 

Tra le novità esposte in occasione di questa retrospettiva, vi è la recentissima e inedita serie Men (2019-2020). Se già in passato Sherman aveva saltuariamente interpretato ruoli maschili, la mascolinità è qui esplicitamente messa a tema, interpretata in una serie di ritratti in cui giovani o maturi signori compaiono a volte soli, a volte accompagnati da un doppio femminile, entrambi ovviamente interpretati dall’artista americana. Il carattere performativo del genere e dell’identità, così come una critica alla loro presunta rigidità o essenzialità, trova qui un’ulteriore espressione; al tempo stesso la forza delle opere di Sherman sembra affievolirsi in un manierismo che non rende giustizia alla vitalità e all’importanza delle produzioni precedenti. Resta interessante l’idea di varcare la soglia del genere e attestare il necessario ripetersi della performance, per “disidentificarsi” e dissentire da definizioni sclerotizzanti: mi oppongo, afferma del resto Sherman, al modo in cui siamo logorati da ciò ci viene imposto di essere.

 

Cindy Sherman, Untitled 602, 2019.


L’opzione che io difendo non è quella di ridescrivere il mondo dal punto di vista delle donne: non saprei nemmeno dire quale sia questo punto di vista, ma, qualunque cosa sia, temo che non valorizzi le singolarità e non ho alcuna intenzione di sposarla […] è la stessa categoria di «donna», in quanto presupposto, a richiedere una genealogia critica delle complesse risorse politiche e discorsive che, a loro volta, la costituiscono. (Judith Butler, ivi.)

 

Cindy Sherman à la Fondation. Une rétrospective, 1975-2020.

Dal 23 settembre 2020 al 3 gennaio 2021 – attualmente chiusa per la crisi sanitaria. 

 

Cindy Sherman, Untitled 92, 1981.

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Il polittico Griffoni

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Avrebbe dovuto aprire il 12 marzo 2020 la mostra dedicata alla ricostruzione del Polittico Griffoni, curata da Mauro Natale e Cecilia Cavalca, ospitata nelle sale di palazzo Fava a Bologna; ma solo a giugno i primi, timidi, visitatori si sono affacciati con mascherina e prenotazione obbligatoria, dopo che tutte le nostre abitudini, compresa quella di visitare un museo, erano state sconvolte dalla pandemia da Covid19 e dal lockdown. 

Non è visitabile, ma possiamo sperare che lo diventerà, perché si tratta di un’occasione unica di ricomposizione dei pannelli superstiti del polittico, da tempo dispersi in nove musei in seguito a travagliate vicende collezionistiche.

Eseguito fra il 1470 e il 1472 per la sesta cappella sulla navata di sinistra della basilica di San Petronio a Bologna, il polittico Griffoni è infatti un’opera fondamentale per capire come tra Bologna e Ferrara si fosse elaborato, alla fine del ‘400, un linguaggio pittorico in grado di comporre scienza prospettica, sapere antiquario, e modi naturalistici in una macchina narrativa come quella dell’altare a scomparti che, nel guscio ancora gotico della carpenteria lignea, persa nel 1725, quando il Polittico venne tolto dalla cappella, immetteva la molteplicità dei piani di rappresentazione della pittura rinascimentale.

 

Non a caso in L’Officina Ferrarese del 1934, il polittico Griffoni è una delle opere sui cui Roberto Longhi concentra maggiormente le proprie energie filologiche e il proprio expertise da conoscitore; non solo perché la sua ricomposizione era un rebus molto sfidante, visto che i pannelli smembrati da monsignor Pompeo Aldrovandi, prelato di scarsa lungimiranza nella carriera ecclesiastica quanto nelle scelte artistiche, erano sparsi letteralmente ai quattro venti, ma anche perché Longhi percepisce qui, come negli affreschi di Schifanoia a Ferrara, l’eccezionalità della collaborazione tra Francesco del Cossa e il più giovane Ercole de’ Roberti. Il catalogo della mostra bolognese di Palazzo Fava offre in tale senso un ventaglio di saggi che mettono a fuoco la peculiarità del momento politico e artistico che vive la città felsinea, dove arriva la lezione squarcionesca tramite Marco Zoppo, ma anche quella fiorentina acquisita da Francesco del Cossa stesso, e quella di Piero della Francesca transitato da Ferrara e in Romagna, fino a Paolo Uccello riconosciuto da Carlo Volpe come l’autore dell’affresco superbo e lacunoso della chiesa di S. Martino. 

 

Anche in virtù della sua centralità geografica, il Rinascimento bolognese fu dunque tutt’altro che laterale, rispetto ai centri più tradizionalmente celebrati dalla storiografia. E per chi si accosta alle opere d’arte come a quesiti investigativi da risolvere – un approccio tutt’altro che disprezzabile – il catalogo della mostra ne indica diversi, ancora insoluti, relativamente alla carpenteria lignea di Agostino da Crema e alla disposizione delle figurine dei santi nelle lesene laterali, e al disegno eseguito da Stefano Orlandi nel 1725 prima del suo smantellamento. 

 

 

È solo guardando a opere come il Polittico Griffoni, l’Annunciazione di Dresda di Francesco del Cossa, anch’essa parte di un polittico, o la più tarda pala Portuense di Ercole de’ Roberti ora a Brera, che si può provare a immaginare l’ammirazione di Michelangelo alla vista della cappella Garganelli in San Pietro a Bologna. 

Distrutta col rifacimento della chiesa nel 1605, la cappella affrescata da Cossa ed Ercole De’ Roberti, fu vista all’inizio del ‘500 da Michelangelo che ne rimase molto colpito e disse che “era meza Roma de bontà” vale a dire che qui si trovava più o meno tutto quello che un pittore moderno aveva bisogno di imparare. 

 

Cosa intendiamo quando parliamo di modernità per un pittore della fine del ‘400? La misura della modernità è in qualche modo stabilita nel Proemio alla terza parte di Le Vite de’ più eccellenti architetti, pittori et scultori italiani di Giorgio Vasari e comprende varie voci, fra cui “la facilità graziosa e dolce, che apparisse fra ‘l vedi e non vedi, come fanno la carne e le cose vive”, “la vaghezza de’ colori la universalità ne’ casamenti e la lontananza e varietà ne’ paesi”, “uno spirito di prontezza e una dolcezza nei colori unita”, “una terribile movenzia”, “buona regola, migliore ordine, retta misura, disegno perfetto e grazia divina” nel contraffare tutte le minuzie della natura, e l’elenco continua fino ad arrivare a Michelangelo che possiede tutte queste qualità, e in tutte e tre le arti.

 

 

Se Michelangelo era al culmine di questa ascensione dell’arte, cosa vedeva in un’opera come la perduta cappella Garganelli o il Polittico Griffoni? Provare a immaginare con gli occhi di un’artista non è un esercizio ozioso o stravagante, perché mentre il lavoro dello storico è quello di stabilire una linea di progressione, che per Vasari coincide con una visione evoluzionistica della storia e delle epoche, e per i moderni è una rete di connessioni e incroci, per un artista si tratta di cogliere là dove l’invenzione e l’esecuzione di un suo collega segnano uno scarto, producendo una modalità di rappresentazione non vista prima né dopo, uno stile riconoscibile.

 

Cercherò di mettere in luce alcuni di queste caratteristiche. Francesco del Cossa è un pittore pieno di invenzioni ingegnose e sorprendenti, a partire dal modo in cui ritrae i committenti del polittico, Floriano Griffoni e la moglie Lucia Battaglia, inseriti nelle due edicole ai lati della crocefissione del tondo centrale nel registro superiore del polittico. Innanzitutto essi sono chiaramente due personaggi mondani, con gli abiti eleganti aggiornati alla moda del tempo, e sono di proporzioni comparabili ai santi del registro inferiore, cosa ancora non così comune nella raffigurazione italiana, mentre lo era in quella nordica, ma soprattutto pur essendo i ritratti dei committenti sono anche raffigurazioni dei loro santi omonimi: San Floriano, soldato romano convertito al cristianesimo e Santa Lucia da Siracusa, entrambi martirizzati durante le persecuzioni dell’imperatore Diocleziano.

 

 

Cossa li raffigura come se si affacciassero da un parapetto basso che arriva poco più alto delle loro ginocchia, agevolando il sottosquadro cui lo spettatore sarebbe stato sottoposto guardando a quell’altezza del dipinto. Li staglia contro un luminosissimo fondo oro, che non è solo un omaggio al persistente gusto gotico, ma anche un modo per nobilitare le figure e porle su un piano diverso rispetto al San Vincenzo Ferrer, al San Pietro e al San Giovanni Battista del registro inferiore. E che dire poi del gioco allusivo col nome creato dal fiore di rosa tenuto in mano da Floriano, che diventa l’invenzione altissima di uno stelo su cui fioriscono due occhi nella mano di santa Lucia? Se Cossa avesse abbracciato la tradizionale raffigurazione della scodella contente gli occhi di Santa Lucia, non solo si sarebbe persa la simmetria legata al tema floreale del martire-consorte Floriano, ma soprattutto lo spettatore dal basso non avrebbe visto quello che è l’attributo principale della Santa, ossia gli occhi. Secondo la rigorosa costruzione prospettica di Cossa, se adagiati su un piattino o una scodella come l’iconografia li propone di solito, a quell’altezza sarebbero diventati invisibili; viceversa innestandoli in un gambo floreale, che Lucia offre alla vista frontale dello spettatore, essi sono messi in assoluta evidenza e acquistano una sorta di assolutezza che va oltre il simbolo del martirio. 

 

 

Non è un caso che Santa Lucia che con la mano destra che regge lo stelo d’occhi sia diventata l’immagine di copertina del catalogo della mostra e prima ancora sia circolata nella bella rielaborazione grafica fatta dall’illustratrice Elisa Seitzinger, per la copertina di un libro molto letto nell’ultimo anno, Febbre di Jonathan Bazzi. In un’intervista Bazzi ha dichiarato di aver scelto quell’immagine, gli occhi della santa tenuti dalla mano e resi lacrimosi nella rielaborazione di Seitzinger, senza troppo riflettere sul significato, per poi accorgersi che in realtà quello che aveva cercato, scrivendo il proprio libro, era proprio la possibilità di uno sguardo fino a quel momento negato. È sempre molto interessante seguire la fortuna delle immagini, perché ci dice qualcosa delle intenzioni artistiche e di come possano essere percepite nel tempo.

L’enfasi sullo sguardo nella pittura di Cossa è certamente promossa da preoccupazioni prospettiche, si pensi al bellissimo sporgere del piede calzato di San Floriano che vediamo da sott’insù, ma sconfina in una straordinaria consapevolezza dei piani illusivi della rappresentazione che tiene insieme vicino e lontano, dettagli anatomici iperrealistici – i volti, le mani, i piedi dei santi, i loro panneggi – e luoghi della mente come sono tutti i dettagli di architettura e di paesaggio raffigurati, non perché inverisimili presi uno a uno, ma perché frutto di una sintesi evocativa nel loro insieme di giustapposizioni. 

 

 

Daniel Arasse, in un libro intitolato On n’y voit rien. Descriptions (De Noel 2000) composto di sei saggi dedicati ad altrettanti quadri, riserva una lunga riflessione all’Annunciazione di Dresda di Cossa, proprio a partire dal dettaglio della lumaca in primo piano, incongruo sia dal punto di vista iconografico che delle proporzioni. Giusta o sbagliata che sia la sua disquisizione sul perché proprio una lumaca debba occupare in primo piano lo stesso spazio che lontanissimo, e in maniera simmetrica sullo sfondo, occupa Dio padre, quel saggio ha il merito di attirare l’attenzione sul fatto che Cossa sceglie elementi ai margini del dipinto, in questo caso la lumaca, per condurvi lo sguardo dello spettatore. Come se gli dicesse: attenzione, stai entrando in uno spazio che non è quello reale, non è forse nemmeno quello divino, ma è quello ulteriore della rappresentazione. Uno sfondamento analogo avviene anche nel Polittico Griffoni proprio col già summenzionato piede sporgente del San Floriano che esce dalla cornice dove si trova la figura, e con la lucertola che guizza ai piedi di San Giovanni Battista.

 

La lontananza e varietà nei paesi riconosciuta da Vasari come qualità necessaria ai moderni pittori è tutta dispiegata negli sfondi dei santi e nella magnifica predella di Ercole de’ Roberti, dove la vivacità della narrazione continua dei miracoli del santo domenicano prevede di nuovo uno spazio misto, non in sé concluso, come lasciano intuire la testa di moro e i quarti del cavallo di spalle di cui il resto è da immaginare oltre il bordo inferiore della raffigurazione, così come i comignoli dell’edificio nella penultima scena o le impalcature di quelli in costruzione nella architetture centrali, che si vedono solo a metà. Si tratta di un regime di rappresentazione, quello elaborato da Cossa e fatto proprio con livelli estremi di virtuosismo da Ercole de’ Roberti, in cui il dettaglio naturalistico-realistico si accompagna sempre a uno che potremmo dire fantastico, che sconfina in un altrove fuori dalla cornice del dipinto e fuori dallo stesso spazio istituito dal pittore. Oltre agli esempi già fatti se ne possono ravvisare molti altri, come l’ineffabile gonnella, trasparente come l’aria, che fuoriesce dall’armatura del San Giorgio nelle lesene laterali o le gemme di vetro, anch’esse un miracolo di trasparenza, che formano, intercalate a grani rossi, una ghirlanda appesa alle spalle di ciascuno dei tre santi della parte centrale. 

 

Per tornare all’ammirazione di Michelangelo, cosa aveva da spartire o da imparare un artista come lui che molte di quelle preoccupazioni naturalistiche e prospettiche se le era lasciate alle spalle da un pezzo? Più osservo il Polittico Griffoni e più penso che sia proprio il tipo di consapevolezza dei piani multipli della rappresentazione uno degli elementi che può aver attirato l’attenzione dell’artista fiorentino, la possibilità che non tutto sia dispiegato, ma possa anche essere evocato con forza da un singolo dettaglio, che insomma chi guarda sia invitato da numerosi dispositivi interni all’opera a immaginare di più di quello che vede riposizionando di continuo il focus del proprio sguardo.

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La riscoperta di un capolavoro
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N'aria 'e Primmavera alle Gallerie d'Italia

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Uno dei modi possibili, e meraviglioso, di conoscere Napoli, già percorse le sue piazze e le sue chiaie, frequentate le sue chiese, visitati i suoi musei e le mostre nei suoi spazi pubblici ed esplorate le sue viscere, è quello di fare un giro fra i suoi numerosissimi e opulenti palazzi nobiliari, spiandone l'intimità, o apprezzandone la destinazione divenuta pubblica, sempre in estasi di fronte alla loro magnificenza. È il caso di quello che sorge al numero 187 di via Toledo, Palazzo Zevallos Colonna Stigliano, ora sede delle Gallerie d'Italia, polo culturale e museale di Intesa Sanpaolo. 

Opera dell'allora quotatissimo architetto e scultore bergamasco, naturalizzato napoletano, Cosimo Fanzago, il palazzo fu eretto fra il 1637 e 1639 su commissione di Juan de Zevallos, un facoltoso e spregiudicato faccendiere di origini iberiche che, secondo l'uso del tempo, si era comprato con monete sonanti il titolo nobiliare di duca, nella fattispecie quello di duca di Ostuni. Così prepotente era il suo bisogno di ostentare la propria ricchezza, che volle un palazzo talmente sfarzoso, da suscitare, come raccontano le cronache del tempo, addirittura la gelosia del Viceré di Napoli, il duca di Medina Don Ramiro Núñez de Guzmán (per la cui consorte, la Viceregina Donn'Anna Carafa, principessa di Stigliano, Cosimo Fanzago aveva già ricostruito il famoso Palazzo a Posillipo che porta ancora il suo nome e di cui ha scritto persino Matilde Serao). 

 

Così come era stata rapida e rapinosa la scalata sociale degli Zevallos, altrettanto fu fulminea la loro rovina e, morto Juan, i suoi eredi, già nel 1653, dovettero vendere il palazzo. Lo acquistò il mercante fiammingo, mecenate e collezionista d'arte, Jan van den Eynden, che lo arricchì di straordinarie opere d'arte dando così avvio a quella vocazione museale che lo connota tuttora. Sebbene sul magniloquente portale fanzaghesco (o fanzaghiano che dir si voglia) campeggino ancora oggi le armi degli Zevallos, il palazzo acquisì presto i suoi altri due nomi di Colonna e di Stigliano, in virtù dei matrimoni delle due figlie di Ferdinand van den Eynden, erede di Jan: Giovanna, che sposò il principe di Sonnino, Giuliano Colonna ed Elisabetta, convolata a nozze con Carlo Carafa di Stigliano, marchese di Anzi (discendente della famosa Donn'Anna: così, alla fine, Don Ramiro Núñez, pervenne da morto, attraverso la sua prosapia, ad acquisire l’edificio che gli aveva fatto tanta gola in vita, con buona ed eterna pace dello Zevallos!).

 

Per il palazzo divenuto suo, il Carafa di Stigliano, anch'egli collezionista d'arte e mecenate, commissionò, tra l'altro, a Luca Giordano, di cui possedeva numerose opere, un affresco, oggi perduto. 

Purtroppo, nella prima metà del XIX secolo, l'edificio cadde in rovina, i suoi ambienti frazionati e venduti o dati in fitto. Soltanto il piano nobile, acquistato dal banchiere Carlo Forquet, fu restaurato su progetto dell’architetto Guglielmo Turi, che, di lì a poco, avuto anche l'incarico di rifare la facciata, la improntò al gusto neoclassico, a cui era pervicacemente ancorata la ricca borghesia (per spirito di emulazione del gusto della nobiltà, a cui si era sostituita) eliminando – ahinoi – tutte le decorazioni sculto-architettoniche barocche del Fanzago, ad eccezione del portale in marmo bianco, con due pilastri bugnati laterali in piperno. Anche gli ambienti interni del piano nobile vennero rifatti secondo la moda del momento e arricchiti con stucchi e bassorilievi in bianco e oro, opera di Gennaro Aveta e con affreschi di Gennaro Maldarelli e di Giuseppe Cammarano, che andarono a sostituire i precedenti, compreso quello di Luca Giordano, al cui posto Cammarano dipinse, nel 1832, l’Apoteosi di Saffo e Apollo.

 

Tra il 1898 e il 1920 ci fu la progressiva acquisizione di varie porzioni dello stabile da parte della Banca Commerciale (nata a Milano nel 1894). Per adattarne gli spazi alla nuova funzione pubblica, venne fatto ricoprire il cortile con un lucernario in vetri multicolori nello stile floreale allora in voga, opera dell’architetto Luigi Platania, trasformandolo così nel luogo di rappresentanza ammirabile anche oggi. Platania rifece anche l’imponente scalone d’onore, con forme ibride, un po' neoclassiche e un po' liberty.

Oggi, il palazzo ospita una delle tre collezioni di arte figurava delle Gallerie d'Italia di proprietà del gruppo Intesa Sanpaolo, confermando così la vocazione museale che lo ha connotato fin dalle sue origini. Fra le 120 opere, tra pitture e sculture, di cui essa si compone, primeggia il Martirio di Sant’Orsola di Caravaggio (1610), l'ultimo quadro dipinto a Napoli dall'artista lombardo, soltanto poche settimane prima della sua tragica morte, capolavoro che fu acquisito al patrimonio della Banca Commerciale nel 1973. 

 

Napoli, Palazzo Zevallos Colonna-Stigliano: il portale d'accesso, opera di Cosimo Fanzago; il grande salone ricavato dal precedente cortile, coperto con un lucernario in vetri multicolori in stile liberty, progettato dall’architetto Luigi Platania; la sala, che fu la camera da letto del banchiere Carlo Forquet, dove si conserva il Martirio di Sant’Orsola (1610) di Caravaggio, alle pareti stucchi neoclassici di Gennaro Aveta; il Martirio di Sant’Orsola, l’ultima opera dipinta da Caravaggio poche settimane prima della sua tragica morte.

 

Come in tutte le Gallerie d’Italia di Intesa Sanpaolo (le altre due sono a Milano e a Vicenza), periodicamente, anche a Palazzo Zevallos si organizzano eventi espositivi. Dal 24 settembre 2020, al 24 gennaio 2021 vi si può ammirare la mostra Napoli Liberty. N'aria 'e Primmavera.

Curata da Fernando Mazzocca e Luisa Martorelli, con l'allestimento di Lucia Anna Iovieno, presenta al pubblico più di settanta opere d'arte, frutto della straordinaria diffusione dello stile floreale all’ombra del Vesuvio nel periodo compreso fra il 1889 e il 1915.

 

Filippo Palizzi e Giuseppe Cecchinelli, Fontana degli aironi, 1887; Ulisse Caputo, Figura di donna seduta, 1918


Il titolo della rassegna, N'aria 'e Primmavera, è mutuato da una strofa della poesia Marzo (1898) di Salvatore Di Giacomo:

 

Marzo: nu poco chiove

E n’atro ppoco stracqua

Torna a chiovere, schiove,

ride ‘o sole cu ll’acqua.

Mo nu cielo celeste, 

mo n'aria cupa e nera: 

mo d''o vierno 'e tempesta, 

mo n'aria 'e Primmavera"

 

evocatrice di miti temperature propizie allo sbocciare dei fiori. E proprio Floreale era detta nel nostro paese quella corrente artistica, 'fiorita' alla fine del XIX secolo, dalle molte denominazioni. Si chiamò infatti Jugendstjl in area austro-tedesca, Art Nouveau in Francia, e fu preannunciata dall’antesignano movimento britannico delle Arts and Crafts di William Morris, ma universalmente è nota come Liberty, nome che le deriva da quello di Arthur Liberty, fondatore del famoso negozio londinese di Regent Street in cui venivano vendute stoffe a motivi floreali, appunto.

Nella mostra partenopea sono esposte opere di pittura, scultura, cartellonistica, gioielleria e manifatture diverse. Infatti, nella stagione del Liberty, l'Arte si è occupata anche di creare oggetti destinati a un uso pratico, senza che vi fosse, né da parte degli artisti interessati, né da quella del pubblico cui erano destinati e neppure da quella della critica, la canonica distinzione fra Arti Maggiori (architettura, pittura e scultura) e Arti Minori (oggetti d'uso). Una simile, eccezionale circostanza ha un unico precedente nella Storia dell'Arte europea, rintracciabile nel periodo che va sotto il nome di Gotico Internazionale (fine XIV, inizio XV secolo), con il cui linguaggio, contraddistinto dalla sinuosità delle linee, dall'acceso cromatismo, dall'opulenza e preziosità dei materiali impiegati o rappresentati e dai temi e soggetti laici prescelti, il Liberty ha notevoli affinità. Non a caso, entrambe le epoche sono state caratterizzate dall'ascesa al potere della borghesia, alla quale quel tipo di produzione artistica era destinata e che essa stessa commissionava agli artisti.

 

Una veduta della mostra; Almerico Gargiulo, Scuola d’arte di Sorrento, mobile intarsiato dalle forme alla maniera di Carlo Bugatti.

 

Manifesti pubblicitari per i Magazzini Mele di Napoli: Marcello Dudovich, 1907; Leopoldo Metlicovitz, 1900, 1909.


Napoli, al pari di Londra e di Parigi, è stata sicuramente patria della modernità, se non su quello industriale e produttivo, certamente il primato le compete sul piano artistico, grazie alla vivacità del dibattito culturale che vi si tenne tra la fine dell'ottocento e i primi due decenni del secolo successivo, soprattutto per la presenza in città di artisti di rilievo internazionale, quali, ad esempio, Vincenzo Gemito, e del raggruppamento di quelli facenti capo al movimento d’avanguardia denominato Secessione dei 23, nato a partire dal 1909 per iniziativa di Edgardo Curcio, Francesco Galante, Odoardo Pansini, Raffaele Uccella e Eugenio Viti, insieme agli scultori Costantino Barbella, Filippo Cifariello e Saverio Gatto. Napoli fu inoltre sede delle Esposizioni Nazionali e Internazionali, che richiamarono in città artisti provenienti da tutta Europa, con il conseguente esito di una rapida circolazione delle novità da essi portate. Ma il Liberty, a Napoli, interessò anche l'architettura (si legga qui), che caratterizzò il rinnovamento urbano del quale la città fu investita fino allo scoppio del primo conflitto mondiale. 

 

Tra le opere di pittura esposte in mostra è Seduzioni (1906), di Vincenzo Migliaro, ad aver assunto, per la sua languida bellezza, testimone di quel tempo che fu, il ruolo di icona-manifesto della rassegna. Riproduce il volto di una fanciulla intenta a contemplare una vetrina dell'allora famosa gioielleria Jacoangeli, con gli occhi colmi di desiderio e, al contempo, di muta rassegnazione. 

Alcune creazioni dal grande orfèvre Gaetano Jacoangeli sono esposte nella teca che si trova al centro dell'ultima sala della mostra, accanto ai gioielli di altri protagonisti dell'oreficeria napoletanoa, famosa nel mondo, quali Emanuele Centonze e Vincenzo Miranda. Vicino ad essi spiccano anche due sontuosi collier in corallo provenienti dal Museo della Scuola del Corallo di Torre del Greco, purtroppo ancora chiuso al pubblico, ma che merita di essere visitato. 

In mostra, insieme alle altre, c'è anche un'opera di Almerico Gargiulo, uno dei maestri intarsiatori della Scuola d’arte di Sorrento, allora nota per la produzione di mobili decorati a intarsio. Si tratta di una petineuse, dal magnifico specchio appenso alla parete, eseguita alla maniera dei mobili di Carlo Bugatti, il mitico ebanista milanese preso a modello in patria e all'estero per la sua straordinaria inventiva e per la sua capacità di rinnovamento formale, preludio di modernità. 

 

A conclusione della rassegna partenopea, quasi finestra sul futuro, sono esposti alcuni manifesti pubblicitari realizzati per i Magazzini Mele di Napoli e per la fabbrica di conserve Cirio, da nomi notissimi della cartellinistica italiana di levatura internazionale, come Leopoldo Metlicovitz, Marcello Dudovich e Leonetto Cappiello. Chiudono la rassegna i primi esempi di grafica editoriale applicata alle riviste di settore, con Vincenzo Migliaro e Pietro Scoppetta a firmare le prime pagine de ”Il Mattino” di Napoli, la rivista e le copertine dei numeri dedicati alla Piedigrotta, appuntamento rituale della canzone napoletana, stampate dalle Arti Grafiche Ricordi o dall’Editore Bideri, celebri stampatori dei periodici musicali del tempo.

 

Infine, è di scena la rivista L'Arte Muta,  pubblicata a Napoli tra il 1916 e il 1917, "una delle esperienze più originali e pregevoli, in Italia, di collaborazione tra industria cinematografica, editoria e arti grafiche. Nel periodico si pubblicizzano i film di molte case cinematografiche italiane del tempo. Collaborarono a L'Arte Muta vari disegnatori attivi a Napoli e nel resto d'Italia, i quali realizzarono splendide illustrazioni di genere decorativo, realistico o caricaturale, a tema cinematografico. La rivista era un prodotto editoriale lussuoso che racchiudeva molti altri oggetti grafici prodotti con vari tipi di carta: tavole con ritratti di attrici; montaggi di fotografie di scena; libretti illustrati sulle trame delle pellicole; locandine e cartoline estraibili."

Il desiderio di rinnovamento degli stili di vita, preludio e annuncio di modernità, serpeggia, insomma, tra le sale di Palazzo Zevallos che ospitano la mostra, come n'aria 'e Primmavera che è assai piacevole respirare. 

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Il realismo magico di Paolo Ventura

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Prima della chiusura degli spazi espositivi dovuta all’emergenza sanitaria da Camera – Centro italiano per la fotografia di Torino era in scena il Carousel di Paolo Ventura (Milano, 1968). Mai titolo è stato più appropriato per portare in mostra la summa della produzione artistica di Ventura: una giostra mirabolante, dai volti e dalle storie infinite e fantastiche, con l’accompagnamento di quella musichetta per bambini al confine tra la malinconia adulta delle memorie passate e il mondo onirico e dalle infinite possibilità di un fanciullo.

Da una ventina d’anni Ventura è padre di storie che si dispongono in equilibrio tra la memoria storica, la fantasia, il sogno e la realtà, con un linguaggio visivo che amalgama tutto senza offrire allo spettatore la disambiguazione dei diversi piani, e anzi facendo leva proprio sull’atto volontario di complicare la fruizione dell’immagine.  Influenzato dalla pittura, dalla scultura, dalla manualità artigianale di uno scenografo, il lavoro dell’artista milanese è il risultato di una minuziosa ricerca tecnica e di linguaggio. A corredare la retrospettiva che Camera gli ha dedicato, prorogata per ora fino al 14 febbraio 2021, il libro Paolo Ventura. Photographs and drawings (Silvana Editoriale, 2020), non propriamente il catalogo della mostra, ma anch’esso un’opera quasi omnia della sua produzione, un doveroso tributo a un artista fotografo riconosciuto e amato in tutto il mondo.

 

Automaton, 2010.

 

Il libro illustra a tappe cronologiche la sua poetica, racconto non lineare di una traccia: i suoi personaggi, le sue ambientazioni trovano linfa vitale nella loro indefinitezza, nella loro figurazione latente, nel loro essere in alcuni casi, come disse Denise Wolff di Aperture, “storie di scomparsa”. La produzione di Paolo Ventura suggerisce una vita oltre l’immagine.
Prima dei suoi diorami, delle sue creazioni sceniche, dei manichini usati come modelli per creare i suoi personaggi, dei suoi personaggi in carne e ossa, delle sue scenografie tridimensionali, delle sue scenografie bidimensionali, prima della notorietà di War Souvenir nel 2005, esiste un Ventura embrionale o meglio l’inizio di quello che sarebbe stato il suo stile inconfondibile: Buchi di violenza. In questo lavoro Paolo Ventura cerca, in giro per l’Italia, i segni della violenza, i buchi, gli squarci ad opera di pistole o bombe. Non vuole essere un progetto di inchiesta o storico, non vuole dare una documentazione generale sulla società di un determinato periodo o sull’evento specifico che ha prodotto tale episodio di violenza. Ventura semplicemente trae un close up della rappresentazione fotografica del buco e grazie all’utilizzo di un flash ad anello lo astrae, lo rende di difficile comprensione.

 

Eclissi totale, 2017.


D'altronde per Ventura l’immagine è solo un trampolino di lancio per raccontare altro nella mente dello spettatore, tramite l’immagine latente. Così come anche, racconta Ventura stesso, con un “lavoro più piccolo dedicato ai reperti della Grande Guerra che trovavo in campagna, ad Anghiari. Scavavo e appena questi emergevano dalla terra li fotografavo. Fotografie in emersione. Sembravano dei fantasmi”. Tutta la sua poetica, infatti, è abitata da un sentimento fantasmatico, da simulacri di un tempo senza tempo, da spazi senza spazio.
E poi arriva il 2005 e la sua riconoscibilità stilistica comincia ad espandersi anche internazionalmente con War Souvenir. I suoi diorami, le sue messe in scena in miniatura, le ricrea sul tavolo di una piccola stanza nella sua casa di Brooklyn, illuminate da un lampadario centrale che riporta alle micro scene le ombre pesanti e cupe della Seconda Guerra Mondiale. Nella produzione di Ventura ci sono chiari riferimenti alla sua storia familiare, alle sue memorie, alle radici trasmesse, alle dinamiche insite in ogni famiglia, ma come per ogni elemento delle sue scene anche i racconti della nonna sulla Seconda Guerra Mondiale diventano traccia, l’elemento reale perde la propria oggettività all’interno dell’ingranaggio onirico di Paolo Ventura.

 

Behind the walls, 2011.

 

Ventura nasce da un padre illustratore di libri per bambini, da cui lui e il fratello gemello Andrea, pittore, hanno attinto la loro carica creativa e immaginifica. In Paolo Ventura. Photographs and drawings il fotografo si sofferma affettuosamente proprio sull’iniziale trasmissione di questo patrimonio: “Lavorava in una stanza al pian terreno, dove ovviamente a noi era vietato l’ingresso. Allora lo guardavamo dal vialetto, attraverso le zanzariere. Fumava la pipa e faceva un fumo azzurro tutto intorno a lui. Poi noi di nascosto, quando lui non ci vedeva, entravamo nella stanza e con la penna aggiungevamo delle cose ai suoi disegni. Quindi immagino, credo, penso (forse) che questa attitudine sia genetica! Poi ci chiedeva di raccontare delle storie, per questo eravamo sempre in esercizio”.
Se il padre gli ha donato in eredità lo stimolo per una sua identità artistica, il fratello Andrea ha contribuito in modo ugualmente importante. Nel suo essere sfaccettato e dai piani di lettura molteplici, il lavoro di Paolo Ventura, infatti, si concentra chiaramente su una ricerca anche identitaria. Il travestitismo, la produzione di maschere, la messa in scena di figure archetipiche come il soldato e il pagliaccio, sono il risultato di una sua lotta personale per riconoscersi, a modo suo, rispetto a un gemello dalla personalità differente, ma visivamente uguale. “Adesso se non mi riconosco so di essere io”. Da Behind the walls (2011) mette da parte i manichini e i personaggi creati artigianalmente ed entra in scena lui, autoritraendosi e moltiplicandosi, con la stessa matrice modificata per creare ruoli diversi. “Ogni volta scelgo un costume che mi permetta di perdere la mia identità per raggiungerne un’altra, non importa quale sia il personaggio”.

 

Homage da Saul Steinberg da Short stories, 2014.


Ma è nel 2012 per Short Stories che la sua ricerca identitaria sulla dualità e lo sdoppiamento trova il suo climax di straniamento e complessità, mettendo in scena anche il fratello stesso, la moglie e il figlio Primo, che in un qualche modo vanno a rappresentare sempre il suo doppio. Kim la sua versione femminile e Primo la versione da bambino dei suoi personaggi, i “lui” in ruoli differenti secondo abiti differenti. E quindi, dove inizia l’artista e finisce l’uomo, con la sua storia e la sua identità? Non penso ci possa essere una risposta razionale per il Mago Paolo Ventura, anche perché se il suo intento è sempre stato quello di non riconoscersi, la domanda potrebbe essere posta all’infinito.
Sulle ambientazioni di Ventura cala un velo malinconico e decadente, che contestualizza la scena più che in un luogo specifico e in un momento definito, in una sensazione, in un sentimento: quello intimo del ricordo, quello introspettivo della mente. Così le città ricostruite nella loro tridimensionalità o dipinte bidimensionalmente risultano familiari, ma non completamente riconoscibili. Come la Venezia di Paolo Monti risulta fantasmatica e inafferrabile per la sua evanescenza così anche quella di L’Automa (2010) risulta essere rappresentata come una traccia scomparente, una città ritratta non nella sua accezione urbanistica ma nel sentimento che scaturisce.

 

Primo Jack, 2018.


Per questo motivo Venezia in questo lavoro di Ventura sembra Venezia, ma non lo è. Anche per quanto riguarda la dimensione temporale di L’Automa la sua definizione viene trattata come un dato apparente, infatti raccontando del rastrellamento ebraico nel ghetto veneziano durante la Seconda Guerra Mondiale, conferisce alla sua storia per lo meno delle coordinate, ma la sua resa continua a essere metafisica, sospesa, come in un quadro di De Chirico, che dipingeva tipici elementi di città classiche, in particolari porticati vuoti o con pochissime figure, con una organizzazione schematica e prospettica. Il processo artistico e compositivo di Ventura risulta similare, con l’utilizzo però non di elementi classici, ma razionalisti, creando un paradosso visivo che conferisce all’immagine la sua dimensione onirica. Lo stesso uso archetipico della città venne adottato da Fellini in film come Amarcord o I Vitelloni per rappresentare sentimentalmente la sua Rimini.


Solitamente il processo creativo di Ventura parte dagli oggetti: lui infatti si definisce un “raccoglitore di avanzi”, che risultano essere lo stimolo per dare avvio alle sue storie, l’incipit materiale attorno al quale far gravitare la sua fantasia, i suoi ricordi e la sua ricerca meta-fotografica. Nel libro edito da Silvana Editoriale racconta ad esempio di un illuminante ritrovamento a un mercatino dell’usato: “Nel periodo in cui stavo realizzando le Short Stories trovai in un mercatino un costume di carnevale, un frac fatto di semplice tela di iuta. Era stato cucito per un ricco signore padano a inizio del secolo. Mi piaceva perché lo trovavo dissacrante, anche un po’ stronzo, probabilmente se l’era fatto fare per prendere in giro i suoi contadini, che portavano i sacchi sulle spalle tutto il giorno. Lo comprai perché volevo usarlo, ma non sapevo ancora come. La signora che lo vendeva lo piegò e lo mise in una piccola valigia e me lo diede. Il suo gesto mi ha fatto immediatamente vedere la storia che avrei raccontato”. Il lavoro di Paolo Ventura non è la risultante di un processo artistico unicamente mentale, ha delle forti connotazioni e influenze che attingono dal suo vissuto, sia che si manifesti sotto forma di ricordo o che faccia parte delle sue abitudini da collezionista. La sua produzione è, infatti, un movimento costante e incessante tra tutte queste dimensioni, un atto volontario per creare straniamento e complicatezza di lettura.

 

Mare Tirreno, 2019.

 

Difficilmente le sue storie celano intenti critici o forme d’accusa: molte, è vero, parlano della guerra, spesso per mettere in scena la dimensione del ricordo e della memoria storica tanto cara alla sua produzione e anche per un amore smodato e maniacale per le uniformi e l’abbigliamento militaresco. Caso particolare è, invece, Iraq (2008), che solleva una lettura critica sulla manipolazione dell’informazione attraverso l’immagine fotografica. Questo lavoro di Ventura è un monito al potere dell’immagine, all’uso potenzialmente distorto che se ne può fare da parte soprattutto dell’opinione pubblica, al suo labile valore di veridicità. In parte è proprio su tale ambiguità che Ventura ha fondato il suo processo artistico e per tale motivo non poteva esserci miglior autore per raccontare la passibilità di interpretazione dell’immagine fotografica.


L’andamento della produzione di Paolo Ventura è una costante evoluzione, di tecniche di riproduzione e conseguentemente di espressione del contenuto. Nell’ultima fase, probabilmente influenzato anche dalle collaborazioni come scenografo di opere musicali e liriche come Carousel del 2015 e Pagliacci al Teatro Regio di Torino del 2017, la tridimensionalità delle scene lascia il posto a fondali dipinti e a progetti in cui la fotografia entra in dialogo con la pittura. Nasce così Collage Eclipse (2017), in cui la città dipinta si rende scenario della storia, ma, a differenza di molti suoi precedente lavori, non la contiene più. I suoi personaggi la usano semplicemente come fondale per interpretare il loro ruolo. La pittura appiattisce la dimensione scenica e indirizza il valore introspettivo di Ventura in una sfera simbolica. Quello che, invece, rimarrà costante nelle opere di Paolo Ventura sarà la sensazione di perenne magia e stupore, del trattare la riproduzione di ogni elemento, oggettiva o pittorica che sia, con lo stesso trasporto con cui si scopre un tesoro nascosto, anche nella quotidiana e ripetitiva realtà di una reclusione imposta per quarantena sanitaria, Quarantine Diary (2020). 

 

Ex voto, 2018.


Carousel
di Paolo Ventura
fino al 14 febbraio 2021
Camera – Centro italiano per la fotografia
via delle Rosine 18, Torino

 

Paolo Ventura. Photographs and drawings
a cura di Walter Guadagnini
Silvana Editoriale
p.512
Italiano/Inglese
2020

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Mentre cerco di figurarmi quali ulteriori vie possano essere percorse per comprendere le metamorfosi e i processi delle immagini, mi sovviene Karma Fails ‒ Meditation Is Visualization (2017), la performance messa in azione da The Cool Couple, dove i due artisti, con la collaborazione di alcuni fruitori delle loro opere, utilizzano la meditazione come uno strumento utile per mettere a fuoco una serie di fenomeni che solitamente sono relegati ai margini dello sguardo.  Questa opera-esperimento è interessante per questioni che sono riconducibili a una serie di analisi del neoliberalismo e del capitalismo cognitivo, alla capacità di dirottare l’attenzione, di alterare la visibilità di qualcosa o qualcuno, di comprendere le strategie delle forme di potere e di controllo più efficaci e pericolose. Secondo Trevor Paglen, le cose che ci minacciano di più sono quelle per cui non c’è un’immagine. Se l’immagine di un pericolo può essere negata (o criptata) dal potere, ci si chiede quali immagini stiamo fruendo veramente, quali differenze esistano tra le immagini consentite e quelle censurate (non fatte circolare)? Attraverso Doppiozero vorrei dare voce a chi in questi anni sta cercando di comprendere la complessità dell’immagine, e nel caso specifico attraverso il rapporto tra fotografia e arte. Siccome ora siamo in zona rossa a causa delle restrizioni Covid e non posso andare a Milano a trovare Simone Santilli (con Niccolò Benetton fondatore di The Cool Couple, anche abbreviato con TCC), gli telefono per condividere alcune questioni.

 

The Cool Couple, Karma Fails, Meditation Rocks, Earth, 2017.


Mauro Zanchi: Come immagini la fotografia (o le fotografie) del futuro?

Simone Santilli: In La Furia delle Immagini. Note sulla postfotografia, Joan Fontcuberta racconta un aneddoto: a fine anni ’90 era stato invitato a partecipare a un’indagine di marketing, in qualità di fotografo professionista. All’epoca erano già in circolazione telefoni cellulari discretamente evoluti (nel 1997 Philippe Kahn scattava la prima mobile pic della storia). Non ricordo esattamente com’era stata formulata la domanda, ma a un certo punto gli intervistatori avevano chiesto a Fontcuberta la sua opinione su un cellulare che ti permettesse di fare fotografie. Fontcuberta, senza esitare, aveva risposto che una fotocamera dentro un telefono era una idiozia. Nessuno ne avrebbe mai fatto uso.

Ammetto che gli sono grato per aver condiviso questo aneddoto, perché quando cerco di immaginarmi cosa succederà alla fotografia sono vittima di una sorta di visione nobile e anche un po’ nostalgica: immagino un grande ritorno, tecnologie strabilianti. Fontcuberta ci insegna che nella realtà, invece, accade esattamente l’opposto.

Pertanto, la fotografia che immagino si instrada nel solco dello slogan centenario di Kodak: “You press the button, we do the rest”. 

 

 

La parola d’ordine dell’ultimo decennio era embedding: fotocamere incastonate ovunque. Nei prossimi anni credo che l’imperativo sarà ottimizzare: il processo fotografico, come la maggior parte dei processi, scomparirà dalle nostre vite. È tempo perso. Anche la fotocamera diventerà una black box. Il fotografo di conseguenza scomparirà, in nome dell’automazione: gli esseri umani sono più preziosi come prosumers. Devono condividere le loro vite, creare interazione. Non possono perdere tempo a scattare, editare, postprodurre. Non mi sorprenderei se presto l’autorialità sarà bollata come uno spreco di energie. E in parte il domani è già qui: Adobe ha recentemente introdotto i primi filtri neurali in Photoshop.

Se la fotografia diventerà sempre più simile alla musica su Spotify, presto le nostre immagini saranno accessibili solo online, sui server delle app che impiegheremo per produrle (Spotify Premium offre la possibilità di scaricare la musica sul proprio dispositivo, rendendola “offline”. Tuttavia, non crea una cartella di file mp3. I file sono codificati con altre estensioni. Similmente, alcuni servizi di streaming online impediscono di fare screenshot. I videogiochi della Rockstar Games consentono di fotografare all’interno del gioco siano, ma i file sono accessibili soltanto all’interno del Social Club, il social network della Rockstar). Potremo scaricarle, renderle offline, ma si tratterà di file che non ci apparterranno. Finiremo su Reddit cercando un thread in cui qualcuno si chiede come individuare i file delle fotografie all’interno del proprio telefono. E altri risponderanno che un metodo c’è, ma è molto macchinoso. Le nostre foto saranno proprietà degli sviluppatori delle app. 

Ma non è detto che questo ci preoccuperà. Sulle prime magari ne saremo infastiditi, ma poi ci abitueremo. Nella vita di tutti i giorni le immagini ci interessano di più per il loro valore d’uso. L’archiviazione è spesso superflua.

 

MZ: Si estenderà ulteriormente il rapporto tra fotografia e comunicazione, spostando ancora (e ancora) altre possibilità e relazioni “altre” tra vari linguaggi o nuovi alfabeti, in funzione di un continuo e progressivo aumento di realtà?
SS: Sicuramente. La maggior parte di noi impiega già le fotografie come parte integrante della comunicazione interpersonale quotidiana. Parliamo un esperanto fatto di hashtags ed emoji, inglese smozzicato, manuali dell’Ikea, gif animate, meme, e via dicendo… Le immagini come elementi comunicativi sono ridondanti, la loro creazione e condivisione giustificata da ragioni strettamente contingenti.

Considerando inoltre che i videogame sono la forma culturale dominante del nostro tempo e che sono di fronte a una svolta in seguito all’introduzione di una nuova generazione di console, aspettiamoci anche una fotografia sempre più gamificata. Potete averne un assaggio se scaricate il gioco per smartphone della Lidl, che a un certo punto vi chiede di andare in giro per i punti vendita a scansionare alcuni prodotti presenti sugli scaffali in cambio di punti e bonus con cui espandere il vostro supermercato virtuale.

Tutto questo confluirà in una sorta di “ambient” fotografico, nel senso che finiremo per trovare la fotografia così naturale che avrà quasi il ruolo di un tappeto sonoro. Da un lato si solleverà la cappa di paranoia circa la sorveglianza perpetua; dall’altro assisteremo a una sua smaterializzazione totale. 

I professionisti di una volta saranno ossessionati dalla protezione della fotografia, come una specie in via d’estinzione. Allo stesso tempo, tutte le immagini che non avranno un aumento di realtà non saranno attraenti. Mi chiedo cosa succederà nelle politiche museali. 

Un altro punto è lo schermo. Già adesso ognuno di noi ha un suo personalissimo alfabeto tattile per relazionarsi con i monitor, credendo di manipolare le immagini. Ma presto gli schermi scompariranno. E allora cosa succederà? Cosa corrisponderà alla definizione di “fotografia” quando non ci sarà più una superficie tattile (leggi anche specchio) a fare da confine? Avrà luogo un ricongiungimento con la rappresentazione? Matureremo una nuova consapevolezza delle immagini? Non ci siamo lontani: con i nuovi Oculus, Valve e HTC abbiamo già un assaggio del potenziale della realtà aumentata. 

Presto abiteremo uno spazio diverso. Forse assisteremo a un fugace rigurgito di vintage, com’è successo coi primi filtri Instagram un po’ di anni fa. 

 

 

Dopo di che ci sarà solo la fotografia restituita alla natura, così immateriale e ubiqua e integrata nell’ambiente circostante che la concepiremo nei termini di un fenomeno naturale. Le immagini nasceranno e circoleranno come se dotate di vita propria. L’Ocean of images del MOMA potrebbe diventare un’espressione con un valore letterale e non più soltanto figurativo. Spero di non essere troppo vecchio quando succederà, penso che me lo godrei. Ma mi sto spingendo un po’ troppo in là. 

Se penso al resto dei cambiamenti, non li trovo così drammatici, anche se faticherei a trovare un posto in un mondo del genere. So che si tratta di un’affermazione che lascia il tempo che trova. Quello che sto scrivendo qui finirà postato online, letto forse da una ristretta cerchia di amici che tollerano la mia logorrea, archiviato, e ciao. Resterò io con le mie preoccupazioni, forse condivise da altri all’interno della men che minoranza di artist*, ricercator*, dottorand*, fotograf*, professionist* dell’immagin*, insomma di quella specie di 0,001% della popolazione mondiale che in teoria dovrebbe capirci qualcosa. 

Ogni tanto mi dico “chi se ne frega”. La fotografia, in sé, è amorale. Siamo noi a proiettare su di lei fin troppe cose. È ridicolo se penso che non siamo mai riusciti a trovarle una definizione calzante. Marvin Heiferman ha ragione quando sostiene che della fotografia sappiamo solo che funziona. È vero che è nata in seno all’apparato industriale-militare, come diceva Flusser, ma è altrettanto vero che va per la sua strada. La fotografia è viva e sfuggente. Appena c’è un nuovo supporto, lo conquista subito, a spese della sua essenza. E ci lascia qui a farci le seghe e ci dà una scusa per organizzare nuovi simposi. Mi ricordo benissimo l’angoscia che aleggiava nel 2011 quando ero appena arrivato a Milano e seguivo gli incontri sullo stato della fotografia. I direttori dei giornali erano con le mani nei capelli, i fotoreporter sancivano la morte della fotografia. Ma chi l’ammazza quella. Altro che la regina Elisabetta.

 

MZ: Come The Cool Couple ha utilizzato pratiche di meditazione per mettere in azione immagini?

SS: Si tratta di un esperimento che io e Niccolò abbiamo tentato con Karma Fails, un progetto del 2016. Avevamo scelto di lavorare sulla meditazione, perché negli ultimi anni era diventata uno strumento per migliorare le prestazioni della forza lavoro, in perfetta sintonia con l’idea di strumento biopolitico di Michel Foucault. Ci interrogavamo anche sui limiti della rappresentazione fotografica e così, sulla scia delle riflessioni che avevano portato Trevor Paglen a creare The Last Pictures e Alfredo Jaar a produrre The Eyes of Gutete Emerite, abbiamo pensato di spostare dentro la mente del pubblico tutte le immagini che avremmo voluto mostrare per parlare del presente. In altre parole, desideravamo chiedere la partecipazione attiva dei visitatori perché convertissero la loro testa in una camera oscura. Karma Fails, attraverso una finta seduta di meditazione, evocava così dei contenuti visivi estremamente personali che rimanevano nella memoria del pubblico anche dopo la performance. Non so se Karma Fails ha raggiunto il suo obiettivo, ma sono piuttosto sicuro che è stato uno dei modi più completi per racchiudere in un progetto le dinamiche che interessano l’immagine in questo periodo. O almeno fino al 2020.

 

The Cool Couple, Karma Fails, 2017.


MZ: Mi interesserebbe molto approfondire con te il rapporto tra fotografia e videogiochi. 

SS: La loro rilevanza è indiscutibile e, specialmente in questo momento, i videogame costituiscono una risorsa virtuale per ricostruire i nostri spazi sociali: penso ad Animal Crossing durante il primo lockdown o al concerto di Travis Scott in Fortnite, ma anche al lancio della collezione autunno-inverno di Balenciaga, poche settimane fa. Negli ultimi due casi si tratta di uno spostamento di una fetta di mondo off-screen all’interno dell’ambiente di gioco. Credo che in gioco ci sia il concetto di esperienza. La differenza abissale tra un video di una sfilata, per restare in tema, come ad esempio quello di Prada, e il gameplay di Balenciaga è l’interazione. Nel secondo caso, come per il concerto di Travis Scott, stiamo vivendo un’esperienza in prima persona, sebbene attraverso una mediazione.

 

 

Quello che sto cercando di capire è in che direzione va il rapporto tra fotografia e gaming. È una vera e propria osmosi, dove i software professionali riprendono una serie di elementi ludici, le fotocamere sembrano joystick, e i professionisti fotografano all’interno dei videogiochi, specialmente nel settore degli e-sports. Al momento, sono inchiodato su un titolo che ormai ha un paio d’anni, ma continua a darmi filo da torcere: Red Dead Redemption 2, della Rockstar. Saranno le schermate di caricamento che sono dei negativi su lastra di vetro che si sviluppano gradualmente, sarà che ho una macchina fotografica virtuale e posso andare in giro a cavallo a fare foto di paesaggi mozzafiato, sarà che una delle side mission consiste nell’aiutare una specie di fotoamatore fissato con gli animali… Il risultato è che non riesco a smettere.

Infine, seguo e sperimento con interesse i nuovi servizi di eventi virtuali, che consentono di andare oltre al classico meeting su Zoom, in uno spazio virtuale abitato da avatar in stile The Sims. Insieme a Niccolò e Francesco Jodice, stiamo affrontando una parte di quest’ultimo aspetto durante una performance per la Digital Week, a maggio, intitolata Happy Together.  

 

Francesco Jodice, The Cool Couple, Happy Together, 2020.


MZ: A proposito di Red Dead Redemption 2, hai cercato di realizzare immagini attraverso la macchina fotografica virtuale contenuta nella tua mission, o si può innescare un voluto cortocircuito di matrice concettuale dentro la partita? Descriveresti più nel dettaglio le schermate di caricamento, che sono dei negativi su lastra di vetro? 

SS: Dal momento che non gioco su PC non ho accesso ai numerosi mods (apposite patch sviluppate da altri giocatori per espandere il gioco, a volte anche in maniera surreale), molti dei quali sono utili per provare a scatenare dei cortocircuiti. Devo ammettere, però, che RDR2 è un’esperienza di gioco a metà tra la ricostruzione storica e l’immersione cinematica (non a caso è pieno di citazioni e viverle in prima persona è un’altra cosa). 

Sto provando a non spingere il gioco al limite per fare attenzione a questi dettagli e chiedermi ad esempio, qual è il rapporto tra le parti letteralmente giocate e le cut scenes, che nel loro insieme competono con la lunghezza di una serie televisiva (questo è un montaggio di tutte le cut scenes del gioco). Al di là della mia macchina fotografica si può anche attivare, come in GTA, una cinematic camera automatica che alterna diverse inquadrature sul giocatore mentre questo sta effettivamente giocando. Se è vero che non è semplice da maneggiare le prime volte, è un modo di sfocare la differenza tra gameplay e cut scenes. Non è una novità, ma in RDR2 prende un sapore particolare. È un gioco con una sua lentezza. Online, diversi gruppi di giocatori sui server privati indicano nelle regole di accesso che è fondamentale interpretare la propria parte e rimanerci fino alla fine (con dei simpatici eccessi, come in questo caso). Il lato cinematografico di RDR2 ha già dato vita a numerosi machinima. Quando ti dico che non cerco cortocircuiti non sono particolarmente interessato a lavorare sui bug, sui glitch o altri approcci di questo tipo. Cerco invece di mettere questo titolo in rapporto alla storia del cinema e della fotografia. RDR2 è la storia di Arthur Morgan, ma è anche un racconto della fine del Far West, gradualmente spazzato via dai grandi capitalisti americani. Giocarlo a cavallo tra il 2018 e il 2020 attiva parecchi deja-vu.

Per quanto riguarda le schermate di caricamento, eccole qui:

 

 

MZ: Pamela Lee (in Artforum, maggio 2011) afferma che stiamo vivendo nell’epoca dell’open secret, ovvero in un periodo minacciato da un’invisibilità visibile, che attenta continuamente al cuore delle politiche d’informazione. Questa minaccia è entrata nella ricerca di The Cool Couple? Conosci artisti che stanno lavorando su questo tema, utilizzando il medium fotografico?

SS: Inizio dalla seconda parte della tua domanda e provo a rispondere citando New Dark Age di James Bridle: "È una scena da incubo, che però sembra materializzare appieno l’essenza della nuova era oscura. A dispetto di una visione sempre più universale, la nostra agentività è sempre più ridotta. Sappiamo sempre più del mondo, ma siamo sempre meno in grado di agire su di esso. Il senso di impotenza che ne deriva, anziché imporci una pausa per riconsiderare ciò che ormai diamo per scontato, sembra condurci inesorabilmente verso la paranoia e la disintegrazione sociale: maggiore sorveglianza, maggiore sfiducia e una sempre più cocciuta ostinazione per le immagini e la computazione affinché risolvano una situazione causata dalla nostra cieca fede nella loro autorità" (James Bridle, Nuova era oscura, 2019, p. 210).

Ci sono diversi artisti che si stanno confrontando con questo tema, ma prima di fare nomi vorrei chiederti quali sono i confini del mezzo fotografico, in questo caso. Difficilmente potrei affermare che la pratica di Bridle, ad esempio, è riconducibile esclusivamente al medium fotografico, ma quest’ultimo è inseparabile dalla sua ricerca. Per molti altri artisti la fotografia è un terreno di lavoro, ma non un punto d’arrivo. 

Questo vale anche per The Cool Couple, in particolare quando abbiamo realizzato Way Out, un’installazione il cui scopo era riflettere sulla sparizione della privacy. Tutto ruotava attorno a una scultura in grado di generare un campo elettromagnetico che annullava i segnali normalmente impiegati dai dispositivi di comunicazione: 2G, 3G, 4G, GPS, GSM, GPRS. La scultura era parte di un’installazione completata da tre testi tratti dal Codice Penale, che regolamentano il possesso e l’impiego dei disturbatori di frequenze. In Italia e in Unione Europea, i disturbatori di frequenze sono diventati illegali nel clima di terrore seguito al 9/11. Da quel momento, siamo stati gradualmente messi a nudo fino allo stato attuale, in cui chi non si mostra lo fa perché è asociale o un vecchio, oppure ha qualcosa da nascondere.
Way Out nasceva da una grande quantità di materiale che spaziava da scene di film e serie TV alla meme culture, ma si è risolto in un’installazione essenziale, completamente priva di immagini. Se mi chiedi quanto c’è di fotografico in Way Out, la mia risposta è: tutto.

 

The Cool Couple, Way Out, Galleria Umberto di Marino, Napoli, 2018.


Tornando alla seconda parte della tua domanda, questo non significa che manchino autori come Subhankar Banerjee, che fonde pratica fotografica, ricerca giornalistica e attivismo per proteggere aree ecologicamente rilevanti e le popolazioni indigene del Nordamerica. La sua serie Arctic Voices: resistance at the Tipping Point, consiste in una serie di fotografie che spaziano dalle vedute aeree dei paesaggi artici a close-up della vita degli animali selvatici nell’Arctic National Wildlife Refuge fino a scene di vita delle comunità indigene locali. Niente di nuovo. Anzi. Classico documentario. Ma l’estetica gioca un ruolo fondamentale: come in An American Index of the Hidden and Unfamiliar di Taryn Simon, Banerjee decostruisce l’estetica dominante impiegando le sue stesse armi. Il suo obiettivo, infatti, è di entrare nei circuiti di diffusione dei mass media con le sue fotografie fortemente estetiche. In questo modo introduce un elemento di riflessione sulla retorica del cambiamento climatico, spesso indicato come uno dei grandi fenomeni non-rappresentabili del nostro tempo.

 

MZ: A Hong Kong – il 9 giugno 2019, durante le manifestazioni contro le forze governative dove si protestava contro un disegno di legge che faciliterebbe l'estradizione in Cina di cittadini accusati di reati gravi gli attivisti pro-democrazia hanno invitato i partecipanti a utilizzare mascherine per coprirsi il volto e occhiali per rendersi irriconoscibili dalle forze di polizia. Hanno anche chiesto ai reporter di non scattare immagini, perché temevano che i poliziotti potessero essere facilitati a identificare i manifestanti. I civili fronteggiavano i poliziotti a colpi di puntatori laser, cercando di depotenziare i sistemi di riconoscimento facciale e di impedire agli agenti di mirare. Qui la richiesta di non utilizzare macchine fotografiche sembra anche aprire una nuova questione (una non azione, una sottrazione o un passo indietro), interessante a livello concettuale per quanto riguarda la nostra indagine su un approccio metafotografico. Cosa ne pensi?

SS: Il secondo decennio del secolo può essere rappresentato da una parabola disegnata sul piano cartesiano della democrazia: a un’estremità si trova il 2011 con la Primavera Araba all’altra, esattamente un decennio più tardi, l’assalto al Campidoglio. Nel mezzo ci sono tantissime cose: da quello che Nicholas Mirzoeff definisce “the ultimate selfie” (la fotografia che l’astronauta giapponese Akihiko Hoshide nel 2012 voltando letteralmente le spalle alla Terra) agli agghiaccianti video in diretta delle brutalità della polizia statunitense; dall’introduzione della prima fotocamera frontale sull’Iphone 4 alle immagini apocalittiche degli incendi che hanno colpito varie parti del mondo negli ultimi anni. Verso la fine della parabola incontriamo Hong Kong. Poco prima del gran finale. 

2011, Primavera Araba. I social network come simboli di libertà: i loghi di Facebook dipinti a spray sulle serrande del Cairo; le folle che brandiscono gli smartphone puntando le fotocamere contro la polizia. L’Occidente che elogia la rivoluzione, grandi pacche sulle spalle. Ben fatto. La democratizzazione della fotografia, che rende le tecnologie di produzione e diffusione delle immagini accessibili a tutti è direttamente proporzionale al processo di emancipazione. Tutti possono parlare, tutti possono mostrare. Le fotocamere embeddate negli smartphone diventano uno strumento al servizio della libertà.

2019, Hong Kong: negli otto anni che separano questi fatti dalla Primavera Araba è emerso il problema dei big data. Gli stessi social network che avevano contribuito alla caduta dei regimi in Medio Oriente ci spogliavano della nostra privacy, del controllo sulle nostre immagini (Richard Prince vs. Suicide Girls) e dimostravano il loro potere con pesanti ricadute geopolitiche. Mi piace sempre menzionare il memorabile momento dell’acquisto di Whatsapp da parte di Facebook per una cifra talmente folle che avrebbe potuto comprarsi la Jamaica e sarebbero pure avanzati altri cinque miliardi di dollari.

A Hong Kong, comunque, nel 2019 i manifestanti rifuggivano gli occhi dei media; la parola d’ordine era offuscamento. Non si trattava certo di una novità. La cosa nuova era però il disagio alla vista di quelle immagini, perché noi Occidentali, in questo caso, non sapevamo più che posizione prendere. Istintivamente ci saremmo schierati dalla parte della libertà e dunque a favore dei cortei. Abbiamo cercato di ammansire, a colpi di condivisioni sui social, il regime, l’incubo totalitario cinese che sembrava uscito da una stagione di Black Mirror. Però, non potevamo nascondere che la Cina ci regalava anche tante cose belle, come TikTok. Personalmente, guardando il lungo travaglio di Hong Kong, ero a disagio perché mi sentivo un idiota. Vedevo in diretta quanto può essere labile il confine tra democrazia e caccia alle streghe, quanto la libertà sia relativa. E tutto questo passava per le immagini. Le fotografie erano usate contro i manifestanti, la visibilità che bramiamo qui era a Hong Kong solo ed esclusivamente uno strumento di repressione. Ormai l’entusiasmo della Primavera Araba era morto e sepolto. Mi sono detto che la mia unica fortuna era di vivere in Occidente. O forse no, se penso alla Francia, alle proteste contro la proposta di censurare i volti dei poliziotti impegnati in azioni anti sommossa. La democratizzazione della fotografia ha contribuito a una sola cosa: l’erosione della democrazia stessa.

 

Noah Hawley, "Fargo", stagione 3, episodio 4, 2017

 

MZ: Cosa pensi dell’utilizzo del mezzo fotografico nel recente assalto al Congresso degli Stati Uniti, a Washington DC?

SS: Do the Revolution for the Gram. Una folla di manifestanti assalta il Campidoglio senza quasi colpo ferire. E poi, tutti in posa. Tutti a fotografarsi, come una comitiva in gita al Louvre. La cosa più scioccante è il loro sguardo. Sono persone che stanno di fronte agli occhi del mondo intero senza alcun timore. Anzi, il contrario. Sono inebriati dalla possibilità di diventare immagini. Qualsiasi dettaglio dell’assalto al Congresso sembra calcolato sulla base di potenziali interazioni o nuovi follower. Sono d’accordo con Jerry Saltz quando sostiene che la loro espressione è così diversa perché questa è la rivoluzione dei privilegiati. 

Se guardiamo con un po’ più di attenzione alla Primavera Araba, ci accorgiamo che era già tutto scritto: i programmi di alfabetizzazione digitale per i paesi del Medio Oriente rientravano nella politica estera statunitense negli anni precedenti lo scoppio delle rivolte del 2011. 

La stessa tecnologia che elogiavamo come strumento di emancipazione in Medio Oriente era lo strumento con cui nel frattempo erodevamo le basi della democrazia in Occidente.

Si dice che il tratto caratteristico di questo momento storico è la scomparsa della verità. I suprematisti che hanno assaltato il Campidoglio sono un coacervo di cospirazionisti, fanatici, paranoici, razzisti e nostalgici. La perfetta espressione della società post-truth. Eppure, quello di post-truth è un concetto che mi lascia alquanto perplesso. È da più di duemila anni che in Occidente siamo ossessionati dall’idea di verità. Se per qualche forma di contrappasso dantesco vi è capitata la sfortuna di frequentare il liceo, avete avuto alcuni anni per capire che, anche in ambito scientifico, non è un concetto assoluto. L’altra cosa di cui vi dovreste essere accorti è che sembra poco compatibile con la libertà d’espressione. 

Quindi, piuttosto che nel post-verità, siamo finalmente entrati nell’era della post-ipocrisia. Sappiamo tutti che nessuno può avere ragione. E, quindi, abbracciamo entusiasti questa inedita occasione di post-compostezza, in cui ci è concesso esprimerci con un linguaggio post-politicamente-corretto per accanirci gli uni contro gli altri. Finalmente, benvenuti nell’epoca della post-etichetta. 

Non c’è da stupirsi se poi le immagini diventano imperscrutabili o se non scatenano alcuna reazione anche quando ciò che mostrano è oggettivamente grottesco. Il problema di noi artisti e anche di molti curatori, ricercatori e accademici, è che siamo ancora troppo educati. Ci diamo ancora del Lei quando ci conosciamo per la prima volta. Ci chiediamo se tornerà in auge la stretta di mano dopo il lockdown. Siamo impegnati a intingere la penna nel calamaio mentre un redneck ci ruba lo scrittoio. E probabilmente siamo anche così educati che invece di denunciarlo per furto, aspettiamo che lo rimetta in vendita su Ebay per ricomprarcelo. Come direbbe una mia conoscenza: bene, ma non benissimo.

 

Simone Santilli (1987) è un artista e fotografo. Nel 2012 fonda il duo d’artista The Cool Couple insieme a Niccolò Benetton, con il quale analizza i processi di produzione, circolazione e fruizione delle immagini. I progetti di TCC sono stati esposti presso istituzioni e festival italiani ed internazionali e hanno ottenuto diversi riconoscimenti. Nel 2020, TCC è uno dei vincitori dell’ottava edizione del bando Italian Council, promosso dal MIBACT. Simone Santilli è docente presso NABA Milano e course leader del Triennio di Arti Visive presso MADE Program (Siracusa). 

negli speciali in home: 
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Monica Bonvicini: Lover's Material

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Fino al 21 febbraio 2021 la mostra personale di Monica Bonvicini, LOVER’S MATERIAL, a cura di Christina Végh, è ospitata alla Kunsthalle Bielefeld, in Germania. 

Nata a Venezia nel 1965, Bonvicini ha studiato Arte a Berlino e alla Cal Arts di Valencia, in California, per poi iniziare a esporre a livello internazionale a metà degli anni Novanta arrivando oggi ad essere tra gli artisti italiani più importanti e conosciuti in Italia e all’estero. 

Questo testo nasce da alcune conversazioni con l’artista (trascritte in corsivo), che ringrazio, volte a portare in luce gli aspetti peculiari sia dell’esposizione in corso a Bielefeld sia, in generale, della sua ricerca. 

 

Come per numerose opere di Monica Bonvicini, anche per la mostra a Bielefeld è necessario partire dal luogo espositivo per comprendere il suo concept: 

La Kunsthalle Bielefeldè l’unico museo costruito da Philip Johnson in Europa. È un’architettura dallo stile statunitense e quindi molto diverso da quello degli edifici costruiti in Germania dal Dopoguerra. È un’architettura bella ed elegante, ma anche difficile sia perché sembra concepita per la pittura e per la scultura classiche, sia perché, secondo il progetto originario, avrebbe dovuto essere di 40x40 m, ma per mancanza di budget è stata ridotta a 30x30 m e questa riduzione è ben percepibile. Oltre alla grande hall, ci sono cinque sale le cui pareti sono state realizzate con pietre rigate a mano che sembrano voler ‘frame’ tutto lo spazio destinato all’arte

Il rapporto di ‘dipendenza’ dell’arte dall’architettura che la incornicia, rinvia alla tipologia di rapporto espressa dal titolo della mostra che è tratto dalla biografia di Philip Johnson, scritta da Franz Schulze: in quel volume il compagno di Johnson, Jon Stroup, viene definito “comodamente passivo”, sottendendo una relazione oggettivante tra i due. 

molti anni fa lessi la biografia di Johnson di F.Schulze dove viene raccontata la sua esperienza con l’arte, il suo lavoro come curatore al MOMA e il suo essere dichiaratamente gay. Come figura pubblica e come architetto molto versatile Johnson mi ha sempre interessato, prevalentemente per la sua grande influenza su numerosi e importanti architetti successivi ma anche per il modo di pensare, concettualizzare e fare mostre di architettura”.

 

Monica Bonvicini, Lover’s Material Installation view at Kunsthalle Bielefeld, Bielefeld, 2021 Photo: Jens Ziehe; © Monica Bonvicini and VG Bild-Kunst


Sebbene la riflessione sul ruolo dell’architettura e i condizionamenti culturali relativi a essa siano da sempre temi fondamentali del lavoro di Bonvicini, nella mostra alla Kunsthalle Bielefeld l’artista fa riferimento all’architetto Johnson per concentrarsi sul concetto di relazione oggettivante, traslandolo dal rapporto privato tra due individui ad altri possibili rapporti di dipendenza, ad esempio, economici, sociali, politici. Si chiede altresì come può essere definita la relazione dell’artista stesso con lo spazio espositivo, con le sue opere d’arte, con i suoi visitatori. Per farlo, lavora direttamente sul luogo architettonico, mettendolo in discussione: 

Ho deciso di lavorare sulle cinque sale a disposizione e sulla hall delineando quasi sei mostre personali, ognuna diversa dall’altra, ma comunque in relazione tra loro. Ho infatti voluto che alcuni lavori, come Grab Them by the Balls (2020) e Pendants (2020), fossero presenti in diverse stanze così da generare nel visitatore una sensazione di déjà vu simile all’effetto indotto dall’architettura della Kunsthalle che è labirintica”.

Non è la prima volta che Bonvicini delinea una mostra come somma di stanze differenti in dialogo tra loro. Basti ricordare la personale Unrequited Love alla Galleria Raffaella Cortese nel 2019. Tale modalità di strutturare le esposizioni non corrisponde a una scelta estetica né narrativa, ma piuttosto a uno strumento per attivare il pensiero dell’osservatore, per istigare una riflessione capace di portarlo oltre rispetto alla semplice visione. 

 

Monica Bonvicini, Unrequited Love Installation view at Galleria Raffaella Cortese, Milan, 2019 Photo: Andrea Rossetti


Per questa ragione, anche a Bielefeld le relazioni tra le opere esposte ci sono, ma non sono semplici, né chiaramente visibili. Derivano soprattutto da specifici temi a cui sono stata interessata durante il 2020, come la domesticità, l’isolamento, il ‘care’ a livello instituzionale”.

Al tema della domesticità rinviano in particolare due lavori esposti, che esemplificano altresì la tipologia di rapporto che l’artista desidera innescare tra opera, luogo espositivo e spettatore: Breach of Decor (2020) è costituita da tappeti che coprono circa 70 mq e che il visitatore trova immediatamente all’entrata della sala principale; Be Your Mirror (2020) si compone di pannelli di alluminio posti a coprire 40 mq di parete, che vengono ogni giorno lucidati da un addetto del museo che spende lo stesso tempo sul lavoro invece di lucidare il pavimento di legno. Se Breach of Decor attiva il visitatore obbligandolo a camminare sulla sua superficie, Be Your Mirror lo coinvolge con il suono assordante generato dalla lucidatrice che si propaga ogni giorno in tutto il museo.

 

Monica Bonvicini, Lover’s Material Installation view at Kunsthalle Bielefeld, Bielefeld, 2021 Photo: Jens Ziehe; © Monica Bonvicini and VG Bild-Kunst


Ma alcune delle opere esposte alla Kunsthalle a Bielefeld sono unite anche dal loro riferirsi alla storia dell’arte che costituisce un tema ricorrente nella ricerca di Bonvicini:

In una sala ho esposto Malboro Man (2020), raffigurante l’icona del cowboy serigrafata su alluminio, che in un certo senso evoca la Pop art di Andy Warhol. Ho esposto anche All the Pretty Horses (2020), sculture simili al portabottiglie di Marcel Duchamp ma con l’aggiunta di elementi di vetro trasparente o grigio scuro, presentati su piedistalli in mattoni di gesso, che rinviano a opere minimaliste di Sol LeWitt. Inoltre, ho preferito non utilizzare le luci del museo ma inserire dei neon a terra che possono richiamare Dan Flavin. Nella mostra è perciò presente un riferimento ad artisti, molto ‘pesanti’ nel mondo dell’arte e del suo mercato, con la conseguente riflessione su un certo tipo di estetica e di storia dell’arte, e su come io, artista donna, li metta in relazione l’uno con l’altro”. 

Il suo aver studiato a Cal Arts, la scuola in cui la Women House ha avuto inizio con il primo Feminist Art Program può aver inciso sulla sua formazione. Tuttavia, la sua ricerca non è circoscrivibile al femminismo, così come non è definibile con nessun’altra etichetta concettuale; anzi, rifugge dalle etichette per decostruire ogni volta il pensiero dell’osservatore e indurlo a ripensare il reale, a vederlo con occhi diversi.

 

Monica Bonvicini, Breathing, 2017 Steel structure, compressed air cylinder, compressor, rope, synthetic fiber, leather belts dimensions variable Courtesy of the artist; Galleria Raffaella Cortese, Milan; Galerie Peter Kilchmann, Zurich; Mitchell-Inness & Nash, New York Photo: Andrea Rossetti; © Monica Bonvicini and VG Bild-Kunst


In realtà, sebbene includa sovente l’idea di decostruzione e distruzione, il suo lavoro non è nemmeno definibile aggressivo, come a volte è stato erroneamente descritto:

Per me la distruzione è sempre la premessa per la creazione. Se vedo qualcosa la voglio cambiare, anche se si tratta della storia dell’arte. I miei lavori non sono però aggressivi; mi interessa soltanto avere un impatto sull’osservatore; mi interessa innescare un confronto con il pubblico. per esempio, parlando di artisti italiani, ho sempre amato le opere di Emilio Vedova, la sua gestualità, il suo essere diretto nell’espressione, il suo atteggiamento politico anche nella scelta dei materiali perché la scelta dei materiali è indice del tipo di economia con cui un artista decide di lavorare”.

Tutto questo è evidente non solo alla mostra a Bielefeld, ma soprattutto nelle numerose opere pubbliche che Bonvicini ha realizzato nel corso della sua attività, molte delle quali però sono state concepite quando lo spazio pubblico a cui erano destinate ancora non c’era o non era ancora concluso. È il caso delle scale di Stairway to Hell (2003), l’installazione realizzata per la 8th Istanbul Biennale, poi inclusa nel nuovo museo a costituire l’unico accesso al piano superiore, e adesso in cerca di una nuova collocazione poiché il museo non esiste più.

 

Monica Bonvicini, Lover’s Material Installation view at Kunsthalle Bielefeld, Bielefeld, 2021 Photo: Jens Ziehe; © Monica Bonvicini and VG Bild-Kunst


L’installazione pubblica che però forse esemplifica meglio il rapporto che l’artista sempre innesca tra opera, luogo pubblico, architettura e spettatore, è She Lies (2007), ad Oslo: 

L’Opera House di Snøhetta non era ancora conclusa, così come l’intero fiordo dove sarebbe stata collocata l’opera; quindi, per concepirla, mi sono dovuta immaginare come sarebbe diventato quel luogo. I lavori di arte pubblica che conosco sull’acqua mi sono sempre sembrati noiosi, perché fissi, mentre l’acqua non lo è mai. Perciò ho pensato a un’opera che si muovesse con la corrente del mare, il vento. Volevo creare qualcosa di continuamente diverso per gli abitanti che lo avrebbero visto ogni giorno, volevo che fosse bello, delicato e leggero, ma dal forte impatto, in armonia e in contrasto con il tramonto e con la natura circostante. Da qui She Lies, un’opera dal cambiamento perenne, che si muove su se stessa e per un perimetro di circa 30 m grazie alle forza della natura. È stata costruita con vetro trasparente ma più riflettente del solito, per garantire un riflesso dell’ambiente intorno, ma può anche apparire come la rovina di facciata modernista. Si ispira al dipinto di Caspar David Friedrich che ha due titoli, di cui il secondo è Die Falsche Hoffnung. In particolare, il dipinto non mi interessa per l’immagine della nave naufragata, maper i blocchi di ghiaccio dipinti in modo così fisico da sembrare una scultura”. 

 

Monica Bonvicini, Lover’s Material Installation view at Kunsthalle Bielefeld, Bielefeld, 2021 Photo: Jens Ziehe; © Monica Bonvicini and VG Bild-Kunst


Ricordare She Lies e altre opere precedenti di Bonvicini, significa sottolineare la grande coerenza nella sua ricerca. Dalla sua prima mostra personale al California Institute of the Arts nel 1991 fino all’attuale mostra a Bielefeld, infatti, Bonvicini ha indagato il rapporto tra architettura, spazio pubblico e privato, coercizione e libertà, potere e controllo, nonché relazioni di genere, includendo numerosi riferimenti storici, politici, culturali, artistici e instaurando una relazione critica con i luoghi espositivi, i materiali utilizzati e con lo spettatore capace di mettere in discussione il significato stesso del fare arte, l’ambiguità del suo linguaggio.

Da qui quella che può essere definita la sua ‘architettura performativa’, dove l’esperienza sensibile e corporea dello spettatore, posta in relazione con l’opera, destruttura lo spazio, lo plasma, in quanto è concepita come parte fondamentale dell’opera stessa. Si pensi a Don’t Miss a Sec’. (2004), un padiglione di vetro dal carattere tipicamente minimalista che può venire usato dal pubblico. All’interno un blocco sanitario in acciaio inossidabile. collocato per la prima volta a Basilea, nella piazza di fronte alla fiera dell’arte, insieme ad altre sculture pubbliche, il lavoro era disponibile a tutti i passanti che potevano dedicarsi al suo interno alle private funzioni, osservando l’andare e venire attorno, senza essere visti: 

In Don’t Miss a Sec’. metto a confronto la bellezza della scultura minimalista con la parte più ‘sporca’ del corpo umano. Se pensiamo a Dan Graham, Robert Morris e agli artisti americani degli anni Sessanta, tutti si sono confrontati con la danza, con la performance e quindi con la corporalità, ma poi, paradossalmente, hanno realizzato sculture del tutto anestetiche. Con Don’t Miss a Sec’. faccio emergere questo aspetto contraddittorio del loro lavoro, molto diverso anche dal loro stile di vita degli anni Sessanta e Settanta”.

 

Monica Bonvicini, Lover’s Material Installation view at Kunsthalle Bielefeld, Bielefeld, 2021 Photo: Jens Ziehe; © Monica Bonvicini and VG Bild-Kunst


Per quanto i lavori di Bonvicini siano spesso monumentali, non danno mai certezze, ma sono volti a innescare un dubbio, alla stregua della Lode del dubbio di Bertolt Brecht. Gli stessi materiali utilizzati sono sempre veicolo di una tensione tra due o più entità: da un lato, ad esempio, la luce e lo specchio rimandano al rapporto tra l’io, lo spazio e il diverso da sé; dall’altro le catene e le cinghie sono metafora dei rapporti di potere e dipendenza. Anche il suono è da considerarsi un materiale alla stregua degli altri in quanto genera un rapporto e una tensione tra opera, spazio e spettatore. Si veda la già citata Be Your Mirror a Bielefeld ma anche a Breathing del 2017, una scultura cinetica che si muove come danzando mentre i pistoni pneumatici che dirigono i movimenti producono un rumore violento. 

Da sottolineare, inoltre, il fatto che alcuni temi trattati da anni da Bonvicini sono poi divenuti centrali nel dibattito odierno: l’identità di genere (v. Wallfuckin’, 1995), il neo-liberismo e le questioni migratorie (v. I Cannot Hide My Anger, 2019), le questioni ecologiche tra cui la distruzione della natura attraverso le attività umane (v. la serie Hurricanes and Other Catastrophes, 2008 on going). La grande forza del lavoro di Bonvicini risiede proprio nel suo aderire al reale; anzi essere più radicali del reale stesso, immergendovisi totalmente per operare in modo attivo e partecipe rispetto a ciò che sta attorno a noi e anche che ci ha preceduto. Il costante riferimento alla storia dell’arte e alla storia in generale è infatti volto a comprendere, attraverso il passato, il presente in cui viviamo. Questo atteggiamento deriva sia da una involontaria eredità culturale sia da una volontaria scelta di riappropriazione di ciò che ci precede per avere la possibilità di mutarlo, di ricrearlo dopo averlo distrutto, di riattualizzarlo. 

 

Monica Bonvicini, Lover’s Material Installation view at Kunsthalle Bielefeld, Bielefeld, 2021 Photo: Jens Ziehe; © Monica Bonvicini and VG Bild-Kunst


Mi relaziono alla storia per capire meglio cosa sta succedendo oggi. Non mi interessa la cronaca, ma la storia”.

Le idee di distruzione e (ri)costruzione sono alla base della ricerca dell’artista che attribuisce loro il medesimo valore, in quanto entrambe possono produrre una nuova creazione. Il suo lavoro è dunque un’indagine sul ruolo ‘costruttivo’ che l’artista può avere nella società in cui vive, grazie alla tensione creativa e mobilitante che può instaurare tra opera, spazio e spettatore. Forse l’opera che meglio esemplifica questo suo approccio è la scultura esposta a Bielefeld intitolata Up in Arms (2019): la riproduzione delle braccia dell’artista in vetro rosa intagliato evoca sia la tenerezza sia la tensione, così come, grazie al titolo, induce alla resistenza e alla protesta. Viene naturale citare, in conclusione, una dichiarazione dell’artista in un’intervista di Massimiliano Gioni pubblicata su “Flash Art” nel 2017:

Per me l’arte, quando è buona, è come lo squillo di una sveglia. […] Il mio approccio all’arte ha molto a che fare con l’arte stessa. Riguarda il domandarsi cosa sia l’arte, il sistema dell’arte e il relativo ruolo dell’artista al suo interno”.

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Telepatia: arte o solo fantascienza?

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«Ciò che veramente mi interessa (…) non è l’interdisciplinarietà, ma piuttosto le forme “indisciplinate”, turbolente e incoerenti che si situano all’interno e all’esterno dei confini delle discipline (…) La grande virtù della cultura visuale come concetto è che tende ad essere “indisciplinata”». Ebbene, questa frase di W.J.T. Mitchell (ripresa di recente da Michele Cometa nel suo recente libro Cultura visuale, Cortina, 2020, p. 1) potrebbe essere, per certi versi, sposata anche da Elio Grazioli. Prolifico critico d’arte contemporanea e fotografia, molti suoi libri indagano infatti quegli aspetti dell’arte che giocano sull’ambivalenza, che si sporgono in modo sottile oltre i limiti dei generi e del senso, e sfuggono indisciplinati a un pensiero o uno sguardo protesi ad afferrarli. Attratto da ciò che in modo minimo, ma tenace, possa contraddire la logica dominante dell’iper-visibilità e della iper-trasparenza comunicativa presente nei media e nella società, Grazioli si è concentrato sull’«infrasottile» teorizzato e praticato da Marcel Duchamp nelle sue opere (Duchamp oltre la fotografia. Strategie dell’infrasottile, Johan & Levi, 2017). «L’infrasottile – spiega Grazioli – è la categoria sotto la quale Duchamp riunisce tutte le sostanze, gli stati, le differenze minime, le condivisioni, i passaggi di stato al limite dell’impercettibile e del distinguibile, reali ma non ottici, non “retinici”, che si colgono soltanto con la “materia grigia”» (p.57). E cito questa definizione anche per far comprendere la sua linea di pensiero sull’arte e il suo stile: i testi di Grazioli sono sempre sostenuti da un pensiero “pensante” puntuale, privo di inutili contorsioni, nonché da una scrittura limpida capace di guidare il lettore con mano sicura attraverso l’interpretazione di opere anche complesse.

 

Come non impegnarsi allora nel verificare se questo «infrasottile» sia ormai divenuto una categoria obsoleta, esclusivamente legata a Duchamp, o viceversa abbia dato frutti tenaci e accompagni in modo sotterraneo alcune tendenze e opere dell’arte contemporanea? Grazioli lo fa in Infrasottile. L’arte contemporanea ai limiti (Postmedia books, 2018). Dato che l’infrasottile rimanda a un che di irriducibile che si occupa degli stati-limite (al limite della coscienza e di ogni categoria), Grazioli s’imbatte, non casualmente, anche in varie opere che hanno come argomento la telepatia. Incuriosito da una tematica tanto strana (all’apparenza lontana dall’arte e più connessa con la parapsicologia e con fantascienza) il nostro parte da alcuni autori a lui già famigliari – ad esempio, Robert Desnos tra i surrealisti, Davide Mosconi o Robert Filliou tra gli aderenti al movimento Fluxus – per domandarsi se l’intreccio tra telepatia e arte sia solo una curiosità e un caso, oppure abbia un significato più profondo che implichi un modo diverso di concepire la comunicazione umana e l’arte stessa.

 

Da tale curiosità e da tali interrogativi nasce così il suo ultimo, agile libro: Arte e telepatia. Comunicare a distanza (Postmedia book, 2020). Fin da subito, l’autore precisa che si concentrerà proprio su opere strettamente legate alla telepatia e non a tutte quelle (che sarebbero tantissime, basti pensare al surrealismo) legate a fenomeni vicini ma non identici, come l’ipnosi, il sogno, la scrittura automatica, lo sciamanesimo, la trance, il paranormale. Il primo autore su cui Grazioli si concentra è il surrealista Robert Desnos. Ma con rigore evita di occuparsi del suo cosiddetto “periodo dei sogni”, così come delle sue scritture automatiche sotto ipnosi, per parlarci invece di una sua opera del 1922 in cui l’artista dichiarava di essere in relazione telepatica con Rrose Sélavy, noto alter ego femminile di Marcel Duchamp, grazie al cui “contatto” creava giochi di parole che lavorano sui suoni e vanno al di là del linguaggio come strumento di comunicazione, per risuonare ed echeggiare tra loro. Il suo desiderio, la sua domanda – ben espressa nel testo Le génie sans miroir del 1924 – è la seguente: «Quando gli uomini si comprenderanno individualmente? (…) Ah! Che venga il giorno in cui romperemo lo specchio, quest’ultima finestra, in cui i nostri occhi miracolosi potranno contemplare il meraviglioso cerebrale» (p.19).

 

A proposito dell’uso della telepatia, Desnos centra un aspetto fondamentale nell’arte, e cioè l’incontro, la possibilità di mettere in atto un circuito relazionale di menti capace di agire “direttamente”, scavalcando i corpi e i pensieri coscienti, la differenza tra io e tu, tra autore e spettatore – aspetti che Grazioli evidenzia più volte nel suo libro. Dato che per avere un fenomeno di telepatia occorre essere almeno in due, questo libro fa tornare in mente quello di Nicolas Bourriaud sull’estetica relazionale (Estetica relazionale, Postmedia book, 2010). Ma nell’analisi condotta da Grazioli, la dimensione del dialogo, dello scambio e della partecipazione assume con evidenza un carattere diverso, capace di andare oltre, di rimandare a un senso di energia diffusa che travalica le soggettività. Se l’estetica relazionale, in linea di massima, si basa sulla convivialità (basti pensare alle cene organizzate da Daniel Spoerri o a quelle di Tiravanija), su strategie di prossimità o sulla messa in discussione dei ruoli tra pubblico e opera, tra spazio espositivo e autore, per converso l’arte basata sulla telepatia trasforma tutti, democraticamente, in intermediari e intreccia gli individui in forme sempre più collettive di coscienza che si interconnettono tra loro creando un sistema aperto. 

 

Significativi al riguardo sono i molti esempi che Grazioli propone, relativi alle sperimentazioni musicali compiute da John Cage, Karlheinz Stockhausen, Davide Mosconi, o Pauline Oliveros con la sua serie di Sonic Meditations (iniziate a partire dal 1971) e le Telepathic Improvisations (di cui nel libro si vede anche l’immagine di un intervento del 2004). Le persone, disposte in cerchio una vicina all’altra e a occhi chiusi (e il cerchio, come si vedrà, ricorre in tantissime opere come creatore di campi di energia) vengono invitate – in queste ultime esecuzioni – a inviare mentalmente dei suoni mentali ai musicisti che li interpretano; interpretazioni che poi verranno riascoltate e modificate.

 

 

La telepatia, in questo caso come in altri esposti nel libro (ad esempio Organic Honey’sVisual Telepathy di Jones Jonas del 1972), non è intesa solo come un invio mentale da una persona a un’altra che si limita a registrarla, ma funziona come un «annodamento» che introduce una discrepanza, una differenza capace di rendere asimmetrica la relazione telepatica. Proponendo (in un ordine fondamentalmente cronologico) esempi di opere basate sulla telepatia, Grazioli vuole mettere in evidenza come tali sperimentazioni artistiche scardinino la dicotomia soggetto e oggetto, creino una discrepanza tra i sensi e la coscienza che si apre verso una libertà svincolata da ogni categoria “forte”; una libertà che quindi si rivela come un ampliamento delle possibilità artistiche; tali opere – sottolinea – provocano collegamenti che sono al contempo un mescolamento, una scissione, un’apertura verso un ignoto di cui l’artista di volta in volta citato si è assunto il rischio.

 

Meno sottolineato e tematizzato, seppur non trascurato, è invece l’humus culturale e sociale da cui nascono le opere analizzate. Non a caso si tratta di lavori che risalgono soprattutto agli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Un periodo in cui era fortissima l’attrazione per la parapsicologia, le filosofie orientali, il buddhismo tantrico tibetano e lo spiazzamento logico dei kōan dello zen, il taoismo e la mitologia indù; anni in cui si consultava l’I Ching e si praticava la meditazione e lo yoga, nonché si faceva uso di molteplici droghe “psichedeliche”, usate come un modo per espandere la coscienza, uscire dai limiti dell’Io cosciente per ritrovare facoltà profonde e arcaiche. Ma già negli anni Cinquanta William S. Burroughs si era spinto in Amazzonia per cercare e provare la droga yagè: un allucinogeno usato dagli indios, si diceva, proprio per ottenere poteri telepatici. Nel frattempo il pittore e poeta Henri Michaux faceva esperimenti con la mescalina, mentre i poeti della Beat Generation sperimentavano pressoché tutte le droghe con entusiasmo e, in modo alquanto libero, si rifacevano alle pratiche meditative delle tradizioni orientali.

 

Ma, a trasformare la telepatia in un tema tra il familiare e il reale contribuiva anche la grande diffusione dei romanzi di fantascienza: basti pensare a quelli di Philip Dick e John Brunner (citati da Grazioli), ma anche ai racconti di Alfred Bester con persone dotate di facoltà ESP (acronimo di Extra Sensorial Perception), o ai mutanti telepatici del romanzo Slan, scritto da un autore all’epoca seguitissimo: Alfred E. Van Vogt. Purtroppo ora trascurato, c’era pure il bravissimo Clifford D. Simak, che propugnava una «fratellanza universale», in cui i problemi di incomprensione e incomunicabilità sarebbero stati superati grazie alla diffusione di nuovi poteri extrasensoriali, in primis la telepatia. Immerso in questo clima era, alla fine degli anni Sessanta, anche Sigmar Polke, artista tedesco tra Pop, Fluxus e arte concettuale: per anni – come spiega Grazioli – Polke esplorò un po’ di tutto: dalla telecinesi alla magia, dalle droghe psicotrope agli esperimenti telepatici. In uno dei suoi esperimenti telepatici-artistici tentò anche di mettersi in contatto con due autori simbolisti e visionari come Max Klinger e William Blake. Al di là del fatto che qui la telepatia va inaspettatamente nella direzione del passato (ma c’erano pure le sedute spiritiche ad andare in tale direzione) ciò che colpisce è come il poeta e pittore William Blake (Londra, 1757-1827) risulti una figura centrale in queste esperienze extrasensoriali.

 

Riparla di lui, infatti, anche l’artista concettuale americano Robert Barry, che nel sottolineare come tutto possa essere arte – soprattutto se ha a che fare con l’ignoto, la non coscienza e l’irruzione di «qualcosa» – si rifà a Cage, al movimento Fluxus e, guarda caso, a Blake. Già, ma Blake doveva evidentemente essere ben noto per i suoi “strapoteri” telepatici: apparve infatti anche a Bertrand Russell e, come se non bastasse, parlò direttamente anche ad Allen Ginsberg, nel 1948, mentre pigramente leggeva la sua poesia Ah! Sunflower. «Udii nella stanza una voce terrea grave e profonda, e credetti, senza pensarci due volte, che fosse la voce di Blake (…) perché la voce era così assolutamente dolce e così straordinariamente… antica» – racconta lui stesso (in: Intervista con Allen Ginsberg, di Thomas Clark, Minimum fax, 1996, pp. 73-74). Esperienza intensissima di sinestesia visiva e acustica, dove il suono si fa voce e la voce suono. Tanto che l’incontro con la “presenza” di Blake finirà per determinare in modo decisivo la vocazione e il fare poetico di Ginsberg stesso.

 

Ma lasciamo perdere ora i “poteri occulti” di Blake e torniamo agli autori analizzati da Grazioli. Robert Filliou, quando crea i suoi Dessins sans voir, Desseins sans savoir (gioco di parole introducibile in italiano che corrisponde a “disegnare consapevolmente senza vedere, disegnare liberamente senza sapere”) chiaramente non rimanda a una cecità, ma a un’altra vista, svincolata da un io consapevole, dove il non senso si rivela essere un’altra dimensione del senso, così come il vuoto – lo zen insegna – non è un puro nulla, ma qualcosa che sorregge il pieno. Viene in mente un celebre kōan in cui un allievo chiede al maestro: «Come fai a vedere le cose tanto chiaramente?»; al che lui risponde: «Chiudo gli occhi» (Thomas Hoover, La cultura Zen, Mondadori, 1981, p. 25). Passando dagli anni Settanta al nuovo millennio, attraverso le opere delle gemelle Wilson, di Douglas Gordon e alle numerose performance di Ulay e Marina Abramovic, Grazioli ci conduce verso opere contemporanee, dove il rimando alla telepatia si ricollega invece – e questo mi sembra significativo di una svolta culturale radicale – ad aggiornamenti tecnologici determinati dalle neuroscienze, dalla scoperta fondamentale dei neuroni specchio… Loris Gréaud, con Cellar Door del 2008, si riconnette a una visione tecnologica della telepatia, comprensibile grazie allo studio delle onde cerebrali, le quali, oltre a essere misurabili, permettono di creare suoni e immagini. Mentre Sara Benaglia, con Casting the Circle (di cui Grazioli ha scritto anche su Doppiozero) trasforma un gruppetto di studentesse giapponesi in un insieme organico e sincronico di figure concentriche, un po’ cerchi, un po’ ideogrammi.

 

Come lei stessa scrive nel suo sito web, tale insieme figurativo «è stato concepito come un momento di sostituzione dell’autocoscienza (femminista occidentale) con la pratica telepatica istintiva e della comunicazione interpersonale non linguistica». 

Di primo acchito questo libro si fa leggere piacevolmente perché stuzzica la nostra curiosità. Ma certo non si tratta solo di una raccolta di “stranezze” artistiche. La riflessione di Grazioli infatti aggiunge un tassello importante rispetto a un fare artistico e a una visione dell’arte che va in controtendenza rispetto alle velleitarie rivendicazioni della morte dell’autore, o al bello artistico e al vendibile con cifre stratosferiche (argomento principe che scatena i media quando si tratta di arte). Rivela infatti come l’arte sia significativa e “sovversiva” là dove diventa un banco di prova che tocca i nervi della società, perché si dimostra capace di rivelare e indagare quanto c’è di rimosso nelle relazioni e comunicazioni intersoggettive, perché è in grado di inventare forme non gerarchiche di rapporto con la conoscenza e con gli spettatori. La telepatia, per usare le parole di Grazioli «è un’apertura dell’arte, un ampliamento delle sue possibilità» (p.99), là dove sa inoltrarsi in territori non battuti per metterla in discussione.

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Chen Zhen, corti circuiti

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A.S. – Cara Maria, ho bisogno di immaginare di scrivere a te, ho bisogno della parola “cara” e della fiducia nelle domande. Mi sono fermata all’Hangar perché è il primo museo che ha aperto qui a Milano, perché amo molto quegli spazi, la sensazione di un “più grande”, e poi perché mi ritaglio sempre, in conclusione, quel tempo in cui sostare sotto I sette palazzi celesti di Kiefer. Ma mi sono fermata anche perché ricordavo che ci avevi detto che avresti voluto parlare di Chen Zhen su “doppiozero”, prima che tutto chiudesse. Così ho pensato che di lui conoscevo soltanto le coordinate geografiche: Shangai prima, Parigi poi, un certo tempo in Tibet. Niente altro. 

Quando mi avvicino a un artista che non conosco attraverso, prima, tutto lo spazio. Passo in mezzo alle installazioni, cammino fino alla fine. Non seguo un ordine: vago. Poi ritorno indietro e solo allora leggo, provo a capire, fotografo quello che vedo. L’esito del mio primo camminamento è sempre ingarbugliato, e non so se le parole che ora ti isolo siano state le sole. 

 

Chen Zhen Jue Chang, Dancing Body – Drumming Mind (The Last Song), 2000 (detail) Installation view, Pirelli HangarBicocca, Milan, 2020 PINAULT COLLECTION © Chen Zhen by ADAGP, Paris Courtesy Pirelli HangarBicocca, Milan Photo: Agostino Osio


La parola che mi viene in mente è “aggressione”, ma credo che dipenda dal fatto che ho letto di recente un’intervista a Susan Sontag in cui sottolinea che la parola aggressione ha, nel tempo, acquisito un senso peggiorativo. Sontag trova questo ipocrita, poiché, dice, vivere è un’aggressione: muoversi nel mondo è occupare uno spazio, calpestare, modificare equilibri. Qualcosa mi ha detto di un’invasione – le macchinine coprono l’automobile, il rumore dei calcoli la preghiera – ma, insieme, mi pare davvero, come dice Sontag, che prendere la parola “aggressione” nella sua sola connotazione negativa sarebbe semplificare troppo. Non si tratta, così mi è parso, di denunciare un dominio, ma di mostrare il confine labile, lo spazio possibile. Mi sono chiesta, per esempio, prima di leggere, se quell’acqua incessante goccia a goccia a colmare le vasche e ricoprire gli oggetti della nostra vita quotidiana – libri, giocattoli, piatti, vestiti – fosse acqua che corrode o acqua che purifica. 

 

 

Chen Zhen Jardin-Lavoir, 2000 Veduta dell’installazione, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2020 © Chen Zhen by ADAGP, Parigi Courtesy Pirelli HangarBicocca, Milano, e GALLERIA CONTINUA Foto: Agostino Osio.


M.N. – Era quello che desideravo, cara Anna: un’interlocuzione, un attraversare insieme a occhi ben aperti lo spazio dell’Hangar Bicocca popolato dalle opere (vogliamo chiamarla autobiografia artistica?) di Chen Zhen, un creatore che si è misurato per oltre vent’anni della sua brevissima vita (1955, Shanghai – 2000, Parigi) con l’annuncio della propria morte.

La mostra, a cura di Vicente Todolí, ha per titolo “Short-circuits”, corti circuiti. La Treccani spiega così questo sintagma dai molteplici usi metaforici: “Considerevole aumento della corrente circolante in un circuito causato dall’annullarsi accidentale, in seguito a contatto, della resistenza tra punti che solitamente sono a potenziale diverso”. 

 

Corrente, accidentalità, contatto, resistenza. Cose, oggetti, pensieri, le nostre vite fluiscono, non ristagnano, vengono misteriosamente a contatto e quell’accidentalità può produrre uno scontro oppure un’osmosi, una ferita o una stasi transitoria, una piccola pace. Tu parli dell’acqua, del ritmo implacabile con cui Chen Zhen la costringe ad annegare i referti di una quotidianità in via di estinzione, e ti domandi se sia acqua che sommerge o salva. E se non facesse né l’una né l’altra cosa, ma creasse semplicemente un ambiente acustico che scardina le coordinate spaziali – sotto e sopra, dentro e fuori – e disallinea passato e presente? Sì, quel grande cubo di cemento colmo di letti disattivati e del suono stillante dell’acqua (come non pensare ai film più liquidi di Andrej Tarkovskij?) si è convertito in pura, numinosa atmosfera. Mi sono messa ad ascoltarla e assorbirla. Gli occhi mi erano meno utili della pelle o del naso. Si trattava di respirare e ricordare, forse rivivere.

 

Chen Zhen Daily Incantations, 1996 Installation view, Pirelli HangarBicocca, Milan, 2020 Private collection, Courtesy de Sarthe Gallery, Hong Kong © Chen Zhen by ADAGP, Paris Courtesy Pirelli HangarBicocca, Milan Photo: Agostino Osio.


A.S. – Penso sempre di dover scegliere. L’una o l’altra cosa? Dirti che l’aggressione poteva essere anche vista in un modo non peggiorativo era dunque tracciare quella linea, rimarcarla, pur volendo renderla più complessa. Così come l’acqua. Ma, ascoltandoti, capisco meglio perché mi sono seduta al margine di quella stanza, accanto alla scala a chiocciola che sale su, stretta. Siamo capaci di resa? Credo di voler dire, con la parola resa, la rinuncia a decodificare, leggere, sapere in anticipo quale sarà l’esito di quell’accostamento. Cosa produrrà quella corrente? In fondo sono così vicine la ferita e la piccola pace di cui scrivi. È complicato liberarsi di un codice binario. Ma, seduta sul pavimento, dico di un corpo, del mio corpo. La pelle, come dici, il naso, le orecchie. Anche attorno alla grande goccia di perline ho insistito un po’, prima di esserci. Credo di aver girato attorno alla struttura in legno più volte, miravo alla sfera di cristallo all’interno, guardavo dentro, provavo a vedere di più e vedere meglio, mi è anche sembrato di non riuscire a trovare la giusta angolazione, la macchia cieca se ne stava proprio lì, nel punto che io volevo trasformare in un punto di visione sulle cose. Così mi sono allontanata un po’ ed è lì, davanti a quelle perline che scandiscono la conta di un abaco e la preghiera del rosario, che ho letto della malattia autoimmune, diagnosticata a 25 anni, e dell’esperienza in Tibet. Ho letto di quella vita con l’annuncio della propria morte e mi sono domandata di questa eredità di sacro. In quello spazio viene da abbracciarsi, non credi? Abbracciare il proprio corpo, toccarlo. Mi sembra davvero una vittoria ultima sulla legge di necessità. 

 

 

Chen Zhen Veduta della mostra, “Short-circuits”, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2020 © Chen Zhen by ADAGP, Parigi Courtesy Pirelli HangarBicocca, Milano Foto: Agostino Osio.

 

M.N. – Abbracciare il proprio corpo, sì, farsi sé e altro da sé, mettere in scacco il principio solipsistico dell’uno scompaginando la gabbia del due. 

Il binarismo è probabilmente la forma più semplice di organizzazione del pensiero e di decifrazione del mondo: al bianco si contrappone il nero, al vecchio il nuovo, alla stasi il movimento, alla vita la morte e così via. La semplicità è però troppo spesso semplificazione: inganna, perché non tiene conto di quel che succede quando una cosa incontra, sfiora, lambisce il suo apparente contrario o ci sbatte contro. Il corto circuito voluto o subito da Chen Zhen non è mai binario, perché lascia spazio all’imprevisto. Invece di spiegare e ordinare, si concede – e concede a noi che guardiamo e ascoltiamo i suoi lavori – il tempo della sorpresa e della scoperta. Il suo Est che incontra il nostro Ovest o il suo “mondo di dopo” (Parigi e l’accettazione della malattia intrattabile) che incontra quello “di prima” (la Cina e il tempo ignaro della salute) non si contraddicono e non confliggono, ma neppure si limitano a convivere. Entrano in risonanza producendo quella “macchia cieca” di cui scrivi, che oscura la visione e ad essa pervicacemente invita. 

Lo sfondamento della trincea binaria – nell’esperienza artistica e esistenziale di Chen Zhen, tra Cina e Parigi, c’è del resto lo spartiacque/ponte del Tibet – immette non solo in una terzietà spaziale, ma in una dimensione temporale inedita, che non può essere indagata se non soggettivamente, affidandosi a catene associative che nascono dalla memoria epigenetica e dal sogno, da quella zona dell’esperienza personale che precede l’acquisizione della parola e coincide con il sapere assoluto del corpo. Che sia per questo che tra i “materiali” usati con più evidente piacere plastico da Chen Zhen ci sono la musica, il suono, i rumori e il silenzio, l’altissimo silenzio congelato nella sua Purification Room del 2000?

 

 

Chen Zhen Eruption Future, 1992 Installation view, Pirelli HangarBicocca, Milan, 2020 Private collection, Paris © Chen Zhen by ADAGP, Paris Courtesy Pirelli HangarBicocca, Milan Photo: Agostino Osio.

 

Chen Zhen Purification Room, 2000 Installation view, Pirelli HangarBicocca, Milan, 2020 © Chen Zhen by ADAGP, Paris Courtesy Pirelli HangarBicocca, Milan, and GALLERIA CONTINUA Photo: Agostino Osio.

 

A.S. – In questo che dici, credo, trovo la ragione dell’attualità di questa mostra. La Purification Room, cui mi rimandi, mi pare principio di risignificazione e di trasformazione. Mi sono sentita immobile come gli oggetti, ricoperta di argilla come gli oggetti, forse anche monocroma come gli oggetti, eppure totalmente dislocata. Tutto è solido, congelato, per sempre, e, nello stesso tempo, non è lì davanti a te e, soprattutto, non è così semplice pensare che sei tu lì, davanti a quella scena. Mi ha fatto quasi male leggere, in quella paralisi di silenzio, l’anno: 2000. L’anno della morte, l’ultima opera. Quasi un testamento a suggerire, che cosa? Forse il sogno, il cerchio, il Tutto? Vedi, ci casco sempre: perdo i riferimenti e domando un nuovo orientamento. Quello che ho sentito, invece, mi pare di poterlo raccontare nella forma del: io, ora, dove sarò stata? Dove sarà stato questo io inedito già da sempre qui. Così credo di aver guardato anche le viscere di cristallo sul tavolo-lettino, tavolo di dissezione (Crystal Landscape of an Inner Body (Serpent), 2000). Sottili, fragili, si potrebbero rompere – il cuore, l’intestino – ma, insieme, trasparenti e riflettenti. Elementi minimi, parti del tutto insufficienti, non autonome, ma, lì, principio di moltiplicazione: risuonano con il mondo. Una a una. Non-specchi che funzionano da specchio. È a partire da queste impressioni che ho questa idea, l’ho avuta forte davanti a Purification Room, di un’attualità. Non so se quando dico attualità dico questo tempo ultimo, ma credo di sì, credo che il terzo di cui mi dici sia qualcosa che si inscrive in questa nuova esperienza che abbiamo fatto del corpo – della sua consistenza, della sua inaggirabilità – e del tempo – della linearità. 

 

Chen Zhen Crystal Landscape of Inner Body (Serpent), 2000 Installation view, Pirelli HangarBicocca, Milan, 2020 © Chen Zhen by ADAGP, Paris, Courtesy Pirelli HangarBicocca, Milan, and GALLERIA CONTINUA Photo: Agostino Osio.

 

M.N. – “Quello che mi interessa è la trasformazione, non il monumento. Non costruisco rovine, ma sento che le rovine sono momenti in cui le cose si mostrano. Una rovina non è una catastrofe. È il momento in cui le cose possono ricominciare.” A dirlo è Anselm Kiefer, l’artista che ha ideato I sette palazzi celesti sotto i quali ti piace sostare. Oggi, per uno di quei casi nient’affatto casuali che si danno nell’arte, le sue vacillanti torri postatomiche occupano lo spazio che va attraversato per uscire dalla mostra di Chen Zhen. Bisogna passare da lì per tornare alla luce e all’aperto. Trasformate in luogo di transito, segnalano la resistenza impassibile della materia, la sua muta beanza. 

Varcando il nero sipario che dall’esposizione di Chen Zhen immette nell’immenso rettangolo – ahimè oggi eccessivamente safe – occupato dall’opera di Kiefer, ho provato un senso di familiarità. E il noto rassicura. Eppure tra l’“arte/medicina” di Chen Zhen e gli scomposti bunker verticali di Kiefer c’è un’evidente continuità, una sorta di sorellanza.

 

Chen Zhen Nightly Imprecations, 1999 Installation view, Pirelli HangarBicocca, Milan, 2020 Private collection, Courtesy Blondeau & Cie, Geneva © Chen Zhen by ADAGP, Paris Courtesy Pirelli HangarBicocca, Milan Photo: Agostino Osio.


L’opera di entrambi muove il pensiero, emoziona, perturba, induce a chiedersi chi siamo nel mondo. E lo fa proponendo una modalità che, ancora una volta, ha a che vedere con lo spazio e con il tempo: ambedue gli artisti stratificano, incrostano, sovrappongono, macerano, giustappongono sostanze stridenti (il vetro e il ferro, il cemento e la carta). Il riciclaggio cui sottopongono materiali e oggetti dismessi è un preciso gesto politico: muta la storia delle cose e le converte in Storia, ovvero in un fatto dolorosamente collettivo. 

The voice of migrators, l’acustica, variopinta sfera di cenci ideata da Chen Zhen nel 1995, o il suo SixRoots Enfance / GarçonChildhood / Boy del 2000, una barca di legno capovolta brulicante di soldatini di plastica allo sbando come formiche davanti al fuoco, non sono forse, in miniatura, un’inconsapevole replica degli scenari di guerra evocati da Kiefer e dell’imperturbata resilienza della natura? I ripari crollano, le imbarcazioni affondano, gli indumenti si trasformano in stracci, il corpo muore, eppure nulla finisce e l’impensato si fa strada nelle tenebre.

 

Chen Zhen The Voice of Migrators, 1995 Installation view, Pirelli HangarBicocca, Milan, 2020 PINAULT COLLECTION © Chen Zhen by ADAGP, Paris Courtesy Pirelli HangarBicocca, Milan Photo: Agostino Osio.

 

Chen Zhen Six Roots Enfance / Garçon - Childhood / Boy, 2000 Installation view, Pirelli HangarBicocca, Milan, 2020 © Chen Zhen by ADAGP, Paris Courtesy Pirelli HangarBicocca, Milan, and GALLERIA CONTINUA Photo: Agostino Osio.


A.S. – La prima volta che ho visto Kiefer ero a Tel Aviv. Era il 2011, Breaking of the Vessels, l’inaugurazione del Museum of Art. Ascoltarti mi ha fatto sovrapporre due scene, a dieci anni di distanza, e lo ha fatto perché credo che sia stato allora – io ho poca memoria, quindi chissà se questo ricordo è davvero nato lì – che ho incontrato la parola “gratitudine”. Allora non credo che si fosse delineata così, nella mia testa, ma come una percezione molto confusa e molto embrionale del rapporto sacrale con la materia, l’incontro con il mondo, con la carne, con la terra sotto la suola delle scarpe. In quel momento studiavo Perec e leggevo W o il ricordo di infanzia, dove le lettere dell’alfabeto ebraico si fanno biscotto. Quello che dici: il vetro, la colla, i semi, le lamiere, le piccole storie e “l’histoire avec sa grande Hache”, l’ascia che aveva portato via la madre allo scrittore francese. Con “gratitudine”, oggi, in questa nuova scena, credo di intendere il rapporto con l’ulteriore. Si passa necessariamente dai crolli, dagli stracci, dal suono continuo e confuso delle voci dei dispersi in mare. Ma anche dalla tradizione – gli oggetti del suo “mondo di prima”, come lo hai chiamato –, dall’eredità, dallo sradicamento che è anche sempre nuova possibilità di dialogo. Non c’è altra via che la ferita del mondo, il taglio.

 

 

Chen Zhen Fu Dao / Fu Dao, Upside-down Buddha / Arrival At Good Fortune, 1997 Installation view, Pirelli HangarBicocca, Milan, 2020 © Chen Zhen by ADAGP, Paris Courtesy Pirelli HangarBicocca, Milan, and GALLERIA CONTINUA Photo: Agostino Osio.


Chen Zhen mi pare racconti questo, e mi pare che raccontare la ferita del mondo, attraverso gli occhi di un rapporto mutato con esso – dato dalla sua storia singolare –, sia, infine, l’unico modo di cantarlo, il mondo. Ecco perché dico gratitudine. Una forma del rilanciare: dopo di me, come prima di me, in questo mutare di forme e scenari di guerra e rinascite. Divago, ma io credo che questa sia la ragione per cui le scuole dovrebbero frequentare gli spazi dell’arte. Quei soldatini di plastica, la miriade di macchinine giocattolo che ricoprono il rottame di automobile (Perseverance of Regeneration, 1999): soltanto nella prossimità incendiata si avverte il proliferare di insetti sulla pelle. Insetti del consumo, della distruzione. Se non sento che camminano proprio su di me, come avverto la ferita? Sono stata poco davanti ai bambù con i Buddha rovesciati e le televisioni e i circuiti elettronici e la bicicletta appesi (Fu Dao / Fu Dao, Upside-down Buddha / Arrival at Good Fortune, 1997). Mi sono raccontata che sono alta e non potevo camminarci sotto, ma la verità è che in quel rovesciato c’era qualcosa, per me, nel mio corpo fisico, di faticoso: sotto-sopra. 


M.N. – In un interessante video di presentazione riascoltabile sul sito dell’Hangar Bicocca, Vicente Todolí racconta di come nel 1976 il ventunenne Chen Zhen, cresciuto in pieno Maoismo accanto a un padre immunologo e una madre medico, venga a contatto con l’opera di artisti come Marcel Duchamp e Joseph Beuys. Nella Cina che si apre al mondo, un artista poco più che adolescente scopre che si può fare arte ‘installando’, assemblando con gioco sottile e ironico o austero e drammatico oggetti trovati, cose d’uso quotidiano, materiali di scarto. Ne nascono opere aderenti all’esistente, quasi una sua replica, che tuttavia non descrivono, anzi sembrano contestare il visibile.

 

Chen Zhen Exhibition view, “Short-circuits”, Pirelli HangarBicocca, Milan, 2020 © Chen Zhen by ADAGP, Paris Courtesy Pirelli HangarBicocca, Milan Photo: Agostino Osio.


Credo provenga da lì la sontuosa Round Table del 1995 stretta nell’abbraccio – sì, di nuovo un abbraccio – di venticinque sedie di diversa forma, dimensione, tinta, origine e destinazione. È un oggetto attraente, caldo, affettuoso e al contempo burocratico, negoziale. Rimanda ai riti familiari e alla condivisione del cibo, ma anche alla trattativa, pratica sublimata del conflitto. Le sedie tuttavia non poggiano per terra: la seduta è incorporata nel piano del tavolo, le gambe non sostengono, gli schienali recingono e sigillano, creando un dentro e un fuori. Sottratte alla loro funzione primaria, letteralmente smobilitate, invitano all’interpretazione, al commento, alla critica. 

Non è forse l’uso inerziale delle cose a decretare la loro morte, la nostra morte?

Le opere di Chen Zhen 

“somigliano a una mappa

Di che cosa?

Di ospiti al buio.

Che si trovano dove?

Qui, venuti da altrove...”

 

 

Chen Zhen Le Bureau de change, 1996-2004 Installation view, Pirelli HangarBicocca, Milan, 2020 © Chen Zhen by ADAGP, Paris Courtesy Pirelli HangarBicocca, Milan, and GALLERIA CONTINUA Photo: Agostino Osio.

 

Chen Zhen Veduta della mostra, “Short-circuits”, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2020 © Chen Zhen by ADAGP, Parigi Courtesy Pirelli HangarBicocca, Milano Foto: Agostino Osio.

 

A. S. – Vorrei domandarti qualcosa in più sulla Cina e su quegli oggetti della tradizione accumulati, stretti, accostati. Il letto di aghi, le palline di polistirolo che danzano spinte dall’aria, le pelli di vacca, i vasi da notte. Però leggo queste ultime parole che scrivi – il buio, la mappa, la nebbia, le tracce, la sospensione del modo consueto di pensare il tempo e lo spazio – come un invito a infilarmi nuovamente nel grande igloo di carta che contiene la “ruota di preghiera”. Mi abbasso, varco l’entrata, alla mia sinistra mattoni di ghiaccio. A destra il legno e sul legno gli strumenti di conto. Il bianco freddo da una parte e il proliferare di palline dalle forme più diverse, con le calcolatrici incastrate. Il legno, il caldo. Non so se prima fosse una possibilità, ma all’Hangar si può solo immaginare di poter avviare il movimento della ruota, spingendo le travi che fanno da leva. Mi sono figurata la postura del corpo necessaria, come in quelle immagini antiche: gli schiavi e le grandi macchine per costruire le prime monumentali opere. Gambe molto indietro a dare stabilità, divaricate, una in avanti e una ferma indietro nel terreno. Le braccia forti e i gomiti appena curvi. Girare, girare, girare: il cerchio non è figura di un eterno ritorno dell’identico, non è inerzia. Il calcolo e la preghiera, il bianco e il legno, Occidente e Oriente, mondo dei malati e mondo dei sani, il suono ossessivo dei registratori di cassa. Il corpo nell’opera che diventa opera: motore e mosso.

 

 

Chen Zhen Prayer Wheel – “Money Makes the Mare Go” (Chinese Slang), 1997 (detail) Installation view, Pirelli HangarBicocca, Milan, 2020 PINAULT COLLECTION © Chen Zhen by ADAGP, Paris Courtesy Pirelli HangarBicocca, Milan Photo: Agostino Osio.

 

M. N. – Cara Anna, proviamo a uscire in silenzio dalle navate dell’Hangar Bicocca in cui sono racchiuse le opere di Chen Zhen. Chi ne ha curato l’allestimento non le ha disposte in ordine cronologico: ha lasciato che si scegliessero fra loro. Ad accostarle non è la loro forma o il materiale eterogeneo di cui sono fatte o l’occasione che le ha generate, bensì una risonanza o un’attrazione. In ognuna si avverte un nucleo spirituale che dialoga con la materia e la sua effimera configurazione. E la materia è corpo vivente, anche quando ne resta solo un’impronta o una traccia mnemonica. 

Hai anche tu la sensazione che, per Chen Zhen, ‘pregare’ – o dovrei dire ‘lenire’? – sia contare gli anelli degli alberi e le rughe della pelle, sapendo che la freccia del tempo non si muove in una sola direzione? 

 

(Milano-Roma, 4-7 febbraio 2021)

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Roger Ballen. La fotografia come esplorazione della mente

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La fotografia mostra un interno dimesso. Le pareti sono rovinate dal tempo. Sul pavimento sono distese alcune corde nere che disegnano una porzione di scacchiera elementare. L’unica pedina presente è un gatto bianco che guarda un uomo che a sua volta osserva un disegno appeso alla parete: un abbozzo di scarabocchi in cui tra cancellazioni e linee fragili campeggia la sagoma di un fantoccio sorridente. La teatralità dell’incontro allude forse al fatto che l’uomo contempla sé stesso in uno schema che mima il contesto in cui si trova e di cui egli non è che una pedina? 

 

La foto si intitola Scrutinizing.È un’opera che Roger Ballen ha realizzato nel 2000 e contiene tutti i tratti del suo stile: il degrado dell’ambiente, l’animale come specchio dell’uomo, l’irruzione dell’inconscio nella dimensione quotidiana. È uno scatto prodotto in un momento molto importante per il fotografo, una sorta di spartiacque nella vita artistica dell’autore che dal 2002 smetterà di ritrarre volti umani e cercherà di integrare l’immagine con la scultura e con disegni vicini all’art brut di Jean Dubuffet.

 

L’immagine appare nel libro intitolato The Earth Will Come To Laugh and Feast, da poco pubblicato dal powerHouse Books, una casa editrice indipendente di Brooklyn. Il volume è composto da una selezione di fotografie realizzate tra il 1995 e il 2016 a cui vengono accostate le poesie di Gabriele Tinti ispirate dagli scatti, in cui lo stile del fotografo e la storia dei suoi soggetti fanno da cassa da risonanza alla scrittura del poeta di Jesi. Il volume nasce in seguito al loro incontro a Roma in occasione della sua mostra Asylum of the birds (2014) al Museo Macro, che entrambi raccontano nella doppia intervista che chiude il libro.

 

Come per le parole di Tinti, la fotografia per Ballen è un mezzo per esplorare la psiche umana. Il suo percorso è singolare. Dopo essersi laureato in psicologia a Berkeley viaggia quasi sempre a piedi attraverso Asia e Africa. Nel 1981 si trasferisce a Johannesburg dove il lavoro da geologo lo porta ad attraversare le zone periferiche e meno conosciute del paese. Dal 1982 sceglie di viverci stabilmente ed è qui che emerge la visionarietà del suo sguardo. Appaiono i suoi mostri e i fantasmi, i “Poor Whites”, le cui vite vengono mostrate in una dimensione ambigua dove lo stile documentario si fonde con l’immaginario freak che ricorda le immagini di Diane Arbus. Alcune fotografie tratte da Outland (2000), che ha segnato il passaggio di Ballen dalla fotografia documentaria a quella visionaria, vengono incluse in questo volume.

 

Sono scatti analogici dove la realtà corrisponde a una deriva nella mente del fotografo. Non si comprende sino in fondo se le sue immagini raffigurano soggetti che sono realmente esistiti, o al contrario sono invece ricordati, sognati o immaginati. Animali, oggetti e persone appaiono più come ombre, simulacri e riflessi. L’immagine a cui si può fare riferimento è proprio quella della mente intesa come luogo da esplorare.

 

Roger Ballen, Disguised, 2004.


Roger Ballen, Disjointed, 2006.


Con la sua fotografia Ballen ci trasporta in un mondo nel quale vacilla ogni certezza. Lo stile è inconfondibile tanto da indurre l’autore a coniare una sorta di marchio identitario: “Ballenesque”, che è anche il titolo di una monografia pubblicata da Thames and Hudson nel 2016. Il caos della vita umana viene espresso attraverso la presenza inquietante di esseri umani disorientati e frammentati, di animali che sembrano provenire da un’altra dimensione, di oggetti completamente privi della loro funzione originaria. Guardando la fotografia Driesie and Casie, Twins, Western Transvaal (1993) è impossibile non pensare a Identical twins, Roselli, NJ (1967) di Diane Arbus. 

 

È proprio il termine freak ad aver fatto da cassa da risonanza al successo di Ballen, quando nel 2012 esce I Fink U Freeky un brano del gruppo hip hop sudafricano Die Antwoord. Il video della canzone  ha come direttore della fotografia lo stesso Ballen, e porta l’autore ad avere un seguito globale da parte di un pubblico giovane e vicino alla scena techno e zef (termine dispregiativo per indicare la classe operaia bianca sudafricana, diffuso tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso). Maschere, manichini, bambole, topi, cavi elettrici e disegni stilizzati, che contraddistinguono le fotografie di Ballen, sono sparsi negli ambienti fatiscenti dove viene girato il video. 

 

Roger Ballen, Toenail, 2001.


Le poesie di Gabriele Tinti sono il doppio testuale delle immagini. Ne ripercorrono le ossessioni, le duplicano, ne ampliano certi dettagli come nel caso di Toenail, affiancata all’immagine in cui Ballen ritrae le gambe magrissime di un uomo sdraiato a terra: 

 

“La cancrena dall’unghia scala il tuo corpo molle.

I giorni sfanno tutto quel che hai costruito.

La notte rovescia a terra ogni cosa.

Soltanto una parte resta da fotografare”.

 

Roger Ballen, Fragments, 2005.


La fotografia scelta per chiudere il volume è Fragments (2005). Sono numerosi gli interrogativi che nascono guardando il suo soggetto: due piedi che fluttuano nell’aria. Sono piedi giovani e sporchi, forse di grafite, forse di polvere. Stanno a pochi centimetri da terra, fermi, come quelli di un impiccato. Sotto i piedi c’è un piatto sulla cui superficie è disegnato un volto che ci guarda, una maschera. Vicino al piatto è posata una forchetta disposta in senso contrario allo spettatore, come se fossimo seduti a tavola con qualcuno e fra noi ci fosse un suicida galleggiante nell’etere come un fantasma. Perché quella sagoma ci sta fissando? E perché la mela è stata tagliata ma non c’è accenno di alcun morso? 

Le immagini di Ballen sono ambigue e violente, capaci di indurre chiunque a guardarle come uno specchio in cui ritrovare soprattutto i propri fantasmi.

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Le Radici di Josef Koudelka

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Viaggiare è mettersi sulla via, la via verso un luogo o la via verso un tempo, l’ispirazione può venire tanto dallo spazio quanto dalla memoria. Ogni luogo di questo mondo conserva tracce del passato, in quelle tracce si può immaginare un uomo, una civiltà, o perfino un Dio. Per farlo occorrono due cose eminentemente umane: lo sguardo e la ragione. Ciò che non vede lo sguardo lo intuisce la ragione, e ciò che intuisce la ragione si trasforma in sguardo.

Le fotografie di Josef Koudelka – in mostra fino al 16 maggio al museo dell’Ara Pacis a Roma – sono tutto questo. La raccolta è il resoconto di un duplice viaggio, nello spazio e nella memoria del Mediterraneo greco e romano. Radici– questo il titolo – è il risultato di numerose spedizioni condotte dal fotografo ceco tra Italia, Siria, Grecia, Turchia, Libano, Cipro e Cipro del Nord, Israele, Giordania, Egitto, Libia, Tunisia, Algeria, Marocco, Portogallo, Spagna, Francia, Albania e Croazia, nel tentativo di svelare l’enigma che si cela all’incrocio fra i concetti di origine e di bellezza.

 

 

Un viaggio in cui non si incontra mai l’uomo, ma solo la sua ombra remota, e in cui il protagonista assoluto della scena è il silenzio.

Koudelka, venuto alla ribalta del mondo della fotografia per aver raccontato gli eventi della Primavera di Praga, intesse in filigrana un discorso politico. Le rovine del resto sono segni, ferite, sono ciò che rimane di qualcosa dopo la sua distruzione. A partecipare al disfacimento degli antichi manufatti non è solo l’opera corrosiva del tempo, ma anche la volontà e l’azione della storia. Una rovina è l’esito del passaggio di eserciti brutali, di furiosi tiranni, di spoliazioni, di violenze perpetrate in nome dell’affermazione della peggiore malattia di cui soffra l’uomo: il potere. Una rovina quindi è sempre effigie di dolore.

 

 

Il santuario di Apollo Hylates a Cipro, per esempio, inquadrato dall’obiettivo di Koudelka, non è più un santuario, ma è ciò che rimane di un antico luogo sacro: due colonne, un pezzo del fregio, l’angolo acuto del timpano, una porzione del lato sinistro. Una volta processato dallo sguardo dell’artista, diventa la croce del tempo su cui si immola ogni civiltà, un emblema che si erge nella vegetazione, stagliandosi sul cielo rarefatto dello sfondo. Come riassume Pascal: “Il silenzio è la più grande persecuzione”. Ciò che resta del tempio è una croce intorno alla quale non si scorge presenza umana, un silenzio – appunto – che è ricezione delle cose in forma di preghiera.

 

Scrive Héloïse Conésa in uno dei saggi in apertura del catalogo della mostra (edito da Contrasto, con le traduzioni di Francesca Bononi): “In un’epoca in cui l’umanità è in preda a una perenne amnesia, le rovine fotografate da Koudelka generano memoria riproducendo il caos della storia. […] La storia non viene mostrata come un processo, nella sua dinamica, ma in un immobilismo simile a quello che paralizza il volto del defunto”. In questa paralisi spariscono anche i colori, affinché chi guarda affondi in un bianco e nero ostinato e rivelatore, una scala di grigi che vira sempre verso tonalità opache, limitando i contrasti e gli estremi di luce e buio, sorvegliando il chiaroscuro. In questo modo, nello scatto che raffigura il dettaglio della cavea e dell’arena del Colosseo, ci viene restituito un gioco di rilievi in cui il travertino non è più al servizio dell’architettura, ma diventa un mosaico che illude l’occhio e la mano.

 

 

Ci sono due polarità che vengono a contatto in questi lavori, da un lato l’arte antica sepolta nel passato remoto, dall’altro l’arte del fotografo nel tempo presente. L’arte antica è spoglia per sua natura, comunica all’uomo contemporaneo attraverso un linguaggio muto. L’arte fotografica lo traduce nel linguaggio comprensibile agli esseri umani di questo tempo, fondando un’opera che si impianta su quella antica, travalicandola e consegnandola a una nuova regione mentale.

Secondo Aristotele il tempo è un modo per misurare il movimento delle cose. Perciò se non c’è nulla che si muove non c’è il tempo. Il fotografo, abolendo il movimento e la presenza umana, abolisce il tempo e la sua illusione. Il tempo del resto (o la sua illusione) non prevede la presenza umana: senza l’uomo non esiste il tempo. A ben vedere l’uomo è incline a credere che senza l’uomo non esista neppure la realtà, ma questa è una presunzione di specie. Koudelka invece ci ricorda che la realtà esiste eccome (nonostante l’uomo), e che noi viviamo non tanto nella realtà, quanto nella sua rappresentazione.

 

Perciò il suo lavoro fotografico non ricade solo nel campo artistico, ma anche, e soprattutto, in quello più vasto della filosofia.

Radici quindi è il resoconto della condizione umana nel suo essere senza tempo. La magnificenza di un’antica rovina è sempre la testimonianza di una tensione tra miseria e grandezza: la miseria delle vite degli uomini, e la grandezza delle loro aspirazioni, della volontà di affermare una traccia, di bloccare tempeste di gloria in un istante. In queste foto Koudelka è l’ultimo uomo sulla Terra che consegna al tempo sterminato dell’universo la traccia feroce del silenzio dove ogni cosa è passata. E noi spettatori siamo gli occhi alla fine di uno sconfinato viaggio, le creature senzienti di un’altra era.

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Ara Pacis
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