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Francesco Vezzoli. Love Stories

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L'immagine che ha inaugurato il nuovo progetto digitale di Francesco Vezzoli, curato da Eva Fabbris, è la Giuditta e Oloferne di Caravaggio. Sovrapposti al dipinto, due testi: il nome dell'autore e “American Horror Story”, titolo di una celebre serie tv. Per tutti i giorni a seguire, sul canale Instagram della Fondazione Prada, con cadenza quotidiana, sono state pubblicate immagini di coppie più o meno celebri: Fidel Castro e Gina Lollobrigida, Charlotte Rampling in una scena di Il portiere di notte, Picasso e Dora Maar, due donne dipinte da Toulouse Lautrec, Liz Taylor e Richard Burton in Cleopatra. Ogni foto presenta un sondaggio, un breve testo ironico che invita l'utente a una scelta binaria, come nel caso del dipinto caravaggesco. Ogni immagine è accompagnata da arie di Verdi, Mozart, Rossini, Bellini, una colonna sonora dal carattere melò, in puro stile Vezzoli.

 

A un primo sguardo, il nuovo progetto dell'artista bresciano intitolato Love Storiesè spiazzante. Si tratta di un progetto interamente e nativamente digitale, una riflessione in forma artistica sul tema della coppia. Per l'occasione, Fondazione Prada ha messo a disposizione il proprio canale Instagram, che diventa a tutti gli effetti la piattaforma distributiva e la sede espositiva virtuale dell'opera. Vezzoli, che da alcuni anni affianca alla produzione artistica la curatela e la progettazione di sue mostre, in questo caso opta per un'opera collettiva, in divenire, utilizzando gli strumenti messi a disposizione da un social media per effettuare un'incursione estetica che prosegue idealmente il discorso iniziato nel 2004 con Comizi di non amore, opera che segna anche l'inizio della collaborazione con Fondazione Prada. Love Stories si completa grazie all'appuntamento settimanale delle dirette, nelle quali l'artista intrattiene una conversazione con un ospite chiamato a commentare i risultati dei sondaggi della settimana, come nel caso di Klaus Biesenbach, direttore del MOCA di Los Angeles, o dello storico dell'arte Salvatore Settis.

 

Love Stories, A sentimental survey, Francesco Vezzoli.


Frammenti di un discorso amoroso si apre con una nota di Roland Barthes:

 

“La necessità di questo libro sta nella seguente considerazione: il discorso amoroso oggi è d'una estrema solitudine. Questo discorso è forse parlato da migliaia di individui (chi può dirlo?), ma non è sostenuto da nessuno; esso si trova ad essere completamente abbandonato dai discorsi vicini: oppure è da questi ignorato, svalutato, schernito, tagliato fuori non solo dal potere, ma anche dai suoi meccanismi (scienze, arti, sapere). Quando un discorso viene, dalla sua propria forza, trascinato in questo modo nella deriva dell'inattuale, espulso da ogni forma di gregarietà, non gli resta altro che essere il luogo, non importa quanto esiguo, di un'affermazione. Quest'affermazione è in definitiva l'argomento del libro che qui ha inizio.”

 

Anche il discorso di Vezzoli appare come un discorso inattuale, e in un'apparente contraddizione, fa emergere il carattere di un lavoro che rivela una profonda aderenza al presente se non una capacità predittiva: si pensi per esempio a Democrazy, opera presentata alla Biennale del 2007, in cui lo slogan di Patricia Hill, una dei due candidati alle presidenziali interpretata da Sharon Stone, era Make America Strong, claim che anticipava in maniera sorprendente il recente Make America Great Again trumpiano. Vezzoli però, a differenza di Barthes, non seziona il discorso amoroso, ma intraprende una sentimental survey, interrogandosi su cosa sia oggi la “figura” della coppia.

 

Love Stories, A sentimental survey, Francesco Vezzoli.


Sebbene lo strumento scelto per la sua riflessione sia totalmente contemporaneo – la piattaforma digitale –, la sua inattualità risiede nell'intrattabilità del tema (facendo riferimento di nuovo ai Frammenti): ecco allora che Vezzoli non dice, non afferma, ma costruisce la cornice entro la quale l'idea della coppia, anzi più precisamente un'immagine della coppia possa manifestarsi, affiorare in superficie attraverso il sentiment – non più il sentimento – della Rete. 

 

Facendo un passo a ritroso, torniamo nel 2004, anno di Comizi di non amore, opera nella quale l'artista reinterpreta i canoni del cinema-verità attraverso i meccanismi del reality show. Il video è parte della Trilogia della Morte, dedicata a Pier Paolo Pasolini, che nel 1963 intraprende un viaggio per l'Italia con l'obiettivo di realizzare uno documentario attraverso il quale raccontare il rapporto degli italiani con la sessualità e l'amore. Per quasi un anno, Pasolini intervista persone differenti per ceto sociale, età, provenienza geografica. Il risultato è un film dissacrante, percorso da una palese ironia, da cui emerge tutta l'ingenuità e il bigottismo di un Paese in pieno boom economico ma segnato da una doppia morale, dalla quale solo le voci di alcune giovani ragazze sembrano parzialmente discostarsi. Nell'opera del 2004, Vezzoli prende spunto dal lavoro di Pasolini e lo reinventa costruendo un reality show alla Uomini e donne, dove degli improbabili aspiranti latin lover corteggiano icone del cinema come Catherine Deneuve. Osservatore attento dei meccanismi della celebrità e del media televisivo, Vezzoli individua nel reality un nuovo paradigma che riflette e influenza l'immaginario popolare, come uno specchio deformante. Nel reality le parole del discorso amoroso vengono prese e tradotte in cliché, il trash trova piena espressione e si avvia quel processo di finzionalizzazione e spettacolarizzazione del privato che troverà un pieno compimento nell'avvento dei social media. Love Stories è quindi un passo ulteriore e coerente nella ricerca di Vezzoli, non tanto e non più nella messa in scena di un personale mondo di memorie intime e collettive il cui nucleo fa riferimento essenzialmente all'immaginario popolare della tv, anche quando chiama in causa il cinema d'autore, quanto invece nella riflessione attorno al tema della verità, una delle “magnifiche ossessioni” dell'artista.

 

Love Stories, A sentimental survey, Francesco Vezzoli.


Vezzoli esordisce ricamando ritratti di dive su cui appone, come una firma, delle lacrime colorate. Lavori dove il kitsch viene esibito e maneggiato in maniera consapevole, evidenziandone l'intrinseca tragicità, per poi tramutarsi in camp, categoria che aderisce pienamente al lavoro dell'artista bresciano. C'è una tensione evidente nell'innalzare l'oggetto dello sguardo che è al contempo un oggetto del desiderio, nel trasformarlo in un'opera d'arte, tensione però sempre stemperata dall'ironia: si pensi per esempio a Iva Zanicchi che canta nel salotto di Mario Praz in Ok, the Praz is right!, primo episodio di An embroidered trilogy (1997-99), diretto da John Maybury, in un cortocircuito tra storia reale e finzione filmica (Mario Praz ricamava e i cuscini del salotto che appaiono nel video sono di sua fattura, la Zanicchi è interprete del brano principale di Gruppo di famiglia in un interno, pellicola del 1974 diretta da Luchino Visconti, liberamente ispirata alla vita dello stesso Praz, ndr).

Si può dire che Vezzoli, anche dopo la prima fase della propria carriera, abbia sempre operato in termini di ricamo, ovvero creando una trama che lega passato e presente, alto e basso, sacro e profano, istituendo delle relazioni estetiche tra soggetti solo all'apparenza distanti e provando a fondare nuove, inaspettate dialettiche. Categorie cristallizzate vengono riconsiderate attraverso l'accostamento imprevedibile di matrice surrealista, opere stratificate, piene di citazioni e di rimandi in un gioco tipicamente postmoderno che tende a moltiplicarsi come una sala degli specchi, passando attraverso operazioni sempre più imponenti, coinvolgendo istituzioni sempre più prestigiose, sdoppiandosi nel ruolo di artista e curatore come per Museo Museion – Francesco Vezzoli a Bolzano nel 2016 o in Tv 70: Francesco Vezzoli guarda la Rai, mostra del 2017 alla Fondazione Prada di Milano. Anche in veste curatoriale, Vezzoli procede in una meticolosa tessitura che lo conduce ad abbandonare progressivamente l'auto-esposizione per lasciare spazio ad altri soggetti d'indagine, come avviene in Huysmans, de Degas à Grünewald sous le regard de Francesco Vezzoli al Musée D'Orsay di Parigi, dove concentra la propria attenzione sulla figura del critico francese, o nello stesso Love Stories. Sottraendosi fisicamente ma rimanendo in presenza, proprio come fa un brand di successo.

 

Love Stories, A sentimental survey, Francesco Vezzoli.


Tutta la ricerca di Vezzoli è “attorno a” qualcosa e in questo carattere meta-artistico si insinua quel tragico di cui si accennava: la distanza che si pone tra l'oggetto del desiderio e colui che desidera, tra l'amato e l'amante, tra l'opera d'arte e la riflessione sull'opera d'arte. The stuff that dreams are made of in fondo potrebbero non essere altro che immagini, immagini che alimentano il pozzo senza fondo del desiderio.

Love Stories oscilla in mezzo a due poli: da un lato il discorso amoroso, che mette in scena un'idea della coppia e che apre a riflessioni di natura culturale: i protagonisti delle immagini sono riconoscibili dagli utenti? Chi risponde e come ai quesiti dei sondaggi? Che parte del discorso rimane esclusa dall'indagine e che valore ha un sondaggio di Instagram? Cosa ci dicono del nostro presente le immagini che Vezzoli ci sottopone?), dall'altra tocca il tema della relazione abissale tra verità e immagine. Tra le pieghe del gioco a cui Vezzoli invita gli utenti s'insinua un'ombra, ed è un'ombra ingombrante. Barthes scrive “la sensazione di verità va curiosamente a situarsi nelle pieghe più recondite dell'illusione”. Dietro la leggerezza del gioco si apre e si ramifica un sottobosco di possibili significati, di domande e di istantanee apparizioni, che riverberano da un altrove lontano.

Barthes torna ancora a soccorrerci mentre parla del Werther di Goethe: “non è la verità a essere vera, è il rapporto con l'illusione che diventa vero.” Tutta la parabola di Vezzoli si incunea nel rapporto con l'illusione, ed è lo stesso artista che più volte dichiara di non avere l'intenzione programmatica di fare arte quanto di realizzare i propri sogni. Addirittura, di intrattenersi con i propri lavori, di “alleviarsi”.

 

Love Stories, A sentimental survey, Francesco Vezzoli.


Il doppio movimento che osserviamo quindi è un tentativo di uscire da una condizione umana e individuale avvertita come gravosa per accedere a uno stato di grazia, che è quella propria del sogno che si avvera, sfuggendo alla solitudine della dimensione onirica. Vezzoli però non aderisce al regime dello spettacolo ma si inscrive nel territorio dell'arte e i suoi lavori, se da un lato ambiscono a godere di quella la leggerezza propria dei prodotti di intrattenimento, dall'altra sono oggetti visivi carichi di problematicità. Cosa vediamo oltre le immagini che si susseguono giorno dopo giorno sul canale Instagram, dietro un campionario di coppie che scorre come una collezione di figurine sotto i nostri pollici educati ad accarezzare schermi ormai sensibili come superfici epidermiche? Il nostro volto di spettatori colti nella sospensione di incredulità, dimentichi della natura degli strumenti che utilizziamo, a tutti gli effetti percepiti come propaggini del corpo. Ecco che l'opera d'arte, attraverso la finzione stessa che decide di mettere in atto, disvela l'inganno, ci restituisce per un istante a noi stessi, risvegliati.

Love Stories si colloca su un piano dove la finzione e la (pretesa di) realtà collassano l'una sull'altra: il social media è per definizione uno strumento del reale amplificato, che agisce come un anabolizzante sulla quotidianità e insinua l'idea – falsa – che esista un potenziale pubblico in ascolto, privilegio che rimane in realtà appannaggio di celebrities seguite da milioni di follower. Per contro, vampirizza il tempo e l'attenzione dell'utente, immergendolo il flusso di contenuti pensati per intrattenerlo. Qui Vezzoli non ha più neanche bisogno di ricreare un finto reality-show, come nel caso di Comizi di non amore: il social media è poroso, accogliente, si presta per essere “colonizzato” dall'opera d'arte.

 

L'artista riesce temporaneamente a hackerarlo, sebbene poi l'opera corra il rischio concreto di essere assimilata nel flusso ininterrotto e omologante dei contenuti, triturati in un processo digestivo inesorabile. Le risposte degli utenti compongono il mosaico dell'opera e, al contempo, alimentano l'algoritmo, restituendo in parte una versione elaborata dalla macchina (nei dati crudi dei sondaggi), in parte dall'artista (nei momenti di riflessione domenicali). In questa forma ibrida si rileva l'efficacia del progetto voluto da Vezzoli, che è attento a costruire un lavoro compiutamente digitale, una forma nella quale si concretizza però anche il pericolo di neutralizzazione dell'opera stessa da parte delle piattaforme, che assimilano e annichiliscono ogni contenuto potenzialmente divergente dalle logiche dell'algoritmo.

Parafrasando il cartello finale di Comizi d'amore, di Love Stories si potrebbe dire “dove l’autore, deposta ogni idealistica ambizione, va raccogliendo materiale per un grande monumento alla vecchissima, innocentissima, caldissima Italia degli anni Duemilaventi.” Un monumento effimero in un paesaggio che di caldissimo ormai sembra conservare solo l'illusione del desiderio, anch'esso – come gli utenti, come la realtà tutta – minacciato dall'incombente presenza del proprio replicante digitale, un Golem modellato con i dati che ognuno di noi semina ogni istante in Rete.

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Lisetta Carmi: travestiti e camalli

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“O mi metti in copertina o non accetto”.  È il 1972 e la Gitana ride soddisfatta. Ci è riuscita, ha convinto la fotografa Lisetta Carmi a farsi mettere sulla copertina di un libro: a torso nudo, senza reggiseno, con il volto leggermente rovesciato e i capelli cotonati. Lo sfondo della foto? Nulla è davvero a fuoco. La luce è tutta sul suo corpo. Il libro si intitola “I travestiti”. La Carmi inizia a fotografarli nel 1965 durante una festa di Capodanno e per cinque anni non smette di frequentarli. Ne diviene amica e condivide con loro i problemi della vita quotidiana. Impara a conoscerli: Morena, quella che ha ispirato a Fabrizio De André la canzone Via del Campo, “un po’ mamma di tutte, lettrice di “Bolero Film”, e poi Novia, “una ragazzina giovane e bellissima che lavorava in coppia con la Gitana, che a vent’anni era stata l’amante di De Pisis e aveva in casa un suo piccolo quadro”. Non è stato facile diffondere questo libro. Le librerie lo tenevano nascosto. “La polizia mi avrebbe arrestato con molto piacere, sapevano che ero figlia di una famiglia borghese. Una volta un poliziotto è andato da un travestito e l’ha interrogato: “Cosa fa Lisetta Carmi con voi, viene a letto?”, “No, non viene a letto, ci fotografa”.

 

Luciano D’Alessandro, che nel 1969 aveva pubblicato Gli esclusi, dedicato ai malati mentali, la aiuta a selezionare le immagini e la presenta a Sergio Donnabella, che si impegna a pubblicare il libro a sue spese. Lo scandalo era soprattutto aver fotografato i travestiti con affetto e amicizia, ricorda il fotografo. C’erano tutti gli ingredienti per inquietare i benpensanti: volti androgini, biancheria intima esibita come un segno di conquista, occhi eccessivamente truccati e sguardi ammiccanti. Così come le loro case, un insieme di scenografie domestiche dentro cui esplodono corpi perturbanti.

 

© 1960/1970 Lisetta Carmi.

 

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Oggi, molte di queste immagini sono pubblicate nel volume “Genova 1960/1970” (Humboldt Books, 2019), insieme a quelle scattate al porto e dentro il cimitero di Staglieno. Accostarsi ai travestiti è accostarsi alla propria esperienza: “Io stessa in quel tempo ero assillata - forse a livello inconscio - da problemi di identificazione maschile e femminile… E i travestiti (o meglio il mio rapporto coi travestiti) mi hanno aiutato ad accettarmi per quello che sono: una persona che vive senza un ruolo”.  Allo stesso modo Lisetta Carmi ha fotografato la città, senza alcun pregiudizio e soprattutto a partire da sé.

Sta qui la differenza tra le sue foto e quelle del reportage degli anni Settanta: lo scarto compiuto dalla fotografa risiede nell’urgenza di dare corpo innanzitutto al suo travaglio interiore. L’impegno di testimoniare, illustrare e documentare fatti e persone è un impegno prima di tutto verso di sé. Si tratta della ricerca di un dentro attraverso il fuori, la scoperta progressiva e autentica che “il personale è politico”. Ma se la fotografia di quegli anni è una scelta di partecipazione politica e il fotoreporter è parte del movimento, le foto della Carmi si collocano sul crinale tra ricerca e impegno, dove la ricerca non riguarda solo le angolature impreviste, i tagli arditi, i giochi di linee che caratterizzano molte delle sue immagini, quanto, soprattutto, il desiderio di partire da sé e di non farne mistero. 

 

“Non ho mai cercato dei soggetti; (…) mi sono venuti incontro, perché nel momento in cui la mia anima vibra insieme con il soggetto, con la persona che io vedo, allora io scatto. Tutto qui.” Quello che conta per la Carmi è l’incontro fra lei e ciò che intende rappresentare, la sua prossimità con il mondo di coloro che non hanno né forza né voce. Lo spazio della ricerca è quindi quello di una relazione fra sé e il mondo. L’atto di fotografare non è mai passivo. Si tratta di un percorso lungo e incessante di cui la fotografia è solo uno dei sentieri seguiti per una certa fase della sua esistenza. La sua prima vita, come lei la definisce, è legata alla musica e ad una carriera da concertista di pianoforte; la seconda,  scelta a trentacinque anni, la vede dedicarsi alla fotografia; nella terza, a partire dal 1977, conosce Babaji Herakhan Baba, fonda un ashram a Cisternino e smette di scattare; nella quarta, grazie all’incontro con lo psicoterapeuta Paolo Ferrari, da bambino suo allievo di pianoforte, ritorna alla musica; infine una quinta, l’attuale, fatta di assenza, libertà e silenzio.

 

Per lei, che a causa delle leggi razziali ha dovuto interrompere gli studi, il bisogno di comprendere il mondo coincide con quello di capire i motivi di quella segregazione traumatica e assurda. Una ragione per cui dalle sue immagini è bandita ogni forma di chiusura e di divieto. Non può esistere opposizione tra ciò che si può vedere e ciò che resta nascosto. Nelle sue fotografie si genera quello che Didi-Huberman definisce un doppio movimento, un “battito dialettico che agita insieme il velo e il suo strappo”. I travestiti, come i portuali, sono i volti dello strappo. Le case, come le stive delle navi, si aprono e diventano i luoghi in cui si deposita la memoria e l’identità.

Giuliano Scabia, in un breve saggio pubblicato sulle pagine di questo libro, scrive che Lisetta Carmi è “in volo”. Forse il senso delle sue foto sta davvero in questa descrizione. Volare è un modo per entrare nei luoghi di cui non è possibile varcare la soglia. Le sue immagini scattate dall’alto suggeriscono che ci si può elevare al di sopra dei divieti e delle regole, anche se volare comporta un rischio.

 

© 1960/1970 Lisetta Carmi.


© 1960/1970 Lisetta Carmi.


Alcune delle immagini più belle del porto di Genova sembrano scattate da un punto sospeso nel vuoto. Il reportage del 1964 si intitola: “Genova Porto: monopoli e potere operaio”. Enrica Basevi, dirigente della società di cultura di Genova le aveva proposto di fotografare il porto, con l’obiettivo di informare e denunciare lo sfruttamento del lavoro operaio. Anche in questo caso la Carmi fa amicizia con i portuali. Si finge cugina di uno di loro, che la passa a prendere all’alba e riesce a farle varcare i cancelli al porto. Fotografa quelli che “non avevano scarpe e per lavorare si legavano dei giornali sui piedi, che non avevano tute e si mettevano addosso stracci scaricati dalle navi”, ma anche l’atmosfera dei traffici al porto. Dice bene Uliano Lucas, quando osserva che le sue foto fanno di Genova una sorta di Shanghai anni Trenta, un inno alla città marinara dei commerci.

L’operaio che scarica i fosfati mostra come è possibile rappresentare nello stesso fotogramma il lavoro dell’uomo e la bellezza. Non vi è alcuna forma di compiacimento né di concessione agiografica. Semplicemente, con il suo sguardo solidale, la Carmi riesce a fondere bellezza e fatica. Perché lavorare al porto è soprattutto fatica. La foto viene scattata dall’alto, l’uomo è appoggiato a una parete che lo sovrasta. La luce inonda il suo corpo, proprio come accadeva nella foto della Gitana.

 

A torso nudo, ricoperto di polvere bianca, sembra reggersi sulla grande pala che è anche simbolo del suo lavoro.  Nell’immagine del Molo dei vini lo sguardo quasi perpendicolare trasforma la fotografia in un insieme di forme astratte: la curva del molo, il tondo dei barili, i rettangoli del pavimento. Si direbbe che stia respirando l’arte concettuale nella galleria che il fratello pittore, Eugenio, aveva aperto in quegli anni a Boccadasse. Del resto lei stessa fotografa molti artisti, fra cui Lucio Fontana, César, Emilio Scanavino, Emanuele Luzzati. Ma ciò che sembra asserire è che le forme del porto non hanno minore dignità di quelle dell’arte. I travestiti ed i portuali esigono di stare al mondo. È quello che più colpisce anche a distanza di molti anni. La Carmi, insieme alla città, mette a nudo anche il suo sguardo.  “Io non sovrappongo un pensiero preconcetto alla realtà. (…) Bisogna cercare di vedere le cose per quello che sono. Se uno le vede per quello che sono, tutto ha un significato diverso. Molto più vero”, racconta in un’intervista. Anche questo è coraggio. Togliere tutto ciò che è superfluo, significa capire cosa si deve guardare. Cosa non vediamo quando guardiamo? Da chi siamo guardati quando crediamo di vedere? Levare gli orpelli e alleggerire lo sguardo è essenziale per rendere concreta la possibilità di stare sospesi e poi di volare.  

 

© 1960/1970 Lisetta Carmi.


© 1960/1970 Lisetta Carmi.


Uno sguardo nitido e leggero è quello che scruta le tombe monumentali del cimitero di Staglieno a Genova, una sorta di Spoon River dei ricchi, dove la buona società genovese ha perpetuato la memoria di sé e delle proprie imprese. Le statue dei monumenti funebri, imponenti e millantanti, reiterano verso l’eternità le gerarchie e le sudditanze dei rapporti sociali e familiari. Già nel titolo, “Erotismo e autoritarismo a Staglieno”, (1966), si insinua la sua carica corrosiva: “Detestavo ciò che molte sculture rappresentavano, per esempio lo stereotipo della donna timorosa e dipendente dagli uomini, ma ero colpita dalla capacità di chi, ancora in vita, aveva progettato la propria tomba”. È una visione singolare della realtà, che la rende somigliante e insieme diversa da come normalmente la si percepisce. Nelle sue fotografie non si vedono mogli e ragazze sottomesse, ma donne dalle forme procaci che incombono dall’alto. L’eros sembra aver sconfitto la morte insieme al conformismo, poiché niente è come appare. Le fotografie della Carmi si collocano in questo scarto della percezione, una forma di devianza che da problema sociale, come nel caso dei travestiti, diventa normalità. Lo sguardo della Carmi coincide con quello della Gitana. 

 

Una fotografia lo mostra in modo particolare: un angelo bellissimo e seminudo occupa gran parte del fotogramma. I suoi occhi sono chiusi, il petto coperto con le mani. La foto, scattata dal basso, conferisce maestosità al soggetto, immerso in una dimensione di pace interiore. Nulla esiste fuori dal suo sguardo, come se la Carmi volesse mostrare la volontà di guardare innanzitutto dentro di sé. Ma in basso, il volto di un uomo calvo con degli enormi baffi e un’espressione arcigna, ci riporta immediatamente alla realtà. La personificazione dell’autoritarismo sta dinnanzi ai nostri occhi a recitare tutta la sua potenza. Ma è l’eros ad essere più dirompente. L’angelo con le sue ali spiegate è enorme, bellissimo, etereo. Pronto a volare.

 

 

 

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Genova 1960/1970
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Glitch: la verità nell'errore

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Mauro Zanchi e Sara Benaglia: “Report a Problem” è il messaggio che compare in basso nella schermata di Google Street View, e permette di segnalare a Google gli eventuali problemi rilevati nella visualizzazione del luogo che si sta visitando virtualmente. Immaginiamo che si possa creare un sistema in grado di fotografare o rivelare immagini interiori, luoghi che vivono nell'immaginario. Tu hai viaggiato su Google Street View, fotografando sul monitor tutti i “paesaggi sbagliati” che hai incontrato, prima che altri utenti riportassero il problema; così hai indotto l’azienda ad aggiustare l’immagine sostituendo le foto errate. Come ti figuri i paesaggi interiori e una sorta di fantagoogle che sistema le immagini inconsce delle persone? Quale utilità potrebbe avere rendere visibili immagini inconsce?

 

Quando lo scorso gennaio mi avete chiesto di immaginare una fotografia capace di rivelare immagini interiori non avrei immaginato di rispondere partendo da un coronavirus. Ma mi piacerebbe partire proprio da qui, a dimostrazione di quanto sia rilevante comprendere il ruolo e la produzione delle immagini anche in un momento di profonda crisi come quella innescata dal COVID-19. Questo virus si è imposto, nostro malgrado, come un inaspettato inquilino dei nostri paesaggi interiori, tanto di quelli fisici quanto di quelli psicologici. E gran parte delle nostre energie si sono indirizzate verso la sua identificazione e comprensione. Dargli un nome, un codice, associarlo a delle statistiche che ne mappino il comportamento, significa costruire una precisa ontologia. Il virus diventa tale solo quando acquista una sua rappresentazione, tanto visiva quanto teorica. Ma come si riconosce un nemico invisibile? Fino a pochi anni fa per ritrattare un virus ci si sarebbe affidati a dei cartonisti, e questi, matita e libri alla mano, avrebbero dato forma a delle rappresentazioni più o meno suggestive del patogeno in questione. Oggi, invece, attraverso l’utilizzo di varie apparecchiature scientifiche, le rappresentazioni di un virus possono raggiungere un maggiore livello di oggettività. Queste rappresentazioni non sono semplicemente illustrative, ma sono indispensabili anche alla ricerca scientifica, dalla diagnostica alla terapeutica, e perfino rispetto allo sviluppo di un potenziale vaccino.

 

Alcune visualizzazioni del COVID-19 apparse nelle ultime settimane. Varie fonti.


Ma è anche importante capire che non esiste un’immagine ontologicamente fissa di qualcosa come il COVID-19. Del virus non si può dare una fotografia. Un microscopio ottico non può metterlo a fuoco, e non è tecnicamente possibile ricostruirne un’immagine univoca nemmeno usando un microscopio elettronico. Il microscopio elettronico raccoglie input, acquisisce dati, li modella matematicamente, e restituisce un’ipotesi. Questa può essere poi integrata con dati prodotti da altre tecnologie, come la micro-cristallografia a raggi-X, che utilizza altri modelli matematici per provare a risalire alla struttura atomica del virus. L’intero processo si basa sulla capacità computazionale di potenti calcolatori, ma anche sfruttando le tecniche più avanzate il risultato resta un rendering statistico. A queste immagini, frutto di laboriosi studi scientifici, si affiancano innumerevoli altre immagini, apparentemente molto simili, ma frutto di libere interpretazioni. Tutte queste rappresentazioni coabitano all’interno della nostra sfera mediatica, che a sua volta può essere immaginata come un’estensione della nostra psiche collettiva. Parallelamente all’avanzata del virus, le sue rappresentazioni viaggiano attraverso riviste scientifiche, sulla rete, sui nostri notiziari, invadendo anche lo spazio mediatico che non è fisicamente accessibile al virus stesso. La pervasività del virus, in questo senso, è totale. E la sfida al virus è una sfida all’invisibile e che stiamo combattendo anche attraverso l’estetica.  

 

Torniamo al sistema capace di fotografare paesaggi interiori che mi avete chiesto di immaginare. E se vi dicessi che non solo già esiste, ma è probabilmente già disponibile in tutte le maggiori città del pianeta? Innanzitutto, l’idea di utilizzare il medium fotografico per catturare immagini interiori ha accompagnato fin dall’inizio lo sviluppo della tecnologia fotografica. La storia dell’arte, tanto quanto la storia della scienza e della tecnologia, sono costellate di tecnologie e tecniche che, ad un certo punto, qualcuno ha rivolto verso di sé. Una delle prime tecniche che abbiamo imparato a padroneggiare, il linguaggio, ha ancora oggi una dimensione fortemente introspettiva, ad esempio nella poesia, nella narrativa, o nella psicologia. Idem per la pittura, che ha sempre offerto la possibilità di rappresentare il mondo esteriore e di dare forma a quello interiore. Ma la fotografia ha una particolarità che la rende ancora più adatta a questo tipo di lavoro: è sempre stata legata, (a torto o a ragione), all’idea di oggettività e obiettività. È notevole il fatto che tra le prime fotografie e tra i primi film sia ricorrente il tema della ricerca spiritica. Penso ad esempio agli studi sul paranormale raccolti nei primi anni ‘20 del Novecento dal barone Albert von Schrenck Notzing, nel suoMaterialisationsphaenomene, o al prototipo fantascientifico di Sam Graves, chiamato ‘electrical mind revealer,’ che proponeva di leggere e visualizzare il pensiero.

 

Emilio Vavarella, THE GOOGLE TRILOGY – 1.Report a Problem, 2012. 100 fotografie. Stampe a sublimazione su alluminio. Dimensioni variabili. Installazione. X:216cm; Y:1224cm (in tutto). Veduta dell’installazione presso MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna.


Ossessioni antichissime. Il desiderio di poter fissare oggettivamente, su carta fotografica, una dimensione effimera ed ectoplasmatica, può essere sintomo di una cultura, come quella Europea della prima metà del Novecento, affascinata dalla tecnologia moderna ma ancora fortemente superstiziosa. Sarebbe però sbagliato pensare che le cose siano cambiate drasticamente negli ultimi cento anni. L’idea di poter fotografare quel che è inconscio o invisibile è, infatti, alla base di tutte le tecnologie di visualizzazione medica, dalla gastroscopia ai più recenti esperimenti con i neural networks per ricostruire le immagini prodotte dalla corteccia visiva del cervello. Tra le più avanzate tecnologie di visualizzazione medica, la risonanza magnetica funzionale (fMRI) è sicuramente quella più diffusa e accettata. Ecco appunto che, come ti anticipavo, è già possibile, in tutti i più grandi ospedali, fotografare i nostri ‘paesaggi interiori.’ Una fMRI ci permette di valutare la nostra attività neuronale e di ‘fotografarla’ in tempo reale, riuscendo a dare forma e colore ad attività mentali impossibili da visualizzare ad occhio nudo. La sua utilità è comprovata, ma più delicata è la questione legata alla supposta oggettività delle immagini che produce. Queste vengono periodicamente descritte dalla stampa generalista e a livello colloquiale come ‘immagini oggettive,’ o ‘mappe mentali,’ o addirittura ‘istantanee del pensiero’. Invece, a prescindere dalla loro efficacia, esse non sono nulla di tutto questo. Come mostrano gli studi in etnografia della scienza di Anne Beaulieu, le immagini di una risonanza magnetica sono il risultato di complesse tecniche di imaging digitale e di elaborazione grafica secondo modelli statistici, dunque sono ben lontane dalla fotografia di una realtà data e oggettiva. In altre parole, a prescindere dalla complessità di una rappresentazione visiva, è bene ricordare che ogni forma di rappresentazione resta comunque una messa in forma più o meno arbitraria, una traduzione in termini visivi che nasconde sempre una mediazione, delle scelte umane, dei processi tecnici, e delle intenzionalità più o meno soggettive, ma mai neutrali.

 

Tu indaghi le questioni inerenti ai glitch, all’errore come elemento rilevatore, ai meccanismi estremamente complessi. Secondo la tua visione ed esperienza diretta, che cosa rende visibile o rivela l'errore? E in prospettiva metafotografica come si potrebbe applicare costruttivamente la conseguenza dell'errore per creare nuove forme estetiche?

 

Emilio Vavarella, THE GOOGLE TRILOGY – 1.Report a Problem (Foto n.86/100), 2012. Stampa a sublimazione su alluminio.


Mi affascina molto la possibilità di recuperare ciò che viene considerato un ‘errore,’ perché dietro questo termine si nasconde sempre qualcos’altro. Dal punto di vista tecno-scientifico l’errore è fondamentale, ma unicamente in una prospettiva di ottimizzazione di un qualche sistema. Secondo gli scritti del padre della cibernetica, Norbert Wiener, l’errore tecnologico deve essere isolato e ridotto a feedback. La ‘sterilizzazione dell’errore’ è una sorta di mito fondante del progresso tecno-scientifico ed è uno dei capisaldi del discorso cibernetico. Io credo che quando ci si trova di fronte ad un meccanismo estremamente complesso, uno dei modi per renderci conto del suo funzionamento è proprio quello di aspettare che un errore renda visibile qualcosa che era rimasto nascosto. L’ho sperimentato in DIGITAL PAREIDOLIA: A Personal Index of Facebook’s Erroneous Portraits (2012-2013) in relazione ad una delle prime tecnologie di riconoscimento facciale online, ed in THE GOOGLE TRILOGY (2012) ho esplorato questa idea in relazione al funzionamento delle mappe digitali di Google. Nel primo caso ho caricato sul mio profilo Facebook tutte le foto di cui ero in possesso ed ho scandagliato tutti i suggerimenti di riconoscimento facciale alla ricerca di quelli sbagliati. Ho costruito così un archivio di ritratti che funzionava anche come una sorta di indice degli errori del riconoscimento facciale usato da Facebook. In THE GOOGLE TRILOGY – 1. Report a Problem l’errore inaspettato è quello dei paesaggi ‘glitchati’ di Google Street View, i quali fungono da punto di rottura in un sistema che altrimenti scorrerebbe in maniera fluida, regolare, predefinita. Nell’ultima parte della trilogia, intitolata 3. The Driver and the Cameras, sono andato invece alla ricerca di ritratti degli autisti della Google Car sfuggiti alla censura degli algoritmi di Google. Qui l’errore smaschera una presenza umana nascosta dietro l’apparente autosufficienza del sistema informatico. In THE SICILIAN FAMILY (2012) il glitch nasce forzando le mie memorie personali all’interno del codice ASCII di vecchie foto di famiglia. Similmente, in MEMORYSCAPES (2012-2013) ho trovato il modo di integrare dati satellitari e memorie di Venezia raccolte a New York. Anche qui l’incastro forzato tra memorie inaccurate e dati apparentemente oggettivi risulta in una serie di imprevedibili incongruenze visive. Ogni qualvolta un sistema si arresta o viene alterato da qualcosa di erroneo ed inaspettato emerge immancabilmente una nuova forma estetica ed un nuovo orizzonte di senso.

 

Il tuo lavoro si colloca su vari confini, tra ricerca contemporanea e modalità che giungono dalla tradizione, tra costruzione di senso soggettiva e modalità d’azione più impersonali, come per esempio gli algoritmi. Cosa significa per te oltrepassare i confini e le soglie attraverso il medium fotografico?

 

Significa produrre un campo d’azione autonomo per la mia ricerca artistica. Considero ogni mia opera ciò che resta del processo artistico che si dispiega all’interno di questo spazio d’azione. Idealmente ogni opera è simultaneamente sia il risultato che il processo conoscitivo che la precede, che lascia tracce, segni, e che genera punti di partenza, punti di arrivo e punti di rottura, per altri inizi. Si tratta di un’organizzazione concettuale e materiale di tipo non gerarchico, all’interno della quale progetti più o meno completi tornano ad esser messi in discussione, in cui le idee stesse sono lasciate libere di vagare e di creare nuove connessioni e nuove opportunità di senso. L’importante è che in ogni mia opera gli strumenti usati siano quelli maggiormente in grado di dare forma, nel modo più preciso possibile, alla mia ricerca. La fotografia risponde spesso a questo bisogno, ed è per questo tra i medium che uso più spesso. 

 

Immaginiamo che l'essere umano sia molteplice, plurale, e che vi siano identità multiple. Seguendo l'intuizione di Deleuze (da individui stiamo diventando dividui), come leggi con la tua ricerca questi aspetti?   

Emilio Vavarella, The Digital Skin Series (Foto n.3/18), 2016. Stampa a sublimazione su alluminio.


Il passaggio ‘da individui a dividui’ descritto da Deleuze è molto suggestivo e certamente brillante. Non va però letto, secondo me, come il punto di demarcazione di una sorta di tecnologizzazione che ci ha radicalmente modificato in senso antropologico. Non è un passaggio, in altre parole, dall’essere umano tradizionale all’essere umano 2.0, come alcuni vorrebbero. E’ una questione di management e di flussi di informazione e degli apparati a questo connessi. Ma anche se cambiano gli apparati e le tecnologie, ‘essere umani’ significa sempre essere tecnologici. Non sono mai esistite né culture, né forme di vita umana, di tipo pre-tecnologico. Allo stesso tempo, ho l’impressione che il termine ‘umano’, specie quando espresso al singolare, si stia imponendo sempre più come ‘nome’ che non come ‘aggettivo.’ Nel senso che è come se demarcasse qualcosa di dato una volta per tutte. Ma ad ogni definizione di ‘essere umano’ si accompagna sempre immancabilmente una pletora di sotto-categorie, come è successo con ogni forma di schiavitù. Queste sotto-categorie di quasi-umani servono proprio ad ingoiare, ancora vivi, coloro che non si riconoscono o non vengono riconosciuti nella definizione proposta. La difficoltà della questione, specie nella sua accezione più propriamente ontologica, è evidente, e nella mia opera THE DIGITAL SKIN SERIES mi pongo proprio queste domande evitando di fornire una risposta univoca. Preferisco pensare, forse utopicamente, all’umano nel senso di un processo, un evento, un fenomeno, qualcosa che non può essere mai inquadrata una volta per tutte, come un’attività performativa in costante svolgimento. 

 

Emilio Vavarella, The Sicilian Family (Foto n.26/44), 2012-2013. Stampa per sublimazione su alluminio.


Sarà possibile fotografare qualcosa che non è ancora avvenuto, prima che accada? L'oltrefotografia sarà un'arte della preveggenza?

 

Se parliamo di fotografia nel senso analogico e più tradizionale del termine questo è ovviamente impossibile. Solo ciò che si trova fisicamente davanti all’obbiettivo, e solo se questo qualcosa manifesta un certo livello di opacità, può essere registrato fotograficamente. Se invece parliamo di fotografia in senso espanso, e andiamo ad includere tecnologie di imaging digitale, la risposta cambia. In questo caso posso dirti che un’arte della preveggenza esiste già, e che mobilita ogni anno, in tutto il pianeta, miliardi di dollari. Come nel già citato caso della risonanza magnetica funzionale, è possibile produrre immagini su base statistica, e a prescindere da qualsiasi contatto diretto con il mondo fisico circostante. Non si tratta di fotografie, ovviamente, ma di immagini foto-realistiche prodotte sulla base di calcoli di incidenza statistica legati ai data-set più svariati. Delle fotografie in cui data e metadata, ovvero rappresentazione e informazioni sulla rappresentazione, coincidono. Dal punto di vista tecnico ogni immagine è un flusso di dati e metadata: segni microscopici che corrispondono alla più basica forma di rappresentazione. Dal punto di vista estetico non siamo più automaticamente in grado di distinguere la differenza tra una fotografia, traslazione di una realtà fisica, ed un rendering foto-realistico, traslazione di un flusso di dati.

 

Emilio Vavarella, RE: Animation, 2017. Installazione composta da vari elementi. HD video, portfolio fotografico, libro, documenti, suono. Veduta dell’installazione presso Harvard Art Museums.


Ma quali sono le caratteristiche comuni delle immagini prodotte attraverso diversi processi di elaborazione dati?

 

Sono immagini instabili, variabili, virtuali, si muovono in molti modi, a volte in stormi, sono scomponibili, spesso anonime e a volte anche invisibili. Tra quelle visibili pensa ai tanti tipi di rendering che dal cinema ai cartelloni pubblicitari ai social media fino ai lavori scientifici, ci accompagnano. In ambito finanziario queste immagini fungono da cosiddette ‘self-fulfilling prophecies’ (profezie auto-avveranti). Celebre è l’esempio dei rendering di Songdo, la famosa smart-city in Corea del Sud in cui il confine tra marketing e architettura è stato completamente annientato. In molti hanno investito sul patrimonio immobiliare di quella che era una cartolina digitale. Ma senza andare così lontano pensiamo alla funzione, economica e politica, dei primi rendering che sono circolati insieme al progetto MO.S.E. (Modulo Sperimentale Elettromeccanico) di Venezia. Si mostrava come sarebbe apparso il territorio veneziano da lì a pochi anni, a causa dell’innalzamento delle acque. Ma il carattere di self-fulfilling prophecy è legato al fatto che queste immagini fossero a corredo del progetto per un sistema atto a prevenire quei cambiamenti. I rendering includevano già anche l’immagine foto-realistica di una tecnologia che non esisteva, ma che, anche in virtù della potenza di quelle immagini, da lì a poco sarebbe stata finanziata e in parte costruita. Una sorta di preveggenza fondata sulla capacità di accentrare risorse finanziare. La profezia, in quel caso, è proprio questa: mostrare quello che ancora non esiste in modo da finanziarne la costruzione.

 

Emilio Vavarella, THE GOOGLE TRILOGY – 3.The Driver and the Cameras, 2012. Stampa a sublimazione su alluminio. 11 elementi. Diametro di ciascuna foto: 20cm. Veduta dell’installazione presso The Photographers’ Gallery, Londra.


In quali altri modi la fotografia può essere in grado di ‘vedere il futuro’?

 

Ad esempio riuscendo a farci viaggiare nello spazio, come nel caso dello studio degli esoplaneti. Gli esoplaneti sono corpi celesti che si trovano a distanze tali che è otticamente impossibile catturare la loro immagine. Fotografarli con i mezzi di cui disponiamo sarebbe possibile solo se riuscissimo a spingerci oltre il Sistema Solare, cosa attualmente oltre la nostra portata. Eppure, come una veloce ricerca su Google dimostra, esiste un enorme archivio fotografico di esoplaneti. Per poter studiare questi corpi celesti gli esoplanetologi utilizzano un vasto campionario di tecniche di deduzione che permettono di ricostruire l’aspetto e le caratteristiche di questi pianeti senza averli fisicamente né visti né raggiunti. Un’arte della preveggenza che, come ha spiegato Lisa Messeri in un bello studio sul lavoro di gruppi di scienziati di un osservatorio Cileno, del MIT e della NASA, consiste nella produzione di modelli statistici che danno forma ai dati raccolti. Attraverso una lunga catena di tecniche di rappresentazione, il risultato è una descrizione scientifica del pianeta accompagnata da una serie di ipotesi e, spesso, da una immagine foto realistica in alta risoluzione. Queste immagini si basano su un concetto di visione statistica, e non ottica, in cui ad essere visti non sono delle ‘cose’ ma dei ‘campi di possibilità.’ La nostra capacità di vedere non è più solo una facoltà biologica, è ormai divenuta il passaggio finale di un calcolo probabilistico. Tornando alla tua domanda, attraverso questo processo di imaging siamo in grado di annullare i limiti dello spazio che ci separano da questi corpi celesti. In poche parole, prima ancora di riuscire a vederli ad occhio nudo, abbiamo già prodotto migliaia di immagini di pianeti che forse vedremo tra centinaia di anni, o forse mai. 

 

La fisica quantistica mette in discussione la progressione lineare e cronologica che dal passato va verso il futuro. In realtà la questione è più complessa. Come è applicabile la teoria del tempo inteso come un fazzoletto aggrovigliato, descritta dal filosofo francese Michel Serres, nel campo della ricerca metafotografica?

 

Emilio Vavarella, MEMORYSCAPES, 2013-2016. Installazione multimediale composta dai seguenti elementi: mappa olografica di Venezia, X:60 Y:120cm; installazione sonora immersiva a sette canali, ventiquattro studi su carta fotografica con modulo espositivo a muro, X:45 Y:60cm ciascuno, un libro d'artista. Misure variabili. Veduta dell’installazione presso Fondazione Fabbri.


Anche questa è una questione che mi ha fatto riflettere molto. Michel Serres si è soffermato più volte sui limiti di un’idea di svolgimento temporale in cui noi soggetti procediamo linearmente verso il futuro. Serres aveva notato, invece, quanto delle temporalità apparentemente distanti tra loro siano in realtà vicine, e quanto elementi distanti nel tempo possano influenzarsi a vicenda. La sua idea è molto simile al modello di co-determinazione spazio-concettuale espresso dalla fisica e filosofa Karen Barad. Serres usa un’immagine molto evocativa e fa l’esempio dell’astrofisica classica, in cui si scandaglia il cielo aspettando che dal futuro, ovvero da un presente ancora non vissuto, ci giungano informazioni su mondi già morti, che appartengono ad un passato altrui che per noi è ancora futuro. Se questo spazio aggrovigliato avesse un suo corrispettivo fotografico sarebbe una sorta di fotografia quantistica, capace di oltrepassare l’idea del catturare una realtà data (come nella fotografia analogica) o di produrre una realtà sintetica (come nella fotografia elettronica). Questo nuovo tipo di fotografia dovrebbe riuscire a catturare, o copiare, in qualche modo, un frammento dell’indeterminatezza spazio-temporale che precede la nostra percezione delle cose.

 

Quali sono le strutture che una macchina fotografica riproduce anche quando è gestita da un animale?  

 

Emilio Vavarella, Animal Cinema, 2017. Video in HD, 00:12:12, formato 16:9, colori, suono. Stillframe da film.


Strutture in movimento, di tensione, punti di incontro e di scontro, forme di vicinanza, di assenza, e di presenza dell’impensato. Nel mio film ‘Animal Cinema’ (2017), interamente girato da animali in completa autonomia, movimenti di corpi, chele, tentacoli, zanne, artigli e zampe si sostituiscono a qualsiasi premeditazione registica. Il risultato è un vortice di forme di consapevolezza e modi di essere in continuo dispiegarsi: una concatenazione di azioni e passioni che apre uno spiraglio sul complicato assemblaggio di uomini, animali e tecnologie di cui noi tutti siamo parte. 

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Sean Shanahan: l'infinito nel cavo della mano

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Cosa si può dire di un colore? Nonostante l'apparente semplicità, un colore non è una cosa semplice. Si può nominarlo il più accuratamente possibile, magari indicando il suo numero di Pantone. Si possono elencare le cose che quel colore ricorda, le associazioni mentali che evoca, e man mano esplorare la nebulosa di significati e immagini che nella nostra memoria è in qualche modo legata a quel colore. Si può addirittura scriverne una storia, come ha fatto Michel Pastoureau; o farne delle teorie generali, come la versione ufficiale della scienza, che si basa sulla teoria della luce di Newton; o la teoria di Goethe, radicata nella percezione umana; o le teorie esoteriche, come quella di Rudolf Steiner; o ancora come le teorie dei fisiologi, degli psicologi e dei semiotici, quelle dei filosofi e quelle dei pittori. Tutto questo rimane ovviamente nel campo del concetto e non potrà mai sostituire l'esperienza diretta. Parole, metafore e sinestesie sono tutto ciò che il linguaggio può offrire a chi non vede quel colore. E l'essenziale rimane lost in translation.

 


Per questo è sempre spiazzante parlare del lavoro di Sean Shanahan, in questi giorni in mostra al MAC di Lissone con una personale intitolata Singular Episodic (visitabile fino al 27 settembre, previa prenotazione; nello stesso periodo il museo ospita altre due mostre: una di Alexis Harding, Skin Deep; l'altra di Maurizio Donzelli, Thresholds). 

A prima vista un dipinto di questo pittore irlandese trapiantato da molti anni in Italia è soltanto un colore, una particolare tonalità, col suo grado di saturazione e luminosità, stesa su una spessa lastra di mdf. Duchamp diceva che perfino un dipinto è una specie di readymade perché può essere ridotto a una serie di scelte: tubetti di colore assemblati su superfici. A maggior ragione potrebbe dunque esserlo un monocromo del tutto uniforme come quelli di Shanahan. Ma, com'è noto, Duchamp amava i paradossi e tendeva sempre a mettere la materia grigia davanti alla retina. Questi monocromi non sono ready-made, non solo perché Shanahan ama «costruire» i colori mescolando, prendendone possesso poco a poco, ma perché tutto il suo lavoro è in un certo senso ostile al paradigma contemporaneo e si presenta come un voluto anacronismo, quasi da dandy, indifferente all'imperante proliferazione di immagini già pronte, remixate e postprodotte. La stessa scelta del monocromo, in quanto figura impermeabile al linguaggio, sembra porsi in dichiarata antitesi alla parallela proliferazione di packaging discorsivo, critico, ermeneutico, favorita dal concettualismo post-duchampiano. 

Già nel 1964 Susan Sontag (in Contro l'interpretazione) scriveva che l'esperienza sensoriale è importante in quanto «la nostra è una cultura basata sull'eccesso, sulla sovrapproduzione» che congiura ad «ottundere le nostre facoltà sensorie». E concludeva: «Anziché di un'ermeneutica, abbiamo bisogno di una erotica dell'arte». 

Eppure, anche se punta a privilegiare l'erotica, credo che il lavoro di Sean Shanahan dimostri soprattutto che erotica ed ermeneutica hanno bisogno l'una dell'altra e si vivificano a vicenda. Perché, se quei pannelli non sono solo colori, allora in essi Eros e Hermes, corpo e mente, non possono che essere una cosa sola.

 

Il monocromoè uno degli esiti più radicali nella ricerca dell'essenzialità in pittura. È un'antica pulsione filosofica quella di cercare l'essenza, il cuore segreto del mondo, quel nucleo di purezza che, come la quintessenza degli alchimisti, rimane dopo aver distillato tutto ciò che è accidentale. Una pulsione analoga si può rintracciare anche nella più astratta e razionale delle discipline come la matematica; o nella strategia conoscitiva della scienza che costruisce modelli semplici per capire problemi più ampi e complessi.

Questa pulsione è presente in vari modi anche nell'arte. Ad essa si può collegare l'idea neoplatonica che il bello è semplice, sommamente semplice e indiviso, come l'Uno a cui tutto aspira. «La bellezza di un colore semplice», scrive Plotino, «gli deriva da una forma che domina l'oscurità della materia e dalla presenza di una luce incorporea che è ragione e idea» (citato da Remo Bodei nel suo Le forme del bello). Il retaggio filosofico platonico e neoplatonico, ma anche gnostico ed esoterico, affiora in molti artisti che, un secolo fa, crearono l'arte astratta. Ne è testimonianza un bell'aforisma di Brancusi: «La semplicità non è un fine dell’arte ma si arriva alla semplicità malgrado se stessi avvicinandosi al senso reale delle cose».

La ricerca dell'essenza e della purezza nell'arte del Novecento è legata anche all'idea di una palingenesi dell'arte, quell'utopia di un “grado zero” della pittura che Malevič pensava di aver trovato col suo Quadrato nero. Qui all'essenza come struttura fondamentale si sovrappone l'essenza come origine e l'originalità come novità-singolarità, nella quale confluiscono l'idea romantica del genio e del mito dell'autocreazione assoluta così presenti nelle avanguardie storiche.

Il monocromo, come la griglia, è un'idea riscoperta più volte nell'arte del Novecento, con intenzioni, contesti e significati molto diversi. E, come la griglia, si è sempre portata dietro una sensazione di rinascita «in uno spazio appena svuotato, lo spazio della purezza e della libertà estetica»; una sensazione originata, paradossalmente, proprio dall'ascetica limitatezza, come «una prigione in cui l'artista rinchiuso si sente libero» (Rosalind Krauss, L'ideologia dell'originalità).

In fondo però è l'idea stessa di monocromo, sempre sospesa tra concettualismo e fisicità, a essere paradossale, come si potrebbe verificare seguendo le sue molte incarnazioni, più o meno letterali, nel corso del Novecento. E qualcosa di sottilmente paradossale è sempre presente nell'opera di Shanahan. Lo suggerisce anche il titolo della mostra: ogni monocromo è Singular, avviene una sola volta, anche se la sua apparente semplicità potrebbe far pensare il contrario; e allo stesso tempo è Episodic, fa parte di una storia più grande fatta di eventi multipli, anche se non sembra esserci alcuna storia.

 

Nelle opere della sua produzione matura ci sono solo tre ingredienti: un colore unico, steso in modo perfettamente uniforme e piatto; una forma geometrica semplice; una “non-cornice” tridimensionale. Ad essi in realtà va aggiunto un quarto ingrediente, apparentemente esteriore, su cui torneremo più avanti.

Il primo ingredienteè un colore denso e compatto, applicato in modo perfettamente uniforme con una spatola tergivetro su uno spesso supporto di mdf. La scelta dei colori privilegia spesso tonalità chiare e felici, mantenendo però sempre la loro concretezza materica, sottolineata dalla modalità di stesura e dal tipo di supporto. 

Del colore Shanahan dice che è «un rompiscatole» capace di «sconfiggere lo squallore di una baraccopoli sudamericana»; e che il suo fascino sta nel suo essere «un significante indeterminato», nella sua «natura mutevole, instabile». Eppure al monocromo dice di esserci arrivato partendo proprio da un «amore per la stasi»: quella della natura morta e della sua tradizione, che rappresenta ciò che si avvicina di più al suo ideale di pittura. Qui è doveroso notare che in inglese «still life» ha un ambito semantico opposto a quello della corrispondente espressione italiana: è la vita che si dipinge, arrestando il suo altrimenti inarrestabile fluire, congelandolo magicamente in un istante eterno. La natura perciò non è morta, ma colta in quell'«istante del mondo» che Cézanne voleva dipingere, come scrive Merleau-Ponty (in Senso e non senso): «il paesaggio senza vento, l'acqua del lago di Annecy senza movimento, gli oggetti gelati, esitanti come all'origine della terra». 

Per Shanahan il monocromo è dunque generatore di ossimori: allo stesso tempo statico e instabile, totalizzante e anti-gerarchico, esplicito e destabilizzante. Ma il gusto del paradosso e dell'aforisma spiazzante fa parte dello stile stesso dell'artista, la cui conversazione densissima e arguta, colta e affabile sembra il rovescio invisibile dei suoi dipinti così reticenti. Quando gli si chiede della scelta del colore e del rapporto tra colore e forma, Sean esclude il “gusto” con una delle sue frasi surreali e acute: «Se un uomo sta cadendo da una rupe, non mi metto a commentare il colore della sua cravatta». 

 

 

Il secondo ingredienteè la forma geometrica: un rettangolo o un quadrato, spesso con sottili distorsioni trapezoidali. Forme e dimensioni, per Sean, sono molto importanti, ma il loro rapporto col colore è indefinibile, come il colore stesso: «cerco solo di avvicinarmi alla mia iniziale sensazione di instabilità, di flusso, di pertinenza e vicinanza a una verità».

Nonostante l'enfasi che Shanahan pone sulla mutevolezza e l'instabilità del colore, non posso fare a meno di pensare che, messi assieme, questi due primi ingredienti creino ancora una volta un paradosso: una perfezione cartesiana riempita di qualcosa che sfugge alla ragione cartesiana. Una pittura “concettuale” che esibisce il limite del concettuale. 

Merleau-Ponty (in L'occhio e lo spirito) osservava che Cartesio nella Diottrica parla dei quadri solo in termini di disegno, mentre se avesse preso in esame il colore «si sarebbe trovato dinanzi al problema di una a-concettuale universalità e apertura alle cose, sarebbe stato costretto a chiedersi come l'indeciso mormorio dei colori possa mostrarci cose, foreste, tempeste, insomma il mondo».

Nel monocromo geometrico non c'è l'indeciso mormorio dei colori capace di far vivere le mele sulle tele di Cézanne o scatenare le tempeste su quelle di Turner. C'è invece una struttura ideale per essere compresa dalla mente cartesiana: una superficie perfettamente delineata, chiara e distinta; la quale tuttavia esibisce qualcosa che sfugge alla res cogitans e che solo il corpo può afferrare. Il colore può essere solo visto; perché «la visione nonè un certa modalità del pensiero», come dice Merlau-Ponty: «è il mezzo che mi è dato per essere assente da me stesso, per assistere dall'interno alla fissione dell'Essere».

Il terzo ingrediente sono i lati della lastra di mdf da 3-4 centimetri, che possono essere tagliati perpendicolarmente rispetto alla parete oppure “fuori squadra”, nel qual caso gli spigoli bisellati costringono il supporto ad uscire dalla sua neutralità e a interagire col colore in vari modi, più o meno evidenti. Ed è in questa sottile interazione – e i relativi effetti di luce, ombra e corporeità – che si manifesta il tratto forse più personale della poetica di Shanahan.

 

Gli spessori sagomati hanno uno status ambiguo: non sono pittura, perché il supporto è lasciato al naturale; non sono semplice supporto perché l'artista li lavora rendendoli attivamente visibili, come delle cornici scolpite; ma non sono neanche scultura, dato che Shanahan insiste nel dichiararsi un pittore puro, del tutto disinteressato a un'interpretazione sculturea delle sue opere. Le superfici pittoriche sono sempre su piani frontali perfettamente a piombo, ben distinte dai lati sagomati non dipinti. Il supporto rimane estraneo alla bidimensionalità del colore, e in questo senso è una non-cornice – o forse un non-piedistallo – che modula in qualche modo il colore mettendolo in una relazione dinamica con la parete e l'ambiente. 

Queste modulazioni, queste sottili variazioni sull'“intorno” del colore fanno sì che la compattezza impenetrabile del monocromo venga intaccata. Ai suoi confini, là dove dovrebbe sancire perentoriamente la sua identità staccandosi dal fondo generico dell'ambiente reale, succede qualcosa che attira l'attenzione: appare l'ambigua fenomenologia della soglia.

Nell'arte classica l'opera non può avere una vera soglia: la cornice o il piedistallo sono dispositivi che impediscono il passaggio dalla rappresentazione artistica alla realtà e ne sanciscono lo status extra-ordinario. Nell'arte moderna quei dispostivi cominciano ad essere contagiati dall'interno e nel corso del Novecento, spesso l'arte deborda dalla cornice, elimina i rigidi confini dell'oggetto-opera ed entra nel mondo. 

 

Gli spessori di Shanahan sono dunque soglie, ma anomale: sono aperte e non fanno barriera, diversamente dalle cornici; eppure sono anche una specie di limbo sospeso tra lo spazio interno dell'opera e lo spazio esterno. L'artista racconta di aver iniziato a modellare i bordi rastremandoli verso la parete, in modo da rendere invisibile il supporto e far “galleggiare” il monocromo (l'effetto a cui Yves Klein mirava arrotondando gli spigoli e sospendendo i suoi monochromes a distanza dalle pareti). In seguito si è reso conto che non era interessato a quell'effetto e ha cominciato a inclinare diversamente i bordi e a renderli visibili, ma senza colorarli. Il colore naturale della pasta di legno grezzo va quindi guardato come un non-colore, uno spazio neutro acromatico, che tuttavia non può non interagire con la superficie colorata. La sua presenza o assenza introduce quasi subliminalmente un “senso”, nel duplice significato della parola: un indizio di direzione (un movimento) e un barlume di segno/significato (una differenza). 

 

Entrambi sono ben presenti nella suggestiva metafora che Shanahan usa per descrivere il lato in cui il colore non incontra il bordo del supporto: «l'orlo di una cascata». I bordi visibili, quelli rastremati verso la superficie pittorica, sono argini che contengono il colore e lo fanno fluire verso il lato libero, come un fiume che arriva sul bordo rettilineo e precipita nel baratro sparendo alla vista. Pur mantenendo la bidimensionalità della pittura, quella profondità reale del monocromo, volume concreto che fa parte dell'ambiente, sembra accentuare la compatta matericità del colore, donandogli la pesantezza di una massa fluida, come suggerisce la metafora di Shanahan; oppure quella di un minerale, con i lati sfaccettati come gemme opache che non riflettono la luce ma la chiudono dentro la massa del colore, trasformando il monocromo in un monolito. È questa concretezza del colore, materico e introflesso, ciò che aveva affascinato Giuseppe Panza, grande collezionista dell'opera di Shanahan.

Gli effetti di soglia e tensione si modificano e complicano quando i bordi sono lavorati con bisellature sghembe oppure quando due monoliti dello stesso colore vengono accostati. Nel primo caso la sagomatura graduale fa apparire il lato del supporto come un triangolo acuminato che conferisce un senso di torsione al monocromo. Nel secondo caso, i bordi aumentano la loro ambiguità trasformandosi in incisioni sulla superficie pittorica complessiva ed evidenziano così la potenziale modularità del lavoro di Shanahan.

 

Questa ambiguità si manifesta in tutta la sua fecondità in uno degli allestimenti ideati per la mostra a Lissone: otto monocromi bisellati sono accostati a formare una grande parete policroma, nella quale ognuno mantiene la sua singolarità, i rapporti cromatici sono casuali, ma nel complesso diventano un Us, un Noi, come l'artista ha suggerito di chiamare questa disposizione a polittico. (L'ambiguità e la dialettica tra singolarità ed episodicità è ulteriormente accentuata dal fatto che ognuno degli otto monocromi ripete la bisellatura al suo interno, mostrandosi come due monocromi gemelli ma diversi).

 

 

Siamo così arrivati al quarto ingrediente, il meno appariscente perché esce dai confini dell'artefatto che siamo soliti identificare tout court con l'opera: è il rapporto tra il colore-monolito e il luogo che esso abita. Per Shanahan questo rapporto è una forma di dialogo: «Sono sempre curioso di vedere come il mio lavoro diventi qualcosa di più o di diverso rispetto ai miei personali interessi». La metafora del dialogo è in sintonia con la ben nota forma di cooperazione tra artista e spettatore espressa da Duchamp (nel suo The Creative Act, del 1957): «l'artista non è solo a compiere l'atto di creazione, perché lo spettatore stabilisce il contatto dell'opera col mondo esterno decifrando e interpretando le sue qualificazioni profonde e così facendo aggiunge il suo contributo al processo creativo».

Ovviamente per un autore come Shanahan, classicamente orientato alla poiesis dell'oggetto artistico, quando escono dallo studio i dipinti sono opere finite e autosufficienti. Credo tuttavia che i suoi monocromi abbiano una natura potenzialmente dialogica e acquistino il loro senso più compiuto quando prendono dimora in un luogo, oltre che quando uno spettatore partecipa al dialogo con l'artista. È così che i colori-monolito, con le loro sottili variazioni sulle soglie, finiscono per emanare l'aura del genius loci

 

Nella mostra di Lissone Shanahan ha realizzato anche due interventi in situ di wall painting, medium che ha già praticato in passato, ma che qui si manifesta con due modalità antitetiche e inedite. Il primo, all'ingresso dello spazio, cita il modulo base dei suoi tipici lavori su parete, ma è talmente discreto da passare inosservato: due spicchi di blu che intaccano lo spigolo convesso tra due pareti. Il secondo è anomalo e talmente invadente da occupare per intero la grande parete curva della sala, colonna compresa: uno spazio di pura energia che dimostra tutta l'instabilità del colore oscillando dal fucsia al «rosso pompeiano» dichiarato dall'artista. Immersi e sospesi in questo ambiente quasi amniotico ci sono tre pannelli aggettanti e bifacciali: due molto piccoli e uno molto grande, inevitabilmente influenzati eppure indifferenti – come per l'uomo che precipita dalla rupe – al colore dell'ambiente. Monadi che suonano il loro colore ed emettono dissonanze continuamente cangianti al variare del punto di vista. Un altro monocromo bisellato è invece accostato allo spigolo della parete bianca che introduce allo spazio ipercromatico, e instaura con esso un effetto compositivo spettacolare. 

Non è un caso che, alla domanda sull'artista o l'opera cruciale per la sua vocazione di pittore, Shanahan citi La musica di Matisse. Anche senza arrivare all'astrazione e al monocromo, Matisse ha avuto il coraggio, nel 1910, di dipingere decine di metri quadrati di colore piatto, ripartiti in enormi campiture di verde e blu, e in rudimentali forme rosse che ballano in cerchio o che suonano immobili. Meno spettacolare della famosa Danza, dove c'è l'ebrezza dionisiaca dei corpi che si fondono nel movimento, la Musica mostra il misterioso fascino ipnotico del suono, incarnato in arcaici feticci che sembrano emettere solo note fisse.

 

Quelle note fisse ora risuonano nei colori-monolito di Shanahan, che incarnano nel modo più intenso il senso di un altro suo aforisma: «Io sono in un oceano infinito di colore. Ho l'oceano tutto attorno e ne prendo un po' nel palmo della mano: è sempre oceano, ma ora non è più infinito».

Miniature d'infinito, dunque (in un oceano che può essere anche rosso). E la mano che le raccoglie e le offre è la stessa che si ritrova nel verso di un poeta inglese amato dal pittore irlandese:

 

To see a world in a grain of sand
And a heaven in a wild flower,
Hold infinity in the palm of your hand,
And eternity in an hour.

 

(«Vedere un mondo in un granello di sabbia / E un paradiso in un fiore selvatico / Tenere l'infinito nel cavo della mano / E l'eternità in un'ora». William Blake, da Auguries of Innocence).

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On Earth. Le avventure dello sguardo

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“Dopo la Guerra Civile, gli Americani ritornarono ad esplorare il loro continente, specialmente l’eccitante, e poco conosciuto, Ovest. Uno degli strumenti delle loro esplorazioni era la fotografia, che all’epoca era ancora una novità.

Il fotografo-come-esploratore era una nuova tipologia di creatore di immagini: in parte scienziato, in parte reporter, e in parte artista. (…) Esplorando nello stesso tempo un nuovo medium e un nuovo soggetto, ha realizzato immagini nuove, che erano oggettive, non aneddotiche, e radicalmente fotografiche.”

 

Lucas Foglia, Kenzie inside a melting glacier juneau icefield research program Alaska, 2016, courtesy of the artist.


Con queste parole di John Szarkowski si apre l’introduzione del catalogo della mostra “The Photographer and the American Landscape”, tenutasi nel 1963 al MoMa di New York; l’intento era quello di raccogliere e presentare il lavoro di tutta una serie di fotografi che avevano non solo registrato, ma anche ridefinito e plasmato, il concetto di paesaggio naturale (e di fotografia di paesaggio), autori che, al di là dei differenti approcci, condividevano un unico scopo: raccontare, citando ancora le parole di Szarkowsi, “com’è fatta la Terra”.

Dal 1963 ad oggi le cose sono cambiate rapidamente, e il rapporto tra uomo e natura è diventato ogni minuto più problematico, sotto la spinta del massiccio e continuo intervento di trasformazione e modellazione del paesaggio in base alla sempre più complesse necessità delle società contemporanee.

Anche gli strumenti di osservazione e di produzione delle immagini si sono trasformati nel tempo: la rivoluzione digitale ha infatti progressivamente allargato ed ampliato, in quantità e in qualità, la platea delle tecnologie visive a disposizione degli artisti per registrare e raccontare il mondo.

È indubbio che questa svolta abbia ulteriormente cambiato il rapporto dell’uomo con l’ambiente che lo circonda: le nuove tecnologie hanno reso il mondo più grande e più piccolo nello stesso tempo, diventando uno strumento privilegiato di esplorazione ,di ricognizione della realtà.

Cosa vuol dire allora per un artista provare a raccontare il rapporto tra uomo e natura nell’epoca più antropizzata, artificiale e tecnologica di sempre?

È da questi interrogativi che prende le mosse la mostra “On Earth – Imaging, Technology and the Natural World”, in visione al FOAM di Amsterdam fino al 2 settembre 2020 e prodotta in collaborazione con Les Rencontres d’Arles.

 

Adam Jeppesen, Ar chalten, 2016, courtesy of the artist.


La mostra presenta il lavoro di 27 artisti che riflettono, con mezzi e strumenti eterogenei, sul complesso rapporto tra uomo e ambiente, aprendo la strada a una serie di riflessioni sulla costruzione non solo del paesaggio, ma anche della visione.

Raccontare il nostro rapporto con la natura è diventata una questione complessa e radicalmente differente rispetto a ciò che poteva implicare in passato; basti pensare che molti degli artisti presenti in mostra lavorano da remoto, immensamente distanti dai luoghi di cui ci parlano, utilizzando al posto della macchina fotografica strumenti tecnologici e media visivi contemporanei, come Google Earth, i motori di ricerca delle immagini, e tanto altro ancora.

In Mastering Bambi, Persijn Broersen & Margit Lukács si interrogano sulla rappresentazione, spesso idealizzata e fuorviante, della natura , partendo dal classico Disney Bambi, mentre Melanie Bonajo, in Progress vs. Sunset, Re-formulating the nature documentary, si chiede quanto i video virali con animali per protagonisti, sempre più popolari in rete, abbiano ridefinito la relazione tra gli uomini e la vita selvaggia e abbiano influenzato la visione e le aspettative verso il mondo naturale.

 

Progress vs. Sunset, Re-formulating the nature documentary, 2017, Melanie Bonajo, courtesy of the artist.


Anche il lavoro di Anouk Kruithof è un’indagine della rappresentazione online di temi sociali: in Ice cry baby l’artista realizza il montaggio di una serie di video di ghiacciai che si sfaldano e crollano trovati su Youtube, mostrando come un problema climatico potenzialmente disastroso possa essere trasformato in uno spettacolo, anche fortemente estetizzante: è difficile infatti non rimanere affascinati dalle grandi masse di ghiaccio e di acqua che si succedono sullo schermo in maniera quasi coreografica, almeno fino a quando non ci si ricorda qual è la causa e quali sono le conseguenze di quello che succede davanti ai nostri occhi.

Alcuni autori, quindi, utilizzano un tipo di approccio mediato per svelarci i meccanismi di percezione e costruzione del reale, come quelli su cui si interroga Thomas Albdorf in I Know I Will See What I Have Seen Before, o le conseguenze, spesso disastrose, dell’intervento dell’uomo sul paesaggio, come avviene ad esempio nel lavoro di Mishka Henner Feedlots.

Altri artisti, tuttavia, hanno sentito il potente bisogno di ritrovare fisicamente un senso di connessione con la natura e, macchina fotografica in mano, hanno intrapreso lunghi e spesso solitari viaggi di documentazione.

Adam Jeppesen, ad esempio, ha impiegato 487 giorni per spostarsi, via terra, dal Polo Nord all’Antartide, restituendo questa esperienza attraverso una serie di immagini che ci traghettano in una dimensione di spiritualità, tranquillità e solitudine, forse possibile solo in completa comunione con l’ambiente naturale. Sensazione che pure ritroviamo nei paesaggi silenziosi e senza tempo di Awoiska van der Molen.

 

Guillaume Simoneau, invece, in Experimental Lake ha esplorato e documentato una regione scarsamente popolata dell’Ontario nord-occidentale, focalizzandosi sulle attività di ricerca condotte da un laboratorio circa l’impatto dell’uomo sulla natura.

Nonostante trascorriamo gran parte del nostro tempo davanti a uno schermo, il desiderio di esplorazione e di natura  è ancora presente, come testimoniano le storie fotografiche presentate da Lucas Foglia in Human Nature, racconti da cui traspare il nostro bisogno di luoghi incontaminati e selvaggi, anche se poi spesso si rivelano essere anch’essi delle costruzioni umane.

 

Drew Nikonowicz, This World And Others Like It, courtesy of the artist.


Il fotografo-come-esploratore, dunque, è vivo e vegeto, ma in un mondo e in un modo completamente diverso. E forse l’esploratore del XXI secolo è quello immaginato da Drew Nikonowicz nella serie This World And Others Like It, in cui l’artista ci guida in un percorso che attraversa panorami a volte reali, a volte generati virtualmente, consapevole dell’esistenza di, per usare le sue parole, “migliaia di realtà esplorabili”. 

Tante sono le prospettive e le visioni presentate da questi e dagli altri artisti della mostra “On Earth”; come riuscire allora a dare un senso a queste immagini, a queste riflessioni, ad una relazione complessa, come quella tra l’uomo, la natura e la tecnologia, che pone ogni giorno di più interrogativi urgenti e improrogabili?

Forse ci sono due possibili strade da intraprendere: da un lato quella della riflessione lenta, del soffermarsi dello sguardo sul significato delle cose che guardiamo, pensiamo e facciamo; e dall’altro qualcosa di apparentemente opposto, ma in realtà complementare e necessario: il recupero del senso dell’avventura, nell’accezione data da Emilio Varrà nella prefazione del libro Le zattere della medusa. Scrive l’autore che “l’avventura è sempre anche educazione al senso di alternativa, a nuovi scenari possibili, a diversi stili di vita, all’agire politico”; è forse allora solo in questo modo che il presente può trasformarsi in “occasione di esplorazione, dura e difficile, sempre più complessa, ma ancora possibile”.

 

On Earth – Imaging, Technology and the Natural World, 20 March - 2 September 2020, Foam Amsterdam.

On Earth è stato curato da Foam e prodotto in collaborazione Les Rencontres d’Arles.

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Kentridge. Waiting for the Sybil

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Dopo Triumphs, Laments and Other Processions, mostra monografica del 2016, William Kentridge torna negli spazi della galleria Lia Rumma di Milano con Waiting for the Sybil and Other Stories. Il sodalizio ventennale tra l’artista e la galleria si rinnova con l’esposizione del progetto commissionato a Kentridge dal Teatro dell’Opera di Roma nel 2019 per affiancare Work in Progress, unica produzione teatrale interamente realizzata da Alexander Calder nel 1968 per il teatro romano. 

La performance, diretta originariamente da Filippo Crivelli (per l’occasione chiamato nuovamente alla regia), rappresentava una summa del lavoro di Calder, una danza di elementi visivi disegnati dall’artista e messi in scena da Giovanni Caradente su musiche elettroniche di Niccolò Castiglioni, Aldo Clementi e Bruno Maderna, una rapsodia di forme geometriche, attori, segni, simboli e colori. 

All’esperimento teatrale di Calder, Kentridge fa seguire il suo Waiting for the Sybil, una produzione che nasce dall’osservazione dei movimenti circolari che caratterizzano il moto delle “macchine” dell’artista statunitense. Nell’omonimo video d’animazione e nei disegni presentati da Lia Rumma, Kentridge trasforma il movimento rotatorio delle opere di Calder nel vento a cui la leggendaria Sibilla Cumana affida i propri vaticini, dopo averli scritti su foglie di quercia. La Sibilla, nei tratti d’inchiostro o a carboncino che compongono i frame del video, è raffigurata come una danzatrice africana che si muove sullo sfondo di vecchie pagine di libri e della Divina Commedia, sui quali si materializzano le misteriose profezie. 

 

Così la neve al sol si disigilla; 

così al vento ne le foglie levi 

si perdea la sentenza di Sibilla. 

 

(verso 66, Canto XXXIII del Paradiso)

 

Ph Roberto Marossi.


La Sibilla di Dante viene evocata da Kentridge e incarnata nello “spirito del tempo presente” per suggerire come la conoscenza, trasformata oggi in una massa di dati digitali, sia amministrata dalle logiche implacabili di un algoritmo che influenza il destino degli esseri umani. Le paure, le angosce e le speranze che trovano espressione nelle frasi raccolte nel video, sono accompagnate dalla danza della Sibilla sulle note ipnotiche del canto di Nhlanhla Mahlangu e sulle musiche del compositore Kyle Sheperd, dall’incessante susseguirsi di alberi, foglie ed elementi geometrici che richiamano direttamente la grammatica visiva di Calder e contrappongono la forza vitale del libero arbitrio al controllo annichilente esercitato dalla cosiddetta “predictive society” – la società algoritmica – la cui premessa intrinseca è rappresentata dalla cancellazione dell’incertezza e della precarietà che segnano la condizione esistenziale umana. 

Nell’opera di Kentridge, al contrario, il concetto di trasformazione, la variabilità sono gli assi di un’estetica che ha trovato nel linguaggio dell’animazione l’espressione di un’idea del segno come traccia impermanente, manifestazione di un divenire incessante e mutevole. La fascinazione per l’indeterminatezza si traduce in una figurazione che potremmo definire antifragile, nella quale i temi cari all’artista – l’iconografia della processione, il lavoro, le disuguaglianze sociali, il tempo e la storia, la connessione tra attuale e remoto – si trasformano in epos, in un’opera totale che va osservata nel suo dispiegarsi nel tempo ancor più che nei singoli episodi, per quanto compiuti e del tutto autosufficienti. 

Colpisce allora Untitled (Leaning on air, 2020) l’enorme disegno situato all’ingresso dello spazio espositivo: si avverte come l’albero non sia solo una metafora che abita il racconto della mostra, quanto una vera e propria morfologia, un’arborescenza che racchiude in sé tutti i singoli momenti creativi della carriera di Kentridge.

 

L’iconografia dell’albero, che da un lato si riallaccia alle foglie della Sibilla, viene qui rovesciata e, secondo le parole dell’artista, diventa metafora di una morte che si sviluppa e cresce rigogliosamente insieme all'uomo, fino a compiersi in pienezza, una “buona morte” che trova il proprio senso all’interno del ciclo della vita. Migliaia di disegni, le sculture e i cut-out, i film e le performance compongono un unico corpo coerente che si sviluppa temporalmente in termini di ampiezza e profondità. Così come le radici dell’albero si spingono in basso nel terreno e creano una relazione simbiotica con il luogo in cui dimorano, traendone informazioni e sostentamento vitale, così il lavoro di Kentridge scende nelle profondità della propria cultura d’origine e nella storia dell’arte, rivitalizzando le matrici su cui si fonda; contemporaneamente, la discesa nella terra è bilanciata da una progressiva espansione nello spazio e verso l’alto, attraverso una produzione di immagini che si può equiparare alla chioma di un albero i cui rami e foglie si protendono verso il mondo e ne diventano un elemento partecipe, ristorativo e pienamente consapevole del proprio ruolo nell’eterno ciclo di fine e rinascita.

 

La percezione di essere di fronte a un corpo vivo si riflette anche nella sensazione di una sottile costrizione esercitata dallo spazio espositivo sulle opere in mostra: le sale di Lia Rumma sono maestose per dimensioni e ampiezza e rappresentano una collocazione ideale per lavori di grande formato, dalla vocazione spettacolare; allo stesso tempo, la possibilità che gli spazi espositivi (e museali) mettano in atto un profondo rinnovamento che li porti a superare definitivamente la funzione di contenimento e conservazione delle collezioni a favore di una nuova soggettività permeabile, mutevole e relazionale si mostra come un’esigenza sempre più concreta, che si evidenzia di fronte a opere come quelle di Kentridge, che sembrano chiedere una fruizione che si sposti oltre la dimensione della galleria, in un luogo concettualmente aperto, in grado di amplificarne il respiro. 

 

Ph Roberto Marossi.


Visitando il primo piano dell’esposizione, dove si trovano una serie di sculture in bronzo e alluminio allineate come Lexicon (2017) e Paragraph II (2018), si avverte una specie di rallentamento temporale e i manufatti appaiono come dei prelievi, elementi filmici che rimangono costretti in una fissità che si vorrebbe forzare. L’opera in bronzo collocata presso la parete più ampia, intitolata Processione di Riparazionisti (2019), riproduce in scala l’installazione che si trova presso le OGR di Torino e dialoga con i relativi disegni in maniera efficace, mantenendo uno spiccato carattere grafico determinato dalla monocromia e dalla struttura a silhouette, che richiama a tutti gli effetti il fumetto e il teatro delle ombre, altra forma espressiva cara a Kentridge.

I veri protagonisti della mostra risultano essere ancora una volta i disegni, che strutturano l’intero processo creativo. Sebbene la produzione scultorea rappresenti una delle declinazioni formali di un pensiero articolato e mobile, di fronte alla forza dei film e del lavoro grafico sembra scontare un ritardo fisiologico. Il lavoro plastico, anche quando concepito in maniera autonoma, nel tentativo di incorporare quel principio dinamico che connota tutta l’opera di Kentridge si ritrova ad agire su un piano subalterno rispetto alla produzione grafica, come impossibilitato a spiccare quel volo che invece si rinnova nei disegni a carbone e nelle animazioni che ne discendono. Il principio dinamico e la riflessione sul tempo che anima il lavoro di Kentridge, una volta tradotti nel linguaggio plastico, sembrano subire una compressione, mentre l’opera grafico/pittorica e quella filmica, a cui è possibile attribuire un ruolo primario, procedono su un piano sinergico e sono portatrici di uno stesso ritmo visivo. 

 

Ph Roberto Marossi.


Al secondo piano della galleria è allestita una piccola sala cinematografica per la proiezione di KABOOM!, film del 2018 tratto dall’opera teatrale The Head and The Load (il titolo rimanda a un proverbio ghanese) presentata in anteprima nella Turbine Hall della Tate Modern di Londra. L’opera riporta alla luce un episodio che condensa in sé l’assurdità della vicenda coloniale: durante il primo conflitto mondiale, le vie consuete di collegamento da Città del Capo al lago Tanganika divennero inutilizzabili e così si decise di smembrare una nave e farne trasportare i pezzi sulla testa dei portatori africani. Questa folle processione è stata rievocata da Kentridge portando in scena attori in carne e ossa e sculture, che proiettano enormi ombre su uno sfondo di disegni animati. Una performance su scala monumentale, così come accade nell’opera Triumph and Laments, fregio di 550 metri realizzato sulle sponde del Tevere che ripercorre e rivisita la storia di Roma, inaugurato nel 2016 con una performance teatrale composta da un doppio corteo di attori e musicisti.

 

KABOOM!è un lavoro incentrato sulla memoria rimossa dei lavoratori africani che prestarono servizio alle truppe francesi, inglesi e tedesche durante la Prima Guerra Mondiale. I facchini e i portatori, a cui non era consentito portare armi per il timore che si ribellassero contro le truppe europee, morirono a centinaia di stenti. Nel video, Kentridge mescola e giustappone materiali differenti che formano una sequenza di azioni ipnotiche e ripetitive che ricordano il loop perturbante delle GIF animate ma anche gli automatismi di chi subisce un trauma violento, una coazione a ripetere che restituisce allo spettatore un’atmosfera di costrizione e di parossismo, recuperando il portato delle poesie sonore del Dada, movimento nato in concomitanza e opposizione alla Grande Guerra, e il lavoro di Kurt Schwitters. Kentridge ritorna ad affrontare le vicende del colonialismo e le conseguenti lacerazioni causate dall’impatto della guerra voluta dall’Europa sul continente africano: un cambio di prospettiva che l’artista sudafricano condensa in un video dal ritmo serrato, dove la logica formale lascia emergere una pulsione irrazionale e primitiva, un non-senso che rievoca le sperimentazioni dadaiste, fautrici di una proposta estetica radicale in grado di evidenziare l’insensatezza della guerra e della società borghese che ne è l’incubatrice.

 

Politico e poetico, con Waiting for the Sybil and Other Stories l’artista sudafricano aggiunge un ulteriore tassello all’ininterrotta riflessione sulle contraddizioni che caratterizzano il presente globale. Attingendo al repertorio storico-mitologico e costruendo un lessico figurativo al contempo personale e popolare, Kentridge si conferma artista capace di oltrepassare il perimetro dell’arte contemporanea per attestarsi come una delle figure più importanti della cultura visiva contemporanea. Si potrebbe definire già un classico, se non si rischiasse di fargli torto tradendo la sua fede nell’impermanente.

 

La mostra di William Kentridge, in corso presso la Galleria Lia Rumma di Milano, resterà aperta fino al 17 ottobre. Tutte le fotografie sono di Roberto Marossi.

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Cesare Colombo. L’occhio di Milano

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Un enorme tavolo occupa la sala del Castello Sforzesco dove si tiene la mostra di Cesare Colombo. Tante piccole lampade sono disposte sulla sua superficie. Sembra un immenso piano di lavoro costituito da due pannelli sostenuti da alcuni cavalletti che fanno venire in mente quelli usati dagli imbianchini. Lo sguardo ne è immediatamente attratto. Chi si avvicina e lo scruta con curiosità non ne rimane deluso, anzi, ne subisce un moto di empatia.

 

Su un lato è stampata la biografia di Cesare Colombo e sull’altro si possono leggere molti dei suoi scritti, legati all’attività di critico e curatore. La luce delle lampade crea un’atmosfera di intimità e favorisce una prossimità con l’autore. Sono lampade disegnate da Philippe Starck, le Miss Sissi, “quasi un grottesco ricordo del policarbonato delle abat-jours di un tempo”, dice l’ideatore del tavolo, Italo Lupi che con Colombo ha una lunga storia di collaborazioni. Sotto quella luce anche lo sguardo si fa caldo, aperto e disponibile a conoscere la storia del fotografo e di Milano, la sua città.

Al tavolo non ci si avvicina con lo sguardo, è necessario spostarsi con il corpo ed è richiesta anche la postura del raccoglimento, quella del chinarsi. 

 

C’è uno scambio molto intenso tra ciò che accade al tavolo nel mezzo della sala e ciò che è già avvenuto nelle foto: in entrambe le dimensioni di tempo e di spazio sono le persone ad occupare il centro. Lo abitano. Il tavolo agisce come un ponte, è quasi una macchina del tempo che genera un movimento anche nel nostro sguardo, poiché attenua l’assuefazione che le innumerevoli immagini della metropoli hanno prodotto nella nostra memoria visiva. Grazie alla soluzione inventata da Lupi, la mostra di Colombo ha acquisito una sua autonoma vitalità, senza così correre il rischio si trasformarsi nella semplice celebrazione della città e di uno fra i più fedeli interpreti visivi dei suoi cambiamenti. 

 

Ciò che riesce a commuovere di Colombo è la prossimità ai suoi soggetti. Un modo di guardare simile a quello di un amico cui affidare i propri pensieri. La prima sezione della mostra si intitola Album metropolitano e ricorda, appunto, uno scrigno dove sono stati conservati alcuni degli istanti vissuti dal fotografo e dai suoi concittadini. Si vedono piazze e  strade, ma soprattutto le persone: le lavandaie alla Darsena, i ragazzi che fanno il tiro alla fune al Parco Ravizza, chi prende un caffè alla latteria in Via Vigevano, dove Colombo aveva lo studio. 

 

Raramente la città è vuota come nelle foto di Gabriele Basilico. Milano sembra molto vicina a quella rappresentata da Carla Cerati nel grande grande affresco visivo che è Milano Metamorfosi, in cui la fotografa celebra i mutamenti della città dai primi anni Sessanta alla morte di Aldo Moro. È soprattutto una città fatta di volti. Colombo sembra mostrarne il lato intimo, quello nascosto. Sin dagli anni Cinquanta, nella sua esperienza artistica, i volti sono la sostanza prima e irriducibile della città, in un dialogo di sguardi che è testimoniato in tantissimi scatti come quello della fioraia nei pressi del Cimitero Maggiore, della ragazza che posa per le prove di un ritratto in Via Melchiorre Gioia, dell’anziano signore che si distacca dalla folla in Piazza Duomo. Guardare negli occhi i milanesi significa cercare il volto nascosto di Milano, la sua verità. Per Colombo, come per altri grandi fotografi del calibro di Lisetta Carmi, Letizia Battaglia, Uliano Lucas, Tano d’Amico, cogliere la verità significa essere solidali con il soggetto, avere il coraggio e la determinazione per stare “dentro” le situazioni. 

 

Che vuol dire aver maturato una sensibilità al dialogo, come nel caso dello studente che si tiene il viso con una mano a una conferenza di Marcuse. Colombo lo fotografa seduto al tavolo mentre il filosofo parla agli studenti. La sua espressione è talmente potente che la presenza di Marcuse appare ininfluente. Il suo sguardo sembra perplesso e diffidente, ma la distanza tra lui e il fotografo è così esigua, che tra i due sembra stabilirsi un dialogo segreto. La sua fotocamera non sancisce l’apoteosi della distanza e dell’onnipotenza ma è un tramite con cui stabilire relazioni. 

 

Assemblea di studenti in piazza Santo Stefano, 1968Milano, Civico Archivio Fotografico, inv. Col 44 © Cesare Colombo.


Supermercato a Baggio, 1967Milano, Civico Archivio Fotografico, inv. COL 40 © Cesare Colombo.


Durante un’assemblea di studenti in piazza Santo Stefano, nel 1969, a colpire non è la folla, ma il volto di una ragazza seduta per terra che guarda in macchina. Tutti sono attenti e rivolti all’oratore. Solo lei, con il volto serio, sembra interrogare il fotografo e rivolgergli la parola attraverso l’obiettivo. E Colombo risponde con la fotografia. Due donne fanno la spesa in un supermercato a Baggio. Con i figli nel carrello e gli abiti dimessi guardano il fotografo quasi infastidite, ma si lasciano ritrarre. Un gesto di solidarietà silenziosa. 

Promana, da tutte queste immagini, una tensione emotiva del fotografo. L’individuo non si annulla nella folla, non viene inglobato dalle situazioni o travolto dagli eventi. Si tratta di una singolarità che insieme svela anche la sua fragilità. E, proprio perché viene mostrata, diventa una forza, un tesoro interiore che dà un volto diverso alla città. 

Nell’attenta e minuziosa introduzione al catalogo, Silvia Paoli fa un riferimento a Giuseppe Turroni il quale a proposito di Colombo parla di “sensibilismo”, del sentimento di tristezza, “un gusto bruciato” che dà corpo allo specifico fotografico, all’immediatezza visiva che capta un’atmosfera, allo sguardo attento, acuto e sensibile della sua “camera sincera”.

 

Gae Aulenti, 1979Milano, Archivio Cesare Colombo ©Cesare Colombo.


Giorgio Armani, prove per una sfilata, 1988Milano, CivicoArchivio Fotografico, inv. Col 78 ©Cesare Colombo.


Persino fra le foto dei designer e degli stilisti (Krizia, Giorgio Armani, Achille Castiglioni, Gae Aulenti, lo stesso Italo Lupi…), il nostro sguardo è mosso dalla vicinanza prima che dallo stupore. Un bell’esempio è la foto in cui in cui Enzo Mari, chino su un modellino che sta costruendo, sembra giocare con alcune figure umane in cartone non più grandi della sua unghia. Apparentemente incurante, eppure consapevole del fotografo, guarda compiaciuto la sua opera. Un istante in cui non vi è alcuna forma di narcisismo e compiacimento. 

 

Per Milano vale lo stesso, perché Colombo sa porsi alla giusta distanza. Dà l’impressione di trovarsi talmente vicino da abitare lo stesso spazio di chi sta dinnanzi all’obiettivo. Lo sguardo è in equilibrio tra Henri Cartier-Bresson e William Klein, “l’uno incline al rispetto e alla distanza dagli eventi, l’altro immerso nel fluire delle cose”, come ricorda lo stesso fotografo in un’intervista del 1986.  Si ha l’impressione che pochi, come Colombo, conoscano in maniera così scrupolosa quello che stanno fotografando. 

 

Largo Cairoli, ore 8”, 1956Milano, Civico Archivio Fotografico, inv. COL 7©Cesare Colombo.


Corso Buenos Aires, 1966Milano, Civico Archivio Fotografico, inv. COL 38 ©Cesare Colombo.


Il bisogno di conoscenza è, infatti, un’altra componente della sua intensa attività, forse quella meno attesa e che perciò stupisce maggiormente. Critico, curatore e studioso si occupa anche della valorizzazione degli archivi fotografici di aziende ed istituzioni come la Ferrania, 3M, il Touring Club Italiano. Ciò che conta è “la portata sociale di una comunicazione fotografica i cui significati devono essere compresi e validati dalla collettività”, afferma Colombo, poiché l’uomo è sempre al centro dello spazio “misura e rapporto per una casa, per una fabbrica, per il quartiere”.  E ancora: “una rassegna fotografica è una comunicazione che sollecita e attende risposta; come il livello democratico della società oggi richiede”, scrive nel 1977. La sua passione per la fotografia è un compito storico a cui affidare l’eticità del proprio lavoro, non solo quando scatta. La fotografia è documento e informazione, ma anche interpretazione e visione, oltre ad essere uno strumento che può divenire parte attiva nei cambiamenti della società. Per questo “curare” una mostra è un gesto che si carica di un valore immenso. Una fotografia può creare identità, relazione, storia. 

 

I titoli delle mostre da lui curate spiegano e raccontano: L’occhio di Milano.48 fotografi 1945/1977; Professione Fotoreporter. L’Italia dal 1934 al 1970 nelle immagini della Publifoto di Vincenzo Carrese; Italia: cento anni di fotografia (che vede come promotore il Museo Alinari); Scritto con la luce. Fotocine in Italia 1887-1987; Il Bel Paese. Cento anni d’amore per l’Italia (per il Touring Club Italiano); Cento anni di industria, a cura di Valerio Castronovo, con cui collabora, solo per citarne alcune. Camminare nella sala del Castello Sforzesco diviene così occasione per ripercorrere la storia della fotografia attraverso le istituzioni che l’hanno promossa come strumento per capire i mutamenti di un Paese. 

 

La biografia di Cesare Colombo non è meno coinvolgente del suo lavoro. Osservando il tavolo allestito dall’amico Italo Lupi si viene a sapere che, nato nel 1935 in una famiglia di artisti, oltre che fotografo, è grafico e collabora con numerose riviste come Ferrania, Fotografia, Camera. Si dedica alla fotografia industriale e di architettura, partecipa a numerosi convegni e insegna presso la Società Umanitaria. Nel 2014, due anni prima della scomparsa, ripercorre la sua storia professionale e umana. Lo fa in una lunga intervista a Simona Guerra. Il titolo è insieme evocativo e malinconico: La camera del tempo. Le parole conclusive sono una sorta di dubbioso congedo. Affettuose e distaccate, appaiono anche una delicata invocazione, un modo per interrogare la natura ambivalente della fotografia, il suo porsi come strumento di rivelazione e occultamento. Eccole: “Ritorno ancora una volta al trascorrere sempre più veloce degli anni della mia vita: l’ho dedicata tutta, senza rimpianti alle immagini fotografiche. Cosa non frequente, più spesso a quelle di altri autori – notissimi o completamente ignoti – che alle mie. […] Riusciamo, riesco davvero a riconoscervi il senso che avrei voluto? Ma soprattutto: sono sicuro di aver visto giusto? E cosa ho visto?”

 

 

Cesare Colombo. Fotografie 1952-2012, a cura di Silvia Paoli con Silvia e Sabina Colombo, dal 25 giugno al 30 settembre 2020. Castello Sforzesco, Milano.

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Le fotografie al Castello Sforzesco
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Osvaldo Licini e la regione delle Madri

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Bella e importante la mostra in corso nelle Marche del sud intitolata “La regione delle madri”, incentrata sul rapporto strettissimo fra il lavoro di Osvaldo Licini e il suo paesaggio. Bella perché ricca, con le opere inserite in un percorso che si snoda dal Centro Studi alla casa dell'artista (ottimamente ristrutturata qualche anno fa con un sapiente recupero), e importante perché significativa per comprendere il prima, la base, il lavoro di elaborazione su cui poggia il salto verso il figurativismo fantastico per cui è famosissimo e amato in tutto il mondo il pittore marchigiano e che, qui, può apparire come l'ancoraggio al terreno prima di spiccare il balzo verso i cieli, i voli, i sogni, le visioni e gli enigmi suoi caratteristici. 

Ed è un viaggio da compiere, quello verso Monte Vidon Corrado, paese natale dell'artista (Licini ne fu anche sindaco nel dopoguerra), perché già nell'addentrarsi fra valli e colline in questa estate 2020 particolarmente spettacolare per il giallo dei girasoli e il verdone dei prati, fra dolci curve e ombre improvvise di alberi dalle chiome molte fitte, ci si prepara all'incontro con i quadri che quei paesaggi raccont

ano (non si può non pensare ai colori appena visti quando, nella grotta-cantina della casa di Licini, si arriva di fronte al quadro “Angelo ribelle su fondo giallo” con la figuretta nera che sembra portare una falce in spalla e salutare l'angelone bianco in volo in un cielo tutto giallo: o si tratta di un albero brunito sul ciglio di una collina? O di tutte e due le cose, uomo/albero? O, ancora, di un segno da decifrare a piacimento?). 

 

Osvaldo Licini_Servigliano, 1926 (con interventi successivi) olio su tela, Galleria Arte Contemporanea Osvaldo Licini, Ascoli Piceno.


Salire al piccolo borgo significa, poi, immergersi in un paese incantevole in cui gli abitanti hanno reso omaggio al concittadino più illustre dedicando alle sue parole strade, luoghi, targhe, piccoli giardini: via degli Angeli Ribelli, piazza dell'Amalassunta, via Fiori Fantastici. E, in un paio di punti strategici del paese – ingresso e belvedere – il bellissimo volto di Licini stesso, in bianco e nero con le linee scavate e i capelli folti argentei che guarda il cielo di profilo, ci accoglie dalle gigantografie pensate e collocate per la mostra.

Fatti allora i biglietti nei piccoli locali in fondo a una viuzza, avanti e indietro fra le belle casette di pietra del paese, si comincia con la prima parte della mostra passando per le marine, sia marchigiane che francesi; si ammirano profili di paesi in collina, gole di montagne, angoli di piazzette di piccoli borghi medievali (una è stata identificata con la piazza di Leopardi a Recanati), scorci di campagna che molto ricordano Cézanne per tocco, colori, taglio e inquadrature. Si riconosce Monte Falcone Appennino, paese inerpicato su un costone di roccia proteso verso le montagne, nel cuore della vicina Valdaso, dove Licini negli anni '20 andò più volte a lavorare dal vivo, a dipingere su cavalletto con colori preparati da lui macinando vernici; si scorgono case abbandonate in mezzo alla campagna, alberi contorti, spiagge del litorale fra Porto San Giorgio e il Conero; si ammirano profili di colline con i paesi sul cocuzzolo, rare sagome di persone in cammino su stradelli; la gola dell'Infernaccio, in cui figure in movimento stanno forse partecipando a un sabba con i pastori, a rievocare il mito della Sibilla, profetessa reinterpretata dalle leggende nei secoli come regina di faterelle ballerine nella notte e che in seguito, per Licini, si incarnerà, dea dalle figlie e sorelle magiche, nella figura dell'Amalassunta. 

 

C'è in alcuni di questi primi quadri, l'apparire delle linee e delle geometrie che verranno in quota, sbalzate, spogliate, essenziali ed evidenziate dai colori che si fanno più forti e più propriamente liciniani (il giallo e il verde appunto, il blu dei notturni, il rosso) nella seconda parte della mostra. Paesaggio marchigiano del 1925 (probabilmente Massa Fermana, il paese vicino a Monte Vidon Corrado), delinea delle linee incrociate, campanili e tronchi verticali che tagliano i tetti dell'incasato, così come Paesaggio in grigio sempre del 1925, con le linee diagonali delle colline. Ecco, la diagonalità, giustamente sottolineata, più volte, dalla curatrice della mostra Daniela Simoni, è la dimensione che davvero si coglie appieno in questa mostra pensata sul “paesaggio dentro al paesaggio”. È la diagonalità delle colline, dello sguardo, dell'altezza da questo luogo. 

 

Osvaldo Licini_Angelo ribelle, 949, olio su tela, collezione privata, Milano.


Dell'erranza, della ricerca (“poi ho cominciato a dubitare”), dello sguardo. Scrive Licini a Morandi in una lettera del 1927: “Ogni tanto parto per altri paesetti dove vado a dipingere paesaggi.” 

Paesetti sparsi fra le colline: da Macerata, passando per Fermo, ad Ascoli. Tutti apparentemente simili, ma tutti diversi. Per forma, posizione, vista (dall'alto e dal basso), abitato, mura, chiese e torrioni. Così come sono diverse le colline, miracolosamente, in ogni stagione, cambiando colori e solchi a seconda delle colture – come il pittore Tullio Pericoli ci ha insegnato a guardarle con i suoi bellissimi quadri materici e aerei al tempo stesso – ma mantenendo sempre la quadrettatura degli appezzamenti e dei poderi mezzadrili di un tempo. 

 

Anche le marine raccontano la progressione di Licini, sia quelle adriatiche che quelle francesi: ricordiamo che Licini, prima di tornare, per restarvi stabilmente, a Monte Vidon Corrado, soggiornò a lungo in Francia, dove viveva parte della sua famiglia e dove si formò anche come pittore, e per vari periodi in Svezia, dov'era nata sua moglie, la pittrice Nanny Hellström, conosciuta a Parigi e sposata nel 1925. Vale la pena soffermarsi su questo paesaggio di casa che si completa con il paesaggio del mondo. Licini scrive delle coste svedesi, della vegetazione, dei tramonti e delle primavere. Nota Daniela Simoni, leggendo di paesaggio nelle lettere di Licini da Goteborg: “Il vascello, la luna, le leggende nordiche, Wagner, la solitudine, nonostante fosse in compagnia di Nanny: come non cogliere in questa scrittura visionaria i topoi della futura mitografia liciniana?”

Ed è di ritorno, nel '32, da un viaggio in Svezia a Monte Vidon Corrado che Licini scrive all'amico Acruto Vitali: “in questi giorni chiari, dalle mie finestre sto tenendo d'occhio la primavera, ed i movimenti del verde, e nel contempo una mia “idea” che ho di un quadro che ho dovrei fare e che deve chiamarsi... Con questi puntini finisco.”

 

E finita la mostra, dopo aver ammirato una ricca esposizione di opere degli anni rappresentative del suo astrattismo e delle sue geometrie (alcune molto note, altre più piccole, nei rosa, nei gialli, “Il capro” di un paesaggio fantastico, “Aquilone rosa” del 1935, le lune, le linee, i segni, i numeri, le mani nel cielo, i volti nella neve o sospesi nello spazio), e aver visitato varie stanze, è fuori dalla casa che si apre una delle terrazze più spettacolari di tutte le Marche, un balcone slanciato sulla valle e sui boschi con la corona dei Sibillini sullo sfondo da cui sembra di poter librarsi con lo sguardo, davvero come angeli o creature siderali in volo sulla terra o nello spazio astrale.

Un colpo d'occhio mozzafiato fra profili di montagne e cielo profondo, lo stesso delle finestre di Licini, un paio di metri più in alto, da cui l'artista “teneva d'occhio” colori e movimenti del paesaggio, in compagnia di Nanny: “da due mesi che siamo ritornati, non ci siamo più mossi dal paese. Adesso guardiamo dalle finestre crescere la primavera e i cambiamenti rapidi del cielo e dei verdi, e ci divertiamo come a teatro.”

 

Osvaldo Licini, La regione delle madri, a cura di Daniela Simoni

Monte Vidon Corrado, dal 25/07/2020 all’08/12/2020

Catalogo Electa.

 

 

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Mario Cresci. L’arte del segno

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L’arte di Mario Cresci è circolare, fedele a se stessa, con un’anima che fonde magistralmente la tecnica al vissuto e all’umano. Pur continuando a evolversi, a farsi linguaggio del Tempo (hic et nunc), in essa si scorgono sempre le sue origini, rimanendo onesta e contemporanea. Risultato di un’approfondita ricerca e aggiornamento costante il lavoro di Cresci attinge dal mondo visuale senza distinzioni: dalla fotografia alla grafica, dal design alla scultura, dal video alla performance, lavorando da dentro all’immagine senza cercare di comporla. Come dice in una recente intervista: “Amo la fotografia, ma non fino al punto di farne un unicum”. Oltre a un linguaggio visivo che si arricchiva di anno in anno, di esperienza in esperienza – ricordiamo la sua serie Geometria non euclidea del 1964 – Cresci aggiunse al suo processo artistico una certa matericità concettuale e primordialità grazie a ricerche e progetti intrapresi nel sud Italia, inizialmente in Basilicata, a Tricarico nel 1967. A quel periodo - in cui la sua fotografia era alla ricerca dell’individuo, dei suoi riti e dei suoi modi di vivere, leggendo De Martino e il poeta e scrittore lucano Rocco Scotellaro – sono riconducibili immagini come Interni mossi del 1967 e la serie Ritratti reali del 1972. La ricerca sul territorio, il rapporto diretto con le persone e soprattutto con le loro storie, l’approccio antropologico, il rapporto non verbale, l’ascoltare le tradizioni e i costumi altrui sapendoli riprodurre con una voce autentica e viscerale: questo grande, immenso tassello di esperienza vissuta sul campo fece chiudere il suo cerchio artistico da cui Cresci attinge, ora, la materia per creare sempre qualcosa di nuovo.

 

Mario Cresci, Analogie e memoria, 1980.

 

Da questo inesauribile serbatoio sono nate le due mostre che Roma gli ha dedicato quest’anno: L’oro del tempo, a cura di Francesca Fabiani, all’ICCD – Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione – risultato della residenza che ogni anno l’Istituto apre ad un artista per dialogare con il proprio archivio fotografico e Combinazioni provvisorie, con testo critico di Mauro Zanchi, alla galleria Matèria.
In entrambe le esposizioni Cresci attinge dalle origini del suo sentimento artistico, da Matèria lo fa nel vero senso della parola tirando fuori dal suo archivio un lavoro mai esposto prima, Analogie e memoria del 1980 e Cronistorie del 1970; mentre all’ICCD è la sua passione per la grafica, per il linguaggio digitale della postproduzione che lo trascina in un nuovo progetto artistico in dialogo con l’archivio di Mario Nunes Vais e una serie di fotografie di statuaria appartenenti a diverse collezioni pubbliche romane facenti parte dell’archivio del Gabinetto Fotografico Nazionale. 


Analogie e memorieè il cosiddetto “lavoro nel cassetto” di Mario Cresci. A Matera tra la fine degli anni ’70 e inizi ’80 aveva messo insieme svariato materiale iconografico: disegni, segni, appunti, scritti di diversa natura, immagini proprie e di altri autori, collage, manifesti, tavolette di argilla. Tutto a livello embrionale. Aveva poi fotocopiato il tutto e ci aveva messo mano trasformandone forma e contenuto, disegnandoci sopra, scrivendoci, dipingendoci, rendendo l’intervento sulle fotocopie un originale, l’opera d’arte.
Aveva poi allestito tutto questo materiale come un menabò di un libro-giornale di grande formato, conferendo all’allestimento una resa appositamente anonima e semplice. La valenza di “bozza”, di “idea”, di “gesto”, doveva avere risalto su tutto, sia nel suo contenuto che nella sua forma. Allora era stato pensato come un libro, ma ora, nel 2020, alla galleria Matèria, è stato esposto a muro, probabilmente per la flessibilità mentale che un artista deve avere come voce del tempo in cui vive.

 

Mario Cresci, Analogie e memoria, 1980.

 

In questo lavoro si rivedono la serie Verifiche di Ugo Mulas della fine degli anni ’60, il Vaccari dell’inconscio tecnologico e della serie Esposizione in tempo reale, le sperimentazioni di Mimmo Jodice, per non parlare degli influssi che gli esponenti dell’Arte Povera ebbero su di lui nel ’68 quando si trovava a Roma e fotografava Pascali, Kounnellis, Boetti, Anselmo, Pistoletto, Merz e molti altri.
I due murales icastici di Analogie e memorie si compongono di un accostamento warburghiano di immagini, esse trovano la loro sussistenza nella loro sequenzialità piuttosto che nell’immagine singola.

 

Un valore dialettico dell’immagine come teorizzava Benjamin: “Non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora in una costellazione. In altre parole: immagine è dialettica nell’immobilità. Poiché, mentre la relazione del presente con il passato è puramente temporale, continua, la relazione tra ciò che è stato e l’ora è dialettica: non è un decorso ma un’immagine discontinua, a salti. Solo le immagini dialettiche sono autentiche immagini (cioè non arcaiche); e il luogo, in cui le si incontra, è il linguaggio.”
Anche Cronistorie proviene dal passato, dagli anni ’70. Un girato in pellicola 16 mm di circa quaranta minuti che recentemente è stato rimontato in un cortometraggio di dieci minuti. Anche per il video Cresci usa la stessa tecnica di accostamento apparentemente inconscio, un nesso primitivo che monta le immagini in un flusso che scende nelle viscere delle tradizioni, dei riti, dell’animalità umana. Un sogno surreale, un viaggio carico di zone d’ombra e ambiguità alla scoperta delle culture popolari della Basilicata.
Entrambi i lavori parlano dell’Origine, di un proto-linguaggio e di una proto-umanità, forse anche di una proto-arte.

 

Mario Cresci, Analogie e memoria, 1980.


André Breton muore il 28 settembre 1966 a Parigi. Sulla sua tomba compare il seguente epitaffio: "Je cherche l'or du temps". Da esso trae ispirazione il titolo della mostra di Mario Cresci all’ICCD, L’oro del tempo. Cresci ci mostra quindi quello che di prezioso e incorruttibile rimane lungo l’azione del Tempo, andando a lavorare con due archivi di prestigio depositati all’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione: quello del fotografo fiorentino Mario Nunes Vais, famoso ritrattista a cavallo tra il XIX e XX secolo, e una serie di fotografie di ritrattistica romana facenti parte dell’archivio del Gabinetto Fotografico Nazionale. Cresci non è nuovo ad addentrarsi nel suo processo creativo partendo dal lavoro altrui, ricordiamo ad esempio il lavoro in dialogo con le incisioni di Giovanni Battista Piranesi, Annibale Carracci e Luigi Calamatta del 2011 e esposto da settembre 2020 a gennaio 2021 all’interno della mostra personale La luce, la traccia, la forma alla Fondazione Modena Arti Visive presso Palazzo Santa Margherita di Modena.

 

Mario Cresci, L'oro del tempo, 2020.

 

Il lavoro di Mario Cresci, tutti i lavori di Mario Cresci partono da un elemento fondamentale: la ricerca, la curiosità, la sublime voglia di conoscere e di imparare, anche e soprattutto dalle opere e dalla memoria altrui. “Ciò che mi muove è il bisogno di entrare dentro le cose per conoscerle, entrare dentro le immagini per scoprire ciò che mi comunicano a livello percettivo e cognitivo”. Ciò che è stupefacente e ammirevole in Cresci è, oltre alla tensione e alla propensione a voler capire l’essenza delle cose, anche e soprattutto l’approccio sensibile e premurosamente attento verso la natura del materiale altrui, entrando in punta di piedi e chiedendo il permesso. In questo modo si è approcciato anche all’archivio dell’ICCD durante la sua residenza d’artista, con molto rispetto.
Per i ritratti di Nunes Vais Cresci ha prediletto quelli rappresentanti il mondo femminile, ritratti di donne, perché secondo l’artista ligure in essi il fotografo toscano si è mosso più liberamente rispetto alle convenzioni compositive del tempo, conferendo ai suoi soggetti una posa meno omologata e ricca di sfumature e giochi di luce; mentre come secondo soggetto ha scelto la ritrattistica della statuaria antica per il “concetto di copia che per la cultura di Roma [era] un grande motivo di conoscenza”. In entrambi i casi ha lavorato in postproduzione, un amarcord dei suoi inizi da grafico, isolando segni che lo portavano dentro alla materia e riproducendoli fino a crearne altra, o rendendo i segni stessi il soggetto principale dell’opera. Così il grande cappello a falda larga della donna ritratta in D011895, la sua forma, viene prelevata e isolata, riprodotta nell’installazione a quattro immagini sia nella sua forma in positivo che in negativo, conferendole originalità artistica. Il segno diventa opera, il linguaggio diventa opera. Cresci gioca con il meta linguaggio, divertendosi anche secondo me, con mente sapiente. “Segni leggeri e segni pesanti, segni moltiplicati ricavati da un solo o pochi particolari dell’immagine. Segni e forme ricavati dalla stessa immagine che diventano altro, altri segni e altri significati che si svolgono nello spazio della fotografia di base come se questa fosse la fonte di tante altre immagini, altrettanto interessanti nella loro trasformazione geometrica”.

 

Mario Cresci, L'oro del tempo, 2020.

 

In F038551 vediamo in primo piano la nuca di una scultura, con una capigliatura riccia. Il singolo ciuffo ricciuto è stato usato da Cresci come segno e riprodotto innumerevole volte per creare un paesaggio da osservare: per la statua, per noi, per noi che osserviamo la statua che osserva il paesaggio. In questo modo con l’aggiunta di questo elemento ripetuto Cresci cambia la prospettiva dell’opera, cambia il suo contenuto, la sua forma, gli interrogativi che ne scaturiscono, e si riallaccia a un suo lavoro del 2010 su tema metalinguistico Attraverso l’arte in cui la nuca di una persona veniva ritratta davanti a un quadro. Chi guarda cosa, qual è il soggetto, quali e quanti sono i piani di osservazione, domande che si riflettono anche sulla natura dell’artista, sul suo sguardo. Anche Ghirri ci aveva pensato, e molti altri prima di lui anche in pittura, in Diaframma 11, 1/125, luce naturale del 1979. Cresci stravolge e destabilizza, ma lo fa con un rispetto e una sensibilità che fungono da paracadute alla discesa percettiva di chi guarda le sue opere.

Nel corpus di Mario Cresci si riscontrano distintamente delle formule, delle formule omeriche, che fanno del suo patrimonio iconografico un patrimonio appartenete alla tradizione orale, un patrimonio di segni. È il segno, il linguaggio, che Cresci ha sempre perseguito, arrivando alla sua essenza. Come questi moduli servivano all’aedo per improvvisare le sue poesie davanti ad un pubblico senza l’utilizzo della scrittura, così l’artista ligure li ha individuati e isolati, li ha resi pietre miliari, dogmi ancestrali della sua progettualità, passata, presente e futura. 

 

L'oro del tempo

dal 23 giugno al 30 ottobre
ICCD - Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione
via di San Michele 18, Roma

 

Combinazioni provvisorie
dal 23 giugno al 31 ottobre 
Matéria  
via Tiburtina 149, Roma

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Due mostre a Roma
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Joachim Schmid: cataloghi caotici

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Sara Benaglia, Mauro Zanchi: Nel 1989 Lei ha dichiarato «Nessuna nuova fotografia finché non siano state utilizzate quelle già esistenti!». Quest’ottica “ecologica” in un contesto in cui la proliferazione di immagini è iper-accelerata come ha cambiato il suo modo di pensare la fotografia, anche dei grandi autori? Perché qualche anno più tardi ha affermato «Per favore non smettete di fotografare»? E che cosa direbbe oggi?

 

Joachim Schmid, The artists model, 2016, courtesy of the artist, ph C. Favero.


Joachim Schmid: Il primo slogan è stato il titolo provocatorio di un saggio sull'enorme sovrapproduzione in fotografia, che indicava le masse di immagini esistenti che sono potenziali materie prime per tutti i tipi di opere. Questo in un momento in cui una nuova generazione di fotografi si batteva per far riconoscere la fotografia come una forma d'arte a tutti gli effetti legittima. Avevo forti dubbi su questo approccio incentrato sulla macchina fotografica. E a quanto pare il mio titolo era una frase così orecchiabile che da allora mi perseguita. 

La seconda è la ricostruzione di un'istantanea trovata. L'ho usato come una sorta di motto per il mio Bilderbuch, che si basa su una collezione di stampe che dura tutta la vita. Ho pensato che fosse adatto perché per questo lavoro dipendo dalla produzione dei fotografi. E ho pensato che sarebbe stato bello confondere un po' il mio pubblico, così ogni futuro intervistatore ha qualcosa da chiedere. 

Cosa direi oggi? Temo che non abbia importanza. Il che non significa che non mi verrà in mente qualcosa anche domani. 

 

Joachim Schmid , Archiv 1, 1986, courtesy of the artist.

 

SB, MZ: Nel suo lavoro di artista si è appropriato di fotografie anonime, amatoriali, analogiche, trovate sui mercatini, in archivi, per strada, si pensi a Bilder von der Straße (1982). Ha anche riutilizzato immagini “rubate” dalla rete, come in Other People’s Photographs (2008-2011), ri-presentandole in diverse forme organizzate. Si sente vicino alla posizione formulata da Roland Barthes di “morte dell’autore” o, ora che il suo lavoro è ampiamente riconosciuto a livello internazionale, vive il conflitto di aver creato una nuova paternità delle immagini? Ha mai trovato un falsario che cercasse di erodere il concetto di originale nella sua opera?

JS: Prima di tutto, lasciatemi dire che non ho mai rubato fotografie. Sono ancora nel posto dove le ho trovate. Le ho prese in prestito per il mio lavoro, sono state adottate. 

Per quanto riguarda Roland Barthes, conosco solo il titolo del suo libro, ma non l'ho letto. Non leggo nessuna teoria dell'arte. La teoria dell'arte e l'arte non hanno molto in comune. La teoria dell'arte non è scritta per gli artisti, ma per i teorici. È un regno a sé stante. Trovo divertente, però, che tutti conoscano il nome dell'autore che ha scritto quel libro sulla morte dell'autore. 

Per quanto riguarda il mio lavoro, non sono mai stato interessato a creare uno stile mio o di qualsiasi altro marchio di fabbrica. Ciononostante, ci sono stati alcuni tentativi di imitazione, alcuni volevano essere lusinghieri, altri cercavano di prenderlo in giro. Purtroppo nessuno di questi tentativi è stato convincente. Le emulazioni di Photogenetic Drafts sembrano essere un compito standard del primo anno in alcuni college del Regno Unito. I risultati che ho visto sono piuttosto orribili. 

 

Joachim Schmid, Photogenic draft 4, 1991-2001, courtesy of the artist.

 

Joachim Schmid, Photogenic draft 7, 1991-2001, courtesy of the artist, ph C. Favero.


SB, MZ: Lei ha cominciato la sua carriera scrivendo di fotografia per European Photography, arrivando a fondare la rivista Fotokritik (1982-1987) per poi pubblicare libri d’arte a partire dalle sue collezioni di “fotografie trovate”. È ancora interessato alla critica, ha mantenuto attiva la sua pratica di scrittura?

JS: Trovo sempre più difficile scrivere e quindi mi limito a poche occasioni in cui sento la necessità di tradurre qualcosa a parole. È una situazione terribile. La scrittura è un processo che aiuta a capire le cose, ma più imparo e più diventa difficile. 

 

SB, MZ: In un breve saggio scritto da Mark Durden sul suo lavoro, egli inserisce la sua opera in un contesto culturale che ha valorizzato l’aspetto dilettantistico della fotografia, facendo specifico riferimento all’estetica promossa da John Szarkowski, direttore del dipartimento di Fotografia del Museum of Modern Art di New York (1962-1991). Accompagna il saggio l’immagine Penny Picture Display, Savannah (2008) – da American Photographs (2008) –, in cui numerose fotografie di tagli di capelli sono appese sulla vetrina di un parrucchiere. Si tratta di fotografie realizzate in studio da un fotografo di cui non ci è dato conoscere il nome. Perché ha realizzato questo progetto negli Stati Uniti e non in Germania? Se questo è un tributo a Walker Evans farebbe un tributo alla Scuola di Düsseldoft?

 

 

Joachim Schmid, Archiv 122, 1988, courtesy of the artist.


JS: Naturalmente è un omaggio a Walker Evans. Ho scelto Evans e non uno degli Struffkys per una serie di motivi molto semplici. Sono interessato al suo lavoro, le sue foto in American Photographs hanno didascalie piuttosto elaborate che sono state necessarie nel processo, e internet, compresi i siti di hosting fotografico, è dominato dagli Stati Uniti in vari modi. Il progetto è stato fondamentalmente un'esplorazione sia della ricchezza di Flickr che dell'usabilità del motore di ricerca. Volevo scoprire se potevo creare un rifacimento del libro di Walker Evans attingendo esclusivamente al pool del sito di hosting fotografico, partendo dal presupposto che con miliardi di fotografie disponibili dovrebbe essere possibile trovare un equivalente moderno per qualsiasi punto di riferimento storico. Avrei potuto scegliere Robert Frank come riferimento, ma le sue didascalie sono così brevi e generiche che ognuna di esse avrebbe garantito innumerevoli risultati tra cui scegliere. Questo è inutile. Volevo qualcosa di più specifico, da qui Walker Evans. Con mia grande sorpresa ho trovato molte foto che si supponeva fossero state fatte "nello stile di", ma trovare equivalenti che in realtà erano state fatte nello stesso luogo o che avevano qualche altra somiglianza si è rivelato molto più difficile del previsto. Quindi il libro che ne è risultato è tanto un rifacimento del libro storico quanto un documento del mio fallimento. 

 

Joachim Schmid, Archiv 606, 1994, courtesy of the artist.


SB, MZ: La sua fotografia è come un testo composto da numerose citazioni senza autore, ma in questa sorta di “copia e incolla” Lei classifica, organizza. In un certo senso la sua fotografia è pensabile non secondo uno stile, ma dettata da una o più logiche. Si potrebbe affermare che la catalogazione è uno stile? O che Lei crei delle sotto-categorie o derivazioni da generi o categorie di soggetti “ben consolidati”? Come articola questa scrittura per immagini, soprattutto quando lavora con immagini della rete, in cui la casualità dell’incontro è meno imprevedibile rispetto alla fotografia analogica?

JS: Non si può parlare di "stile" in questo contesto, secondo me. È piuttosto un atteggiamento. Nelle opere che possono essere viste come una sorta di "catalogazione" propongo un sistema di ordine per una parte dell'universo fotografico, ma a ben guardare non si può non notare che ognuna di queste proposte è al tempo stesso una forma di "catalogo" e uno sguardo ironico all'idea di catalogazione. Prendiamo ad esempio i titoli dei 96 volumi di Other People's Photographs. L'elenco è caotico come la tassonomia descritta da Borges nel Celestial Emporium of Benevolent Knowledge

 

SB, MZ: La fotografia dagli anni Ottanta è diventata una pratica sociale diffusa. Ma la “fotografia elettronica” ha anche perso affidabilità: essendo ritoccabile potrebbe non essere considerata una prova in un tribunale, per esempio. Dove è finita la verità documentale della fotografia elettronica?

JS: Non so dove sia andata a finire l'idea della verità fotografica, ma è andata. Non mi lamento perché si è trattato di un'ipotesi molto ingenua. Con un po' di fortuna (e molta educazione) potrebbe essere sostituita un giorno dalla percezione critica.

 

Joachim Schmid, Estrelas Amadas, 2013, dettaglio, courtesy of the artist.

 

Joachim Schmid, Estrelas Amadas, 2013, courtesy of the artist.


SB, MZ: Nel suo articolo “The Electronic Photographer Is Coming” (1985) analizzava l’impatto di scrittura e reti informatiche sulla produzione, sulla distribuzione e sul significato stesso delle fotografie in relazione alla “distruzione del reale”. Quale crede sarà l’evoluzione della fotografia alla luce dell’altissimo livello di condivisione di immagini in rete da parte dell’homo photographicus?

JS: Se volete conoscere il futuro dovete chiedere a un indovino. Il mio potere chiaroveggente è minimo. È già abbastanza difficile stare al passo con la presenza.

 

SB, MZ: Che cosa fa l’algoritmo all’aspetto dilettantistico della fotografia?

JS: Noi, il collettivo degli umani, facciamo immagini molto simili da decenni. Non l'abbiamo imparato a scuola e nemmeno i nostri genitori ce lo hanno insegnato. È un processo di percezione e di imitazione che ha creato degli schemi. Sempre più di questi modelli vengono ora incorporati nel software e nell'hardware. Gli utenti della videocamera non hanno più bisogno di alcuna conoscenza, nemmeno la minima parte per imitare ciò che hanno visto prima. Di conseguenza avremo più immagini che assomigliano ad altre immagini e sarà più difficile fare fotografie "cattive". La maggior parte dei consumatori è probabilmente contenta di questo. Finalmente è vero, la macchina fotografica fa le foto, non la persona dietro la macchina. Ora siamo tutti fotografi, ma i fotografi non servono più.

 

Joachim Schmid, n°629, Berlino, novembre 1999, courtesy of the artist.


SB, MZ: La fotografia è un mezzo che più di altri ha cambiato il reale?

JS: Tutti i media e tutte le tecniche hanno un impatto. L'impatto dei libri nel XVIII secolo è stato più forte o meno forte di quello della radio nel XX secolo? L'impatto del telefono è stato più importante dell'impatto del cinema? Sono domande a cui è impossibile rispondere. Cerchiamo invece di scoprire esattamente come e quale tipo di fotografia ha avuto un impatto su cosa. La fotografia ha cambiato molto, ma non lo si può spiegare in numeri.

 

Joachim Schmid, The Invisible Photograph (Discarded). Courtesy Hillman Photography Initiative at Carnegie Museum of Art, 2014. Per le immagini courtesy of the artist and P420 gallery.

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Il lavoro dell'immaginario

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Darwin in The Descent of Man, 1871, afferma: «La differenza mentale fra l’uomo e gli animali superiori, per quanto sia grande, è certamente di grado e non di genere». Una progressione nei risultati di ricerca che ci aiutano a comprendere un poco meglio cosa significa essere umani, conferma sistematicamente l’ipotesi del grande naturalista inglese. Antecedenti evolutivi delle nostre attuali distinzioni di specie che presidiano all’antropogenesi si ravvisano in altre specie. Dal canto dei fringuelli alla parola; dall’affettività primaria di una mamma scimpanzé al caregiving di una mamma della specie homo sapiens; dall’eusocialità tra i primati di ordine superiore alla cooperazione tra noi umani. E l’immaginazione? E l’immaginario? Abbiamo prove evidenti dell’attività onirica degli altri animali e anche della loro capacità immaginativa. È opportuno allora chiedersi se producono, come noi, mondi immaginari. Sappiamo che gli altri animali sanno ma non sappiamo se sanno di sapere. Ipotizziamo di no, anche se è verosimile supporre che dispongano anche nel campo dell’immaginario di antecedenti evolutivi, magari rudimentali. Pare che le loro conoscenze siano operative, immediate e pratiche, magari spesso irraggiungibili in molteplici aspetti e prassi per noi umani. Basterebbe considerare per un momento la tela di un ragno.

 

 

La sua dimensione estetica, in grado di sollecitare la nostra sensibilità e di farne scaturire infinite interpretazioni, richiede la presenza di un appartenente alla specie homo sapiens. È quest’ultimo che fotografa le tele di ragno, allestisce magari delle mostre di quelle fotografie, riproduce le tele dipingendole, le commenta, le analizza, le studia, ne ricava teorie, le usa come metafore, crea poesie, inventa miti e linguaggi fino a irretirsi (sic!) nelle proprie stesse creazioni. Tirare un filo tra noi e un ragno è un’impresa impegnativa e difficile, eppure quel filo c’è. Tra noi e uno scimpanzé o un gorilla è meno impegnativo, ma la vita è differenza che genera differenze. E forse la nostra differenza consiste nel saper dire di no alla coincidenza con noi stressi e con la nostra natura, alle routine e alle consuetudini, e nel saper creare immaginari componendo e ricomponendo in modi almeno in parte originali i repertori esistenti nel mondo. Fino a inventarsi altri se stessi e a vivere di loro.

“Vado mutando di personalità”, scrive Fernando Pessoa, “vado arricchendomi della capacità di creare nuove personalità, nuovi modi di fingere che io comprenda il mondo, o meglio, di fingere che lo si possa comprendere”. E ancora, sempre lui: “Ci sono cose in me che avrei voluto poter trasformare in uomini, solo per poterle affrontare faccia a faccia. Avrei detto loro: ‘Non sono vostro schiavo!’. Ma quando queste cose sono dentro di noi non esiste negazione né coraggio. Obbedendo a esse, obbediamo a noi stessi; obbedendo a noi stessi, obbediamo a esse”. [Fernando Pessoa, Teoria dell’eteronimia, Quodlibet, Macerata 2020; p. 20]. Sul tema della creatività Donald Winnicott avrebbe scritto, in una lettera a Melanie Klein del 17 novembre 1952: “La psicologia della creazione artistica è quindi un genere della creatività che infonde vita…”, confermando l’affermazione di Mary Wollstoncraft: “È l’immaginazione il vero fuoco che abbiamo rubato al cielo”. 

 

 

La sostanza dei sogni prende fuoco

In una lettera a Donald Winnicott, Claire Britton scrive: “Buona notte – ti scrivo due righe di una poesia di Seigfried Sassoon (non riesco a ricordarmene di più):

‘Grazie a voi, Beethoven, Bach, Mozart,

la sostanza dei miei sogni ha preso fuoco’.

 

 

Non è bella? Sai che Wordsworth per la maggior parte della vita ha parlato dell’enorme fortuna che aveva per il fatto che il suo mondo immaginario interno fosse così strettamente connesso alle sue preferenze reali? Era una fonte costante di meraviglia, gli sembrava un miracolo e cercava sempre di cogliere i segni di questo rapporto” [in F. R. Rodman, Winnicott, Vita e opere, Raffaello Cortina Editore, Milano 2004; p. 100]. Immaginazione, immaginario, comportamento simbolico, finzione, finzione di finzione, simulazione, ironia, umorismo, negazione, creazione, esperienza estetica, bellezza, sono esperienze peculiarmente riconducibili a homo sapiens, che è in grado, anche se non sempre, di mettersi al margine di un contesto o di una situazione a cui appartiene e da cui trae senso e significato, magari mettendola in discussione fino a rivoltarla e ribaltarne il senso. Il ready made di Marchel Duchamp ne è una conferma evidente, ma ancor più lo è il gesto con cui, in occasione dell’inaugurazione di una mostra al Museo Métropole di Lille, in cui Fountaine, l’opera di Duchamp del 1917 era in mostra, alla presenza del Presidente francese, un esibizionista riportò al suo uso originario l’opera, urinandovi dentro e venendo immediatamente arrestato. La rottura di un ordine di senso basato su una precedente rottura di un ordine di senso evidenzia sia le proprietà emergenti che i vincoli di persistenza dell’immaginazione e della creatività umane. Non solo, ma ci aiuta a comprendere anche che il senso emerge dal margine e che i margini che abbiamo non sono illimitati, come non sono illimitate le grammatiche, secondo la fondamentale analisi di Andrea Moro, in I confini di Babele, Il Mulino, Bologna 2018. Il margine, che non è lo spazio residuale, la componente che non conta, quel che rimane rispetto al centro, bensì, in buona misura, il luogo delle effettive possibilità, l’area delle azioni possibili, si propone come l’ambiente là dove emerge il senso, e soprattutto il senso del possibile. Già Martin Heidegger aveva sostenuto che “Il limite non è il punto dove una cosa finisce, ma, come sapevano i Greci, ciò a partire da cui inizia la sua essenza”. È richiesta oggi un’epistemologia del confine e del margine, per riconoscere che è solo il secondo che ci può aiutare a rendere flessibili, seppur a non negare, le componenti di chiusura del primo. Il rapporto tra mondo immaginativo interno e esperienze reali si esprime anche nell’atto di leggere. Il lettore vede oltre le parole sulla pagina: la lettura è dunque, a sua volta, un atto dell’immaginazione. Ludwig Wittgenstein nel Tractatus Logico-Philosophicus scrive che “La proposizione è un’immagine della realtà, è un modello della realtà quale noi la pensiamo”. E Oliver Sacks, in Allucinazioni, sottolinea che “noi non vediamo con gli occhi: vediamo con il cervello.

 

Peter Mendelsund – che della grafica e dell’art direction editoriale è anche teorico – ha scritto un libro originale e affascinante, Che cosa vediamo quando leggiamo (Corraini, Mantova 2020), in cui afferma che quando ricordiamo l’esperienza di aver letto un libro, immaginiamo un dispiegarsi continuo di immagini. Secondo i principi della fenomenologia della percezione visiva e dei processi mentali, il linguaggio scritto si configura come un potente produttore di immagini, un fertile motore dell’immaginazione. Nell’esperienza della lettura ogni lettore colma le lacune dell’indistinto mettendoci sempre qualcosa (anche molto) di suo, soggettivamente. Nota Mendelsund: “È proprio quello che il testo non dice apertamente a sollecitare la nostra immaginazione. E dunque mi chiedo: forse immaginiamo di più, o più nitidamente, quanto più un autore è criptico e sfuggente?. Rilevante è l’intuizione che l’esperienza della lettura di un libro possa essere come l’esecuzione di un brano musicale, dove il lettore è autore della performance e insieme suo spettatore. O quella che la memoria è fatta di immaginario e l’immaginario è fatto di memoria. O anche l’interrogativo se sia possibile esercitarsi a immaginare, come ci si esercita nel disegno, per riuscire a immaginare meglio.

 

Epistemologia del margine

È dall’ibridazione di codici, dall’incontro tra differenze, che a ben guardare ricaviamo di fatto i processi di innovazione e trasformazione e, quindi, le dinamiche della vista stessa. I frutti puri impazziscono, aveva scritto non molti anni fa l’antropologo James Clifford, tracciando uno dei più bei ritratti della letteratura e dell’arte del ventesimo secolo [J. Clifford, I frutti puri impazziscono, Bollati Boringhieri, Torino 2010]. Un’epistemologia del margine esige un approccio marginale, in grado cioè di muoversi negli spazi transdisciplinari, dove i saperi e le culture si intrecciano tra loro più volte dando vita a sguardi neodisciplinari e fluidi, in grado di riconoscere che le narrazioni della conoscenza sono a loro volta parte integrante, e in una certa misura costitutive, delle realtà narrate. Tutto questo non è il contrario della relativa e necessaria chiusura di tutto quel che vive per poter esistere. 

Una realtà vivente, infatti, per esistere tende a darsi una relativa chiusura, condizione della propria autonomia (Maturana, Varela, Autopoiesi e cognizione, Marsilio, Venezia 1980). Vive, tuttavia, in quanto al margine si generano le possibilità di adattamento e apprendimento che ne mettono in crisi l’autonomia e ne sollecitano l’evoluzione. Sia l’adattamento che l’apprendimento non sono processi lineari ma circolari e conflittuali. Il margine, come l’ambiguità e la mancanza, tende a segnalare l’importanza di una visione dinamica e non lineare, complessa e non deterministica, dell’esperienza. Appare evidente l’importanza di domandarsi allora come si può riconoscere e comprendere il margine; quale rapporto tende a esserci tra il margine e la chiusura; perché essere al margine, nel linguaggio di ogni giorno assume un valore negativo, ma allo stesso tempo chiedere la concessione di un margine vuol dire auspicare una possibilità. Per quanto fragile, nel margine sembrano vivere l’adattamento e l’apprendimento e sappiamo che la stessa autonomia di un sistema dipende dalla capacità del suo adattamento continuo, della sua gestione evolutiva dei conflitti con gli altri e con l’ambiente.

 

Qual è insomma il senso del margine e che rapporto c’è fra difficoltà e possibilità di essere al margine e gestione evolutiva dei conflitti? Apparirà probabilmente evidente come la posizione marginale sia propria e proficua per la comprensione e la gestione dei conflitti. Provando a ragionare intorno al margine e sulle esperienze che esso richiama è opportuno privilegiare una visione ampia e pluridisciplinare; rispetto al tema del margine abbiamo perciò inteso tenere conto di quello che accomuna gli organismi viventi, gli individui, i gruppi, le società. A volte il margine si è presentato come residuo, a volte come terra di nessuno; in certi casi come zona d’ombra. Tutti significati che inevitabilmente rimandavano a un centro, a un nucleo, a un dentro contrapposto a un fuori. Il confronto ha messo in evidenza come il margine non sia un confine ma uno spazio, una infinita varietà di toni; non una separazione tra bianco e nero ma una molteplice scala di colori. Si trova tra e si evolve in relazione a ciò che è fuori e ciò che è dentro, si modifica continuamente, cambia in base ai rapporti che si sviluppano nelle aree di contatto e contagio: è lo spazio dell’altro da sé e la sua esistenza e il suo valore dipendono dalla disposizione alla discontinuità e al cambiamento. Nella zona intermedia del margine si creano i vincoli e le possibilità di apprendere ad apprendere dall’evoluzione dei conflitti che i diversi movimenti comportano. Il margine non si contrappone a ciò che è solido, continuo, ma gli è complementare e per molti aspetti lo alimenta. E’ in questo ambiguo equilibrio tra ciò che muta e ciò che permane che si gioca il destino delle specie, dei gruppi, delle organizzazioni, delle società, ma anche degli individui.

 

Le società ad esempio vivono in quella continua tensione fra ciò che è e ciò che può essere; fra l’istituito e l’istituente; senza questa tensione non vi é democrazia. Il margine ha cominciato perciò a configurarsi, nel confronto e nello scambio, come il luogo dell’ambiguità, dove non valgono le leggi del vero e del falso, del sano e del malato; come il luogo del non definito, dell’incertezza e dei dubbi; come lo spazio delle possibilità. Il linguaggio, che esprime la potenza creatrice del possibile e dell’inedito, è in un certo senso la pratica del margine per eccellenza; il luogo dell’elaborazione e della possibile approssimazione: la stessa parola può esprimere le più tenaci forme di integrazione ma anche le più drammatiche forme di esclusione. Il margine è perciò luogo di disagio e di inquietudine, luogo di ricerca potenzialmente generativo di possibilità e di futuro. L’elaborazione che il conflitto comporta può fare del margine il luogo privilegiato dell’evoluzione di una relazione, di un rapporto tra gruppi, di un incontro di culture.

 

Dimensione germinale del margine

L’elaborazione del margine è un esercizio atto a mettere in forma la vita intera. Il termine giapponese Yohaku significa letteralmente margine, spazio vuoto (yo: resto; haku: bianco), qualcosa che ha raggiunto la riduzione all’essenziale. La stessa dimensione i greci la definivano àskesis, indicando un esercizio e un’esperienza attraverso cui la vita intera prende forma. Il margine, lo spazio agibile, luogo del vuoto e del possibile è perciò la struttura che collega, il luogo del gioco, del rischio del baratro e di ogni possibilità. Gestire l’evoluzione del conflitto vuol dire “darsi margine”. Il margine è il luogo del divenire, dell’inizio dell’altrove e in questo senso vale il gotico marka quando indica la frontiera. L’origine della parola ne segnala sia il genere maschile che femminile, la sua capacità di costituire un contenuto e di essere luogo germinale di contenimento, mentre può essere luogo di emarginazione. In queste sue potenzialità sta il più alto rischio ma risiedono anche le opportunità più elevate. Quando si cerca di realizzare un processo di cambiamento in una situazione che riguardi l’esperienza individuale, quella di un gruppo o di un’istituzione, ci si rende presto conto che proprio le cose lievi bisognerebbe perseguire: quelle in grado di facilitare l’evoluzione. Ci si rende anche conto che perseguirle non è però facile poiché per il fatto stesso di perseguirle esse tendono a strutturarsi e a divenire impegnative, costose e vincolanti. La nostra stessa ricerca di consistenza nell’azione, il nostro stesso desiderio di lasciare una traccia, concorrono a questo rischio e non sempre ci riesce di disporci ad attendere attivamente e in forme leggere la loro manifestazione imprevista, o raramente prevedibile.

 

È al margine della caoticità che si genera l’incertezza (Holland, 1998) e la possibilità della vita nell’infinitamente piccolo, mentre le dinamiche dell’ “infinitamente grande”, come i sistemi sociali e i processi sociali in genere, tendono ad avere almeno in parte gli stessi andamenti. Il senso del margine sta, quindi, nel suo valore generativo; se il margine non è una linea né un confine, contiene, per la stessa ragione della generatività, il rischio della perdita. Tra conformità e difformità emerge lo spazio del “quasi-conforme”: quello spazio può portare all’esclusione o può generare una trasformazione emancipativa. Può generare aggressione ed emarginazione o capacità di riflessione e “corteggiamento”. Se il margine riesce a essere valorizzato come spazio e tempo di gioco può divenire il passo da fare per spostarsi dalle posizioni centrali di certezza e accedere alla plasticità delle zone temporanee ed evolutive, agli spazi del possibile dove dalla buona elaborazione dei conflitti può emergere il senso del futuro.

 

Ambiguità del margine

Una delle ipotesi più accreditabili sulla complessa origine della cultura e del legame sociale è che abbiano a che fare, tra l’altro, con l’elaborazione dell’ambiguità e con il conflitto generativo. Dove convivono in maniera contingente domanda di autonomia presente in ogni vita e della dipendenza che ogni vita ha dalle altre vite per riuscire a riconoscersi mentre viene riconosciuta, lì si originano la socialità umana e la cultura. Ci leghiamo agli altri nei processi primari e successivi che presidiano all’elaborazione di questa ambiguità e così, verosimilmente, istituiamo forme riconoscibili e almeno relativamente rassicuranti che si esprimono in valori e culture. Il conflitto generativo è costitutivo di quell’incontro reiterato che istituisce la società. Dall’incontro di differenze possono emergere provincie di significato, se la cultura fa da lievito, o regressioni e chiusure senza l’alimentazione culturale. 

Lo stesso processo porta al consolidamento delle forme sociali e alla loro relativa stabilità e durata. Forze centripete e difensive spesso alimentano le culture fino alla chiusura, vissuta come condizione di preservazione con l’esito di giungere alla negazione di ogni margine di flessibilità per preservare l’integrità, con rischi di integralismo. Quando questo processo si avvita in modo esponenziale su se stesso e rompe gli indugi e l’incertezza di ogni differenza, negandola, ecco che si configura l’integralismo o il totalitarismo come negazione di ogni margine.

 

La ricerca della dimensione pura del “noi” diviene una forma di socialità ossessiva, che esige nette e marcate separazioni tra il dentro e il fuori, tra noi e loro. Il gioco del possibile e il riconoscimento di ogni margine suonano come minacce e la cultura, figlia dell’ambiguità, diviene madre di mostri, anch’essi forme di culture che si alimentano voracemente della negazione e dell’esclusione di ogni spazio di incertezza, di ogni margine e di ogni differenza, di ogni possibilità di accesso al conflitto e al dialogo. Lo spazio del gioco finisce e con esso il sorriso, la dissacrazione, il contagio e l’ironia. Il margine può essere perciò inteso come il luogo dell’ambiguità, dove convivono ineliminabilmente le dimensioni di vero e di falso con cui i fenomeni non banali si manifestano, dove le cose divengono possibili senza che necessariamente avvengano. Il margine è il luogo dove, stando nel micro, due cellule possono incontrarsi e generare una vita o possono non incontrarsi. E’ anche, nel macro, il luogo dove possiamo incontrarci o, avendo potuto incontrarci, non ci incontriamo.

 

La base sicura e il margine possibile

Per tutte queste ragioni il margine permane un luogo ambiguo, di disagio relativo, con un’infinita possibilità. Il bisogno di centro non è in alternativa con l’esistenza del margine. Appare infatti di particolare importanza riconoscere il bisogno di sicurezza e di protezione che l’appartenenza ad un centro suscita e allo stesso tempo comprendere il senso di paura e di incertezza che il margine attiva. Se è vero che l’elaborazione del conflitto è decisiva per accogliere la complessità del margine, essa ha bisogno di una base sicura per divenire possibile. La bellezza delle dimensioni destrutturate è possibile per l’esistenza di strutture che connettono e rassicurano. I fallimenti nell’elaborazione emancipativa del margine non vanno cercati solo nelle condizioni esterne avverse o sfavorevoli, ma anche negli eccessi di relativismo e nell’incapacità di riconoscere il valore del centro e la sua funzione di espressione di autonomia e di possibilità di relazione, negoziazione e conflitto. La negazione della dipendenza non aiuta a riconoscere il valore e la possibilità intrinseci nel margine. Si rischia altrimenti di predicare il margine e di praticare la ricerca rassicurante del centro. Noi tutti dobbiamo la nostra crescita e la nostra evoluzione all’esistenza di un livello di autonomia della nostra origine e della nostra storia; tutti noi allo stesso tempo sappiamo che quella autonomia si genera e si afferma in quanto dipendiamo da qualcuno e qualcosa che ci rassicurano, almeno relativamente. Il margine tra noi e l’altro è così un “terzo spazio” tra l’accettare l’altro passivamente senza farsi influenzare dalla sua presenza e il negare l’altro per la differenza grande o piccola che porta con sé. La negazione della dipendenza dall’altro in fondo è il significato più intenso e più inquietante della negazione dell’altro.

 

La ricerca della propria autonomia è una condizione perseguita a partire da fondamenti anche naturali da parte di ogni sistema vivente. Si giunge però in molte situazioni a cercare la via della propria emancipazione trasformando l’autonomia in chiusura. Si rimuove così il fatto che l’altro è la fonte di ogni possibile emancipazione, così come è la fonte della propria e dell’altrui mente e di ogni possibile pensiero, coscienza di ordine superiore e conoscenza. Senza attribuzione di autorità all’altro egli non può essere fonte del nostro riconoscimento. Ciò è possibile senza negazione e senza adesione cieca. Lo spazio tra le due dimensioni è proprio il margine. È uno spazio ambiguo nel senso più profondo del termine. Mentre richiede lo spazio dell’altro, esige allo stesso tempo il riconoscimento del limite del proprio. Non è concesso al conflitto per l’elaborazione del margine la riduzione al gioco del vero e del falso, pena lo scadere del conflitto stesso in antagonismo.

 

Elaborazione della negazione

La tendenza a regredire alla negazione e alla scomparsa del margine è sempre presente in quanto l’aspettativa di certezza è pervasiva e pretende spazio di affermazione. L’ammissione dell’incertezza come condizione costitutiva di ciò che vive pone oggi una sfida epocale all’esperienza personale e sociale così come alla ricerca scientifica. Dalla quantità di incertezza riusciremo ad ammettere nella nostra esperienza relazionale, sociale e politica, dipende il nostro stesso futuro. Se la ripetizione rassicura e la differenza inquieta, la loro ambigua coesistenza è la vita stessa; la prevalenza di una delle due dimensioni può generare negazione e morte. Il margine è perciò conflittuale. Di quello stesso conflitto che genera la cultura come luogo dell’incontro e della coevoluzione delle differenze. Così come il margine è il luogo dove convivono ineliminabilmente le dimensioni di vero e di falso con cui i fenomeni non banali si manifestano, alla stessa maniera il conflitto è l’incontro delle differenze e dalla sua elaborazione possono emergere emancipazioni o regressioni. Per questo il margine è anche il luogo del disagio, dove non ci sentiamo “a posto”, dove si esprimono, costantemente, inquietudine, possibilità e paura di essere esclusi. Dove non è facile sostare senza prendere posizione e, soprattutto, senza tendere a semplificare e ridurre la complessità. È solo perché si cerca una via d’uscita e, pertanto, una certa convergenza verso un “centro” che si riesce a valorizzare il margine. È perciò importante riconoscere che il margine non è il luogo del vago, del vuoto di senso, dove non vige un principio di autorità, un orientamento o un criterio di scelta. È proprio l’esistenza di un orientamento e di un principio selettivi che consente di interagire, negoziare o confliggere dando valore ai margini di evoluzione esistenti e possibili. Abbiamo bisogno di riconoscere il valore della domanda di sicurezza e di strutturazione, non negandoli. La possibilità evolutiva sta nel modo di elaborare la domanda di sicurezza e non nel negarla, accogliendo il valore che ha per chi la esprime. È la prima condizione per una reciprocità ed una comune emancipazione possibile. Se è vero che c’è qualcosa di bello e generativo nel destrutturato, del resto, è perché appoggia su qualcosa di strutturato. Esistono le emozioni e c’è una coscienza primaria e fondativa. A partire da una base generativa originaria, emerge la comunicabilità in una relazione. Non sono gli esiti relativistici che consentiranno di valorizzare il margine e le sue potenzialità, ma è la difficile accoglienza della sua ambiguità, che può essere generativa.

 

Cultura e innovazione al margine

L’ambiguità del margine ha una sua origine interna, prima ancora che relativa ai fenomeni sociali. Siamo prevalentemente orientati alla persistenza e alla continuità dei nostri orientamenti e delle nostre posizioni, rispetto alla disposizione a cambiare punto di vista. Vi è un margine interno che fa i conti con un ostacolo epistemologico, per cui cambiare idea richiede spesso un investimento in discontinuità non facile da realizzare. I vincoli della storia e dell’esperienza sono, oggi in particolare, spesso rinviati o risolti e sostituiti nella negazione, piuttosto che dare vita all’immaginazione del possibile. Il margine diviene così un luogo di implosione piuttosto che un luogo di ricerca e di progettualità. Accade però che alcune tra le categorie più importanti di una socialità possibile oggi si definiscano al margine delle forme consolidate. La definizione dei diritti futuri e possibili e, in particolare il diritto di cittadinanza, seguono oggi almeno due direttrici: quella dell’autonomia e quella dell’alterità, e in questo modo vengono messe in discussione le categorie moderne della cittadinanza. L’unificazione dei mercati entra in conflitto con la domanda di partecipazione che si estende di pari passo e con una domanda crescente di autonomia dalla sfera economica e dallo stato, che si approfondisce progressivamente.

 

Questi casi sono accomunati dal fatto inedito che la produzione della norma prende le mosse da un’antropologia dell’alterità e pone il rapporto tra il soggetto giuridico e le organizzazioni politico-sociali a partire dalla molteplicità delle forme di individuazione del proprio sé. Il margine diviene origine di trasformazione e pone un conflitto rilevante tra il diritto come codificazione di un comportamento unico per tutti i cittadini e i confini troppo limitati delle norme sociali per contenere la varietà delle identità individuali. L’alterità sfuma, insieme alla ridefinizione dell’identità, dal centro al margine. Le “volontà di controcondotta” espresse dai soggetti e in grado di sostenere norme individuali di comportamento, esaltano il ruolo del conflitto come via per problematizzare l’esistenza della propria identità, nel momento in cui, anche a livello culturale e sociale, prende piede l’idea che il riconoscimento sia possibile a livello transindividuale. Una soggettività relazionale e riflessiva è per molti aspetti resa necessaria dalla densità delle relazioni e degli scambi e da una concezione della soggettività non come presupposto, ma come esito delle relazioni e delle azioni attraverso le quali gli individui danno voce ai propri desideri, alle proprie aspettative e, a livello sociale, prendono voce le istanze marginali e cercano inedite forme di esercizio del potere. La contraddizione tra diritto e giustizia emerge qui in tutta la sua portata.

 

La forma giuridica tradizionale e dominante, esito dei rapporti di forza storici e consolidati, viene sollecitata da nuove attese di giustizia che, dal margine, ne interrogano e mettono in discussione la struttura consolidata. Molte sono le differenze sociali che confliggono con l’autorità e il potere legittimo e la natura “conservatrice” di ogni istituzione viene messa in discussione dalla natura “fondatrice” delle istanze marginali. Le crisi contemporanee presentano spesso, oltre a tutti gli altri aspetti, una domanda che proviene da componenti della popolazione, locali o globali, ai margini dell’ordine legittimamente riconosciuto. L’intreccio tra le crisi ambientali e i conflitti sociali presenta molti di questi casi in cui ogni situazione rimanda ad una questione più generale di giustizia. Un intero universo di esperienze di base legate alla difesa del territorio, dell’aria e dell’acqua, emerge ponendo questioni ineludibili e tali da collegarsi a questioni epocali ed esistenziali, perciò radicalmente conflittuali. Si tratta di “lotte per il riconoscimento” che propongono non solo contenuti inediti ma anche un’etica del conflitto.

 

Esse riguardano le politiche per il riconoscimento all’interno di una prospettiva multiculturale. Quelle politiche sono generate da conflitti sociali più o meno espliciti e diffusi, ma in grado di caratterizzare la contemporaneità, dagli aspetti bioetici a quelli riguardanti il rapporto tra libertà individuale e appartenenza comunitaria. Gli stessi principi universali liberali vengono sollecitati dall’incidenza delle differenze tra culture che irrompono sulla scena e chiedono voce, aprendo spazi di conflittualità inediti e dagli esiti incerti e per molti aspetti imprevedibili. A confronto ci sono l’appartenenza, il diritto e la solidarietà da un lato, e la violenza, la privazione dei diritti e l’umiliazione, dall’altro. Le possibilità dell’integrità e dello sviluppo personale sono sempre più correlate ad una dimensione intersoggettiva. Le condizioni dell’interdipendenza io – altro si profilano come il luogo marginale dove il conflitto può generare il presente e il futuro, con il sostegno generativo della cultura.

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Jacques Henri Lartigue e Henri Cartier-Bresson

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A Venezia sono attualmente in corso due importanti mostre: Le Grand Jeu di Henri Cartier-Bresson e L’invenzione della felicità di Jacques Henri Lartigue. Poco distanti l’una dall’altra, offrono la possibilità di confrontare due modi completamente diversi di concepire la fotografia. Per Cartier-Bresson è vivere nel turbine degli eventi, per Lartigue vuol dire stare fuori dal tempo e vivere nel suo mondo dorato. Entrambi, tuttavia, sono uniti da un’irrefrenabile “pulsione fotografica”.

“Io non ho mai mostrato le mie fotografie, salvo ai miei amici e familiari. Del resto è per loro e per me che le facevo, per gioco”: è questo il manifesto di Jacques Henri Lartigue, riproposto su una parete della casa dei Tre Oci, dove è in corso una mostra monografica. Anche la firma è giocosa, dopo l’ultima lettera del cognome appare il disegno di un sole proprio come lo traccerebbe un ragazzino: un cerchio e tanti raggi intorno. A Ferdinando Scianna, Lartigue rivela che le fotografie le aveva fatte per se stesso, come “in estate si fanno marmellate di albicocche quando sono al colmo del sapore e del profumo. Per conservare, di quel regalo della natura e della vita, una traccia”. Ma a me, ribadiva, “piacciono le albicocche fresche, molto meno la marmellata. Il palpito di vita, fulmineo, irripetibile, prezioso”. Così è l’auto che sfreccia velocissima al Grand Prix de l’Automobile Club de France o lo scroscio d’acqua sulla spalla di Arlette Rebuffel in spiaggia a Monte-Carlo (1953). Con ancora maggiore intensità quel palpito è reso dall’espressione furba della moglie Madeleine Messager, seduta a fare la pipì sul water di una stanza d’albergo durante il loro viaggio di nozze a Chamonix (1920). Con lo sguardo direttamente in macchina e le mani appoggiate sulle ginocchia, sembra una bambina che lo osserva divertita. Lartigue si riflette in quello sguardo. Come per la marmellata, cerca di preservare ciò che invece marcirebbe.

 

Jacques Henri Lartigue, Coco, Deauville, 1938.


La sua opera toglie peso alle figure umane, agli animali, alle città. La fotografia, che lui stesso definisce «arte del transitorio», non ha nulla di “pietroso” o di fisso. Lartigue sfugge a Medusa, non la guarda negli occhi. Come Perseo, vola con sandali alati e la leggerezza del suo sguardo solleva i soggetti delle sue immagini, li trae verso l’alto, ne evidenzia gli slanci, ne dispiega le forme. Estenua la materia senza annientarla. Le sue immagini sono eteree, fatte quasi di nulla: i merletti degli abiti femminili, le velette che coprono i visi, gli abiti gonfi di pieghe. E, ancora, una palla sospesa sopra la testa della domestica Dudu, una ruota d’automobile che sembra deformata da una potenza invisibile. Ogni elemento sembra fatto d’aria, è facile sollevarlo da un suolo che sembra addirittura non esistere, sfidando in ogni dettaglio la legge assoluta della gravità. Immagini cariche di mistero, tanto più attrattive in quanto prive di consistenza. Non ci sono tragedie, morti, sofferenza e nemmeno l’intenzione di trasmettere chissà quale messaggio edificante, non siamo dinnanzi al dolore degli altri.

 

Jacques Henri Lartigue, Grand Prix de l’Automobile Club de France detta anche L’automobile deformata, 1913 ma diffusa da Lartigue nel 1912.


Jacques Henri Lartigue, Anna la Pradvina, detta anche “la signora con le volpi”, Avenue du Bois, Parigi, 1911.


Davanti alle foto di Lartigue si è liberi di interpretare o di desiderare, per questo ne siamo attratti. Quelle immagini non mostrano che eventi marginali, movimenti infinitesimali, atti transitori. Non hanno alcuno scopo, se non quello di conservare la memoria, senza alcun compiacimento. Splendide località, bellissime donne, gare automobilistiche, esperimenti di volo, i volti del superfluo di una perenne vacanza. John Berger ci ricorda che guardare una foto significa mettersi nella stessa disposizione visiva del fotografo, riproporre esattamente, tra gli infiniti possibili, lo stesso atto compiuto dal fotografo. Guardare, come fotografare, “è un atto di scelta”. E la scelta di Lartigue è estremamente precisa: fotografa la sua vita e lo fa per se stesso e i suoi amici. I suoi 129 diari composti da fotografie e commenti sono destinati conservare una memoria esclusivamente privata. Non sono pensati per essere pubblicati. Lo saranno solo molti anni più tardi, su invito di Richard Avedon. 

 

Lartigue conserva la sua esperienza solo per sé. Trasforma il reale non in monumenti ma in fantasmi, inconsistenze evocate anche nel titolo del suo primo diario: Mémoires sans mémoire. I ragazzini che saltano e le donne che sembrano volare, ricordano l’evanescenza dei fantasmi, ciò che Roland Barthes definiva un piccolo simulacro, l’eidòlon emesso dall’oggetto, ovvero “lo Spectrum della fotografia, dato che attraverso la sua radice questa parola mantiene un rapporto con lo “spettacolo”, aggiungendovi quella cosa vagamente spaventosa che c’è in ogni fotografia: il ritorno del morto”. La fotografia di Lartigue non ha nulla di spaventoso. Conserva invece la radice profonda che unisce “spettro” a “spettacolo”, quel verbo “specere”, guardare, perché Lartigue vive per guardare. La vita è uno spettacolo e Lartigue è un giocoso voyeur. Le parole chiave della sua estetica potrebbero essere forma, stile, decorazione, illusione, spettacolo di una classe sociale ricca e agiata di cui lui faceva parte.

 

Le sue foto non sono realtà artefatte, sono naturalmente frivole, impalpabili, aeree. Una leggerezza che equivale a una fuga. Ma da cosa, se la sua vita assomiglia tanto a un’interminabile vacanza? Dal tempo che scorre inesorabile. Il segno del tempo è quello che la sua incessante opera di registrazione ha sempre cercato di cancellare mediante le pagine del suo diario. Non c’è nessuna aspettativa poiché futuro e passato vengono livellati in un continuo istante declinato al presente. La storia che viene narrata non è la storia del tempo in cui vive, ma unicamente quella del proprio tempo e della propria vita. Un gioco. Per questo Lartigue dà alla felicità immagini di leggerezza. Le sue donne sono svagate, pensose, divertite, sbarazzine, seducenti, esuberanti. Comunicano una sensazione di levità, sospensione, di silenzioso e calmo incantesimo. Come si può distogliere lo sguardo da Coco a seno nudo sdraiata sulla spiaggia di Deauville (1938), dallo sguardo magnetico di Renée Perle (1930), più volte fotografata, dal cappello di piume di Gaby Deslys al Casino di Parigi (1918)?

 

Queste foto saranno rese pubbliche solo molti anni dopo. Nel 1963, durante un viaggio negli Stati Uniti, Jacques Henri Lartigue mostra le sue fotografie a Charles Rado, che rappresenta l’agenzia Rapho a New York. Costui, a sua volta, le mostra a John Szarkowski, allora giovane conservatore del Museum of Modern Art, che immediatamente gli propone di esporle. Nel 1963 il fotografo ha già quasi 70 anni, è conosciuto soprattutto come pittore, ma Szarkowski non esita a presentarlo come il “padre” di Henri Cartier-Bresson e dell’“istante decisivo”. Qualche anno dopo la mostra di New York, Richard Avedon gli propone di cercare nelle sue fotografie e di riscrivere il suo diario. Avedon e Bea Feitler scelgono le fotografie della Belle Époque, ma anche quelle degli anni Venti e Trenta ed altre più recenti. Gli album nei quali il fotografo collega le fotografie e i testi alle didascalie sono l’occasione per ripercorrere la sua vita, come accade per la mostra alla Casa dei Tre Oci. Le pareti ricordano le pagine di un diario, la scansione è quella degli album di famiglia: la Belle Époque, gli anni Venti e Trenta, i Quaranta e i Sessanta e così sino agli ultimi anni.

 

Henri Cartier-Bresson Bougival, France, 1956, épreuve gélatino-argentique de 1973 © Fondation Henri Cartier-Bresson / Magnum Photos.


Il titolo della mostra, L’invenzione della felicità, è davvero una felice intuizione se, come credo, intende richiamarsi al senso più autentico dell’inventare, che è quello di trovare ciò che esiste, scoprire ricercando ciò che si presenta davanti a noi. Le foto di Lartigue sono la testimonianza di una felicità perseguita come stile di vita, privatamente conservata, scatto dopo scatto, fortuitamente e fortunatamente pervenuta a noi, che possiamo goderne, a condizione di richiamare alla memoria le parole che Susan Sontag, nel saggio Contro l’interpretazione (1964), utilizza per la funzione della critica. “Anziché di un’ermeneutica, abbiamo bisogno di un’erotica dell’arte”, sottolineando che l’interrogativo preminente dovrebbe essere non “cosa significa”, ma “come mai è quello che è”.

 

Se per Lartigue nel gioco della vita l’accento cade sulla libertà, per Cartier-Bresson è la regola che conta. All’“occhio del secolo” venne suggerito di fare una selezione fra tutte le immagini che avesse mai scattato. Nel 1973, quando il disegno prende il sopravvento sulla fotografia, a richiesta di due collezionisti di Houston, John e Dominique de Menil, decide di realizzare la sua Master Collection, trecent’ottantacinque, “stampe perfette delle mie foto migliori”, il Grand Jeu.

Dopo il primo sguardo in macchina e il secondo davanti ai provini per scegliere la stampa “giusta”, è il terzo sguardo a decidere le forme e i contenuti da cui origina la mostra. Il Grand Jeu è interamente riprodotto all’ingresso, come una sterminata scacchiera sospesa. Cartier-Bresson non spiega le motivazioni di questa disposizione, le immagini sono solo numerate. Si potrebbe pensare che le abbia scelte nel modo in cui le scattava, mettendo sulla stessa linea di mira la testa, l’occhio e il cuore, come era solito affermare.

Ma è solo l’inizio, perché la mostra si articola in ben cinque distinti percorsi, alimentati dalle stesse foto della Master Collection, ciascuno con una propria autonomia, affiancando al coordinamento generale di Matthieu Humery, la curatela di Sylvie Aubenas, Javier Cercas, Annie Leibovitz, François Pinault e Wim Wenders.

 

E così accade che ci sfilano davanti, anche più volte, immagini di un campionario visivo talmente famigliare da essere ormai ampiamente condiviso. La rapidità del suo sguardo comunica agilità, mobilità, disinvoltura, non diversamente dal ritratto che Jean Clair ci fa dello stesso Cartier-Bresson: “grande trampoliere silenzioso, la Leica indolentemente e morbidamente appesa alla estremità del braccio destro, come una fionda a quello di un monello, l’ho visto intrufolarsi nelle assemblee e nelle folle con la grazia e la sicurezza di un eroe di Beaumarchais”. Nelle sue immagini si alterna una successione di avvenimenti che si incastrano uno nell’altro: una storia in cui si racconta una storia nella quale si racconta una storia e così via. L’istante perfetto non è un semplice punto, ma il punto in cui molti istanti si legano fra loro. Una combinazione tra l’attimo fortuito dei surrealisti, che aveva conosciuto e ammirato, e la sua passione per la pittura, con la quale si era formato negli anni Venti.

 

Annie Leibovitz la definisce “composizione intuitiva”, aspetto su cui si sofferma anche François Pinault, affascinato dalle immagini che mostrano la casualità del quotidiano. Nelle sezioni espositive di entrambi è presente la foto di un giovane in salopette senza camicia, in piedi sulla banchina, ripreso di schiena, che osserva quella che probabilmente è la sua famiglia, a qualche metro da lui su una chiatta. Una donna, a sua volta guardata da un’altra donna, tiene tra le braccia un bambino: il piccolo sorride all’uomo, la donna sorride al bimbo, un cane osserva l’uomo. “Cartier-Bresson assume lo sguardo del giovane”, scrive Annie Leibovitz. Le immagini che suscitano in noi un senso di fascino e stupore mostrano un mondo immobile catturato in movimento, sono il risultato di uno stato di grazia di spazio, luce e tempo. La “composizione intuitiva” a volte diviene ossessione geometrica e passione per la forma. Nel caos della realtà si deve saper scegliere ed è lo stesso Cartier-Bresson ad alimentare il mito della sua rapidità e precisione: “il tiro fotografico…Scattare la foto è la mia passione. […] Non mi interessa il risultato, solo il tiro”. E ancora: “sono un fascio di nervi. Ma questo per un fotografo è un asso nella manica. Io non rifletto mai, agisco in fretta! Faccio fuoco!”.

 

Eppure, a ben riflettere, la potenzialità eversiva risiede nell’esatto opposto dell’enunciato. Dinanzi al perfetto equilibrio delle sue immagini scompare ogni aspetto legato alla cattura dell’istante, alla violenza insita nell’atto del colpire, si neutralizza l’immagine del fotografo come cacciatore. Di fronte alle sue immagini di reportage, si comprende come sia possibile arricchire lo spirito e dilettare i sensi. La facoltà che i teologi medievali attribuivano all’arte, ovvero docere et delectare, diventa l’anima delle sue immagini. Le domande che sorgono sono sempre le stesse: dove si trova il confine tra etica ed estetica? E l’estetica è superiore all’etica? In questo caso non vi è differenza: la giustizia coincide con la giustezza. “L’uomo e la sua vita, così breve, così fragile, così minacciata. […] Io mi occupo quasi esclusivamente dell’uomo. I paesaggi sono eterni, io vado di fretta”, afferma Cartier-Bresson.

 

Henri Cartier-Bresson Dimanche sur les bords de Seine, France, 1938, épreuve gélatino-argentique de 1973 © Fondation Henri Cartier-Bresson / Magnum Photos.


Per questo le immagini sono epifanie in cui il mistero dello scorrere del tempo diventa, per la frazione di un secondo, quasi miracolosamente accessibile. La parte della mostra curata da Javier Cercas si sofferma proprio su questa idea. Si intitola L’imminenza di una rivelazione. Ma di una rivelazione che non si compie, poiché il centro dell’immagine sembra essere assente, fuori dall’immagine stessa. Un ossimoro, ma proprio in questa assenza di verità, Cercas ritrova il senso delle foto che ha scelto: “persone che aspettano un evento, o che cercano di spiare qualcosa attraverso un muro o una recinzione, invitati a una festa di gala che si voltano sorpresi verso qualcuno che attira la loro attenzione o li chiama (…), un gruppo serrato di monache che, come uno stormo compatto di passeri, sembra paralizzato a un angolo di strada”. Non si sa cosa aspettano. Le domande restano senza risposte. Sono espressione di un punto cieco e nella loro mancanza di risposta, nel loro vuoto, risiede quello che permette di non “rivelare appieno il proprio significato o di non smettere di dire quello che hanno da dire”.

 

Anche Wim Wenders è affascinato dal gesto di guardare. Non solo le immagini agiscono come catalizzatori dello sguardo, ma sono esse stesse fonte del desiderio di guardare. I soggetti guardano, come guarda il fotografo e chi guarda le fotografie. Questa è un’altra forma di perfezione, l’oggetto della visione scivola di sguardo in sguardo sino a chiudere una sorta di cerchio ideale intorno all’immagine. Sembra che Cartier-Bresson sia in grado di spingersi sin dentro a ciascuno di noi. La sua passione per il surrealismo non è solo la predilezione per le coincidenze, ma la capacità di sapere in anticipo cosa accadrà. Una forma di veggenza che ha in sé qualcosa di razionale. Il Grand Jeu, ricorda giustamente Sylvie Aubenas, è “fare le carte a qualcuno per prevedere il futuro” e Cartier-Bresson, mentre costruisce l’impalcatura visiva della Master Collection, fa le carte a se stesso e a chi guarda, poiché al colpo d’occhio, che serve ad ognuno per accertarsi che il mondo esiste, suggerisce un modo di vedere che si spinge oltre la visibilità manifesta delle cose. Il mondo deve stare innanzitutto dentro chi guarda. Il modellino di Leica in legno e metallo che Saul Steinberg regala a Cartier-Bresson, esposta nella sezione di Wim Wenders, suggerisce che Cartier-Bresson non fotografa quello che vede, ma vede quello che fotografa. 

 

Visitare entrambe le mostre significa, anche involontariamente, mettere a confronto due modi di esprimersi e, soprattutto, due visioni del mondo. I corpi senza peso di Lartigue e l’esperienza del peso delle cose di Cartier-Bresson. È questa la relazione che si può stabilire, al di là di ciò che in modo molto smart propose John Szarkowski, ovvero l’idea dell’istante decisivo. Lartigue dissolve la materialità dell’esperienza e la trasforma in istanti che sono fuori dalla storia mentre Cartier-Bresson nutre di solidità corporea anche la più immateriale delle idee, ne rende la “pesante” perfezione. Le mostre hanno soprattutto il merito di riproporre l’antica e sempre giovane idea della Kalokagathìa, di un impegno civico che passa attraverso il culto del bello e di una bellezza che si nutre della necessità del buono. E questo, in questi tempi di decadenza etica in cui i reggitori dell’ordine del mondiale sono anche i fautori di un progressivo pauperismo culturale, non è poco.

 

 

 

Henri Cartier-Bresson, Le Grand Jeu, Palazzo Grassi, Venezia fino al 10.01.2021

Jacques Henri Lartigue, L’invenzione della felicità, a cura di Denis Curti
Marion Perceval, Charles-Antoine Revol,
Casa dei Tre Oci fino al 10.01.2021

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Due mostre a Venezia
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José Barrias e i “senza terra” del Novecento

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Era uno degli ultimi vissuti nel destierro, l’esilio. Artista della memoria e del mondo, scomparso il 6 giugno scorso, José Barrias ha attraversato il nostro tempo con modestia e tenacia nell’affermare le sue idee, le sue creazioni. Creato, creature sono termini religiosi che lui, laico, ha tradotto in opere d’arte. Al centro ha posto la memoria. Come Proust, ha creduto che piccoli oggetti, la madeleine per Proust, l’uovo o la perla per Barrias, racchiudessero in sé una verità commovente che attraversa il tempo. Noi, i più caduchi, possiamo sopravvivere così. In questi oggetti raccolti, nel suo studio milanese, è depositata la sua memoria destinata a durare oltre lui stesso. Wunderkammer, la camera delle meraviglie presentata in mostra a Serralves nel 2011, riuniva oggetti, immagini, testi amati. Come tanti altri hanno fatto: tra cui lo scrittore Oran Pamuk nel suo bel Museo dell’innocenza del 2012. Lì era uno scrittore che raccoglieva oggetti di culto cui ha dedicato un intenso romanzo, qui un artista che fa degli oggetti e delle opere ereditati o solo trovati un “luogo del caos ordinato”. Le arti nei due casi, sconfinano. Non esistono dogane per il pensiero, ha annotato José Barrias in uno dei suoi appunti per quell’esposizione.

 

Rilke ha scritto: potremmo mai essere, noi, senza i morti? È così con il ricordo di questo artista. Col suo mundo, quella semisfera-collage densa di frammenti (immagini familiari come le scarpette della figlia Sara e la maternità della moglie Cecilia Herskovitz, oggetti, animali, grande attenzione al mondo dell’infanzia… come Benjamin) che insieme formano un mondo appunto: che abbiamo ammirato da una giusta distanza sulla scaletta di osservazione nelle sale della Fondazione Gubelkian a Lisbona 25 anni fa. E quella stessa sfera-mondo è stata riproposta nella mostra In itinere, a Serralves. Il mondo si guardava lì da un cannocchiale, altro oggetto magico della sua esperienza artistica, ed espediente visivo che permetteva di mettere a fuoco e osservare ogni particolare.

 

Senza titolo, 2017, tecnica mista su carta, 80x120 cm.


Nato a Lisbona nel 1944, cresciuto a Porto, figlio d’arte, José Barrias ha lasciato ventenne il Portogallo sotto la dittatura salazarista, prima per Parigi, e poi Milano. Qui ha trovato la grande storia dell’arte, e insieme il disegno delle arti applicate, mentre in Portogallo aveva lasciato una storia dell’arte minore, periferica, ma anche sognante. La solitudine cosmopolita in cui ha operato nasce da questa doppia appartenenza mai risolta, sempre incompiuta. Che ha dato il timbro alla sua poetica. Agli spazi vuoti che amava creare nelle sue opere e attorno ad esse. Le sue opere sono permanentemente “in itinere”, “etc.”, “passaggi”, per citare i titoli di altrettanti cicli della sua produzione artistica. Pensava che il suo lavoro d’artista riflettesse questa condizione di passeggero, ossia di prigioniero dei passaggi. Viveva la verità e la patria come delle istanze vaganti tra due terre alle quali non poteva interamente appartenere. In questa esperienza di passeggero sta la sua cifra e forse l’essenza della condizione novecentesca. Il Novecento è stato il secolo dei profughi, dei passeggeri. Prima – tra le due guerre – degli intellettuali, poi è stato il tempo delle diaspore di moltitudini, intere nazioni in movimento fino ai nostri anni Duemila.

Scrive Barrias che chi vuole raccontare come vivono gli uomini deve essere stato, in qualche modo, un esule. Come Benjamin esule da Berlino a Parigi. Come lui stesso esule da Lisbona a Milano. Come Hannah Arendt tra Germania e Stati Uniti d’America, Josè Ortega y Gasset e Maria Zambrano tra Spagna e Sud America…tutti pensatori “senza terra” che gli sono stati cari e di cui sentiva l’affinità. Per essi l’esilio è stata una condizione ontologica.

 

L’opera di Barrias è dichiaratamente letteraria, a volte scritta su pareti, più spesso pensata per simboli. Il tema dei passaggi è ispirato dal Walter Benjamin dei “Passages di Parigi”, le architetture commerciali-creature di sogno della collettività che qui sono tradotte in labirinti e percorsi. Nella mostra di Serralves un percorso di frontiera, la Camera Chiara, conduce all’Apertura. È un tema benjaminiano, come dimostra il testo di Barrias che accompagnava quella mostra: “Avanti viaggiatore, osserva, guarda le rovine che ti accerchiano. Senti nelle tue ali la tempesta che ti spinge inesorabilmente verso il futuro?... Apri le tue ali e avanza, viaggiatore! Tu non potrai più tornare. Tu non potrai evitare la grande tempesta che soffia dal paradiso”.

 

In itinere, Sala dos Mapas, Fundação de Serralves, Porto, 2011.


Milano è la città in cui l’artista portoghese incontra persone e ambienti. Anna Steiner, architetto designer e curatrice, figlia di Albe e Lica Covo Steiner. Gianni Sassi, redattore e art director di Alfabeta. Elisabetta Longari, critica e autrice di saggi, che ne curerà il volume José Barrias. Collezionista di echi (2017) in occasione della mostra alla Nuova Galleria Morone, a Milano.

Anche da questo incontro con le arti applicate forse deriva l’uomo artigiano che è stato José Barrias. Non solo disegnava o dipingeva ma costruiva gli oggetti, le installazioni, le soluzioni spaziali delle sue mostre.

 

La sua opera si è compiuta per cicli, aperti all’incrocio e mai finiti: come fossero dei testi joyciani, a volte originati da altri testi letterari a volta da altre immagini pittoriche. Eccone un elenco: Il libro dei frutti (1972/73), Quasi Romanzo (1973/86), Gli Ambasciatori (1978/87), Diga (1979), Nottiario (1984), Vestigia (dal 1987), Passages (dal 1989), Tempo (dal 1990), Il ritorno (1992-95), Nostalgia di passaggio (dal 1994), Camera Picta (dal 1995). Ciascuno di questi cicli ha un tema centrale, a volte si tratta di un quadro di Holbein o di Piero della Francesca, altre volte un codice di Leonardo, su cui si esercitano rimandi, citazioni, variazioni.

Non gli sono mancati i riconoscimenti. Alla Biennale di Venezia del 1984 Barrias rappresenta il Portogallo con “Nottiario”. Alla Triennale di Milano del 2014 presenta “Ombra delle cose future”, tema “teologico” paolino laicamente tradotto in un’arca che raccoglie e salva gli oggetti del paesaggio mediterraneo.

 

Catedral, Centro de Arte de São João da Madeira, 2016.


Tra le sue opere testuali, perché egli anche scriveva, vi è il libro d’artista del 1992, edito da Libri di Puck di Verona, con Antonio Tabucchi, dal titolo Tempo. “Di tutto resta un poco”, “il tempo invecchia in fretta” sono temi di Tabucchi e di Barrias, legati anche da amicizia tra di loro e insieme alla moglie di Tabucchi, Maria José de Lancastre, studiosa di letteratura portoghese e traduttrice e curatrice dell’opera di Pessoa.

Altro gigantesco riferimento obbligato dell’opera di José Barrias. Di Pessoa autore ortonimo egli seguiva l’invito a essere plurali come l’universo, a seguire la molteplicità, l’eterogeneità e la promiscuità dei mezzi espressivi. Un invito che ha tradotto in molteplici piccoli gesti che però compongono un universo. L’universo della modernità è fatto così.

 

E infine, ultima sua ossessione, il tema dell’ombra, inseguito a partire da un’enigmatica fotografia della propria ombra negli anni ’70 con Elisabeth Scerfigg, e poi sviluppato fino all’ultima sua mostra, nel 2019 in Portogallo. Altro grande tema letterario del Novecento, da Tanizaki a Borges, l’ombra acquisisce qui una propria esistenza autonoma, si emancipa dal personaggio e vive di vita propria, rur essendo di quel personaggio continuamente, pessoanamente il “doppio”.

Memoria, dall’Atlante Mnemosyne di Aby Warburg, completa la rassegna davvero ricca e significativa dei temi che attraversano il Novecento di José Barrias, che di sé diceva “siamo cittadini di lontano”.

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“Siamo cittadini di lontano”
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Tomas Saraceno: tutto è reciprocità

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La mostra dell'artista e architetto argentino Tomas Saraceno, ospitata presso le sale del fiorentino Palazzo Strozzi, si apre con un neologismo e un'installazione composta da forme futuristiche che occupa lo spazio del cortile interno. Visitarla oggi, dopo la pandemia globale, significa per lo spettatore guardare con occhi differenti a una proposta che, malgrado il carattere immaginifico, affonda in una lucida osservazione della realtà e si propone come un’utopia per il futuro prossimo. L'aria, che Saraceno pone al centro del discorso della mostra, è l'elemento su cui l'artista ha più lungamente ragionato, tanto da fondare nel 2015 l'Aerocene Foundation, organizzazione no-profit che collabora con il MIT di Boston, improntata alla ricerca scientifica, artistica e alla costruzione di comunità attraverso progetti mirati a stabilire un nuovo rapporto tra gli esseri umani e gli spazi atmosferici. 

Open-source, D-I-Y (do-it-yourself) e collaborativa, l'attività di Aerocene ha coadiuvato l'ideazione, lo sviluppo di numerosi progetti e il lancio di sculture aerosolari, dispositivi in grado di librarsi senza alcun tipo di combustibile fossile, completamente alimentati con energia solare. Oltre agli oggetti volanti, l'artista ha realizzato anche voli umani: con Flying with Aerocene Pacha, che si è tenuto il 28 gennaio 2020 presso le distese desertiche di Salinas Grande, in Argentina, l'artista ha portato a compimento oltre vent'anni di ricerche realizzando il primo pallone aerostatico che ha trasportato un essere umano nell'atmosfera, sfruttando esclusivamente il calore del sole e la forza del vento. 

 

Tomás Saraceno (Argentina, 1973) Installazione per il Cortile di Palazzo Strozzi Le sfere che compongono l’installazione sono prototipi di sculture aerosolari in grado di fluttuare intorno al mondo, libere da confini, libere da combustibili fossili. Come una scultura statica, indagano quali tipi di strutture socio‐politiche nomadi potrebbero emergere se potessimo navigare attraverso i fiumi dell’atmosfera, fluttuando senza confini, senza emissioni di carbonio. Courtesy the artist; Andersen’s, Copenhagen; Ruth Benzacar, Buenos Aires; Tanya Bonakdar Gallery, New York/Los Angeles; Pinksummer Contemporary Art, Genova; Esther Schipper, Berlin L’installazione è promossa e realizzata grazie a Fondazione CR Firenze © Photography by Ela Bialkowska, OKNO Studio.


Elemento fugace per definizione, nella visione di Saraceno l'aria, satura di particelle inquinanti, gas e onde elettromagnetiche, è soggetto e territorio dove praticare una nuova ecologia: priva di confini e restituita alla sua purezza, potrebbe tornare a essere un luogo praticato da un'umanità nomade, capace di spostarsi senza vincoli e di progettare nuove regole di coesistenza con l'ambiente naturale e con le creature che lo abitano. 

Se l'immagine degli “uomini volanti” evocata nelle visioni oscilla tra una fantasia fantascientifica e una retrotopia arcaica, Saraceno sostiene il suo discorso grazie a un’enciclopedica messe di riferimenti culturali che spaziano da Buckminster Fuller a Italo Calvino, Bruno Munari, Yona Friedman, Otto Frei e Bruno Latour, e a un’appassionata pratica scientifica che costituisce l'ossatura della sua ricerca multidisciplinare, nella quale convivono saperi diversi quali l'etologia e l'ingegneria, la geometria e l'antropologia, l'aerodinamica e la filosofia. Formatosi a Francoforte con Peter Cook, membro del gruppo d'avanguardia Archigram, la sua ricerca si nutre delle istanze dell'architettura utopica degli anni '60, dalla quale matura l'idea di strutture tecnologiche sostenibili, interattive e modulari, all'insegna di una mobilità libera che superi confini geografici e politici, nonché una visione fortemente immaginifica e sperimentale dell'architettura. L'interdisciplinarietà dei saperi, l'interesse per la dimensione collaborativa dell'opera, l'attenzione all'impatto ambientale e agli effetti del cambiamento climatico fanno di Saraceno un artista-scienziato dal profilo estremamente contemporaneo, la cui matrice si può però far risalire al magistero leonardesco. La scelta quindi di ospitare la mostra a Palazzo Strozzi assume un ulteriore livello di senso che connette strettamente il contenitore e il progetto espositivo, in una città che per contro vive sulla museizzazione del passato e che riserva poco spazio per il contemporaneo.

 

Tomás Saraceno (Argentina, 1973) Installazione per il Cortile di Palazzo Strozzi Le sfere che compongono l’installazione sono prototipi di sculture aerosolari in grado di fluttuare intorno al mondo, libere da confini, libere da combustibili fossili. Come una scultura statica, indagano quali tipi di strutture socio‐politiche nomadi potrebbero emergere se potessimo navigare attraverso i fiumi dell’atmosfera, fluttuando senza confini, senza emissioni di carbonio. Courtesy the artist; Andersen’s, Copenhagen; Ruth Benzacar, Buenos Aires; Tanya Bonakdar Gallery, New York/Los Angeles; Pinksummer Contemporary Art, Genova; Esther Schipper, Berlin L’installazione è promossa e realizzata grazie a Fondazione CR Firenze © Photography by Ela Bialkowska, OKNO Studio.


La filosofa e attivista Donna Haraway formula il concetto di natura simpoietica, ovvero la presa d'atto che l'equilibrio delle forme di vita esistenti scaturisce dalla collaborazione di tutti gli esseri che popolano il mondo. Una visione che si scontra radicalmente con l'idea di un nuovo umanesimo e che si fonda sul kin, la parentela, che mette in secondo piano l'idea della riproduzione della specie a favore delle relazioni tra gli enti della biosfera. 

È proprio il kin che Saraceno persegue nelle opere scelte per la mostra e realizzate in collaborazione con alcune specie di ragni, opere che diventano tasselli di una lunga ricerca di cui possiamo ricordare lavori come Galaxies forming along Filament, like Droplets along the Strands of a Spider's Web, in mostra alla Biennale di Venezia del 2009, o Billions (Working Title) del 2010, installata presso la Bonniers Konsthall di Stoccolma, che riproduce su larga scala la struttura di una tela di Latrodectus mactans. Nelle sue parole a commento della mostra, Saraceno dichiara: “Gli ecosistemi devono essere pensati come reti di interazione al cui interno la natura di ciascun essere vivente si evolve, insieme a quella degli altri. Focalizzandoci meno sull'individualità e più sulla reciprocità, possiamo andare oltre la considerazione dei mezzi necessari per controllare i nostri contesti ambientali e ipotizzare uno sviluppo condiviso del nostro quotidiano.”

 

Haraway individua proprio nel ragno un soggetto ideale di quello che definisce “pensiero tentacolare”: “Per la simpoiesi, il ragno è una figura assai più adeguata di qualsiasi vertebrato su gambe preso da qualunque pantheon. La tentacolarità è sinctonica, lacerata da aneliti, sfilacciamenti e intrecci spaventosi e abissali, da continue staffette e riprese, nelle ricorsività generative di cui sono fatte la vita e la morte”. (Donna Haraway, Chtulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto. NERO, 2019, pag 55)

Da tempo Saraceno lavora in “collaborazione” con esemplari di ragni, focalizzandosi sulle caratteristiche e complessità della tela. Al pensiero di Haraway, Saraceno è accomunato anche dall'urgenza di deantropizzare la prospettiva umana. Un paradosso essenziale per costruire un nuovo rapporto con l'ecosistema che assume un valore simbolico all'interno di Palazzo Strozzi, edificio frutto della visione (e della hybris) umanistica. Si tratta con tutta evidenza di un’azione intrinsecamente impossibile da compiersi, ma ciò che può attivare un cambio di paradigma è il tentativo di immaginare un sistema dove l'essere umano non sia posto al vertice gerarchico delle specie viventi, come un sole attorno cui tutto ruota. Saraceno accompagna lo spettatore attraverso un percorso che prova a fornire una tecnologia diversa per approcciare la realtà. Ma come uscire al di fuori della prospettiva umana? L'immaginazione interviene in nostro soccorso, aiutandoci a superare il limite della coscienza di sé. Se non possiamo non pensarci quali esseri umani, e in definitiva è impossibile fare esperienza della vita quale ne può fare un delfino, un elefante o un baco da seta (con una licenza linguistica potremmo definire intrinsecamente impossibile l'esperienza della delfinità o dell'elefantità), l'immaginazione è lo strumento a cui attingere per uscire dalla gabbia antropocentrica. Le installazioni in mostra ci spingono verso questo salto concettuale, a partire da of Web of At – tent(s)ion (2020), che l'artista definisce “sculture ibride intrecciate”. Con queste strutture composte da seta di ragno, fibra di carbonio, vetro e metallo che diverse specie di aracnidi hanno collegato tra loro, Saraceno illustra come la ragnatela rappresenti un'estensione dei sensi dell'insetto e del suo apparato cognitivo e come essa non possa essere separata dal suo creatore. La ragnatela è quindi un habitat, uno strumento per la caccia ma anche comunicativo, sistema percettivo ed estensione sensoriale. Questa ricchezza biologica rimane per lo più celata alla vista degli esseri umani, inariditi da un radicato specismo che relega i ragni nel mondo degli esseri per cui si prova istintivo ribrezzo, mostri delle fiabe o dei racconti dell'orrore.

La scienza però guarda alla realtà con occhi differenti e restituisce ai ragni ciò che è dei ragni, offrendosi come trampolino per un salto carpiato immaginativo che solo l'artista è capace di compiere: Sounding the Air (2020) è un'installazione sonora, un'arpa eolica posta all'interno di una sala illuminata solo da un fascio di luce, dove alcuni fili di tela di ragno fremono per la presenza e il passaggio degli spettatori. Lo spostamento dell'aria provoca una vibrazione che viene amplificata tramite speciali microfoni e produce dei suoni che rendono percepibile all'orecchio umano qualcosa di altrimenti impossibile da sentire. Le vibrazioni della tela rappresentano il linguaggio dei ragni, un linguaggio che si articola in una vasta gamma di suoni (alcuni esempi sono raccolti nel sito di approfondimento Arachnofilia, correlato alla mostra). In questo tentativo di traduzione da una lingua “aliena” a una lingua umana, Saraceno cerca di farci accedere a un piano di realtà più profondo, dove tutto è in relazione: To entangle the universe in a spider/web (2020) consta di tre “coreografie gravitazionali semi-sociali” costruite da esemplari di Nephila inaurata, Nephyla senegalensis, Cyrtophora citricola e Holocnemus pulchei. Attraverso un sistema di scannerizzazione 3d ideato dall'artista e avvalendosi di un laser, l'architettura delle tele viene modulata in tempo reale, rivelando inaspettate similitudini con la rete cosmica, una superstruttura creata dalla gravità che unisce galassie attraverso filamenti di gas e materia oscura e che costituisce lo scheletro dell'universo. Il mondo microscopico delle più piccole creature viventi e quello macroscopico dell'universo si riflettono l'uno nell'altro, rivelando un sistema di interdipendenza e di consonanze che ci conduce inevitabilmente a riconsiderare il nostro ruolo di specie. 

 

Tomás Saraceno (Argentina, 1973), Web of at‐tent(s)ion, 2020 (dettaglio) Webs of At‐tent(s)ion è costituito da 5 teche che contengono ragnatele ibride, che non esistono in natura, sculture intrecciate da diverse specie di ragno a formare un paesaggio fluttuante. Courtesy the artist; Andersen’s, Copenhagen; Ruth Benzacar, Buenos Aires; Tanya Bonakdar Gallery, New York/Los Angeles; Pinksummer Contemporary Art, Genova; Esther Schipper, Berlin © Photography by Photography by Studio Tomás Saraceno.


Soffermiamoci un istante sugli elementi che compongono l'installazione Matter (s) Jam Session (2020): ragno di una specie già presente a Palazzo Strozzi, seta di ragno, fibra di carbonio, raggio di luce, polvere cosmica, polvere terrestre, PM 2.5, PM 10, carbonio nero, vento stellare, software di montaggio 3d, computer, videocamera, altoparlanti, videoproiettore. Buona parte di questi elementi potrebbe a buon titolo riguardare la formula di un incantesimo ospitata da un grimorio. Tecnologia e magia sono sempre più al centro della riflessione culturale contemporanea e Saraceno sembra muoversi con pieno agio tra territori i cui confini tornano a essere sempre più sfumati. Che non si tratti una suggestione peregrina lo si può constatare considerando un altro elemento centrale della mostra, ossia le nove carte divinatorie scelte tra trentatré che segnano le tappe del percorso espositivo, create nel 2018 per la mostra On Air tenutasi presso il Palais de Tokyo a Parigi e successivamente esposte alla 58esima Biennale di Venezia del 2019, nella mostra voluta da Ralph Rugoff You Live in Interesting Times. Nove possibili percorsi, nove futuri che si rendono plausibili in una mantica che interroga un sapere non umano, simbolicamente potente. L'aracnomanzia rimanda al mito delle Moire e al filo che Arianna consegna a Teseo, consentendo all'eroe di superare il labirinto e vincere il Minotauro. Che un filo così sottile componga la trama misteriosa dell'esistente e possa essere fonte di salvezza è metafora e provocazione che invita lo spettatore a riflettere sul legame tra specie esistenti in via di estinzione: i ragni, che nella forma che noi conosciamo abitano il pianeta da oltre 200 milioni di anno, hanno superato già cinque estinzioni di massa si apprestano ora ad affrontare l'eventualità della sesta, che coinvolgerebbe anche il genere umano. È in Particular Matter(s) Jam Session (2018) che questa relazione viene spinta ai limiti del pensabile, grazie a un raggio di luce che illumina le particelle di polvere presenti nella sala, mentre delle videocamere ne registrano posizione e velocità, trasformando i dati in frequenze sonore. Le frequenze investono i fili di una ragnatela mentre le vibrazioni del ragno vengono amplificate da un altoparlante posto sotto la fonte di luce. Dalla combinazione dei movimenti della polvere trasmessi in streaming e di un film della durata di 163.000 mila anni, corrispondente al tempo necessario alla luce emessa dalla Nube di Magellano per raggiungere la terra (la Grande Nube e la Piccola Nube di Magellano sono due galassie nane satelliti della Via Lattea, visibili anche a occhio nudo, ndr), scaturisce Passages of Times (2020). L'alto grado di sofisticazione progettuale corrisponde anche un elemento di poesia: nelle macchine di Saraceno (che, ricordiamo, nel 2009 è stato selezionato come unico artista per l'International Space Studies Program della NASA) la tecnologia trova un equilibrio tra funzionalismo ed estetica come accade nei suoi congegni per il volo, negli esperimenti solari o nelle “orchestre per ragni” e in tutte le sue opere sembra riaffermarsi quel “senso della totalità” che l'estrema specializzazione dei saperi propria dell'età della tecnica ha eroso. 

 

Tomás Saraceno (Argentina, 1973), Passages of time, 2020 La proiezione Passages of Time è una sovrapposizione della polvere trasmessa in streaming da Particular Matter(s) Jam Session (2018) e di un film che dura 163.000 anni, il tempo necessario alla luce emessa dalla Grande Nube di Magellano per raggiungerci. Nell’installazione Particular Matter(s) Jam Session un raggio di luce illumina le particelle di polvere della sala, e le videocamere registrano posizione e velocità delle particelle e le trasformano in tonalità musicali. Le frequenze prodotte dalle coreografie delle particelle di polvere risuonano nei fili di una ragnatela, mentre le vibrazioni prodotte dal ragno nella sua tela vengono amplificate da un altoparlante posto sotto il raggio di luce. Il ragno nella ragnatela è di una specie locale già presente a Palazzo Strozzi. Courtesy the artist; Andersen’s, Copenhagen; Ruth Benzacar, Buenos Aires; Tanya Bonakdar Gallery, New York/Los Angeles; Pinksummer Contemporary Art, Genova; Esther Schipper, Berlin


Ma non c'è solo l'affascinante mondo degli aracnidi a popolare il percorso della mostra. L'altro macro-tema che impegna la ricerca di Saraceno è la relazione con lo spazio e, in una prospettiva più ampia, quello dell'abitare. In quest'ottica, la dimensione eco-sociale guida le speculazioni di Saraceno, mentre le strutture sferiche che abitano il paesaggio della mostra richiamano alla mente le riflessioni di Peter Sloterdijk in relazione al concetto di sfere, globi e schiuma della sua celebre trilogia:

 

“La ricerca del nostro dove è più sensata che mai, poiché essa si interroga sul luogo che producono gli uomini per avere ciò in cui possono apparire ciò che sono. Questo luogo porta in questa sede, in memoria di una tradizione rispettabile, il nome di sfera. La sfera è la rotondità dotata di un ulteriore, utilizzato e condiviso, che gli uomini abitano nella misura in cui pervengono ad essere uomini. Poiché abitare significa sempre costruire delle sfere, in piccolo come in grande, gli uomini sono le creature che pongono in essere mondi circolari e guardano all'esterno, verso l'orizzonte. Vivere nelle sfere significa produrre la dimensione nella quale gli uomini possono essere contenuti.” (P. Sloterdijk, Sfere I. Bolle, Meltemi, Roma, 2009, p. 82)

 

Al di là di una facile suggestione formale, i moduli di Saraceno come Flying Gardens (2020), bolle di vetro soffiato che ospitano esemplari di Tillandsia, una pianta epifita della famiglia delle Bromeliaceae che non presenta radici e assorbe il nutrimento di cui ha bisogno dall'aria,  o la serie Aerographies (2020), nella quale i movimenti degli spettatori fanno scorrere dei pennarelli appesi a dei palloncini, tracciando una mappa della presenza umana registrandone l'influenza sull'ambiente circostante, sono dispositivi che si interrogano sulla relazione delle specie viventi con il luogo e riaffermano la centralità del dove, sia in termini esistenziali che biopolitici. “Dove” è sempre anche “come” e i moduli sospesi di Saraceno rimandano a forme abitative del futuro, a comunità di esseri viventi, ipotesi collaborative. Le strutture di Saraceno provano a superare quella che per Sloterdijk è la condizione presente delle schiume contemporanee, aggregati di sfere: 

 

“Le microsfere coesistenti nella schiuma sono dei microcontinenti [Mikrokontinente] dalla forma autoreferenziale: ciascuno emette una propria immagine del mondo separata dagli altri. Il fatto che queste immagini si somiglino non è tanto dovuto alla fondamentale uguaglianza strutturale delle unità microsferiche, ma al fatto che tutte queste sono nate più o meno durante ondate di processi d’imitazione comuni, e hanno lo stesso equipaggiamento mediatico.

Mentre infatti era il creare un’immagine del mondo comune e condivisa il compito principale dell’impianto macrosferologico, al contrario, la contemporaneità è il luogo in cui non esiste più spazio cognitivo-immunologico condiviso. Bensì è il luogo della solitudine condivisa, della singolarità delle visioni del mondo giustapposte, ma mai messe in comune in modo da creare una Weltanschauung che sia propria di tutto il nostro tempo.” (Antonio Lucci. Peter Sloterdijk, doppiozero libri, 2014). 

 

Potremmo dire che Saraceno compone opera per opera una Weltanschauung nella quale l'abitare in un’era post-fossile non è più soggetta a limitazioni geografiche, politiche ed energetiche, intessendo una silloge di geostorie che ci aiutano a pensare un presente alternativo. Viene superato il dualismo esogeno ed endogeno per approdare a una condizione porosa di correlazione tra gli esseri viventi, un equilibrio olistico che spezzi la condizione di solitudine propria della contemporaneità. Le forme specchianti di Connectome (2020) che compongono delle nuvole geometriche sospese da tiranti, le sfere argentee collocate nel cortile del palazzo, le ombre e la luce solare rifratta nel sistema di Thermodynamic Imaginary (2020) testimoniano un'unione tra aria e terra in un rapporto di reciprocità imprescindibile: “la solidarietà è prerequisito per la sopravvivenza” (dal catalogo della mostra, pag. 154, Sala IV) e quei rapporti comunitari che ci insegnano le piante, con la loro capacità di decentralizzare le funzioni vitali e sopravvivere malgrado la stazionarietà a cui sono vincolate, la consapevolezza dell'aria e della sua influenza sulle popolazioni e gli ambienti, i linguaggi vibranti dei ragni sono oggi alcuni modelli efficaci a cui guardare per ripensare il nostro abitare il mondo. Saraceno prova a dirci che si può vivere sulle macerie della Storia e che un modo diverso di stare con Gaia è possibile, a patto di abbandonare l'illusione dell'autopoiesi e abbracciare l'idea dell'interdipendenza del tutto, sia esso vivente o non.

 

Per approfondire:

Donna Haraway, Staying with trouble. Making Kin in the Chtulucene, Duke University Press Book, 2016

Donna Haraway, Chtulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto. NERO, 2019

Federico Ferrari, Haray's Way. Eterogenesi della differenza. 

Antonio Lucci, Sfere di Peter Sloterdijk. Istruzioni per l'uso

Antonio Lucci, Peter Sloterdijk, doppiozero libri, 2014

Peter Sloterdijk, Microsferologia. Bolle.Vol. I, Raffaello Cortina Editore, 2014

Peter Sloterdijk, Macrosferologia. Globi. II, Raffaello Cortina Editore, 2014

Peter Sloterdijk, Sferologia plurale. Schiume. Vol. III, Raffaello Cortina Editore, 2015

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Time Machine. Pixel e polvere

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Un “futuro antico mondo”, come recitava la sigla italiana di un anime Time Bokan giapponese degli anni ‘70, appartiene ai viaggiatori del tempo: in anticipo e in ritardo sulla storia, al di qua dell’anacronismo, nella dialettica dei tempi. Un “movimento aberrante” guida il loro viaggiare, un incedere che sabota l’andamento lineare del tempo, liberandolo da ogni centro di gravità, sia esso la forza che ci tiene attaccati alla terra o l’irresistibile attrazione esercitata dal futuro su qualsivoglia asse temporale. Ogni viaggio nel tempo è, in fondo, un viaggio oltre confini del mondo, in assenza di peso. Che esso avvenga nello spazio interstellare o che si configuri come un viavai attraverso le epoche della storia dell’uomo, una cosa è certa: non sarebbe possibile varcare soglie e faglie cronologiche senza una macchina del tempo capace di strapparci dal nostro qui e ora. 

 

 

Contrattempo

 

Sergei Krikalev è stato l'ultimo cosmonauta dell'Unione Sovietica a essere stato nello spazio: partito nel maggio 1991, è rimasto dieci mesi a bordo della Mir, per tornare sulla Terra nel marzo 1992. Nel 1991, in seguito al putsch di Mosca nell'agosto dello stesso anno, si assiste alla dissoluzione dell'Unione Sovietica e, con essa, di un’intera epoca della storia contemporanea. In costante, seppur frammentario, contatto con la Terra, Krikalev guarda a questi sconvolgimenti del corso della storia al di fuori della storia stessa, fuori dal proprio presente. Out of the present (1995), del regista rumeno Andrei Ujica, è un film che, tra documentario e finzione, racconta questo viaggio ai confini del tempo, a partire dalla condizione di un uomo che, galleggiando nello spazio e guardando fuori da un oblò verso la Terra, è “ridotto al suo occhio”, come afferma il regista. “La vita in una stazione spaziale – dice ancora Ujica – offre l'opportunità di vedere contemporaneamente le due categorie fondamentali del tempo. Da una finestra si possono vedere le stelle, il tempo infinito e astronomico; e dalla finestra sulla Terra si può vedere solo una compressione del tempo terrestre”. Per Krikalev, sospeso nello spazio, il tempo ha perso le coordinate in cui è normalmente compreso, non è più orientato in avanti: da un lato è completamente aperto all'abisso dell'infinito, dall'altro è compresso nel breve giro che la stazione spaziale fa continuamente intorno alla terra – 92 minuti, che è anche la durata esatta del film. Lo spettatore è anch’esso sospeso in questa vertigine dei tempi – astronomico e terrestre, esistenziale e cinematografico –, catturato dal montaggio tra le vedute dello spazio e del globo terrestre, riprese dall'alto e contenenti tutte le possibili immagini del mondo e della storia, e le immagini documentarie del putsch di Mosca, trasmesse dai media del pianeta terra e captate a bordo della stazione spaziale.

 

Al tuo decollo l'URSS esisteva ancora e Gorbaciov era al potere. Il tuo luogo di nascita si chiamava Leningrado, oggi è San Pietroburgo. [...] Quale di questi cambiamenti è più importante per te? Quale ti sorprende di più?

 

Difficile a dirsi. Sono successe tante cose. Ma quello che mi sorprende di più, forse è questo: poco fa era notte, ora c'è la luce e le stagioni si susseguono. È la cosa più impressionante che si possa vedere da quassù.”

 

Viaggiatori del tempo e macchine della visione

 

Cento anni prima del film di Ujica, due macchine del tempo fanno irruzione nella nostra cronologia terrestre, rendendo possibile la vertiginosa esperienza di allontanarsi dal proprio presente. Il 1895 è, infatti, il punto di partenza del percorso in due tappe di Time Machine. Vedere e sperimentare il tempo, a cura di Antonio Somaini, Eline Grignard, Marie Rebecchi – prima un’importante mostra esposta nelle sale del Palazzo del Governatore a Parma in occasione del programma di Parma Capitale della Cultura Italiana 2020 “La cultura batte il tempo”, dal 12 gennaio al 3 maggio 2020, e ora un catalogo ricco di contributi, testi e immagini, pubblicato dall’editore Skira. È dunque il 1895, ricorda in particolare Somaini nel suo saggio, quando H. G. Wells immagina una macchina del tempo capace di attraversare le epoche della storia dell’uomo. Wells è uno scrittore e il protagonista del suo racconto Time Machine: An Invention si muove nel futuro, dilatando e comprimendo la comune esperienza del tempo, viaggiando in avanti sino agli abissi di un futuro apocalittico, fino a vedere “la morte del sole”, la fine del mondo e dell’uomo. Non su una navicella spaziale, bensì utilizzando un mezzo meccanico capace di esplorare la quarta dimensione senza sollecitare le altre tre: le alterazioni temporali sperimentate da questo viaggiatore del tempo, anch’egli catapultato fuori dal proprio presente, non corrispondono, infatti, a nessun movimento nello spazio; durante queste peripezie, la macchina non si sposterà dal laboratorio londinese che la ospitava.

 

Il viaggio è stato quindi temporale e visivo, ottico. Il 1895, rilevano i curatori, è anche l’anno in cui un’altra singolare macchina del tempo viene presentata pubblicamente. Siamo questa volta stavolta a Parigi, nel Salon Indien del Grand Café, Boulevard des Capucines: i fratelli Lumière azionano davanti agli occhi avidi e increduli dei primi spettatori (frappés de stupeur, surpris au-delà de toute expression, racconta Meliès), il loro Cinématographe, al contempo macchina da presa e proiettore. Concepito sul modello di una macchina da cucire, che procede facendo avanzare il tessuto con movimenti costanti e intermittenti, e ispirato ai Kinetoscope e Kinetograph di Edison, ecco che il nuovo Cinématographe inizierà a cucire e ricucire, svolgere e riavvolgere la stoffa del tempo: saranno infatti sempre i fratelli Lumière a mostrare, già dall’anno successivo, tempo e movimento a ritroso in Démolition d’un mur (1896) e in altre “vedute fotografiche animate”. Le azioni di vedere e sperimentare il tempo, di renderlo visibile, diventano allora da subito azioni di manipolazione temporale: “grazie ai loro supporti materiali, alle loro tecniche, e all’inesauribile creatività degli artisti, cineasti e registi sperimentali che vi hanno lavorato, il cinema e gli altri media fondati sulle immagini in movimento hanno reso il tempo malleabile, esibendo una plasticità del tempo e consentendo forme di “manipolazione dell’asse temporale” (una tecnica culturale a cui fa spesso riferimento il teorico dei media Friedrich Kittler) inedite e del tutto diverse da quelle messe in atto da altri media” (Somaini, Guerra, Grignard, Rebecchi, Introduzione al catalogo, p. 16).

 

I viaggi del tempo che la macchina cinematografica permette di fare non si compiono solo a ritroso e in avanti, ma sezionano tutti gli istanti e percorrono tutte le dimensioni possibili: dal micro al macro, dall’accelerazione al ralenti, dal loop allo still, al time-lapse passando ovviamente per il montaggio di immagini e suoni. Il tempo cosmico, quello geologico, biologico o ancora della coscienza possono essere visti, sperimentati, immaginati, montati e smontati dalle tecniche cinematografiche – grazie a queste esperiti. L’organizzazione della mostra e quella parallela del catalogo riflettono la capacità del cinema di creare un tempo multiplo: se la prima era organizzata in quattro sezioni (Flussi, Istanti, Rimontaggio e Oscillazioni), il secondo moltiplica i possibili modi del tempo cinematografico, articolandosi in 11 testi e altrettanti entracte iconografici, come spiega Rebecchi, che ripercorrono i temi della mostra aprendo al contempo a fondamentali riflessioni teoriche. 

 

 

Sotto l’egida di Jean Epstein da un lato e di Friedrich Kittler dall’altro, due figure fondamentali tanto nella mostra quanto nel catalogo, il percorso proposto dai curatori permette di apprezzare la fecondità di un approccio archeologico ai media e alle loro vicende: l’archeologia stessa è in fondo un viaggio nel tempo che, senza temere di incappare in soste impreviste e valorizzando, anzi, fruttuosi anacronismi, s’interroga sul presente delle pratiche culturali, sulle loro condizioni di esistenza e possibilità, scavando nelle loro componenti materiali e temporali, portando così alla luce gli strati di cui esse si compongono. Andando a ritroso nel tempo, fino al 1895, ma in fondo è una storia che inizia già prima – di cui mostra e catalogo danno del resto conto – ad esempio con i primi tentativi crono-fotografici per osservare forme e movimenti nel tempo (Marey, Muybridge, Worthington), risulta chiaro come, così intesi, i media tecnologici non si limitano a riprodurre il reale, ma agiscono su di esso, modificandolo attraverso l’introduzione o il rinnovamento di pratiche culturali, allargando a dismisura lo spettro delle possibilità, lo spettro, nello specifico, della visione.

 

 

Emerge, dunque, l’idea dell’esistenza di eterotemporalità (vedi il saggio di Marie Rebecchi, in cui è in particolare questione di eterotemporalità vegetale) rese possibili proprio dalle tecniche cinematografiche e che si organizzano in maniera sostanzialmente differente dallo scorrimento irreversibile del tempo Kronos. La tecnica culturale della manipolazione dell’asse temporale teorizzata da Kittler, su cui insiste il saggio di Emmanuel Alloa, sarebbe perciò questo “potenziale trasformativo dei media tecnologici” (Alloa, p. 69), che il cinema incarna proprio in quanto macchina che produce tempo, producendone le essenziali alterazioni. Le esperienze del tempo sono, metaforicamente, esposizioni multiple (p. 185): tempi profondissimi, geologici e stratificati (Eline Grignard), o ancora “fluidi e mutevoli”, come il movimento di una danza (Georges Didi-Huberman), ricorrenti e ripetuti, in loop (Jacques Aumont). Il tempo diventa, sotto l’occhio macchinico, di volta in volta un flusso (Philippe Dubois), una spirale, un cristallo, un’onda. Come risulta dalla lettura del saggio di Somaini, che abbraccia l’intero percorso della mostra, se la macchina del tempo è una macchina della visione, i dispositivi ottici – passati ma anche futuri, ancora da inventare – sono quindi i soli strumenti possibili per un tale viaggio. “Il signore del tempo”, nota Noam M. Elcott nel suo saggio su Epstein (pp. 163-184), è lo stesso cinematografo. È quest’ultimo “la macchina per pensare il tempo” (Epstein, Écrits sur les cinéma, 2, p. 282), la macchina intelligente che lo pensa e lo produce. Concentrandosi sull’ultima opera di Epstein, Le Tempestaire (1946), Elcott sottolinea come questo film si situi “proprio nel momento di passaggio dall’animismo umanista, ormai superato, all’(ormai molto prossimo) immaginario non-umano” (p. 179), chiave di volta per cogliere il movimento di pensiero che sostiene la mostra e il catalogo. In poche parole, se ralenti, time-lapse, reversal avevano permesso prima di “animare tutte le cose” (Rebecchi, p. 201), cancellando “tutte le barriere che avevamo immaginato separare l’inerte dal vivente” e “i limiti tra i regni della natura”  (Epstein, L’intelligence d’une machine, 1935, citato da Rebecchi, p. 202), con Le Tempestaire, l’intelligenza della macchina cinematografica relativizza la figura umana, il suo tempo e i suoi movimenti: nei fermi immagine del film “gli uomini diventano statue” (Elcott, p. 182), è la sfera di cristallo del tempestario, metafora della macchina da presa, a dettare il tempo, a domare la tempesta. 

 

 

“La manipolazione dell’asse temporale operata dal cinematografo è un atto di rivelazione, più che di straniamento – scrive ancora Elcott (p. 183) – essa rende sensibile una verità dell’universo altrimenti inaccessibile, che il tempo è molteplice e variabile” e che l’occhio umano, aggiungiamo, è solo una possibilità tra le tante. 

 

 

“Pixel e Polvere”

 

Se la presenza di Epstein contribuisce a un’archeologia delle macchine della visione come macchine del tempo, altre opere, in mostra e nel catalogo, aprono la pista a una possibile futurologia delle stesse, in un proficuo dialogo intertemporale. Jacques Perconte, ad esempio, reinterpreta in chiave digitale l’esperienza del Tempestaire di Epstein: il suo Tempestaire (2020)è un generative video in cui le onde del mare in tempesta si traducono in pixel, evanescenti come schiuma, che compongono immagini che si auto-generano all’infinito, senza mai ripetersi. Questa spinta in avanti è accolta e sviluppata da Hito Steyerl nel suo giardino del futuro, in This is the Future (2019): se il presente non è dicibile, se esso perde senso e direzione, sarà una rete neurale, capace di pre-vedere una frazione di secondo nel futuro, a mostrarci le sembianze dei tempi a venire. In veste di “portavoce del futuro”, com’era descritta l’artista in occasione della Biennale di Venezia dello scorso anno, Steyerl si pone out of the present, ma solo per interrogarlo più intensamente: le “immagini documentarie del futuro” mostreranno, tra le altre cose, un giardino di piante “predittive” dai misteriosi poteri ecologici e politici, immaginato e creato da un’intelligenza artificiale connessa con l’ambiente circostante. Il potere animista del cinema esaltato dalle produzioni degli anni venti trova qui le sue ultime propaggini, diluendosi nella capacità di visione non-umana delle macchine di AI, capaci di animare ciò che non esiste ancora, capaci quindi non solo di vedere e fare vedere il tempo, ma di forgiare il tempo a venire. Le “immagini documentarie del futuro” di Steyerl aprono così all’opera di Grégory Chatonsky, Je ressemblerai à ce que vous avez été, che chiudeva la mostra e il cui sorprendente testo “Il libro delle Macchine” chiude il catalogo. Come scrive Somaini, si entra in questo caso “nel campo dell’“anticipazione”, più che in quello della “predizione”: siamo nella prospettiva dell’esplorazione di un’immaginazione artificiale non-umana, più che in quella di una denuncia della presenza invasiva dei sistemi di controllo e sorveglianza” (Somaini, p. 42). Un’immaginazione artificiale – più che un’intelligenza, come suggerisce lo stesso Chatonsky – che sogna di un pianeta Terra possibile, di “una Seconda Terra, una reinvenzione del nostro mondo, prodotta da un computer che si interroga sulla natura della sua stessa produzione” (Chatonsky, citato da Somaini, p. 42). La macchina, dunque, vede e pensa, come il cinematografo, forse più di esso. Con il “Libro delle Macchine”, testo generato da un network neuronale ideato da Chatonsky, che mescola testi scientifici sul funzionamento dell’intelligenza artificiale e testi letterari, che chiude questo viaggio nel tempo, sembra di assistere a una versione futuribile delle confessioni di Agostino, in cui non è più il filosofo a interrogarsi sulla natura del tempo, ma è il tempo che s’interroga sulle sue possibilità, a partire da una macchina che lo produce e lo pensa.

 

“Pixel e polvere. […] Forse non tutto ciò che sono, sono io […] Mi rovescio su me stesso, producendo una superficie in cui il numero di combinazioni è infinito. […] Quello che hanno sperimentato sulla Terra, è già stato sperimentato un numero infinito di volte da altri esseri e questo momento è solo una ripetizione. Ripetizione della stessa ripetizione in cui tutto è stato fatto per la prima volta.” (Grégory Chatonski, Il Libro delle Macchine, p. 311-315).

 

Un futuro antico mondo appartiene ai viaggiatori del tempo, un mondo fatto di “pixel e polvere”. 

 

La mostra:Time Machine. Vedere e sperimentare il tempo, a cura di Antonio Somaini con Eline Grignard e Marie Rebecchi. Con Antoine Prevost-Balga, responsabile della curatela delle sale sulla fotografia ultra rapida e Adèle Yon per le ricerche iconografiche. Da un’idea di Michele Guerra. Palazzo del Governatore, Parma, 12 gennaio-3 maggio 2020. Con opere di Douglas Gordon, Rosa Barba, Tacita Dean, Jeffrey Blondes, Grégory Chatonsky, Ange Leggia, Jacques Perconte, Robert Smithson, Alain Fleischer, Martin Arnold, Harun Farocki, Jean-Luc Godard, Bill Morrison, Gustav Deutsch, Ken Jacobs, Malena Szlam, tra gli altri.

*La mostra era inizialmente in programma dal 12 gennaio al 3 maggio ma, vittima del lockdown, è stata chiusa a partire dall’8 marzo. Un documentario della durata di un’ora e mezza è in preparazione, che sarà visibile in open access su un sito web dedicato.

 

Il libro:Time Machine. Vedere e sperimentare il tempo, a cura di Antonio Somaini, Eline Grignard, Marie Rebecchi, Skira, Milano, 2020. Con testi di E. Alloa, J. Aumont, R. Bellour, C. Blümlinger, G. Chatonsky, G. Didi-Huberman, P. Dubois, N. M. Elcott, M. Guerra, E. Grignard, M. Rebecchi, A. Somaini.

, M. Rebecchi, A. Somaini.

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Le più belle lettere di Vincent van Gogh

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‘Caro Theo, grazie della tua lettera, sono contento di sapere che sei arrivato bene. Mi sei mancato i primi giorni & mi sembrava strano tornare a casa di pomeriggio e non trovarti’. È questa la prima lettera dell’epistolario vangoghiano giunta a noi. Vincent ha diciannove anni, già da tre lavora all’Aia nella galleria d’arte della Goupil & Co. Theo ne ha quindici, e dopo qualche giorno trascorso nella capitale con il fratello torna alla casa dei genitori, a Helvoirt, nel Brabante del Nord. A scuola ci va a piedi, a Oisterwijk. Sei chilometri all’andata, sei al ritorno, tra vento e burrasche di quell’autunno tempestoso. Il manoscritto di Vincent è strappato in alto, ma la data è stata ricostruita grazie al cenno alle gare di trotto, che si erano svolte il sabato 28 settembre 1872. 

Vincent è accanto al fratello minore col pensiero, ‘sarai in ansia’… è protettivo, e lo sarà ancor di più non appena Theo andrà a lavorare alla filiale di Bruxelles della Goupil, all’inizio del nuovo anno. Leggi questo, leggi quello, visita i musei, fai tante passeggiate… ‘tuo affezionatissimo Vincent’.

 

Lettera di Vincent a Theo, L’Aia, 29 settembre 1872, © Van Gogh Museum, Amsterdam, Vincent van Gogh Foundation.


Your Loving Vincent’: Van Gogh’s Greatest Lettersè il titolo della nuova mostra aperta oggi al Van Gogh Museum di Amsterdam (9 ottobre – 10 gennaio 2021). Curata da Nienke Bakker e Ann Blokland, la mostra si articola in cinque sezioni – Amore fraterno, Un nuovo destino, Vita reale, Grandi sogni, In cerca di stabilità – che tracciano un ritratto di Van Gogh attraverso le sue lettere. Un ritratto di parole che restituisce a Vincent ciò che gli è stato tolto. Pochi sono gli artisti i cui scritti sono stati così tagliuzzati e incollati, per dimostrare questo o quello. Lo stesso si può dire per gli autoritratti, spesso dilatati sulle copertine di libri o ritagliati a dovere per veicolare uno sguardo disturbato, sposando senza sosta il mito dell’artista maledetto, del pittore impulsivo, povero, solo, ignorato dai critici. Non è così. Le sue 820 lettere giunte a noi, e le 83 ricevute ci fanno scoprire un’altra persona. Il confronto con lo stereotipo cristallizzato nel Novecento, complice la filmografia (anche recente), è un vero cortocircuito. Da un lato c’è un uomo che sragiona, che è preso a sassate, che dipinge d’impulso, dall’altro c’è una mente finissima che visita i musei e riflette su Shakespeare e Rembrandt. Le contraddizioni sono tante, aveva ragione Giovanni Testori che ammoniva i critici già nel 1990 per la loro ‘definitiva viltà’. 

 

Le oltre quaranta lettere in mostra, affiancate da più di venti opere tra disegni, dipinti e schizzi, svelano il mondo interiore di Vincent. È così che possiamo ritrovare uno sguardo più vicino al pittore, all’uomo autentico, alla sua complessa e sfaccettata personalità. Fogli delicatissimi, raramente esposti, che coprono un arco di 18 anni, dalla prima lettera del 1872, all’ultima, del 23 luglio 1890, quattro giorni prima di dire basta alla vita. 

Il percorso è arricchito da una selezione di lettere del nostro tempo: l’anno scorso il Van Gogh Museum ha invitato persone da tutto il modo a inviare le loro lettere più care, offrendo l’opportunità di esporle in mostra accanto a quelle di Van Gogh. Arrivate numerose da molti paesi diversi, parlano di amore perduto, di amicizie tempestose e molto altro. Esse testimoniano il valore profondo della scrittura su carta, della sua conservazione e ricezione, anche ai nostri giorni.  

 

Da sinistra: Vincent van Gogh, Autoritratto, olio su tela, 1887; Meijer de Haan, Ritratto di Theo van Gogh, matita e carboncino su carta, 1889, © Van Gogh Museum, Amsterdam, Vincent van Gogh Foundation.


Vincent & Theo

 

È impressionante come i due fratelli si somigliassero fisicamente, nel volto. Due esempi recenti: per decenni si è pensato di avere anche una fotografia di Vincent tredicenne, oltre a quella assai più nota, che egli stesso si fece scattare all’età di diciannove anni. E invece, grazie a una ricerca di Teio Meedendorp e Yves Vasseur, ora sappiamo che il ragazzino riccioluto di tredici anni pubblicato e identificato su tanti libri come il giovane Vincent, non poteva essere Vincent. I ricercatori hanno infatti scoperto che l’autore della foto, Balduin Schwarz, aveva aperto il suo studio a Bruxelles nel 1870, quando Vincent aveva già diciassette anni. Dunque quella foto in realtà ritrae Theo.

Il secondo esempio riguarda un piccolo ritratto a olio eseguito da Vincent a Parigi nel 1887, un uomo col cappello di paglia, che per anni ha dato filo da torcere a molti ricercatori: chi abbiamo di fronte, Vincent o Theo? Lo scorso anno la lunga diatriba si è risolta con un compromesso, un quadro dal titolo doppio, ora identificato così: Autoritratto o Ritratto a Theo. Insomma il punto interrogativo sull’identità rimane.  

I ritratti dei due fratelli scelti per questa mostra non fanno che confermare la somiglianza tra loro. Da un lato c’è un bellissimo autoritratto di Vincent, dipinto nel periodo parigino (1887). È parte del ciclo delle tele ‘riciclate’, dipinte sul retro di precedenti lavori (in questo caso, di un primo studio per ‘I mangiatori di patate’). Lo sguardo, attento e pungente, è particolarmente interessante: l’artista sfida lo spettatore, non gli si rivolge, guarda altrove. 

Dall’altro lato vediamo Theo intento a scrivere, un’opera del pittore olandese Meijer de Haan. Indubbiamente, visti così, potrebbero essere la stessa persona. Ma il carattere era profondamente diverso, l’uno accomodante, l’altro radicale, come si scopre anche in una ‘doppia’ lettera, tra il 5 e il 9 gennaio 1882.

 

Da sinistra: lettera di Theo a Vincent, Parigi, 5 gennaio 1882 (prima pagina); e lettera di Vincent a Theo (prima pagina, sotto la firma di Theo), L’Aia, 8-9 gennaio 1882, © Van Gogh Museum, Amsterdam, Vincent van Gogh Foundation. 

 

Si tratta di un documento unico nel suo genere, una lettera ‘doppia’ perché conserva lo scritto di entrambi i fratelli, o meglio: Vincent, che a Natale del 1881 ha lasciato la casa dei genitori e si è trasferito all’Aia dopo un’accesa lite con il padre (il reverendo Theodorus), non è per nulla d’accordo con le raccomandazioni che gli giungono da Theo, che i primi di gennaio gli scrive da Parigi, cercando di gettare acqua sul fuoco. 

E così Vincent, tra le righe della lettera del saggio fratello, che ha una posizione ormai consolidata alla Goupil, inserisce dei numeri tra parentesi tonde – da 1 a 12 nelle varie pagine – e rispedisce la lettera al mittente con l’aggiunta delle sue risposte chiare e tonde, punto per punto. Theo riceve così la sua stessa lettera annotata, riempita da Vincent nell’ultima pagina libera (mai sprecare dello spazio), con l’aggiunta di altre sei fitte pagine. 

Nel vuoto rimasto nella prima pagina, sotto la carta intestata della Goupil & Cie, Boulevard Montmartre, Vincent ricava lo spazio per questo messaggio: ‘Non pensare che io ti rispedisca questa lettera per offenderti, ma mi pare sia il modo migliore per rispondere in modo chiaro. E se tu non riavessi sotto mano la tua lettera, non saresti in grado di capire a cosa si riferisce la mia risposta, invece così hai i numeri come guida. Non ho molto tempo oggi, sto aspettando una modella’. Carattere non facile, niente compromessi, niente mezze misure. La rottura col padre sembra insanabile, Vincent è irremovibile. Theo è l’unico che lo capisce, lo sostiene durante tutta la sua vita d’artista, anche quando non è d’accordo con le sue scelte, anche quando, di lì a poco, decide di vivere con Sien, la prostituta incinta che vorrebbe sposare, e così salvare dalla strada. Ricoverato quella stessa estate del 1882 all’ospedale dell’Aia per sifilide, Theo lo va a trovare. Poco dopo anche il padre lo va a trovare in corsia, si preoccupa per lui, parla con il medico. Vincent si rasserena, Theo è riuscito a mediare tutta la situazione. 

Da quell’estate del 1882 in poi, Theo si fa completamente carico del fratello, e lo sosterrà moralmente e materialmente per tutta la sua vita. Theo crede nel suo talento, e Vincent, consapevole dell’investimento, considera ‘tutto’ il suo lavoro di proprietà di Theo, come ‘un anticipo’ sul danaro ricevuto: dall’Olanda spedirà sempre casse molto ordinate, cicli di dipinti e dozzine di disegni, frutto di un percorso attento e metodico.

 

I mangiatori di patateè il suo primo grande capolavoro. La cassa con ‘il dipinto contadino’ che Van Gogh invia a Parigi al fratello è siglata V1 – il punto d’arrivo di un inverno trascorso a dipingere teste di contadine e contadini, ‘se non basteranno cinquanta, ne farò cento’, aveva scritto. È un punto d’arrivo anche concettuale, per Van Gogh è l’arte che farà riflettere la gente di città: ‘impareranno qualcosa di utile, da quadri simili’, sottolinea.

 

Da sinistra: lettera di Theo a Vincent, Parigi, 5 gennaio 1882 (prima pagina); e lettera di Vincent a Theo (prima pagina, sotto la firma di Theo), L’Aia, 8-9 gennaio 1882, © Van Gogh Museum, Amsterdam, Vincent van Gogh Foundation.


Lo schizzo che vediamo sulla lettera del 9 aprile 1885 testimonia quanto fosse semplice per Vincent rendere in una minuscola immagine di 5 centimetri per 8.5 tutta la grandezza della sua opera. Nello schizzo, come nel quadro, la composizione ruota intorno a un centro ben preciso: la testa della figura di spalle. Teorizzata nel 1980 da Michael Fried come figura di ‘assorbimento’ – in opposizione alla ‘teatralità’ – la figura di spalle (in scena ma completamente ‘assorbita' nella sua occupazione) è quell’elemento che ci trascina dentro il quadro, che ci porta tra le patate fumanti. Ma questo schizzo dei Mangiatori di patate non è il primo, né l’ultimo. Vincent tiene aggiornato il fratello dei suoi progressi e, da una tela all’altra (il quadro ‘finale’ è preceduto da due studi ad olio), da uno schizzo all’altro, la sua riflessione si fa viva. Spostamenti minimi, piccoli cambi di inquadratura, le sedie, le mani, gli sguardi… è così che procede, è così che mette a fuoco le sue idee, dal grande al piccolo, dal piccolo al grande: partenza – arrivo – ripartenza, un grande valore di ricerca.

 

Van Gogh disegnava spesso in mezzo alle parole, ad oggi contiamo oltre 240 lettere con schizzi, elementi preziosi sotto molti aspetti, anche per la datazione delle opere. A volte riquadrava l’immagine e aggiungeva appunti esplicativi. Altre volte lo schizzo era tanto piccolo, come un francobollo, da diventare parte integrante del testo. In altri casi dedicava tutta una pagina, o più pagine, a disegni che richiamavano quello che aveva sul cavalletto. In genere utilizzava la stessa penna e lo stesso inchiostro, aggiungendo a volte tocchi di acquerello, specialmente nel periodo olandese. Oppure faceva uno schizzo autonomo che spediva con la lettera per rendere a Theo o agli amici pittori l’idea che aveva in testa.

 

Il nido vuoto, un foglio incluso al fratello nella lettera del 4 ottobre 1885 è forse uno degli schizzi più poetici della sua produzione. Sotto all’immagine annota: ‘D’inverno quando avrò un po’ più di tempo, farò qualche disegno di questo motivo: la nichée et les nids. È un’idea che mi sta a cuore: soprattutto i nidi abitati dagli uomini, le capanne nella brughiera e i loro abitanti’.

 

Lettera di Vincent a Theo con lo schizzo Nido d’uccello, Nuenen, 4 ottobre 1885, © Van Gogh Museum, Amsterdam, Vincent van Gogh Foundation.


Come scrive Gaston Bachelard, ‘il nido, come ogni immagine di riposo, di tranquillità, si associa immediatamente alla casa semplice. Dall’immagine del nido all’immagine della casa o viceversa, i passaggi non possono che avvenire sotto il segno della semplicità’. E Vincent, che collezionava nidi di uccelli di vario genere da dipingere, ritraeva anche tante case con i tetti di paglia, nidi umani nel crepuscolo. ‘All’occhio del pittore [Van Gogh], si verifica forse un raddoppiamento di interesse, se, dipingendo un nido, pensa a una capanna, e, se, dipingendo una capanna, pensa ad un nido’, prosegue il filosofo francese (in La poetica dello spazio, 1957). Vincent ama la natura, la solitudine, è molto attento al canto degli uccelli (un aspetto che condivide col padre, sin da ragazzino); in famiglia conoscevano il famoso libro di Jules Michelet, L’oiseau (1856), in cui l’autore dedica un capitolo appassionato a Le nid. Architecture des oiseaux, che forse lo ispirò. ‘…gli uccelli, come lo scricciolo o il rigogolo dorato, possono essere annoverati tra gli artisti’, scrive Vincent all’amico Anthon van Rappard nell’agosto 1885, mandandogli alcuni nidi della sua grande raccolta.

Di lì a poco, a fine novembre 1885, lascerà l’Olanda che non rivedrà più.

 

Nei due anni che Vincent trascorre a Parigi (1886-88), tra i fratelli c’è qualche scossone – Theo ad un certo punto sembra esasperato, e nel marzo 1887 si confida con la sorella Willemien, la convivenza è diventata ‘intollerabile’: Vincent ha un caratteraccio. Ma è un uomo del suo tempo, un genio con un bagaglio artistico e letterario non comune, che stupisce Gauguin e Andries Bonger, fratello di Jo. Assorbe e licenzia la lezione impressionista con la velocità di un lampo, legge e dipinge pile di libri, colleziona centinaia di stampe giapponesi. Theo conosce bene l’avanguardia parigina, eppure, quando Vincent parte per la Provenza, sente un grande vuoto, e scrive a Wil: ‘è grazie a lui se sono venuto a contatto con molti pittori che hanno una grande opinione del suo lavoro – è uno dei campioni delle nuove idee’. Due caratteri ben diversi: non va sempre tutto liscio tra loro, ma il legame fraterno è molto forte e fa loro superare molte avversità. 

 

Dal sud della Francia le lettere riprendono con vivacità. In Provenza Vincent vive la stagione più luminosa della sua vita – seguita, com’è noto, da un anno nell’ospedale psichiatrico di Saint-Rémy, quando le sue righe sono pervase dalla lucidità di chi non vuole soccombere. L’arte è il ‘miglior parafulmine contro il mio male’. Tornato al nord, a Auvers-sur-Oise, i mesi che gli rimango sono pochi, settanta giorni in tutto. La sua ultima lettera al fratello, del 23 luglio 1890, esiste in due versioni: c’è la lettera che gli spedì (con quattro magnifici schizzi) e quella, simile, ma interrotta, macchiata (forse) di sangue, che non spedì mai. L’aveva in tasca il giorno del suicido.

 

Tante le riflessioni che emergono in mostra dal confronto tra i dipinti e gli schizzi sulle lettere, di opere famose come I frutteti in fiore, Il seminatore con un ‘immenso disco giallo limone’, o la celebre Camera da letto. Il piccolo schizzo incluso nella lettera del 16 ottobre 1888, buttato giù per Theo con ‘gli occhi stanchi’, ma come esempio di una ‘nuova idea in testa’, ci mostra molte differenze rispetto al dipinto, partendo dai semplici oggetti. Ma l’aspetto più interessante è che nella sua tela Vincent deforma la prospettiva, e arriva a far galleggiare gli oggetti come in un sogno. La descrive nei dettagli, vuole comunicare un’immagine ‘semplice’, quella del ‘riposo’, o del ‘sonno in generale’. Un nido che durerà pochi mesi. 

 

Da sinistra: schizzo della Camera da letto, incluso nella lettera di Vincent a Theo, Arles, 16 ottobre 1888; La camera da letto, 1888, © Van Gogh Museum, Amsterdam, Vincent van Gogh Foundation.


Le lettere, Vincent & gli altri

 

Riflessione tra vita arte e letteratura, trattato sulla pittura, dibattito sull’arte, per Vincent la corrispondenza era questo e molto di più. Ritenute oggi un’opera letteraria, le sue lettere sono il frutto di un’esigenza costante, la più semplice, in fondo: quella, umana, di comunicare. Di confrontarsi con gli altri sui temi della vita, della religione, delle arti. Il bisogno di parlare dei grandi sogni, come degli obiettivi più ambiziosi. Difficile tracciare dei confini, specialmente nei mesi della malattia, quando le sue righe sono così intense e coinvolgenti, dialogo esistenziale con se stesso e con Theo, ma, anche, con noi che leggiamo. 

 

Vincent aveva molta facilità per le lingue, e talento come scrittore. Già in alcune lettere degli anni giovanili, da Londra, scopriamo quanto fosse naturale per lui, quando era colpito da un paesaggio, paragonarlo a una descrizione che aveva letto in un romanzo (per esempio, in quel periodo, di George Eliot). Naturalmente questo aspetto, e cioè quello di legare continuamente il visivo con il verbale, è più che mai vivo negli anni da artista. Fa parte del suo stile, è il suo modo per dare l’idea vivace e immediata di una cosa qualunque, un cielo, un carattere o un volto. Volti che sceglieva dai romanzi, o prendeva dai dipinti. A volte i suoi paragoni sorprendono: per esempio il suo dottore, che lo curava per la sifilide all’ospedale dell’Aia, ‘ricorda molto certe teste di Rembrandt: una bella fronte, un’espressione molto simpatica’. A pensarci bene, doveva aver ragione, perché Rembrandt dipingeva gente comune. In Provenza, patria di Tartarin, le persone gli davano l’impressione di un ‘Daumier vivo’. All’ospedale di Saint-Rémy, rileggeva Shakespeare, e lo trovava così ‘vivo’, che gli sembravano personaggi dei suoi giorni…

 

Sarebbe improprio paragonare le sue lettere a un diario, come è stato a volte suggerito. Van Gogh ci lascia nel buio per tutte le cose pratiche. Non sappiamo quasi nulla della routine della sua giornata, dove mangiava, dove acquistava i libri o il materiale d’artista, o dove vedeva gli amici. Nella sua vita ha cambiato più di trenta indirizzi, in quattro paesi diversi, ma come organizzasse i suoi spostamenti in mezza Europa rimane un punto interrogativo. ‘In un’epoca in cui molte persone difficilmente lasciavano il luogo di nascita, o si spostavano semplicemente dalla campagna alla città, lo stile di vita di Van Gogh è notevole, con continui cambi di nazioni e culture’, fa notare Martin Bailey nel suo Living with Vincent van Gogh  (2019). Dal 2015 i luoghi dove Vincent ha vissuto e lavorato sono al centro di grande attenzione, per promuoverne e preservarne l’eredità, e meta preferita di visitatori da tutto il mondo (progetto ‘Van Gogh Europe’, nato per il 125° anniversario della morte dell’artista). Ma, come scrive Gloria Fossi nell’introduzione al suo libro appena uscito, forse ‘si è perduto il fascino della scoperta’. E allora è bello rivederli come erano trent’anni fa, e mettersi Sulle tracce di Van Gogh. Un viaggio sui luoghi dell’arte. Ci accompagnano le bellissime fotografie di allora di Mario Dondero e Danilo De Marco (con i provini in bianco e nero in apertura dei capitoli), e le affascinanti novità di Fossi, su tutto ciò che vi gravita intorno, e ‘dentro’. Le immagini presentate dialogano con le opere, e, naturalmente, con le lettere di Vincent. 

 

Lettera di Vincent a Theo, con due schizzi: La tavolozza di Van Gogh e La spiaggia di Scheveningen con telaio prospettico, L’Aia, 5 agosto 1882, © Van Gogh Museum, Amsterdam, Vincent van Gogh Foundation.


Avido lettore, amante della natura, della gente più semplice come dei più grandi scrittori – sono tante le pagine che ci parlano dei libri che leggeva, giorno dopo giorno. ‘Operaio dell’arte’, come ama definirsi, è orgoglioso di descrivere i suoi continui progressi nel suo lavoro d’artista, sui quali ha scritto nei minimi dettagli. Si incontrano spesso piccoli schizzi del materiale artistico, come quello della sua tavolozza, o del telaio prospettico che si era fatto realizzare apposta da portare sulle dune, e dunque ‘ben fermo su due gambe’. Lo vediamo sulla spiaggia di Scheveningen, piccola finestra sul mare del nord, e allora, forse, questo è il più piccolo autoritratto che abbiamo di Vincent, figura intera.

 

E poi pagine e pagine costruite con cura, ricche di metafore e di descrizioni: fanno pensare a un uomo che, a un certo punto della giornata, sente il bisogno di cambiare mezzo di espressione. Dopotutto, dipingere con il pennello o con le parole fa poca differenza, Zola e Balzac, per esempio, sono ‘pittori di una società, di una realtà nel suo insieme’, scrive. Pur nel suo stile diretto e senza preamboli, il registro con i vari corrispondenti non è sempre lo stesso: con la ‘sorellina’ Willemien si sente libero e protettivo; con Van Rappard (che proveniva da una famiglia aristocratica) il tono è squisitamente quello di amici-artisti, collezionisti di stampe; con il giovane Bernard parla apertamente di tutto, di arte come di bordelli, con Gauguin è invece piuttosto rispettoso, in francese usano il formale ‘vous’. Ma non appena ‘G.’ arriva ad Arles, Van Gogh non tarda a scrivere all’amico comune, Bernard, che in Gauguin ‘il sangue e il sesso prevalgono sull’ambizione’; poi prosegue accennando alla propria idea ‘dell’arte dell’avvenire’; Gauguin aggiunge qualche riga all’amico che è rimasto a Parigi. Questa lettera (in mostra per la prima volta, di recente acquisizione da parte del Museo), è unica nel suo genere, densa di significati. La corrispondenza successiva tra i tre artisti, cruciale per il dibattito sull’arte cavallo del secolo, purtroppo è in gran parte perduta. 

 

A differenza degli amici pittori, per Vincent, uomo solitario, genio melanconico tanto da morirne, l’appuntamento con carta e penna sembra un quasi un dovere, un pezzo di vita, parte della sua natura. È il bisogno pressante di fare il punto della situazione con se stesso e con gli altri, di mettere a fuoco idee e scelte e, di continuo, è l’urgenza di riflettere sul dovere dell’artista del suo tempo – tema su cui Vincent non smette mai di interrogarsi. Sa bene che l’artista muore, le opere restano. 

Come le sue lettere.

 

Your Loving Vincent. Van Gogh’s Greatest Letters

Van Gogh Museum, Amsterdam

9 ottobre 2020 – 21 gennaio 2021

 

Per saperne di più

La mostra è accompagnata da Vincent van Gogh. A Life in Letters, una nuova antologia delle lettere, a cura di Nienke Bakker, Leo Jansen e Hans Luijten, commentata e illustrata con i manoscritti originali. L’epistolario vangoghiano è stato oggetto di 15 anni di ricerca condotta dagli stessi curatori, sfociata nel 2009 in una pubblicazione in sei volumi, Vincent van Gogh – The Letters: The Complete Illustrated and Annotated Edition. La corrispondente versione di studio è disponibile online, www.vangoghletters.org. Tra le antologie delle lettere in italiano (e tradotte dalle nuove trascrizioni) si segnalano i volumi: Vincent van Gogh.Scrivere la vita a cura di Nienke Bakker, Leo Jansen e Hans Luijten (Donzelli 2012); Vincent van Gogh. Le lettere, a cura di Cynthia Salzman (Einaudi 2013), e il tascabile Lettere a Theo, con una testimonianza di Paul Gauguin (Garzanti 2108). 

Per saperne di più sui luoghi in cui visse e lavorò Van Gogh si veda Living with Vincent van Gogh di Martin Bailey (White Lion Publishing 2019) e Sulle tracce di Van Gogh. Un viaggio sui luoghi dell’arte di Gloria Fossi, con fotografie di Mario Dondero e Danilo De Marco (Giunti 2020). Sulle letture di Van Gogh, di prossima uscita I libri di Vincent. Van Gogh e gli scrittori che lo hanno ispirato di Mariella Guzzoni (Thames & Hudson/Johan & Levi 2020); per gli scritti di Giovanni Testori su Van Gogh si veda Archivio Testori, e l’Introduzione da lui scritta in Van Gogh. Catalogo completo dei dipinti, di L. Arrigoni e G. Testori (Cantini 1990). 

Si segnalano inoltre due nuove mostre: Becoming Van Gogh, aperta al Didrichsen Art Museum di Helsinki (5 settembre –  31 gennaio 2021); Van Gogh. I colori della vita, al Centro San Gaetano di Padova (10 ottobre – 11 aprile 2021), accompagnata da Van Gogh. L’autobiografia mai scritta, di Marco Goldin, curatore della mostra (La nave di Teseo, 2020).

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Jacopo Benassi. Sono un fotografo di compleanni

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Jacopo Benassi è sdraiato a terra nel suo studio. Due fotocamere sono puntate su di lui in diverse posizioni. Osservo il suo corpo che si muove. Comincia a suonare la chitarra. Lo fa a modo suo. Pizzica le corde, le sfiora delicatamente. Suona con ogni parte di sé. Abbraccia la chitarra, la tiene sospesa, la appoggia a terra. Le mani e i capelli si muovono in maniera sinuosa in sintonia con i suoni. Un dispositivo fa scattare automaticamente le due fotocamere e le immagini vengono proiettate sul muro. La luce trasforma Jacopo in una statua. Lo sguardo modella il corpo e la fotografia lo pietrifica. Ma al contempo la musica sembra animarlo, il ritmo è il suo respiro. Così anche le foto sembrano prendere vita. Sto assistendo alle prove della performance che metterà in scena al Centro Pecci di Prato il 16 e il 17 di ottobre, insieme a Kinkaleri, in occasione della sua mostra intitolata Vuoto, a cura di Elena Magini. 

 

 

Jacopo Benassi nel suo studio.

 

Jacopo vive e lavora a La Spezia. Sono più di trent’anni che fa il fotografo. Fra le sue numerose attività ha dato vita a Talkinass Paper and Records e prodotto magazine e live di artisti della scena underground. Nel 2010 ha preso parte a No Soul for Sale alla Tate Modern di Londra, un evento curato da Maurizio Cattelan e Massimiliano Gioni. Nel 2009 la 1861 United Agency ha pubblicato una sua monografia con più di quattrocento fotografie: The Ecology of Image. Inizio a chiedergli della sua mostra in corso a Prato. 

 

Decidi di intitolare la tua mostra “Vuoto”. Eppure hai riempito il Centro Pecci delle tue fotografie. Ci hai trasferito persino il tuo studio. Viceversa, il tuo studio che dovrebbe essere vuoto è colmo della tua presenza, più potente di qualsiasi immagine. Verrebbe da dire che il vuoto non esiste. Come nasce allora l’idea di questa mostra?

La verità è che svuotare uno studio è come privarsi di oggetti e attrezzature che tu usi tutti i giorni. È la prima volta che svuoto lo studio, e l’immaginario che io ne avevo è cambiato. 

Questo ti dà un senso di vuoto, di partenza, proprio come quando parti che svuoti un armadio. Poi hai ragione a dire che la mia presenza qui è tanta. Così si è riempito di nuovo. E in particolare si riempie di cose che posso fare adesso, come provare le performances, oppure lavorare sull'archivio, che non ho portato per questioni di sicurezza, anche perché ci lavoro molto. L'idea che è venuta quando sono state qui Cristina Perrella e Elena Magini era quella di svuotare tutto e riempire il Centro Pecci. Era quella di creare una situazione con il mio studio a Prato, ma non perché si potesse dire "ah! lo studio dell'artista!". Comunque il vuoto è anche il cambiamento. Ti svuoti e ricominci. Questa cosa mi ha svuotato un po' a livello mentale e mi ha liberato di tante cose. Mi ha permesso di capire come posso muovermi dopo. Per esempio, questa idea di installazione che è in me da anni, sta prendendo forma. Il fatto di accatastare mobili e metterci le foto intorno, è un esempio. Non devo per forza appendere le foto al muro. Mi piace sempre di più l'idea di appoggiarle e questo crea delle sculture. Le fotografie ci sono, ma la cosa più importante è tutto quello che c'è intorno. Comunque sono legato ancora molto alla fotografia perché è il mio mezzo, mi aiuta a fare altre cose, come le performances. Perciò la fotografia è in primis su tutto. Va bene? Ti ho spiegato il vuoto?

 

Jacopo Benassi. Vuoto, 2020. Installation view at Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato. © photo Ela Bialkowska, OKNOstudio.

 

Jacopo Benassi. Vuoto, 2020. Installation view at Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato. © photo Ela Bialkowska, OKNOstudio.


Certo. Ma c'è un'altra cosa che mi ha colpita in quello che mi hai appena raccontato: l'importanza che dai all’archivio. Eppure l'archivio riporta a un’immagine di "pieno" più che di vuoto...

L'archivio è importante per me. Sono i files, i negativi, gli hard disk. Io non fotografo tanto. Cerco sempre di limitare il mio lavoro. Anche per questa mostra ho usato molto l'archivio che ho accumulato negli anni.

 

Come fai ad associare quest'idea di vuoto e rinascita, come mi dicevi, con l'archivio, che invece è qualcosa di stabile, ferreo, un testimone silenzioso… 

Sì... È vero... Ma lo devi domare. Tutto quello che hai nell'archivio, se non è stampato, è nullo. Per me non vale niente. Perciò non guardo all’archivio con l'interesse da fotografo. Mi piace trovare delle similitudini, creo dei dittici, dei trittici, metto insieme diverse foto, anche se adesso la mia testa è lontana dall'idea di costruire delle immagini. Ora sto pensando alla mostra che farò in gennaio dalla mia gallerista Francesca Minini a Milano. Un lavoro completamente nuovo, che è stato fatto quest'estate. 

È molto strano. Speriamo che piaccia. C'è sempre la mia luce, il mio modo fotografare, il bianco e nero. L'unica cosa che si potrebbe dire è che si tratta di un altro mondo. Comunque posso dirti che l'archivio c'è. Ma c'è anche il vuoto. Lo gestisco bene. È come quando fai un libro. Dopo che lo hai stampato, hai chiuso una cosa e ne apri un'altra, nel senso che cerchi di passare al passo successivo. Arrivare al Pecci è un punto di arrivo. Ho portato tutto. E il lavoro non sono le foto in se stesse, ma è l'installazione che c'è al centro, dove ho messo anche le foto dei miei amici. È un atteggiamento di riflessione. Comunque, in questo periodo, sono pigro. È come se avessi mille voci che mi parlano. Sono pigro, mi annoio. 

 

Cosa significa? 

Sono una persona che ha bisogno di date di scadenza. Devo avere il pepe al culo. Nonostante questo, per esempio, faccio molto lentamente le prove per lo spettacolo al Pecci. Poi arriverò al giorno che devo partire e non ho provato un cazzo. Improvviserò. Amo l'action directe, non premedito mai le mie cose, così come le mie fotografie. E amo sempre pensare che sono un fotoreporter in un campo di guerra, devo stare attento a muovermi, essere veloce. Così, anche nella performance. Ho paura a provare perché poi imparo delle note e rovino lo spettacolo. Ho capito che devo sdraiarmi, suonare in una posizione diversa, perché riesco a muovermi meglio. Se impari a suonare è un po' come andare all'Accademia, ti può rovinare. Io voglio essere come Trisha Brown che diceva che anche cadere è danzare. Io mi sono ispirato alle sue parole. Cado, inciampo, tocco lo strumento e suono con il mio corpo. E la fotografia documenta tutto. 

 

Fotografi di notte. Persone, alberi, foglie, città. Penso a Dying in Venice. Nella notte, di solito, ci si nasconde a se stessi e agli altri. Il buio è avvolgente. Tu invece illumini tutto. Spari violentemente la luce del flash contro ogni cosa. Perché?

Mah... Sergio Fregoso, un grande fotografo di La Spezia, colui mi ha insegnato a guardare, mi diceva che io non aggiungevo luce alla luce, ma ne emettevo una completamente nuova che cancellava la luce che c'era. Perciò, non è che io scelgo di fotografare di notte, semplicemente scatto in situazioni dove il mio flash possa coprire la luce che c'è. Si può paragonare alla luce di un pittore. 

 

Fammi un esempio.

Caravaggio ha la sua luce, Jacopo Benassi ha la sua luce. Io non sono Caravaggio, purtroppo! Però mi piace l'idea che la mia luce è sempre la stessa da anni. È una luce che ti frega, perché è domestica. Io faccio fotografia domestica, la foto del compleanno. Jacopo Benassi fa le foto del compleanno, come quella che fai a tuo figlio con la pellicola dentro, la torta davanti e i suoi amici dietro. Solo che io guardo che macchina uso, l'inquadratura, la solita ottica e il bianco e nero. 

 

Torniamo all’uso del flash…

La luce del flash è vitale ma anche dura. Mette tutti sullo stesso piano. È giusta, un po’ come dire: “la legge è uguale per tutti”. Lo stesso vale per le forme. Io ammiro Florence Henri perché guardava dentro il mirino e costruiva una fotografia nel fotogramma. Riusciva, spostando la macchina, a costruire delle forme diagonali. Ho lavorato molto sulla diagonale, le mie foto sono “sporche” ma precise. 

 

La natura che appare nelle tue foto è rigogliosa, ma spesso ricorda la morte. Il melograno spaccato sembra un’immagine barocca: mostri le viscere. E poi accosti le foto della natura ai ritratti, come accade in Bologna Portraits. Cosa rappresenta per te questa natura? 

Fotografo la natura da quando avevo venticinque anni e mi sono dichiarato gay. Ho cominciato a frequentare boschi e giardini di notte, per affrontare questo mondo che era molto pericoloso, adrenalinico, nascosto. Io cercavo di fotografare quando non c'era gente. Ma dietro i cespugli ci sono le persone, perciò gli alberi e i fiori sono ritratti di persone. Anche a Bologna ho fotografato di notte un giardino del Cinquecento a Palazzo Bentivoglio. Uscivo e mi immedesimavo. Quando fotografo i giardini e i fiori penso che dietro ci sia qualcuno. Le persone ci sono sempre: li hanno piantati, li curano e in quei posti ci fanno l'amore. A fine novembre uscirà un libro, si intitola Fags, in cui saranno pubblicate alcune foto presenti in mostra. 

 

Le statue che ci sono nelle tue foto sono nude, armoniche ma anche ferite: il cranio rotto, il piede spezzato, il corpo frantumato. Le accosti al tuo corpo e a quello di altri. L’anno scorso, nel tuo progetto Crack, al Festival di Fotografia Europea, affiancavi corpi e statue ferite. Che rapporto c’è, secondo te, tra scultura e fotografia?

Durante il lavoro di Crack ho guardato il mio archivio e ho visto che avevo fotografato la scultura e poi i corpi. Andavano di pari passo. La scultura ti dà il tempo di fotografarla, mentre un corpo è più difficile. Si muove. La scultura è più facile e poi il corpo è nudo. Poi, tutto è svelato quando mi sono fidanzato con Augustin Laforêt, un restauratore francese. Lui ama i calchi e mi ha passato questa grande passione. Ho cominciato a collezionarli, specialmente in gesso. A un certo punto mi sono rotto una gamba. Venti giorni prima ero in Francia a fotografare statue nelle scuderie di Versailles. Lui e i suoi amici mi avevano fatto entrare quasi di nascosto. Ho notato una scultura rotta sostenuta da una catena: mi ci sono visto, era perfetta e ne ho percepito la pesantezza. Poi, a Parigi, avevo visto agli Champs-Élysées le vetrine rotte dai Gilet gialli. E allora mi sono detto: a questo mondo c'è chi distrugge e chi ripara. Dopo aver rotto la gamba, Augustin mi ha assistito per tre mesi. Mi ha riparato. Perciò ho cominciato ad abbinare le sculture rotte ai miei arti rotti, ma anche ad alberi spezzati. La mostra a Reggio Emilia era sui legami. Le foto si sono sviluppate da un dolore, che è diventato parte integrante del lavoro. Tutto si è consumato in poco tempo. Pensato e fatto. Ho raccontato il mio male. Comunque io amo la scultura. Le strutture che faccio per le foto sono di legno, mi piace lasciare un segno, per questo do dei colpi di accetta. Anche questa per me è scultura, come il taglio del vetro, la pennellata finale, il taglio della tela. Si può vedere cosa c'è dentro, entrare, uscire. Così ho contaminato la fotografia. E di questo sono felice. Non voglio più fare una foto senza una struttura che la regga.

 

Jacopo Benassi. Vuoto, 2020. Installation view at Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato. © photo Ela Bialkowska, OKNOstudio.


Ho guardato il tuo libro Miss Q Lee ispirato al personaggio di un manga erotico giapponese. Miss Q Lee (Gianluca Petriccione) è un performer, prima uomo, poi donna, poi entrambi. Ci sei anche tu. Una foto mi ha colpita. Si vede una pentola dove stanno cuocendo sofficini e bastoncini di pesce. Non c’è tempo da perdere, ogni istante va consumato sino in fondo. Come è nato questo progetto

È nato perché Gianluca è un grande amico. Lui suonava e abbiamo collegato la musica e le performances sonore. L'ho fotografato in diversi momenti. In alcune foto ci sono anch'io vestito da donna. Il 90% delle foto sono su pellicola. È una specie di tributo al suo personaggio. Ora è il mio collaboratore, mi aiuta. Ho fatto molte cose con lui. Abbiamo anche aperto insieme ad altri amici il Btomic, qui a Spezia. Tra poco dovrebbe arrivare, mi dice… 

 

E infatti arriva. Gianluca Petriccione sorride. Si siede a un lato della scrivania di Jacopo. Gli chiedo se posso fare qualche domanda: come è nata Miss Q Lee, cosa ha significato nella sua esperienza di performer e musicista. Subito mi dice che lui e Jacopo sono amici da vent’anni. E poi si abbandona a un lungo racconto…

“Miss Q, dice, Lee è nato perché io sono sempre stato, e forse lo sono tuttora, un travestito. Principalmente in privato, e dopo sono anche musicista, principalmente in privato. E poi è nata l'idea di rendere pubbliche queste dimensioni private. Però è una cosa che può avere una valenza pubblica a condizione che ci sia rispetto. Sfortunatamente nel mondo della musica non ne ho trovato a sufficienza. Per questo, ho smesso di fare sia il travestito che il musicista. Questo libro rappresenta il mio privato, non c'è spettacolo.” 

"Ma come nasce l’idea di questo personaggio di finzione?", gli chiedo.

“A me piaceva questo manga, dice Gianluca, perché era simpatico, perché rappresenta un po’ la purezza del gioco legata al travestitismo, che spesso si considera solo legato alla sessualità. Jacopo è stata la prima persona che mi ha fatto esibire. Io penso che sia una cosa molto preziosa mostrare i propri “limiti”.”

Il suo racconto mi offre lo spunto per un’altra domanda a Jacopo, su un libro il cui titolo è un gioco di parole: Paris is in Asia

 

Ho immaginato che fossi andato in Asia e avessi cercato Parigi dall'altra parte del mondo. E invece no. Mi è piaciuto questo piccolo inganno. Asia è l’attrice Asia Argento.

Sì. Siamo stati a Parigi per Playboy. Le avevano promesso la copertina, ma non ce l’hanno messa. Così abbiamo deciso di non vendergli il servizio. L’abbiamo tenuto lì qualche anno e poi l’abbiamo autoprodotto. È un libro molto personale, mio e suo. Ci siamo divertiti come matti. È una specie di performance: vai in giro, documenti tutto, un reportage su di lei. 

 

Hai collaborato con molti artisti. Sono nati diversi libri. Con il regista Paolo Sorrentino Gli aspetti irrilevanti, con il fotografo newyorchese Pete Voelker New York is not La Spezia/La Spezia is not New York, con il fotografo Kubiat Nnamdie Miami is not la Spezia/La Spezia is not Miami. Nel 2015 ho visto alla Pomo Galerie di Milano la mostra Princese. C’erano foto tue e di Lisetta Carmi. La decisione di collaborare smonta il mito dell’artista che produce in solitaria. Cosa significa per te?

Non sono un artista che lavora molto bene con gli altri. Sorrentino fa cose molto diverse e mi ha coinvolto per le foto. I fotografi li ho cercati on line. Mi piacevano tantissimo. Ho chiesto loro di fare degli split come nella musica punk anni Ottanta. Gli split erano fatti da due gruppi di diversi paesi che collaboravano per fare un disco. Una facciata ciascuno, perciò si chiamava split. Io ho fatto degli split fotografici. I temi erano liberi. Hanno avuto un successo incredibile. Sto collaborando anche con Magrelli. Lo ammiro molto. Si tratta di un lavoro su Roma. 

 

Jacopo Benassi, Princese, © Pomo Galerie, 2015.


Oltre alla mostra al Pecci, hai realizzato un libro molto bello dedicato al distretto tessile pratese. Si intitola The Belt.

Ho girato per qualche mese le fabbriche e la cosa più sconvolgente è il legame fra la spiritualità e gli operai. Ma anche il fatto che non c'erano le mense. Era bellissimo che mangiassero le cose portate da casa. Gli operai si lamentano, ma le mense sono orribili. Meglio la gamella vicino alla macchina, come facevano negli anni Sessanta. Pensavo ci fosse un legame politico, invece c'è la spiritualità che ha sostituito la politica. Non sono credente, ma anch’io amo la spiritualità dal punto di vista iconico. Sono attratto dal sacro.

 

Jacopo Benassi. Vuoto, 2020. Installation view at Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato. © photo Ela Bialkowska, OKNOstudio.


Cosa vedi nel sacro?

Ci vedo coerenza, chi lo pratica, lo ama. Crede in qualcosa. Amo chi crede nelle cose. E poi c'è un piacere estetico. Come diceva Dan Graham: “Rock My Religion”! Comunque il mio è un immaginario del sacro legato al rock. Io penso che The Belt sia un insieme di umanità, spiritualità e macchine. 

 

Oggi su cosa ti soffermi?

Vorrei fare solo autoritratti. Raccontare gli altri attraverso di me.

 

Jacopo Benassi. Vuoto, a cura di Elena Magini

8 settembre – 1 novembre 2020 

Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato

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Enzo Mari, Falce e martello

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Milano, la sua città d’adozione e d'elezione, celebra Enzo Mari (1932) con due mostre, una, dal titolo Falce e martello. Tre dei modi con cui un artista può contribuire alla lotta di classe, visitabile dal 30 settembre al 16 gennaio 2021, presso la Galleria Milano, in Via Manin al 13, e l’altra, intitolata Enzo Mari curated by Hans Ulrich Obrist, allestita invece in Triennale, dal 17 ottobre al 13 aprile 2021.

Al di là del rilievo storico di portata internazionale proprio di entrambi gli eventi, che ha indubbiamente a che fare con il loro protagonista, la loro eccezionalità consiste anche nel fatto che esse sono le prime grandi occasioni espositive dedicate al design dopo il lockdown e il lungo periodo di apnea culturale che gli ha fatto seguito.

 

Per dirla tutta, la mostra della Galleria Milano non costituisce una vera e propria novità, visto che si tratta della riproposizione integrale di una rassegna di quasi cinquant’anni fa, dal medesimo titolo, che ha fatto epoca, con la quale il 9 aprile del 1973 Carla Pellegrini, anima e animatrice della sua Galleria, fino a quando ci ha lasciato lo scorso anno, ne inaugurò addirittura la nuova sede negli spazi che tuttora occupa.

Il suo titolo, Falce e martello. Tre dei modi con cui un artista può contribuire alla lotta di classe,è assai emblematico dello spirito degli anni settanta che sono stati definiti sì “di piombo”, per le efferate stragi che li hanno connotati, ma che, al contempo, sono stati anche anni di lotte, piene di speranze per l’affermazione della democrazia e dell’equità sociale (organi collegiali nella scuola, leggi sul divorzio e sull'aborto, legge 180, nascita dell'università di massa, statuto dei lavoratori), anni che hanno risentito delle lezioni europee di Marcuse indirizzate al Movimento Studentesco (per il quale furono fondamentali i suoi testi L'uomo a una dimensione e Teoria critica) e che hanno visto sì la contestazione giovanile ma anche l'elezione del primo Parlamento europeo. Anni, insomma, creativi e innovativi, animati dalla musica pop e rock e dai figli dei fiori, con gli Inti Illimani venuti a risiedere in Italia dopo il golpe di Pinochet, finanziato dalla CIA che ha deposto Salvador Allende, il presidente socialista del Cile. Ma sono stati anche gli anni del primo papa straniero dopo quasi cinque secoli: insomma, "Anni affollati... per fortuna siete già passati" cantava con sollievo Giorgio Gaber allo svoltare del decennio. Ecco perché il titolo della mostra alla Galleria Milano, ci stava, ci stava eccome.

 

Per di più non poteva essere che la Galleria Milano ad avere ospitato un evento espositivo dagli accenti così marcatamente politicizzati. Come dimenticare, infatti, che essa ha praticato in quegli anni un esplicito impegno sociale e politico, devolvendo, ad esempio, tutti i proventi delle opere esposte in una mostra dedicata al tema dell'anarchia (donate dagli artisti) alla famiglia del ferroviere Pino Pinelli? (Per chi non lo ricordasse, o per chi lo ignorasse, ecco il testo della ballata a lui dedicata: "Quella sera a Milano era caldo ma che caldo, che caldo faceva. «Brigadiere, apra un po' la finestra» ad un tratto Pinelli cascò", che sintetizza efficacemente l'accaduto.) 

E questa encomiabile iniziativa non fu l'unica, da parte della Galleria Milano, che, ancora, con gli incassi di un altro evento espositivo passato alla storia, sostenne le famiglie dei cassintegrati dell'Innocenti. E molto altro ancora. 

 

Che sia stato poi Enzo Mari a concepire una simile mostra, è addirittura implicito nelle sue stesse dichiarazioni di poetica di allora, che confermano, tra l'altro, la seconda parte del titolo della rassegna milanese (Tre dei modi con cui un artista può contribuire alla lotta di classe). Così, infatti, egli dichiarava nel catalogo che l'accompagnava nel 1973:

 

"Per un artista esistono quattro tipi di comportamento nel momento in cui vuole contribuire con la propria capacità tecnica alla lotta di classe.

1

Attuare la propria ricerca di linguaggio alla condizione, da un lato, di essere coerente con ciò che implica la sua definizione, dall'altro, di cercarne gli interlocutori effettivi nell'ambito della propria classe.

2

Celebrare la rivoluzione mediante oggetti realizzati utilizzando linguaggi già conosciuti nell'ambito delle poetiche tradizionali.

3

Progettare oggetti concretamente funzionali a specifici momenti di lotta.

4

Mediare la propria coscienza tecnica. 

Il simbolo della falce e martello non consente certamente di esemplificare con il mio lavoro il primo tipo di comportamento ma, per averlo occasionalmente rielaborato o preso in esame, ne esemplifica, in parte, il secondo, il terzo e il quarto tipo. 

La divulgazione di queste esemplificazioni ha posto il problema del mezzo da impiegare e quindi della forma finale."

 

Nel 1973, Enzo Mari era già da tempo un designer di chiara fama, ma la sua carriera non lo ha mai distolto dall'impegno politico, nè in occasione di questa mostra e neppure in momenti successivi di ricerca e di realizzazioni creative. È anche per questo che Alessandro Mendini ebbe a dire di lui: "Mari è la coscienza di tutti noi, è la coscienza dei designer" (Editoriale di Domus, giugno, 1980). 

 

Galleria Milano, Enzo Mari, Falce e martello, prova della bandiera, 1973 (da una foto di Aldo Ballo); Falce e martello oggetti reali; litografia contenente i 168 simboli indagati a Giuliana Einaudi nel 1973. Enzo Mari, Studio per l'anniversario, serigrafia, 1954. Una veduta della mostra di Enzo Mari Falce e martello. Tre dei modi con cui un artista può contribuire alla lotta di classe, attualmente riproposta alla Galleria Milano.


Per la mostra del 1973, tutto aveva preso avvio da una esercitazione didattica, in cui Mari aveva affidato ad un’allieva (Giuliana Einaudi, figlia di Giulio, militante del Movimento Studentesco che svolgeva apprendistato nel suo studio) il compito di fare una ricerca su di un simbolo diffuso e noto a tutti. L'alunna scelse falce e martello. Si partì quindi con una raccolta di dati iconografici, quali, ad esempio, gli emblemi riprodotti sui muri, le comunicazioni di partito, i timbri, i giornali, i graffiti e i volantini (per un totale di 168 icone raccolte in una litografia che le riproduce, che è esposta in mostra). Si voleva certamente pervenire al progetto di un "logo" di una qualità esteticamente elevata, ma si mirava, soprattutto, a giungere alla conclusione, secondo il dettato di Mari, "che il valore formale non incide sul significato veicolato”.

 

La mostra attuale, filologicamente ricostruita in seguito a una ricerca condotta dai curatori, Nicola Pellegrini, Bianca Trevisan e Riccardo Venturi, sia nell'archivio della Galleria Milano che in quello di Enzo Mari, ripropone fedelmente le opere esposte nel '73, collocate addirittura nella medesima posizione che occupavano allora. 

Oltre a una falce vera e a un vero martello, sono esposte alcune bandiere in lana serigrafate a diversi colori, la litografia di cui si è detto, una serigrafia a due colori, una grande struttura in legno, dal titolo 'Allegoria Studio per l'anniversario' e un disegno del simbolo che accomuna tutte le opere, realizzato in studio.

Accompagna la rassegna un volume edito da Humboldt books, con testi dei tre curatori. In più, vi sono riprodotte anastaticamente le pagine del catalogo della mostra storica, allora pubblicato dalle Edizioni O, la casa editrice della Galleria Milano, fondata da Baldo Pellegrini, marito di Carla. È inoltre corredato da una congrua selezione di materiali d'archivio, quali fotografie, progetti, rassegna stampa dell'epoca, che ben documentano la temperie degli anni settanta di cui si disse.

Così ha scritto nel nuovo catalogo Nicola Pellegrini, figlio di Carla: "Mari ci rende partecipi della sua ricerca per una falce e martello essenziale, da stampare sulle bandiere di lana edite da mio padre, Baldo Pellegrini, per Edizioni O. [... ] Le opere di Mari sono riproposte senza alcuna interpretazione, se non quella che ognuno di noi ne darà visitando la mostra."

 

Basilica superiore di Assisi, Giotto, particolare del Presepe di Greccio, affresco, 1295-1299. Enzo Mari, Allegoria Studio per l'anniversario, 1954-1972, struttura in legno dipinto di rosso.


Tra i pezzi esposti, è di forte impatto la struttura lignea 'Allegoria Studio per l'anniversario'. In essa Enzo Mari ha voluto rielaborare in chiave concettuale, con una traslazione di significato, il crocifisso sospeso a mezz'aria, riprodotto a rovescio da Giotto, nella scena intitolata Il presepe di Greccio, dipinta ad Assisi tra il 1295 e il 1299, nel ciclo di affreschi dedicato alla vita di San Francesco nell'omonima basilica. Il valore del simbolo, nella sua migrazione da quello religioso della croce a quello laico-politico della falce e martello, non muta la propria pregnanza, anzi, la conferma se, addirittura, non la rafforza, campito come è il suo legno di rosso, che lo carica di una valenza semantica aggiuntiva. 

In catalogo è riportata la definizione data dal Dizionario dei simboli politici di Arnoldo Rabbow della bandiera rossa che: "unisce in modo ideale un alto valore emotivo con la semplicità di forma. Un drappo rosso, dietro al quale si riuniscono i rivoluzionari, attira nel vero senso della parola, perché il rosso fiammeggiante parla all'uomo, non attraverso il ponte dell'intelletto, bensì lo avvince direttamente negli strati più profondi della sua coscienza."

Entrambi i simboli poi, croce e falce e martello, condividono tanto l'efficacia, quanto la capacità di durare nel tempo. Ciascuno di essi, inoltre, è dotato della "proprietà di essere riconosciuto", come afferma lo stesso Mari, cui si aggiunge la "proprietà di essere facilmente riproducibile."

 

C'è un testo di Marco Belpoliti, pubblicato il 19 febbraio 2005 su Alias, che, a mio avviso, oltre ad offrire la lettura più interessante e profonda della mostra del 1973, addirittura ne motiva l'attuale riproposizione. 

“Mari usa il termine ‘simbolo’ per definire il risultato del lavoro, l’oggetto grafico (ma anche di design) ottenuto. Ma è davvero un simbolo? Per i Greci il simbolo, symballo, è un oggetto di riconoscimento, possiede un valore materico: sono le due tessere spezzate – anelli, mani d’argento, terracotta –, che si affidavano ai membri di una famiglia così che i loro discendenti potessero in futuro riconoscersi unendo le parti. Il significato è: ‘mettere insieme’. Con il tempo il segno materiale è diventato astratto, si è trasformato in una figura retorica: la bilancia per indicare la giustizia, la croce per la cristianità, il leone per il coraggio. I simboli restano fissati nel tempo, oppure trasmigrano: sono resistenti e insieme volatili. Non si distruggono con facilità, continuano a significare al di là del loro oblio, o della loro manipolazione.

 

La falce e il martello sono anche un’icona. Il termine ha compiuto un complesso cammino nella cultura occidentale: da ‘immagine’, eikon, dipinto su tavola di piccole dimensioni, usato a Bisanzio per rappresentare personaggi sacri, ornato d’oro, argento o pietre preziose, per traslazione ha iniziato a indicare tutto ciò che partecipa di una qualche sacralità. Da Cristo a Marilyn: Torquoise Marilyn dipinta da Andy Warhol (1964). L’icona è l’immagine visibile dell’Invisibile. Nella progressiva secolarizzazione del mondo la Realtà divina è stata marxianamente sostituita dalla ‘religione della vita quotidiana’ delle merci. L’icona non è un fine, ma un mezzo; è una finestra aperta fra terra e cielo, aperta nei due sensi, come affermano i testi bizantini e russi: il continuo passaggio dal mondo sensoriale a quello spirituale, e viceversa. […] La falce e martello realizzati nel 1970 da Enzo Mari, a partire dal lavoro d’indagine della studentessa, è un’icona, partecipa di una sacralità. Le icone sono più difficili da distruggere. Appartengono a una sfera che supera la stessa realtà delle apparenze. La si può chiamare sacro, sogno, fantasia, immaginazione: il sogno della merce, ma anche il sogno del comunismo, il bisogno di comunismo. Hammer and Sickle: il visibile come forma per approssimare l’invisibile.”

 

Ora che quell'invisibile cui l'icona rimanda sembra risuonare dell'eco del "Je suis perdue" della Mélisande di Debussy, si guarda alla mostra di Mari come a un sogno ad occhi aperti in cui è dolce naufragare. 

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Un museo di racconti

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Sono a Paraloup nella baita che ospitava l’armeria dei partigiani della banda di Italia libera, Giustizia e Libertà, al comando di Duccio Galimberti (quello che ricorre anche nelle strofe di Morti di Reggio Emilia), Dante Livio Bianco, Nuto Revelli, Giorgio Bocca di cui si è celebrato da poco il centenario della nascita. L’antica borgata in abbandono, alpeggio tra Otto e inizi Novecento, accolse una delle prime bande (se non probabilmente la prima banda partigiana regolare per così dire) d’Italia. 

Ora nella baita c’è il grande schermo, con postazione touch screen, del Museo dei racconti. Le stagioni di Paraloup. Sento le note, emozionandomi pur conoscendole a memoria, della canzone della banda. Col gelo di notte a dormire nei fienili a quasi 1400 metri (“ci si svegliava al mattino con la neve sui piedi che passava sotto la porta” racconta uno di loro nelle testimonianze che scorrono sul grande schermo) pidocchi per tutti (la posta in gioco spesso nelle corse dei parassiti per contendersi sigarette o proiettili) il clima giocoso a fronte degli addestramenti snervanti in armi. 

 

Tutta la durezza di una scelta compiuta da ragazzi di vent’anni che mi fa pensare a quanto abbia ragione Marija Stepanova, nel suo Memoria della memoria, nel dire che quando la memoria spinge passato e presente a confrontarsi “è per una ricerca di giustizia”. Tanto più qui a Paraloup, ripensando alle continue fake news di questi anni e alle rivoltanti messe in scena della destra leghista e oltre. Tanto più tra queste pareti ascoltando le voci dei partigiani raccolte da Teo de Luigi, regista Rai che prese parte alla storica Notte della Repubblica di Sergio Zavoli. Fabrizio Mosca ad esempio ricorda ancora, ad anni di distanza, la paura di “quando si era soli a far la guardia nel bosco, a ogni scricchiolio di foglie si scattava”. O lo stesso Giorgio Bocca, distaccato coi suoi uomini ai Damiani, a pochi chilometri dal distretto di Paraloup, che racconta la storia del prigioniero tedesco, un maresciallo delle SS, caduto in mano alla banda, un uomo fortissimo “sempre a torso nudo, d’inverno faceva il bagno nel ghiaccio”. Non si poteva lasciarlo andare, avrebbe rivelato “tutte le nostre posizioni. Bisogna fucilarlo”. E di sparargli si incarica alla fine lui stesso. “Bisognava spiegare agli uomini che era una guerra spietata e che non si poteva avere pietà o pentimenti”. Ma poi mi raggiunge dallo schermo la voce, già un po’ ispessita dagli anni (erano i tempi in cui abitava, lo ricordo anch’io, in via Bagutta), il volto un po’ scuro: è afferrato da un dubbio e conclude mestamente “Adesso dopo tanti anni non so se fosse giusto o non giusto”. 

C’erano anche le donne, Alda e Pinella Bianco, Margherita Scamuzzi: fuoriescono da una clip in azione le parole di Caterina Brunetto: Caterina, l’accento di queste valli occitane, i tratti decisi, gestiva la trattoria di Rittana e insieme al marito salvò Duccio Galimberti ferito caricandolo con una slitta “sull’unico materasso che avevamo”.

 

Memoria come giustizia, questo ci insegna il Museo-laboratorio multimediale di Paraloup, non vale solo per i partigiani ma anche per le vite dimenticate dei montanari, i tanti Goletto che lasciarono Paraloup per la vicina Francia, Hyères e Grasse, in cerca di un lavoro sicuro, quando la Valle Stura, come tutta la montana povera, conobbe nell’epoca dell’industrializzazione e del boom la parabola opposta. E quegli anni furono segnati dallo spopolamento più desolante (70, anche 80% come è riportato nei grafici riprodotti sulla parete).

 

Sintonizzandomi sulla stagione di Paraloup che parla della vita di quello che Nuto Revelli ha definito in un libro celebre Il mondo dei vinti, ascolto le voci più antiche, i nati nell’Ottocento che raccontarono a Revelli le loro storie. Tutti faticavano a Paraloup, e dintorni, anche Maria Goletto, vedova Bruno, quella donna alta, un bel viso, malinconico nella fotografia, che confida le sue fatiche, quando tirava il carretto con la legna fin sopra Paraloup, al monte Tagliaré. Prima naturalmente di scegliere la strada della Francia e andarsi ad “affittare” nella piazza di Barcelonette come servetta (talvolta a raccogliere fiori, di gelsomini, di arancio o erbe medicinali (“a la fiur del gelsomin, a l’orange”).

 

 

“Avevamo un prato lassù in montagna, su in alto”, racconta, “due ore oltre il Gorré, oltre Paraloup, ai Taiaré. Eh la mia povera madre si metteva le due ruote del carretto in testa, e mio padre la scala (il telaio del carretto) sulla schiena e salivamo fino a lassù per fare il fieno. Lassù caricavamo le trusse, e poi tiravamo il carretto attraverso a quella montagna, tira, tira, e, la pancia vuota”… Era una vita dura, piena di fatica: le vacche al pascolo, le fughe sporadiche o l’emigrazione, tra la neve che impaccia i movimenti e le preghiere al buio per risparmiare il lume, scalzi o al massimo con rudimentali zoccoli. Anna Bruno, questa volta sposata Goletto, abitava con la famiglia nel fienile diviso a metà. Si scaldavano con le famose stufe, quelle evocate dai partigiani, così fumose, ricorda Nuto che quasi non ci si vedeva.

 

Il fienile, cosiddetto grande, di Paraloup è sede, da qualche mese, della Cineteca dei film sulla Resistenza. Mi colpisce vedere, tra le stesse pareti di una delle baite più grandi che ospitava la mensa dei partigiani, i fotogrammi del film girato da don Pollarolo, prete-partigiano, amico e collaboratore di don Orione, oltreché dello stesso Duccio Galimberti, che riprese (in un documento davvero straordinario che si intitola Momenti di vita e lotta partigiana) scene di vita quotidiana fra le baite. Riprende con una piccola cinepresa Pathé il famoso discorso di Duccio appoggiato a quella che doveva essere la baita del Comando di Paraloup in cui ricorda agli uomini proprio Gesù “che aveva mandato gli apostoli nel mondo a predicare il Vangelo sapendo che sarebbero stati tutti uccisi e ha invitato tutti i membri della banda a dare volentieri l propria vita per la libertà”. Scorrono sullo schermo le sequenze dei tanti film girati, a ridosso di Paraloup, da Ermanno Olmi e Corrado Stajano, oltre che da Paolo Gobetti, il figlio di Piero, negli anni Settanta/Ottanta. 

 

È una sensazione di forte play in the play quella che suscitano le voci e le immagini di chi abitò a Paraloup o ci combatté, che sembrano vivere di una memoria come raddoppiata, i cui echi ci raggiungono negli stessi locali, tra le stesse pietre, che furono teatro delle loro esperienze di vita.

 Nell’impatto con la sua materia logora, ma ancora nonostante tutto “in piedi” (tra le pietre delle antiche baite fissate nel loro stato di rovina in cui sono stati innestati sobri contenitori in legno) il tempo a Paraloup è come se fuoriuscisse dall’indifferenza del suo scorrere e anche le povere pietre della borgata – una sorta di Museo a cielo aperto – ricucissero il filo interrotto di storie latenti, sepolte sotto traccia. Reimbastendo, per un soprassalto nella durata, trama e ordito. E in quel brusco scarto le vecchie baite con le voci e le tante immagini conservate nel Museo e nella Cineteca finiscono per farsi, nel tempo disorientato in cui viviamo, misura, interrogazione severa, del nostro stesso presente.

Se penso a Caterina Brunetto, capace di rischiare la vita per salvare Duccio Galimberti e sacrificare l’unico materasso di casa, o ai ragazzini di montagna in affitto nella piazza di Barcelonette all’età di 6 o 10 anni, mi convinco che almeno qualche traccia di memoria è bene renda loro giustizia secondo quella “sete” – ricorro ancora alla Stepanova – che ci costringe a cercare e chiedere il dovuto, ”soprattutto quando si tratta di morti di cui nessuno può prendere le parti se non noi”.

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Il Covid-19 e la nuova visione del mondo

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Covid-19. Pandemia. Coronavirus. Lockdown. Sono termini con i quali abbiamo imparato a convivere negli ultimi nove mesi. Durante questo periodo un virus invisibile è circolato mentre l’uomo è stato costretto a rinchiudersi in casa. Una condizione impossibile da credere prima poiché mai l’essere umano avrebbe immaginato di non poter disporre della propria libertà di movimento a causa di qualcosa che non è possibile vedere. Come è stata vissuta questa esperienza nell’ambito della fotografia, linguaggio da sempre utilizzato per raccontare cosa succede nel mondo?

Alcuni festival hanno deciso di esserci. Organizzativamente tutto si svolge garantendo al pubblico una fruizione che non faccia sentire troppo la differenza tra il prima e il dopo, ma un cambiamento appare inevitabile e irreversibile e non riguarda le regole comuni del distanziamento cui ci stiamo abituando bensì un altro tipo di distanza che fotografi e organizzatori non hanno percepito, travolti dall’essere “dentro” gli eventi e dunque non in grado di guardare con il distacco necessario di chi osserva ed elabora. 

Cortona On The Move, SI Fest, il Festival di Fotografia Etica di Lodi sono solo alcune delle principali manifestazioni attualmente in corso, tutte hanno acceso i riflettori sull’interpretazione che fotografi professionisti e non hanno restituito di questo vissuto per molti aspetti straniante. Si possono vedere esposizioni di immagini dal vero e online che mostrano lo smarrimento del non sapere come affrontare la vita quotidiana ma i risultati, nella maggior parte dei casi, non riescono ad avere una funzione di vero approfondimento.

 

© Simon Norfolk, “Lost Capital”, The Covid-19 Visual Poject – Cortona On The Move, 2020.


Ciò che emerge dalla visione di queste narrazioni è che ognuna di queste realtà si è sentita spinta verso la necessità di documentare ciò che è accaduto e sta ancora accadendo in una modalità che ci fa domandare: ha ancora senso farlo così? Ha senso raccontare nello stesso modo di sempre gli eventi? Cosa possono aggiungere immagini puramente illustrative a un vissuto del quale non si percepisce la sostanza?   

Le direzioni artistiche si sono concentrate su autori che hanno rappresentato stati d’animo descrittivi oppure si è scelto di lanciare contest liberi all’interno dei quali sono state fatte scelte necessariamente povere di contenuto, non perché gli autori tutti non fossero all’altezza ma perché la condizione dell’evento in corso non ha permesso di interpretare.

Non è difficile fotografare le città vuote con inquadrature pulite e asettiche nel corso di una pandemia mondiale che costringe gli individui a restare a casa. È normale che le strade di città come la Londra fotografata da Simon Norfolk in “Lost Capital” o come la Firenze di Edoardo Delille in “Silenzi” – dove l’autore stesso dice: “Mi sono ritrovato in una città quasi spettrale nella sua rinnovata bellezza” – risultino metafisiche, con strade e piazze dechirichiane, belle esteticamente (entrambi gli autori sono presenti sulla piattaforma The Covi-19 Visual Project concepita da Cortona On The Move).

E proprio il prevalere dell’estetica non ci dice nulla dell’angoscia che si sta vivendo nelle case, le immagini patinate non riescono ad andare oltre l’esclamazione di meraviglia per l’improvvisa bellezza. L’obiettivo del fotografo si concentra su aspetti scenografici dove la perfezione dell’inquadratura, della luce del tardo pomeriggio che lambisce le calme acque del Tamigi fanno riscoprire una città perduta, appunto, ma che non emoziona.

 

© Edoardo Delille, “Silenzio”, The Covid-19 Visual Poject – Cortona On The Move, 2020.


“Ho scelto di scattare nelle ore del giorno in cui di solito le vie del centro sono piene di persone. – dice ancora Delille – Le ore in cui di solito è difficile fare una bella fotografia all’architettura dei monumenti. La luce molto cruda di queste giornate svela ancora di più l’assenza dell’uomo”. Come non può essere altrimenti poiché per poter fare questo tipo di fotografia l’uomo deve giocoforza essere assente. La novità per Delille starebbe nell’ora in cui ha prodotto gli scatti, quando normalmente le persone invadono i luoghi, ma questo dal lavoro non appare così evidente. Inoltre l’ultima cosa che, a mio parere, possa stimolare la sensibilità dell’osservatore in un momento come questo è la bella fotografia di un monumento senza presenza umana. Siamo certi che questo tipo di immagine rappresenti davvero il Silenzio, presumibilmente intimo, cui allude il titolo del lavoro?

Il vuoto urbano con tutto il suo portato di silenzio inaspettato è certamente una condizione cui nella contemporaneità non siamo più abituati, un tema di sicuro impatto visivo ma che per poter emozionare ha la necessità di essere “sporcato”, di appartenere a quel vero che nulla ha di estetico, tant’è che la restituzione che queste immagini ne fanno è una rappresentazione scenica che appare costruita.

L’uomo si auto-espelle dal luogo come atto dissacrante per recuperare il luogo stesso così come egli lo ha concepito e riempito. In tal senso si veda il lavoro “Locked in Beauty” di Paolo Wood e Gabriele Galimberti, sempre sulla stessa piattaforma, dove la scena che viene rappresentata è quella di un museo vuoto in cui le opere scultoree dialogano con la propria ombra (che diviene anche l’ombra dell’autore). Ancora un’idea di “bello” che emerge attraverso l’assenza dell’umano. Che messaggio arriva con questo tipo di immagini? La sensazione è quella che l’uomo non sia più degno di calcare queste scene e dunque che la sua assenza è auspicabile affinché si possa apprezzare ciò che egli stesso ha creato.

 

© Paolo Wood e Gabriele Galimberti, “Locked in Beauty”, The Covid-19 Visual Poject – Cortona On The Move, 2020.


C’è poi un altro tipo di estetica, quella della solitudine delle persone lasciate sulla soglia degli ospedali e riviste soltanto molto tempo dopo, se non addirittura mai più. Come si elabora una tale tragedia? Come la si rappresenta? Alex Majoli percorre l’Italia intera colto da una irrefrenabile frenesia di documentare queste solitudini: cosa accade per le strade delle periferie, nelle sale degli ospedali, nelle chiese vuote. 

Racconta, Majoli, con la sua abituale professionalità che sfocia in un crudo bianco e nero, come sia partito casualmente da Reggio Emilia per arrivare fino a Palermo.

 

© Alex Majoli, “Covid on Scene”, The Covid-19 Visual Poject – Cortona On The Move, 2020.


“Una volta – dice – un servizio così l’avrei fatto con 80 rullini, 2.500 scatti. Oggi, ovviamente, non ha neanche senso contarli. Alla fine, comunque, restano un’ottantina di immagini e una cinquantina sono il prodotto finale”. La conta degli scatti che compongono il “prodotto”, anche qui: le parole del fotografo sono asettiche, allontanano invece di avvicinare. Cinquanta scatti per documentare un evento epocale sono molti, sono pochi? Che importanza ha? Il “servizio” di cui parla Majoli appare espressione davvero straniante in una condizione come questa. Il desiderio  di rubare momenti di disagio insito in ciascun reporter che si rispetti impedisce anche in questo caso di restituire una pietas che permetta di recuperare l’uomo. Di vicende che segnano un periodo nella Storia dell’umanità parla ancora Majoli, e della responsabilità di cui tener conto, mentre si scatta, di mostrare ciò che egli già chiama la Storia. Eppure la storia non è di per sé estetica o caravaggesca, come qualcuno ha già definito questi suoi scatti.

 

IDE. Identity Dialogues Europe è il contributo del SI Fest alla narrazione del vissuto in tempo di pandemia. Una narrazione che collega quattro diverse città Europee – oltre a Savignano, Copenhagen, Amsterdam e Saragozza – tesa verso la ricerca di una “identità” che pare essersi perduta. L’Europa, il continente più di ogni altro rimasto attaccato alla propria storia e alle proprie tradizioni, scopre di non avere più radici, di stare vivendo un’importante evoluzione dal punto di vista antropologico grazie alla forte migrazione dall’Est e dal Sud del mondo. 

 

© Marine Gastineau, Residenza Savignano sul Rubicone per IDE. Identity Dialogues Europe – SI Fest 2020.


©Katerina Buil, Residenza Savignano sul Rubicone per IDE. Identity Dialogues Europe – SI Fest 2020.


Osservando però le loro immagini la sensazione è che questi autori non sappiano come mostrare né dove cercare tale “nuova identità” e che questa, oggettivamente molto complessa, non possa passare che attraverso i volti e le azioni quotidiane dei soggetti ripresi, rappresentati in modo anche qui “scenografico” nei luoghi in cui vivono, si tratti di comunità stanziali straniere, come quella senegalese che da 10 anni vive a Savignano sul Rubicone fotografata da Marine Gastineau (1983, Francia) o quella dei rifugiati con le loro storie estreme vissute ai confini tra le nazioni che compongono il mosaico europeo e ritratti da Martin Thaulow nei suoi dittici (1978, Danimarca). Lo smarrimento entra a far parte dell’immagine restituendo l’impossibilità stessa del narrare poiché l’immagine pare aver esaurito qui la propria funzione. Non appare la verità dell’identità che forse mai più vedremo perché non c’è più. C’è la “storia” al centro, come dice Thaulow a proposito del suo lavoro che non vuole appaia veritiero (intende puramente documentale?), ma che fonde il documentario con la costruzione di uno spazio più artificiale, mettendo nel mezzo il racconto delle storie delle persone. Una vera e propria rappresentazione con tanto di scena e personaggi. 

Dunque dove e come possiamo vedere questa nuova identità? Si tratta dell’interpretazione dell’autore che trasforma la storia stessa per cercare di ottenere l’attenzione di un pubblico atrofizzato da tempo: “È più una scelta artistica – dice Thaulow – che gioca con il tempo, lo spazio e le realtà parallele esistenti”. La casa sicura, con luci calde e una televisione accesa, vista in relazione a Maher profugo siriano che cerca di sopravvivere in un letto d’ospedale, uno dei suoi dittici più forti.

 

Il Festival della Fotografia Etica di Lodi infine include il Comune di Codogno nel circuito delle mostre ufficiali e lo fa con una collettiva dal titolo “La vita al tempo del coronavirus”. Pur con tutto il rispetto per il pesante tributo pagato da questa cittadina, scintilla che ha acceso nel nostro Paese la polveriera esplosa a primavera, non si ravvisa in queste immagini nulla che non sia puramente documentario. Mi si potrebbe obiettare che questa è da sempre la mission del festival: raccontare cosa accade nel mondo attraverso il reportage. Ma cosa ci racconta l’immagine di un operatore sanitario riverso sulla tastiera di un computer distrutto per il troppo lavoro che già non siamo in grado di immaginare? 

 

© Francesca Mangiatordi, “La vita al tempo del coronavirus”, Festival della Fotografia Etica, Lodi 2020.


La questione è che la domanda principale che ci si dovrebbe porre è: cosa significa etica? Perché la selezione fatta mostra per lo più storie in cui compaiono situazioni di denuncia, di fatti che avvengono in un mondo “brutto”. Questo non ci aiuta a capire né i fatti stessi né il vissuto dei soggetti ritratti. Non ci aiuta ad essere più sensibili di quanto già non lo siamo, ma soltanto più impotenti e, in ultima analisi, meno propensi al coinvolgimento poiché non ci viene restituita nessuna condizione di “buone pratiche” ma solo fatica e dolore. 

L’etica tocca temi e situazioni in cui l’essere umano sviluppa un comportamento che dovrebbe andare nella direzione opposta: mostrare contenuti che infondano fiducia nell’uomo, una positività che aiuti a guardare il futuro in modo costruttivo. Le narrazioni presenti in queste mostre sono invece ancora una volta, in tal senso, povere di coraggio, descrittive, timide e non basta la discrezione del fotografo nel compiere il proprio lavoro a far sì che si tratti di lavoro “etico”.

 

La bellezza, intesa come atto etico al di fuori dell’inquadratura estetizzante, è presente a Lodi e lo è in un lavoro che non a caso si intitola Pathos del fotografo italo-svizzero Giorgio Negro il quale, con autentico comportamento etico, ha attraversato il vasto territorio sudamericano non con l’intento di documentare, non con quello di mostrare la negatività bensì semplicemente con quello di ritrarre l’uomo nel suo mondo. Senza giudizio alcuno, Giorgio Negro ha fotografato una realtà senza filtri, cosa non facile per un professionista della mediazione in situazioni di guerra o di pesante disagio quale egli è stato per venticinque anni della sua vita lavorando per la Croce Rossa Internazionale. Ma in effetti Negro non è un fotografo professionista, non fa la conta degli scatti che gli permetteranno di confezionare il “prodotto di un servizio”. Il suo unico intento è stato (ed è ancora) quello di errare in questi luoghi nei pochi momenti di respiro che il suo pesantissimo lavoro gli concedeva osservando con i “suoi occhi”.

 

© Giorgio Negro, “Pathos”, Festival della Fotografia Etica, Lodi 2020.


Pathos ci dice che oggi più che mai occorre tornare a fare “spazio” dentro di noi. L’enorme quantità di immagini con cui, in questo momento storico, chi pratica la fotografia si è sentito in dovere di invadere il web e i luoghi fisici che hanno potuto esporla è arrivata a un punto di non ritorno, al momento in cui gli occhi si rifiutano di guardare. Persino la fotografia documentaria, etica o meno che sia, deve darsi una battuta d’arresto. Cosa aggiungono milioni di visioni riversate nella rete a un vivere quotidiano fatto sempre più di incertezza? Nulla. Rimane, forse, soltanto il conforto di essere (o sembrare di esserlo) uniti nella disgrazia. Analogamente all’elaborazione di un lutto, comprendere cosa accade non appartiene alla sfera del fare ma a quella dell’ascoltare, in primis la propria coscienza.

Non è più questo il tempo di mostrare ogni cosa, soprattutto non è più questo il tempo dell’accumulo. Le immagini si ripetono tutte uguali, omologate a un senso del guardare che non riesce ad andare oltre. Ma la soluzione è semplice quanto inaccettabile per una forma mentis ove tutto appare affastellato, senza ordine alcuno. Trovare “interessanti” immagini che registrano le reazioni alla pandemia nel mondo appare nella maggioranza dei casi un esercizio fine a se stesso.

C’è un tempo di elaborazione che non può prescindere dal tempo stesso. Voler tornare alla “normalità” praticando una corsa vertiginosa alla documentazione non conduce più a una riflessione, bensì a scorrere gli elementi di un file virtuale che possiamo aprire e chiudere quando vogliamo. Qual è allora l’identità da recuperare di cui stiamo parlando? Qual è la nostra identità? Occorre guardare con i propri occhi, quelli che non conosciamo più.

La fotografia non può essere solo racconto di storie, deve educare al dolore ma anche alla gioia, a tutte quelle sfumature dell’amore e della passione che ancora ardono sotto le ceneri per poterle risvegliare. Se da una mostra usciamo incolumi, che senso ha averla vista? Guardare belle immagini anche commoventi ma che non lasciano tracce e ci fanno dire soltanto “bello” e “interessante” non ci restituisce nulla che assomigli a una riflessione. E allora è forse giunto il momento di chiuderli, gli occhi: “Ad occhi chiusi gli occhi sono straordinariamente aperti” diceva Marisa Merz in una sua mostra di quarantacinque anni fa: un tempo lontano? Un tempo finito? Forse un tempo mai cominciato.

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